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"Ma i sacrifici non sono stati inutili" , di Stefano Lepri

Guardando solo un numero, quello spread tra titoli di Stato italiani e tedeschi che ormai tutti conoscono, siamo tornati ai livelli che fecero cadere il governo Berlusconi, nel novembre 2011. Inutili allora tutti i sacrifici che il governo Monti ci sta facendo fare, andare in pensione più tardi, pagare l’Imu, i prezzi cresciuti a causa della maggiore aliquota Iva, i tagli alle spese che si sentiranno via via? No. E’ una crisi dell’Europa questa – il timore che l’euro si spacchi – nel contesto di una economia mondiale ovunque peggio messa rispetto all’anno scorso, con gli Stati Uniti che stentano a ripartire, la Cina, l’India e il Brasile che rallentano. A dircelo sono sempre i numeri, se li guardiamo bene, se ne guardiamo più di uno.

Non è tornato alla stessa vetta del novembre 2011 il tasso di interesse che il Tesoro italiano paga: resta ancora di circa un punto sotto il massimo raggiunto allora. La differenza sta nel rendimento dei titoli tedeschi, i Bund , scesi a un livello bassissimo, innaturale. I capitali internazionali affluiscono verso la Germania perché lì, nel caso si fratturi l’euro, si rivaluterebbero. Pare razionale investirceli anche se rendono meno di zero.

Nel novembre 2011 la Spagna pagava interessi più bassi dei nostri, benché gli analisti finanziari di tutto il mondo sapessero benissimo che le sue banche stavano molto peggio di quanto le fonti ufficiali volessero far credere, e sospettassero che tra le sue regioni ci fossero – come ci sono – casi di dissesto ancora più gravi di quello della nostra Sicilia.

Invece il rendimento dei titoli di Stato francesi nelle ultime settimane è sceso, benché il bilancio pubblico sia in condizioni strutturali assai peggiori delle nostre. Ieri, i decennali transalpini fruttavano un interesse del 2,24%, poco più che sufficiente a compensare la prevedibile inflazione.

Nell’insieme di queste cifre si legge che la scommessa dei mercati è su una rottura dell’unione monetaria in cui la Francia resterebbe agganciata alla Germania. Alla Spagna invece risulta estremamente difficile procurarsi nuovi finanziamenti sui mercati, benché abbia un governo politico provvisto di una solida maggioranza, che sia pure tra molti errori ha adottato misure di austerità severe.

La crisi europea è il punto critico di un pianeta dove le forze traenti della crescita economica sembrano affievolite dappertutto. Può darsi che negli Stati Uniti esistano le risorse tecnologiche per un nuovo balzo, ma non si sbloccheranno prima che finisca l’attuale paralisi politica. La Cina non può conservare il suo ritmo mirabolante di aumento del prodotto lordo se non vuole riempirsi di nuove fabbriche che non sapranno a chi vendere, mentre deve elevare il benessere dei suoi cittadini.

I capitali per ripartire ci sono, tuttavia non riescono a trovare la strada dell’investimento produttivo. Sono pieni di denaro i forzieri del governo cinese, sono piene le casse delle grandi imprese in America, in Germania, e in molti Paesi emergenti: si riversano nelle scommesse pazze della finanza, rischiando di distruggere i delicati meccanismi dell’economia reale – imprese, lavoro, commerci che hanno permesso di accumularli.

Manca la fiducia, manca la speranza. Solo la politica può riaccenderle. Senza l’euro avremmo una democrazia ancora più limitata nei suoi poteri, ancora più condizionata dai mercati. L’Italia nel novembre scorso ha evitato di cadere nel baratro da sola, ora può solo farsi parte di uno sforzo comune per non caderci tutti insieme.

La Stampa 25.07.12

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“L’inutile attesa del salvatore straniero “, di FRANCESCO MANACORDA

C’ è un mito che aleggia in un’Italia dove fare industria è sempre più difficile: il mito di un salvifico ingresso di forze e denari freschi dall’estero per sopperire alle mancanze di una classe imprenditoriale locale.

Classe che non saprebbe – o peggio ancoranonvorrebbe-fareilsuomestierenei confininazionali.E’unmitospessocoltivato dalle parti del sindacato, ma che adesso viene ripreso anche – condendolo con una robusta dose di dirigismo – da esponenti della stessa classe imprenditoriale. In un intervento sul Sole 24 ore di ieri il presidente onorario del gruppo Cir Carlo De Benedetti spiega infatti diffusamente come l’Italia debba difendere le proprie imprese. Ma la difesa dell’industria pare coincidere in buona sostanzaperDeBenedetticonun’occhiutaattenzione alle mosse del gruppo Fiat – proprietario tra l’altro di questo giornale – sullo scacchiere globale, fino alla richiesta al governo di intervenire direttamente perverificaresecisiano«marchimondialichesiano interessati agli stabilimenti italiani di Fiat». Il tutto partendo dall’assunto che «il destino di gran parte delle produzioni Fiat in Italia è ormai segnato».

