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"Una sola strada da percorrere", di Tito Boeri

Se c’è qualcosa di utile nell’escalation della crisi, questo è l’avere mostrato che le misure adottate al vertice europeo del 29 giugno non sono in grado di evitare il peggio. La Spagna, come candidamente riconosciuto dal governo, a queste condizioni non è in grado di finanziare il suo debito pubblico. L’Italia è messa meglio perché grazie all’azione del governo Monti è oggi percepita meno a rischio della Spagna ed ha gestito meglio le sue aste di titoli. Ma è chiaro che uno spread che non solo non si riduce, ma addirittura si allarga, nonostante una manovra di più di 80 miliardi, è socialmente insostenibile e neanche troppo alla lunga. È bene esserne consapevoli: lo scudo antispread accolto in Italia trionfalmente non può funzionare. Non tanto perché la Corte Costituzionale tedesca si pronuncerà a riguardo a settembre, quanto perché non ha la potenza di fuoco per invertire le aspettative dei mercati. Il nuovo fondo ha in dotazione solo 60 miliardi in più di quello già esistente. Anche quando il nuovo fondo diventasse operativo, sarebbe un invito a nozze per chi scommette sul fallimento dell’Euro, pronto a testare i limiti evidenti nell’azione del fondo. Ciò che può, nei tempi impostici dai mercati, scoraggiare questi comportamenti, è solo l’intervento della Banca Centrale Europea. È l’unica istituzione che ha, sulla carta, possibilità di intervenire senza limiti acquistando titoli dei paesi in difficoltà. Ha l’autorità e l’indipendenza per farlo perché è in discussione l’esistenza stessa dell’Euro. Basterebbe l’annuncio da
parte della Bce di un intervento massiccio, incondizionato nel caso in cui Spagna e Italia non fossero in grado di finanziarsi, a rendere in gran parte non necessari questi acquisti.
Mario Draghi ha oggi la maggioranza nel board per operare in questa direzione. Bisogna che la sua azione sia accompagnata da impegni cogenti dei governi che potenzialmente beneficeranno dei suoi interventi. Ciò che davvero ostacola l’iniziativa dell’Eurotower è il timore degli elettori dei paesi con la tripla A, che i governi che beneficeranno del sostegno della Bce interrompano i piani di rientro del debito. È un timore comprensibile. Anche l’opinione pubblica italiana ha reagito alle notizie sulla crisi del debito della Regione Sicilia temendo che gli aiuti che verranno concessi vengano utilizzati a Palazzo dei Normanni per continuare a tenere a libro paga di “mamma Regione” qualcosa come il 10% degli occupati nell’isola spesso in servizi privi di alcuna utilità sociale, anziché utilizzare le risorse per ridurre il debito.
Cosa si può fare per rassicurare gli elettori dei paesi con la tripla A? Innanzitutto smetterla di prendersela con Angela Merkel che ha, in realtà,
mostrato una certa duttilità nel proporre una via d’uscita e che continua a godere della fiducia di tre quarti dei tedeschi. Il Cancelliere sostiene, a ragione, che non può esserci solidarietà senza controllo, che non possono esserci interventi verso i Paesi deboli senza che questi cedano sovranità. Il punto è proprio questo: definire quali tipi di cessione di sovranità possano rassicurare gli elettori dei paesi con la tripla A risultando al tempo stesso accettabili nei paesi che hanno perso ogni A nei rating. Non si tratta tanto di definire nuove regole di bilancio più stringenti a livello europeo, ad esempio il voto dei Parlamento Europeo sui bilanci dei paesi coinvolti. Queste regole sono facilmente aggirabili dalla politica, come si è visto in Europa con il Patto di Stabilità e Crescita.
Quello che serve è creare le condizioni per cui in futuro il fallimento di uno Stato, anche grande, non metta in discussione le sorti dell’intera Unione Europea. I paesi devono poter fallire, come può fallire la California o lo stato di New York e nessuno si aspetta che Washington intervenga in loro aiuto. Il fatto è che quegli stati possono fallire senza che le loro banche chiudano, senza che i poveri smettano di ricevere assistenza sociale, senza che i dipendenti pubblici che perdono il lavoro possano cercare lavoro in altri Stati. Sono queste cessioni di sovranità – la gestione europea della sorveglianza bancaria, l’assistenza sociale di ultima istanza gestita dalla Ue, la rimozione di molte residue restrizioni alla mobilità della manodopera fra paesi – quelle che potrebbero rassicurare i cittadini con la tripla A senza spaventare quelli dei paesi del contagio. Perché si vada in questa direzione è oggi necessario che i leader europei con investitura popolare più recente, Hollande e Rajoy, preparino le loro opinioni pubbliche a questa evenienza. È anche fondamentale che da noi di questo si parli, anziché aspettare un intervento tedesco che non verrà mai se non ne prepariamo le condizioni. Continuo a sentire appelli a sostenere l’agenda Monti. Fondamentale assicurare gli investitori sulla continuità dell’azione di risanamento dei conti pubblici intrapresa da questo esecutivo. Ma ancor più importante che il governo e i partiti che lo sostengono si pronuncino su quale deve essere la divisione dei compiti fra istituzioni sovranazionali europee e governi nazionali che ci potrà portare fuori dalla crisi dell’Euro.