Forse però, più che concentrarsi sulle mosse della Fiat nel mercato globale e sugli ipotetici negoziati con Volkswagen o con altri produttori che sarebbero interessati a uno sbarco in Italia, converrebbe allargare lo sguardo alle difficoltà di un Paese che non solostentaadattrarregliinvestimentistranieri,ma rischia anche di spingere fuori dai propri confini, o dall’attività tout court, gli imprenditori nostrani. Il dibattito in corso in Italia ha invece il limite di concentrarsi su pochi soggetti, senza realizzare che l’intero sistema sta diventando meno attrattivo per gli investimenti, da qualsiasi parte essi provengano.

Costo del lavoro e dell’energia che piegano in partenza qualsiasi velleità concorrenziale rispetto a chi produce in altri Paesi, peso del fisco certificato tra i maggiori al mondo, carenza di infrastrutture fisiche e immateriali – dai trasporti, ai tempi della giustizia di cui proprio ieri ha parlato il presidente di Confindustria, alla corruzione che secondo la Corte dei Conti ci costa appunto il 16% degli investimenti esteri – sono le voci principali della lista di svantaggi obiettivi che ciascun imprenditore può stilare quando si parla delle condizioni in cui opera.

In alcuni casi si tratta di mali di lunga durata e antica origine, che hanno contribuito alla distruzione di interi settori dell’economia italiana. L’informatica, assieme alla chimica, è uno di questi, come De Benedetti ben sa, visto che proprio sotto la sua gestione la Olivetti – complice anche la scelta di rifiutare alleanze internazionali e di puntare su un anacronistico campioncino nazionale – è in sostanza sparita dallo scenario internazionale.

Altri mali nazionali sono più recenti, non vengono più coperti dalla lira che consentiva di usare l’arma dellesvalutazionicompetitive,osemplicementesiintensificano in tempi di concorrenza sempre più globale e di crisi senza confini. Ma l’effetto è univoco: rendere sempre più difficile produrre in Italia costringendo nei casi più estremi chi può a spostare la produzione altrove; chi non può a uscire definitivamente dall’industria. Nemmeno il sindacato, ovviamente, è esente da responsabilità. Intervistato dal «FinancialTimes»sullaforzadellaGermaniaeladebolezzadeiPaesimediterraneiBertholdHuber,capo dei metalmeccanici tedeschi della IG Metal, sostiene – scrive il giornale – che «il movimento sindacale spagnolo è complice nell’iperprotezione di quelli che hanno un lavoro a spese dei giovani che cercano un primo impiego». Vi ricorda qualche altro Paese?

Intendiamoci, non che fare impresa in Italia sia impossibile e non che le nostre aziende non possano interessare a gruppi esteri. L’ultimo esempio quello dell’Audi che ha acquistato Ducati, peraltro dalle mani di un fondo di private equity -, mostra che c’è mercato – di clienti e di compratori – per eccellenze nazionali con un marchio riconosciuto ovunque. Ma pensare che dove l’impresa italiana non riesce a competere la calata dello straniero abbia effetti miracolosi significa non solo far torto alle capacità della nostra classe imprenditoriale, ma anche semplificare pericolosamente la lettura di un sistema che per essere cambiato ha bisogno prima di tutto di essere capito. Anche e soprattutto nei suoi punti deboli.

La Stampa 25.07.12

"Noi, appesi come foglie d'autunno", di Barbara Spinelli

Nessuno di noi sa quel che voglia in concreto il governo tedesco: se vuol salvare l’euro sta sbagliando tutto. Se gioca allo sfascio ci sta mettendo troppo tempo. Nessuno sa come intenda procedere la Banca centrale europea. Draghi ha detto a Le Monde che l’euro è irreversibile che la Bce «è molto aperta e non ha tabù». Ha detto perfino che «non siamo in recessione». Ma venerdì scorso ha deciso che non accetterà più titoli di stato greci in garanzia, dando il via alle danze macabre attorno a Atene e votandola all’espulsione.
Decisione singolare, perché qualche giorno prima Jörg Asmussen, socialdemocratico tedesco del direttorio Bce, aveva detto alla rivista Stern che bisogna «aver rispetto per gli sforzi greci». Una contrazione di 5 punti di pil sarebbe tremenda per chiunque, Germania compresa: «Dovremmo almeno dire a Atene: ben fatto, buon inizio». La maggioranza nella Bce non sembra d’accordo: smentendo che siamo in recessione, si allinea non tanto alla Merkel ma all’ala più dura del suo governo. Nessuno sa infine a che siano serviti 19 vertici di capi di Stato o di governo. Dicono che gli Europei stanno correndo contro il tempo. Ben più tragicamente l’ignorano, vivono nella denegazione del tempo, dei fatti. Se tutte queste cose non le sappiano noi, figuriamoci i mercati: il caos che producono è il riflesso molto fedele del caos che regna nelle teste, negli atti, nelle parole dei capi che pretendono governare l’Unione.
Il tempo imbalsamato, mentre la storia precipita. La nefasta lentezza con cui si muovono politici e Bce: nei libri di storia, se finisse l’euro, si parlerà di strana disfatta dovuta a questo tempo che s’insabbia: strana perché il tracollo, essendo politico più che economico, poteva essere evitato. La Grecia esce, non esce? Lo sapremo a settembre, quando parlerà la trojka (Commissione, Bce, Fmi). Il Fondo salva-Stati nascerà, anche se con pochi soldi? Da settimane, l’intero Sudeuropa sta appeso alla decisione che la Corte Costituzionale tedesca prenderà, il 12 settembre, su Fondo e Patto di bilancio (Fiscal Compact).
I due accordi sono compatibili con la costituzione tedesca, e in particolare con il
principio di democraziache nell’articolo 20 fa discendere il potere dello Stato dalla sovranità del popolo e del Parlamento?
Fino ad allora resteremo appesi, come d’autunno le foglie sugli alberi. La foglia greca già è semi-staccata, ma la morte va inflitta a fuoco lento. Alcuni dicono che l’espulsione serve a sfamare il sotterraneo bisogno tedesco di punire, più che di aggiustare. Di sfasciare e comandare, più che di ricostruire e guidare. Anche per questo, incerti più che mai sulla voglia europea d’esistere, i mercati impazziscono.
Non sono dilemmi secondari, quelli trattati a Karlsruhe: sono in gioco la sovranità del popolo, il suo diritto inalienabile a influire sui bilanci nazionali. Da anni la Corte tedesca se ne occupa, e certo gli occhiali che inforca sono nazionali: non conta nulla la sovranità del popolo europeo, rappresentato con flebile forza dal Parlamento europeo ma pur sempre rappresentato. Tuttavia è troppo facile tacciare lei, e i tedeschi, di nazionalismo. Il fatto è che da quasi vent’anni la Corte s’accanisce su materie essenziali per noi tutti. Che sovranità possiedono esattamente gli Stati, e com’è esautorata dall’Unione? Il Parlamento europeo ha la forza e le prerogative per incarnare un interesse generale europeo, una sovranità parallela cogente come quelle nazionali?
L’unica certezza, nell’odierno turbine monetario, è che gli Stati sono ormai un ibrido: non più sovrani, non sono ancora federali. Di questo si parla a Karlsruhe: non solo di democrazia tedesca, ma del profilo giuridico, costituzionale, politico che dovrà darsi l’Unione: sempre che la si voglia salvare. Che si voglia dire ai popoli il mondo caotico che abitano e come evolverà.