La Repubblica 23.07.12

"Donne senza lavoro, l'Italia discrimina e invecchia d più", di Carlo Buttaroni*

È una donna il nuovo amministratore delegato di Yahoo: Marissa Mayer. Al colosso americano, che ha una struttura localizzata in 25 paesi e fornisce servizi internet in 20 lingue diverse, è arrivata dopo essere stata vicepresidente di Google. È anche giovane. Ha appena 37 anni e Forbes l’ha inserita tra le 50 donne più potenti del mondo. Giovane, donna e incinta di un maschietto che nascerà a ottobre. Bastano queste caratteristiche per collocare la storia della Mayer a una distanza siderale rispetto a quanto accade normalmente nel nostro paese. La Mayer ha comunicato la sua gravidanza al board di Yahoo, insieme all’intenzione di prendere un breve periodo di maternità e ha precisato «nessuno ha mosso obiezioni e ha manifestato perplessità». Cose dell’altro mondo. Già, perché in Italia le donne sono spesso costrette, al momento dell’assunzione, a firmare in bianco le proprie dimissioni in caso di una gravidanza. Un licenziamento camuffato da dimissioni. Una spada di Damocle permanente. Un ricatto al quale le donne sono sottoposte, strette tra la scelta di avere un figlio o conservare il posto di lavoro. Questa pratica incivile, in realtà, era stata vietata con una legge nel 2007, abrogata però l’anno successivo (e senza reazioni particolari) con un decreto dell’allora Ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, dal titolo significativo: «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria». Appunto. Nulla avviene a caso. In Italia, il rapporto tra gli occupati maschi e femmine è 100 contro 70. Siamo penultimi, dopo la Grecia. E anche se la situazione, nel complesso, è migliorata (vent’anni fa il rapporto era di una donna ogni due uomini) e le distanze con i paesi virtuosi si sono accorciate, sul tema dell’accesso al lavoro cresciamo meno degli altri. Rispetto al 1990 scendiamo di un gradino, superati dalla Spagna che nel frattempo è diventata terzultima. E scendiamo anche nella classifica dello sviluppo umano delle Nazioni Unite. Non c’è che dire: se il decreto del Ministro del Welfare interpretava una certa idea di sviluppo, gli effetti che ha prodotto quel modello economico e sociale sono evidenti. Persino sullo spread. Ma non su quello che riguarda i titoli di Stato, bensì quello retributivo. Infatti, a parità di livello, una donna guadagna circa il 18% in meno del suo collega maschio, cioè 1800 punti base. Questo, nonostante le donne entrino nel mercato del lavoro mediamente più preparate e competenti. Basti pensare che su 100 laureati, 58 sono donne e solo 42 uomini. LA SEGREGAZIONE DI GENERE A questa non corrispondono né delle norme di tutela effettiva delle pari opportunità, né una consapevolezza nell’opinione pubblica che sanzioni le discriminazioni. Non si reagisce, con un sentimento misto tra accettazione e rassegnazione. È una questione di cultura e di pregiudizi. Come quelli che fanno dire alla maggioranza degli intervistati nell’indagine Tecné, che è meglio che a capo di un’associazione di volontariato ci sia una donna, mentre al vertice di un battaglione dell’esercito o della polizia è preferibile un uomo. Stereotipi che spingono tanti, troppi, a ritenere migliore un uomo alla presidenza del Consiglio o alla presidenza della Repubblica. Mentre una donna, oggi, può essere segretario di un sindacato persino meglio di un uomo, per molti intervistati. Susanna Camusso e, prima, Renata Polverini, hanno aperto una strada. D’altronde, una società si nutre di simboli, e per cambiare ha bisogno di esempi positivi che diventino patrimonio e narrazione comune. Ed è ciò che manca all’Italia. Ci vorrebbero un po’ di Marissa, anche se è difficile che una donna possa emergere nell’ingessato sistema politico-imprenditoriale italiano. Il racconto del nostro paese (e la comunicazione pubblicitaria che ne è figlia) vede ancora le donne quasi solo come angeli della casa. Se lavorano, spesso sono considerate «donne in carriera» che trascurano figli e famiglia. E se in una coppia qualcuno deve fare spazio all’altro per affermarsi in termini professionali, c’è da scommetterci che il sacrificio sarà chiesto alla donna. Nella pubblicità, le donne prevalentemente stirano, lavano e cucinano. Oppure seducono. Quando interpretano il ruolo di manager sono utilizzate per promuovere prodotti per l’igiene intima ma, generalmente, quando salgono sull’automobile di lusso, si siedono sempre accanto all’uomo. Difficilmente sono rappresentate come agenti del sistema economico, politico e