La cosa grave è che la Corte discute, sentenzia, in totale isolamento. Nessun’altra Corte, o partito, o governo, ragiona in Europa su tali problemi. Ci si lamenta del peso abnorme dei giudici tedeschi, ma su Unione e sovranità democratica non circolano idee alternative, né tantomeno comuni. Neppure il Parlamento europeo è scosso da accordi ( Fiscal Compact, Meccanismo di stabilità ovvero Esm) che di fatto estromettono i deputati di Strasburgo, non essendo Trattati comunitari ma internazionali. L’Unione già si trasforma, influenzando sempre più le vite dei cittadini, ma fino a quando non saranno sciolti i due nodi vitali – quello della democrazia, quello di una Bce che non può intervenire come la Banca centrale americana o giapponese, perché nessuno vuole affiancarle un governo federale – la sua sovranità sarà considerata illegittima, non credibile, sia dai cittadini sia dai mercati. L’indipendenza della Bce è importante, ma a che serve se l’Unione – a differenza dell’America, del Giappone, dell’Inghilterra – non ha il dominio della propria moneta? Uno scettro è stato tolto agli Stati, e giace per terra nella polvere.
Solo in Germania è forte, in alcuni dirigenti, l’esigenza di codificare le presenti mutazioni: lo impone il principio di non contraddizione (è impossibile che due proposizioni divergenti abbiano lo stesso significato). Per questo la Corte costituzionale sta lì e si rompe il cervello. Il ministro Schäuble, monotonamente chiamato il falco, lo ha detto in piena crisi dell’euro, il 18 novembre a Francoforte: «Dall’8 maggio 1945 la Germania non è mai stata sovrana (…) Da almeno un secolo la sovranità è finita ovunque in Europa». Di qui la necessità di una sovranità federale superiore: prospettiva invocata in Germania da molti, gradita da pochissimi. Non a caso Schäuble evita la parola sovranità: usa l’indecifrabile termine governance.
Ecco un altro concetto senza peso costituzionale. Se è governance, non è vero governo federale.
Anche ai vocabolari siamo appesi. Neppure Schäuble tuttavia ha il senso del tempo, così come non lo ha Hollande sullo Stato-nazione. Quel che né Parigi né Berlino vedono, è che il problema della sovranità politica e democratica europea non va risolto in un secondo momento, superata la crisi. Essendo all’origine della crisi, è ora che va risolto. L’interrogativo di fondo (che sovranità spetti all’Unione, come ricucire Nord, Est e Sud) va posto in mezzo al tifone degli spread, prima di espellere un paese del Sud dopo l’altro. Altrimenti non staremmo ad aspettare il verdetto di una Corte costituzionale che mette al centro non i deficit pubblici, ma sovranità e democrazia.
Naturalmente l’Europa federale non si farà subito. Ma si può fissare una scadenza, come avvenne con l’euro. Il Parlamento può farsi assemblea costituente, come già negli anni ’80. La Bce può riflettere sull’impotenza cui oggi è condannata. I mercati devono capire, finalmente, se l’Unione vogliamo farla o disfarla pezzo dopo pezzo. Cominciando col cacciare la Grecia non avremo un’Unione tedesca. Avremo una non-Unione. Intanto l’unità del continente torna a essere quella degli esordi: una questione di pace o guerra civile, di odii – anche razziali – che crescono per forza di inerzie mostruose.
Proprio perché è l’unico paese a pensare costituzionalmente, la Germania ha primarie responsabilità. Non può insistere sull’unione politica, e poi imporre il dogma nazional-liberale della «casa in ordine». Un dogma che sta facendo proseliti: «Abbiamo fatto i nostri compiti: come mai i mercati ci colpiscono lo stesso?». Ci colpiscono perché il compito casalingo non è tutto. Ha detto il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco: «200 punti di spread sono colpa nostra, il resto è dovuto ai problemi comuni dell’euro». È l’Unione che non fa propri compiti. Quando li farà, quando avrà una Banca centrale prestatrice di ultima istanza, casa in ordine significherà qualcos’altro. Non diminuiranno gli obblighi di ognuno, ma la casa sarà europea e il suo volto muterà.

La Repubblica 25.07.12

Baratta: "in Italia si sistemano gli amici non si forma una vera classe dirigente", di Natalia Aspesi

Più o meno un anno fa, durante una delle solite furenti esagerate tempeste che squassano gli eventi italiani ogni volta che ci mette il naso la politica, cioè sempre, anche quando non sa di che si tratta, il presidente della Biennale Paolo Baratta se ne stette nobilmente zitto. Finita a metà settembre la Mostra del Cinema, tra non sempre eleganti coltellate, il suo venerato direttore Marco Müller, certo dei suoi alti contatti, puntava sulle vedute lungimiranti del fresco ministro dei Beni Culturali, Giancarlo Galan, per essere rinominato lui, e cacciato il Presidente. Infatti, teoricamente accantonato Baratta, fu designato al suo posto quella simpatica e gioviale persona, pure di gran bell’aspetto, che è Giulio Malgara, un tempo amico di Berlusconi e geniale esperto di prodotti commerciali (tipo alimenti per cani e gatti).
Venezia insorse, dal sindaco in giù, si raccolsero firme, arrivarono proteste da tutto il mondo della cultura, da Londra a Seul, e Baratta aprì bocca solo per una breve telefonata al ministro che tra l’altro prima gli era stato favorevole: «O io o il direttore della Tate Modern!». Poi si sa, in novembre, giù il governo Berlusconi, su quello Monti, giù Galan, su Ornaghi: e Baratta, 72 anni, plurilaureato, tre o quattro volte ministro, già nominato presidente della Biennale da Veltroni (1998-2001) e poi da Rutelli (2008-2011), riebbe subito la sua carica. Definendosi “leggermente autoritario” oggi dice: «Riconosco che Malgara, persona che stimo, è stato esemplare, rifiutando l’incarico con grande fair play».
Rinnovato il suo mandato, il terzo, (2011-2015), Paolo Baratta si mise subito al lavoro: via ovviamente Müller, subito fagocitato dalla Polverini e da Alemanno per un faraonico cinefestival in novembre a Roma in funzione elettorale (2013), porte aperte ad Alberto Barbera, 63 anni, che torna alla Mostra dopo averla diretta dal 1998 al 2002, durante il primo incarico di Baratta, poi estromesso dal ministro del momento, Urbani, cioè dalla politica, per far posto a Müller. Senza proclami né millanterie, adesso Barbera sorridecontentissimo per la prossima mostra d’arte cinematografica a fine agosto, che compirebbe ottant’anni (la prima fu nel 1932), se, a causa delle interruzioni belliche e sessantottine, non fosse arrivata solo alla 69° edizione. Un paio di giorni prima ci sarà la vernice della 13° Biennale internazionale di Architettura, che è stata affidata all’architetto inglese David Chipperfield.
Dice Baratta: «La Biennale veneziana è la più grande istituzione culturale non solo italiana, riconosciuta come tale in tutto il mondo. Va trattata con rispetto, affidata a gente competente e appassionata, non necessariamente a me, ma a chiunque ci si dedichi, senza risparmio, sapendo quello che fa, e in grado di governare con stile e autonomia. Ma da noi c’è un elemento patologico molto italiano, tutto, anche la cultura è poltrona, serve a sistemare gente, a premiare quelli della tua parte politica, ad assicurare stipendi. La corsa indiscriminata a una carica, la distribuzione cieca agli incarichi, impedisce che si formi una vera classe dirigente al di là di ogni appartenenza politica, che consenta un sistema di selezione dei valori e delle competenze. Non è sempre così naturalmente, e per esempio sono in ottimi rapporti con il governatore del Veneto Luca Zaia, che è leghista ed ha subito capito che una istituzione internazionale come la Biennale non poteva essere utilizzata per interessi locali. Anche Bondi, quando era ministro dei Beni Culturali del governo Berlusconi, si è dimostrato persona molto civile, attenta, con un gran rispetto nei nostri confronti: e come tutta la destra, con quella ossessione dell’egemonia culturale della sinistra, cui opporre una opposta egemonia, però della destra, seguendo curiosamente una prassi, un sogno, non liberale ma marxista».
La prossima Mostra Internazionale di Architettura, biennale, e la Mostra Internazionale del Cinema, annuale, intrecceranno i loro inizi negli stessi giorni, alla fine di agosto. Sarebbe scorretto dire che rispetto all’attenzione del mondo, agli immensi spazi riservati in tutta la città, alla quantità di partecipanti e di visitatori della prima, la seconda rinchiusa al Lido, malgrado sia la più antica,
la più nobile, la più raffinata del genere, rischia di apparire sacrificata all’aggressione e al superamento da parte di altri festival importanti, che sono ormai decine?
«Il confronto non è possibile. Alla Biennale di Architettura ci saranno 55 partecipazioni nazionali nei padiglioni dei Giardini, all’Arsenale, nel Centro Storico; il padiglione centrale curato da Chipperfield, presenterà 58 progetti, realizzati da un centinaio di architetti, artisti, fotografi, critici, studiosi. Per la prima volta saranno presenti paesi come Angola, Perù, Turchia, Kuwait, Repubblica del Kosovo. Se per quello che riguarda il cinema si riferisce soprattutto al Festival che si terrà a Roma in novembre, la concorrenza la vedo molto attutita. Non c’era un conflitto tra uomini, ma tra date, e le date laggiù sono state spostate. Noi occupiamo un momento strategico, quello da cui parte l’attenzione verso i film che potrebbero partecipare agli Oscar. E questo ci rende molto interessanti per le cinematografie emergenti, per quelle indipendenti, per i nuovi talenti, che solo da qui possono emergere. Sarà interessante per esempio vedere il primo film dell’Arabia Saudita, che potrebbe essere una sorpresa. Quanto al Festival di Toronto, che è quasi contemporaneo a quello veneziano, è vero che ha chiesto ai produttori di scegliere per le prime mondiali o là o qui. A parte che non vedo per loro l’interesse a scartare quei film che hanno deciso di essere qui, sono curioso di vedere se prevarrà un intento meramente commerciale, cioè la scelta di Toronto, o di prestigio e fascino, cioè Venezia. Certo abbiamo avuto anche un annus horribilis,
quando pioveva sui computer nella sala stampa. È a questo degrado che abbiamo pensato di ovviare, naturalmente con le risorse disponibili: coprendo la voragine davanti al palazzo del cinema che sapeva di guerra, di terremoto, recuperando e rinnovando gli spazi esistenti, dando alla sala grande un foyer strepitoso, assicurando un’acustica tra le migliori al mondo, creando condizioni gradevoli nei dieci giorni di fatica, perché poi i veri fruitori della nostra Mostra sono la gente del cinema, i critici, i cinefili, i giornalisti, non la mondanità».
La Biennale d’architettura nasce con un bel titolo, “Common Ground”, Terreno Comune: cosa dirà di nuovo o di diverso rispetto alla fantasmagoria architettonica dei grandi nomi di oggi, a cui ci stiamo abituando, ai palazzi come sculture, ai nuovi quartieri come installazioni?
«L’architetto ha rischiato di diventare l’uomo delle feste, il creatore di meraviglie sospese nel vuoto, da guardare come un grande spettacolo, come un’opera d’arte di affascinante distrazione dai problemi del vivere e dell’abitare, dai bisogni della società civile, per accontentare singoli committenti per i quali è indispensabile attirare l’attenzione. Il common ground di questa Biennale invece riaffermerà l’importanza di un’architettura non costituita solo da singoli talenti, ma anche da un ricco patrimonio di idee diverse, riunite in spazi condivisi, ricchi di una storia comune, in contesti e con ideali collettivi».
Avete come tutte le istituzioni culturali e non, problemi di finanziamento?