culturale, anche se l’intero apparato di welfare, tipicamente familiare com’è quello italiano, si regge sulle donne. Un ruolo di ammortizzatore sociale che si estende, spesso, oltre il nucleo familiare vero e proprio, soprattutto per quanto riguarda le attività di cura dei parenti (diretti e acquisiti) e di educazione dei figli. La storica carenza di infrastrutture sociali, adeguate a supportare i nuclei in cui entrambi i genitori lavorano, rende difficile conciliare l’attività lavorativa e i carichi familiari, tanto che spesso una donna si trova costretta a scegliere: un figlio o il lavoro. Doppiamente penalizzata, dovendo spesso rinunciare al primo senza riuscire a trovare il secondo. Non è un caso se, in Italia, il tasso di natalità e di occupazione femminile sono molto più bassi rispetto ad altri paesi avanzati. Anche perché la ricerca di una condizione lavorativa stabile e conciliabile con i futuri carichi familiari, porta le giovani italiane a ritardare l’età della prima gravidanza, quando non a rinunciarvi del tutto. E, infatti, in Italia molte donne non hanno figli: il 24% circa delle nate nel 1965, contro il 10% delle donne francesi nate nello stesso anno. Nonostante la famiglia e il ruolo della donna siano al centro di tanti bei discorsi, le scelte di politica economica dicono il contrario. Basti pensare che nel momento peggiore della crisi, la riduzione dei redditi delle famiglie italiane è stata del 4%, a fronte di una riduzione del Pil del 6%, mentre nella maggior parte degli altri Paesi il reddito delle famiglie è cresciuto. È stato così in Francia (Pil -3% e redditi familiari +2%), in Germania e negli Stati Uniti (Pil -4% e redditi delle famiglie +0,5%). Per l’Ocse, l’Italia investe nei sostegni alle famiglie la metà di quanto fanno i paesi ad alto tasso di fertilità, ma anche un quarto in meno dei paesi a bassa fertilità. LO SVILUPPO COMPROMESSO L’assenza di scelte politiche che migliorino, sin da ora, l’accessibilità delle donne al mondo del lavoro rischia di compromettere lo sviluppo del paese. Negli ultimi cinquant’anni la durata media della vita in Italia è aumentata a un ritmo di 3-4 mesi l’anno, ma è andata di pari passo con un basso tasso di fertilità, quindi un incremento della popolazione anziana che ha cambiato e lo farà ancora di più l’equilibrio tra popolazione totale e forza lavoro. Si stima che nel 2030 la popolazione al di sotto dei 39 anni diminuirà del 34%, mentre la popolazione degli over 65 aumenterà del 30%. Una trasformazione che ha e avrà inevitabili e pesanti ripercussioni sulla tenuta economica e finanziaria del sistema-paese, se non vengono effettuate scelte che facciano crescere la popolazione occupata. Oggi gran parte delle donne italiane si trovano ai margini del mercato del lavoro. Nell’Europa dei 25 il tasso di occupazione femminile raggiunge il 60% mentre in Italia è appena il 43%. Agire sullo sviluppo del tasso di attività femminile è la leva strategica per aumentare il tasso di occupazione. Ma per farlo occorre eliminare le forti differenze salariali, i differenti percorsi professionali, il mito del contratto a tempo parziale come miglior soluzione per l’occupazione femminile. Discriminazioni e false credenze come quello della «vocazione delle donne a occuparsi della casa», che si alimentano dei ruoli stereotipati maschili e femminili, oltre che della mancanza di presa in carico, da parte della società, della responsabilità della maternità, considerata ancora oggi
una questione esclusivamente individuale, di cui devono farsi carico le donne. Occorre, invece, passare in fretta dalle parole ai fatti e adottare politiche di conciliazione trasversali alle complessive politiche di sviluppo, con soluzioni finalizzate all’inserimento femminile nel mercato del lavoro e sostenendo le imprese che utilizzano modelli flessibili di organizzazione. Sostegno alle giovani coppie e alle famiglie, riorganizzare gli strumenti di welfare con l’obiettivo di ridurre il deficit di infrastrutture sociali e ampliare l’offerta di strutture e servizi alle persone e all’infanzia, con nuovi modelli organizzativi flessibili dei servizi pubblici. Prendere consapevolezza di tutto questo, non solo può rimuovere ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne, ma serve a uscire più velocemente dalla crisi e a rendere più solido lo sviluppo del paese, perché il tema delle «pari opportunità» e delle «pari aspirazioni» è un fattore di straordinaria rilevanza civile ed economica. È da qui che occorre ripartire per costruire una società capace di futuro.
*Presidente Tecnè