I contributi pubblici sono stabili, i costi sono aumentati, ma sono aumentate le entrate della Biennale: a parte gli sponsor, con l’ultima Biennale d’Arte del 2011, abbiamo avuto più visitatori, 440.000, e quindi ricavato dalla vendita dei biglietti più soldi, 5 milioni di euro. Con i nostri introiti abbiamo tra l’altro sistemato la biblioteca dell’archivio storico e restaurato completamente la sede di Ca Giustinian; 26 mila ragazzi e 3200 insegnanti del Veneto hanno partecipato alle nostre attività educative e speriamo di estendere questa iniziativa anche ad altre regioni».
L’estate prossima ci sarà la 55° Esposizione internazionale d’Arte diretta da Massimiliano Gioni: era dal 2003, da cinque Biennali fa, che non era più stata affidato a un italiano, che era allora Francesco Bonami.
«Era arrivato il momento di affidare la mostra a un giovane che rappresentasse un’area artistica in grande evoluzione, e Gioni ha 39 anni, è stato il primo europeo e il più giovane a dirigere la Biennale di Gwangiu nella Corea del Sud con un successo enorme e si occupa della Fondazione Trussardi a Milano. Ci saranno grandi novità e per la prima volta l’Argentina avrà un suo padiglione. Ma soprattutto l’avrà il Vaticano, che qui non era stato mai: se ne sta occupando con molto impegno il cardinale Gianfranco Ravasi, convinto che arte e fede, come nei secoli delle grandi committenze papali e cardinalizie, debbano continuare produrre capolavori».

La Repubblica 24.07.12

Spending Review: Ghizzoni, non subordinare sicurezza scolastica a tagli

“La sicurezza scolastica non può essere subordinata ad alcuna politica di tagli. – lo dichiara Manuela Ghizzoni, Presidente della Commissione Cultura della Camera, commentando le dichiarazioni del Ministro Profumo sulla sicurezza delle scuole come priorità del Paese. – Dopo le apprezzabili parole del Ministro mi auguro che sia definitivamente accantonato l’approccio verticistico usato dal precedente governo e sia, invece, aperta la strada della programmazione e del coinvolgimento territoriale. Predisporre grandi piani straordinari, esautorando Provincie e Comuni proprietarie delle scuole, non ha dato alcun frutto; mentre le leggi ordinarie esistenti, quando finanziate, si sono dimostrate adeguate a migliorare i servizi e la sicurezza scolastica.

È necessario avviare un processo che – spiega Ghizzoni – preveda la compartecipazione di tutti i livelli istituzionali nelle scelte di programmazione e di spesa, per rispondere adeguatamente alle esigenze territoriali. Il primo passo dovrà essere quello di mettere in capo a Comuni e Province la responsabilità degli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di adeguamento alla normativa antisismica e di costruzione di nuove scuole; tutto questo – sottolinea – prevedendo un allentamento del patto di stabilità per gli Enti Locali. Solo così – conclude la presidente Ghizzoni – si avvierà un nuovo corso per una scuola pubblica in sicurezza e di qualità”

"Il pasticcio dei docenti inidonei", di Alessandra Ricciardi

Vanno ricollocati, ma si scopre che non c’è posto per tutti. Sulla carta lo schema era perfetto. Ma appena si è passati alla fase attuativa, è venuto fuori che qualcosa non quadrava. Per esempio, che non c’erano tutti i posti disponibili necessari a ricollocare i docenti inidonei per motivi di salute. É la scoperta dei tecnici del ministero dell’istruzione, alle prese con il decreto di attuazione della Spending review, provvedimento che dovrà essere approvato in commissione bilancio del senato in settimana. La norma del decreto legge n. 95 prevede che i docenti inidonei per motivi di salute all’insegnamento, ma idonei ad altri compiti, debbano essere trasferiti d’ufficio tra gli assistenti amministrativi. L’operazione doveva essere messa a punto con decreto interministeriale entro 20 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta del decreto legge di revisione della spesa pubblica, ovvero entro domani. Quando invece in calendario ci sono due appuntamenti importanti, ma non definitivi sul tema: un vertice tra il ministro della funzione pubblica, Filippo Patroni Griffi, e i sindacati sulle procedure di mobilità del personale in esubero, e nel pomeriggio con i vertici del ministero dell’istruzione, sulla gestione proprio degli inidonei. I tecnici del ministero, incrociando i dati sugli organici con i pensionamenti, si sono resi conto che gli inidonei non sono 4 mila, come invece indicato al governo in sede di definizione della relazione tecnica al provvedimento, ma 3.110. Per cui anche i risparmi di spesa andrebbero rivisti al ribasso. Ma il problema è che non ci sono posti disponili per ricollocare tutti. Sempre i tecnici di viale Trastevere hanno verificato che le disponibilità non arrivano a 2 mila. Avanzano 1150 docenti inidoneo, che allo stato dell’arte andrebbero dichiarati tutti in soprannumero. Con la conseguenza di far scattare anche per loro il procedimento di messa in mobilità previsto per il restante personale del pubblico impiego. Dopo il tagli agli organici disposti dalla manovra Tremonti, e attuati con la riforma della scuola di Mariastella Gelmini, sono pochissime infatti le province in cui c’è capienza di posti: c’è Cagliari, Verona, Como, Alessandria, Rovigo… Ma sono mosche bianche, ovunque, dall’Emilia alla Campania, i posti mancano. Con la conseguenza che i docenti inidonei andranno in esubero sul contingente Ata. Perdendo così il treno della gestione degli altri insegnanti in esubero prevista sempre dalla Spending review e su cui governo e sindacati stanno trattando. Tra l’altro, gli organici così saranno strapieni e non consentiranno nuove assunzioni di assistenti amministrativi per i prossimi anni: zero speranze per chi oggi è precario con contratti a tempo determinato. Cgil, Cisl e Uil scuola hanno chiesto al ministro di intervenire in parlamento per eliminare il passaggio forzoso del personale docente tra gli ata. «La norma va cancellata, e va reintrodotta la pensione per chi é impossibilitato completamente al lavoro, e poi una seconda visita medica per chi invece vorrebbe tornare al lavoro tra i docenti», spiega Mimmo Pantaleo, segretario della Flc-Cgil. Rilancia la possibilità di prevedere il ripristino della pensione anche Francesco Scrima, segretario della Cisl scuola, che sottolinea l’incongruenza del trasferimento forzoso rispetto agli obiettivi di ottimizzazione del lavoro: «Non si tiene conto per esempio che alcuni docenti già lavorano presso gli uffici periferici scolastici, è uno spreco di forze e competenze distoglierli dall’incarico». «Quello che è certo è che la norma così è illegittima rispetto alle regole che disciplinano il rapporto di lavoro dopo la privatizzazione», conclude Massimo Di Menna, segretario Uil scuola. Spazi per modifiche sul fronte parlamentare sembrano però esigui.

da ItaliaOggi 24.07.12

"Direttori, paghi uno per due posti", di Antimo Di Geronimo

Due posti di direttore dei servizi generali e amministrativi al prezzo di uno. É questa la novità più importante contenuta nella circolare sull’organico di fatto emessa dal ministero dell’istruzione il 18 luglio scorso (n.6). Nel caso in cui due scuole siano risultate sottodimensionate (con meno di 600 ovvero di 400 alunni, se in deroga) il posto di direttore dei servizi generali e amministrativi, infatti, potrà essere istituito, in organico di fatto, abbinando due istituzioni scolastiche sottodimensionate. In buona sostanza, dunque, le scuole saranno comunque due, ma il direttore-sga sarà solo uno e dovrà occuparsi di entrambe.

La circolare non parla di reggenza, in ciò lasciando intendere che gli interessati non avranno titolo ad alcuna maggiorazione retributiva, pur svolgendo il doppio del lavoro, rispetto a un dsga applicato ad una sola scuola. E il silenzio del ministero sembrerebbe affondare le radici nell’articolo 19 del decreto legislativo 165/2001, che prevede l’istituto della reggenza solo per gli incarichi dirigenziali. Sebbene la reggenza esista nella prassi anche nel caso dei direttori-sga e che sia regolata anche contrattualmente.

Resta il fatto, però, che la proporzionalità dell’importo della retribuzione alla quantità e alla qualità del lavoro si fonda sull’art.36 della Costituzione. E quindi è ragionevole ritenere che la questione non possa essere liquidata semplicemente evitando di parlarne. Oltre tutto l’ipotesi di un dgsa che fa il doppio lavoro e che prende un solo stipendio non vale solo per l’abbinamento di due scuole sottodimensionate. Perchè l’amministrazione ha disposto che: «É possibile, inoltre, assegnare la scuola sottodimensionata a dsga di ruolo, ad integrazione dell’incarico originario nella scuola normodimensionata di titolarità e/o di servizio». Quanto ai criteri procedurali, il ministero ha ipotizzato tre soluzioni.

Nelle province nelle quali l’esubero di direttori dei sga è superiore alle scuole sottodimensionate, i soprannumerari rimarranno nelle scuole nelle quali hanno prestato servizio nell’anno scolastico 2011/2012. Il restante personale rimarrà, invece, a disposizione nell’ambito provinciale e sarà utilizzato secondo i criteri definiti nel contratto sulle utilizzazioni. Contratto che, però, non c’è ancora.