l’Unità 23.07.12

"Cara università, ecco il primo esame i conti in tasca a chi deve scegliere", di Salvo Intravaia

Architettura o ingegneria, lettere o lingue? Per 500mila studenti che hanno appena finito la maturità è già scattato il rebus della scelta universitaria. Ma, con il rientro dalle vacanze, molti si troveranno di fronte a una brutta sorpresa. Da Milano a Palermo potrebbero scattare aumenti stellari delle tasse. E l’iscrizione diventare proibitiva anche per le matricole. Questo almeno temono gli studenti dell’Unione degli universitari che, sulla scorta dei provvedimenti contenuti nel decreto 95, hanno elaborato una simulazione degli incrementi possibili per ogni ateneo, in seguito alla norma che ridisegna il calcolo del tetto del 20 per cento. Ovvero del rapporto fra i contributi versati dagli studenti e il finanziamento erogato dallo stato agli atenei. «È liberalizzazione selvaggia», denuncia l’Udu.
Il meccanismo – disegnato nel ‘99 per evitare un incremento incontrollato delle tasse – ora potrebbe saltare. Dati alla mano, i timori non sembrano infondati. Anche perché parecchie università con le casse al lumicino sono costrette a rivolgersi agli studenti e alle famiglie per recuperare liquidità. I conteggi dell’Udu sono preoccupanti: diventa praticabile un aumento medio del 76 per cento delle tasse, pari a 654 euro a studente per anno. Uno colpo mortale che potrebbe spingere le famiglie in difficoltà a rinunciare del tutto all’iscrizione.
«L’aumento ipotizzato — spiega Michele Orezzi, coordinatore nazionale dell’Udu — riguarda tutti gli studenti, ma in realtà per fuoricorso e extracomunitari non ci sarà più alcun limite. Si tratta di una liberalizzazione mascherata delle tasse studentesche». Per questo, sindacati e forze politiche hanno chiesto al premier di ripensarci e accettare modifiche al decreto.
La norma che vigeva prima della spending review agganciava le tasse richieste dalle segreterie al Fondo di finanziamento ordinario che lo stato eroga a ogni ateneo. Nel 2011, 36 atenei su 61 sforavano lo sforavano, mentre la restante parte si manteneva di poco al di sotto. Ma la revisione della spesa rivoluziona tutto: per il futuro, dal computo della contribuzione studentesca verranno stralciate le tasse versate dai fuori corso (un terzo del totale) e dagli studenti extracomunitari. Un artificio che ridimensiona l’indicatore e consente agli atenei di aumentare l’importo richiesto e che trasforma, di colpo, in regolari 28 dei 36 atenei “fuorilegge”.
A questo punto, gli studenti si sono messi al lavoro per capire cosa riserverà il futuro. E quello che temevano si è materializzato attraverso i numeri. L’università di Pavia, al 24 per cento e per questa ragione condannata dal Tar a restituire agli studenti quasi 2 milioni di tasse «non dovute », secondo la simulazione, passerebbe al 16,8 per cento di quel tetto. E il Politecnico di Torino, l’ateneo fino a qualche mese fa retto dall’attuale ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, dal 22,7 per cento al 7,4.
Questa variazione permette agli atenei di incrementare le tasse anche per chi è in regola. Perché, se il Politecnico di Torino dalla nuova percentuale volesse attestarsi al 20 per cento ammesso dalla legge potrebbe chiedere agli studenti altri 18 milioni di euro, oltre ai 27 incassati adesso, che si tradurrebbero in 2.469 euro ogni anno chiesti a ogni studente in corso. Alla Sapienza di Roma, le tasse potranno lievitare del 112 per cento: 1.124 euro a studente. Una vera batosta. «Il governo — prosegue Orezzi — sta uccidendo l’università pubblica. Scaricare oltre 600 milioni di euro sulle spalle degli universitari è di una gravità senza precedenti: siamo pronti a scendere in piazza e a ricorrere alla Corte costituzionale: non lo accetteremo».