Questa soluzione, però, determinerà un aggravio a livello nazionale che necessiterà di compensazioni. E dunque, nelle province nelle quali l’esubero di personale risulterà inferiore alle scuole sottodimensionate, ai Dsga in esubero, oltre alla propria scuola sottodimensionata sarà attribuita, per abbinamento, un’altra istituzione scolastica sottodimensionata. Ciascuna delle restanti istituzioni scolastiche sottodimensionate sarà affidata a Dsga di ruolo. Infine, nelle province nelle quali non vi sarà esubero, le scuole sottodimensionate saranno affidate, ognuna, a Dsga di ruolo, già in servizio in istituzione scolastica normodimensionata.

Fin qui le disposizioni contenute nella circolare. Quanto alle disposizioni ipotizzate al tavolo negoziale, va detto che le parti hanno dedicato un intero articolo dell’ipotesi di contratto alla disciplina degli esuberi dei Dsga. In particolare, l’ipotesi di accordo tra le possibilità di ricollocazione pone al primo posto quella dell’utilizzazione nella sede di titolarità dell’anno scolastico 2011/2012 del Dsga soprannumerario per effetto dell’applicazione dell’art. 4 comma 70 della Legge n. 183/2011 in luogo della reggenza. E in più prevede, in subordine, che tali posti siano da ritenersi disponibili per l’utilizzazione di eventuale ulteriore personale in esubero.

da ItaliaOggi 24.07.12

"Quiz per insegnanti pieni di svarioni", di Luciano Canfora

Reclutare i prossimi insegnanti è operazione estremamente delicata e di altissimo rilievo. I modi del reclutamento un tempo erano ovvi e abbastanza collaudati: si trattava di un concorso, le cui prove avevano una riconosciuta dignità culturale. Il meccanismo è stato variamente aggredito nel tempo, alla luce di concezioni politico-pedagogiche dagli effetti devastanti. L’ultima trovata si chiama Tfa (Tirocinio formativo attivo, vedi «Corriere della Sera» del 22 luglio): quesiti a risposta multipla, concettualmente imparentati con i cruciverba della «Settimana enigmistica» e pallida reincarnazione dei quiz di Mike Bongiorno.
È quasi imbarazzante parlarne, e penoso misurarsi con questo degrado; e nondimeno è indispensabile dare l’allarme prima che sia troppo tardi. Come era prevedibile, infatti, un meccanismo del genere, oltre a rispecchiare un’idea bassa della cultura, è destinato inevitabilmente a macchiarsi di errori dovuti all’ignoranza di coloro che formulano i quesiti a risposta multipla.
Nel recentissimo caso della prova di ammissione per la classe di materie letterarie e latino nei licei, brillano svarioni che è giusto denunciare, prima che gli automi destinati a scorrere gli elaborati dei candidati trincino giudizi deliranti. Il quesito n. 5 consisteva nella domanda «Che cosa si intende, in un testo letterario, per variante?». Orbene, tutte e quattro le risposte proposte erano errate. Il ministero segnalava agli incaricati della correzione dei compiti che la risposta esatta era la prima, e cioè: «Ogni soluzione espressiva, attestata dai codici, discordante dal testo definitivo licenziato dall’autore».
Ma, purtroppo, chi ha elaborato questa risposta, cosiddetta esatta, è un selvaggio. Trattandosi di «testi letterari» delle più diverse epoche — nei quesiti precedenti e successivi si parla di Manzoni, Vittorini, Foscolo, Meneghello, Berto, etc. — è evidente che già l’espressione «attestata dai codici» fa sorridere. E questo è il meno. Se il riferimento era all’antichità, non si vede perché escludere i papiri, nonché i casi di tradizione epigrafica. E soprattutto non si capisce perché «varianti» non siano anche le varianti d’autore, su cui esiste una letteratura immensa e assai pregevole. Come ognun vede, dunque, dire che le varianti sono soltanto le divergenze rispetto al testo «licenziato dall’autore» è una gratuita bestialità. Chi ha elaborato il quesito n. 5 non sa di cosa parla.
Veniamo al quesito n. 15. Si trattava di identificare l’autore di un’opera intitolata Qualcosa era accaduto e venivano prospettati come autori Buzzati, Pirandello, Brancati, Malerba. La risposta esatta — suggerisce il documento ministeriale destinato agli automi-correttori — doveva essere Dino Buzzati. Si dà però il caso che il titolo non è Qualcosa era accaduto, ma Qualcosa era successo. C’è da chiedersi se l’operatore ministeriale che ha partorito questa sciocchezza non abbia voluto introdurre una variante d’autore, cercando di sanare in parte la deficienza del quesito n.5.
Insomma, è immorale che il destino di persone che hanno studiato per affrontare una prova da cui dipenderà la loro esistenza sia nelle mani di onnipotenti analfabeti.

da il Corriere