La repubblica 23.07.12

"Dalla carne alla mozzarella Camorra food spa serve a tavola", di Roberto Saviano

Mozzarelle, zucchero, burro, caffè, pane, latte, carne, acqua minerale, biscotti, banane, pesce. Difficile ammettere che quando andiamo a fare la spesa rischiamo di finanziare le organizzazioni criminali. Eppure è così. Il paniere della camorra, di Cosa Nostra, della ‘ndrangheta tocca la giornata tipo di un comune cittadino. Ogni gesto, dal primo che compiamo al mattino sino alla cena, può far arricchire i clan a nostra insaputa. Per comprendere come ogni passaggio possa esser dominato dai clan, basta descrivere una giornata. Si inizia dal bar. Il caffè in molti territori è monopolio dei boss. A volte ne gestiscono la produzione, altre solo la distribuzione. Esempio: il clan Mallardo di Giugliano imponeva ai bar di comprare il caffè Seddio prodotto da una ditta intestata ai D’Alterio, nipoti del boss Feliciano Mallardo. L’operazione della Guardia di finanza “Caffè macchiato” del 2011 ha mostrato che l’imposizione del caffè Seddio era di tipo estorsivo ma ha anche svelato l’esistenza di un vero e proprio accordo tra il clan Mallardo e i vertici dei Casalesi, che consentivano l’espansione degli interessi dei giuglianesi anche in aree tradizionalmente sotto il loro controllo, previo pagamento di una tangente che veniva versata al “gruppo Setola”. Consumare una tazzina di caffè Seddio era molto più di una pausa dal lavoro, era molto più di un modo per trovare energie al mattino: era bere il frutto di un patto, di un’alleanza. Il clan Vollaro di Portici imponeva la marca di caffè “È cafè”, prodotto da un cognato dei Vollaro, subconcessionario di El Brasil di Quarto. Spesso le organizzazioni riescono a trattare sui chicchi direttamente in Sudamerica, ne gestiscono la torrefazione e poi la distribuzione. Imponendo la marca di caffè ai bar, accade che iniziano in qualche modo a partecipare alla loro gestione: entrano nelle attività e appena sono in crisi ne rilevano la proprietà.
Sembra un’economia minore, ma garantisce un flusso continuo di denaro ed è un modo per conquistare nuovi territori, per stringere alleanze, per creare coperture. Giuseppe Setola costrinse gran parte dei bar e delle caffetterie dell’agro aversano e del litorale domizio ad acquistare una miscela di caffè di pessima qualità, il Caffè nobis, a un normale prezzo di mercato. Con i suoi fedelissimi aveva costituito un vero e proprio marchio, aperto partite Iva e creato società, per dare all’affare una parvenza di legalità. E poi c’è il Caffè Floriò, che fa capo a Cosa Nostra: imposto a decine di locali di Palermo.
Anche lo zucchero che mettiamo nella tazzina è un business enorme e può essere sospetto. Dante Passarelli, considerato l’imprenditore di riferimento della famiglia Schiavone, era riuscito a divenire il re dello zucchero con la sua società Ipam. Lo zucchero Ipam era ovunque. Eridania, il colosso italiano, denunciò un’espansione innaturale dei prodotti dello zuccherificio di Passarelli. La società fu sequestrata tra il 2001 e il 2002 dalla Dda, da allora il marchio è diventato Kerò. Dante Passarelli morì misteriosamente cadendo da un terrazzo
nel 2004 poco prima della sentenza Spartacus. Morendo, i beni congelati tornarono alla famiglia e quindi, presumibilmente, nella disponibilità del clan dei casalesi, di cui Passarelli era stato prestanome.
A Napoli, il caffè viene sempre servito con un bicchiere d’acqua minerale. Ma anche l’acqua può essere affare dei clan. Il boss dei Polverino di Marano, Peppe o’ Barone, aveva una rete distributiva gigantesca che comprendeva acqua minerale, uova, polli, bevande e, ovviamente, anche caffè. Storia antica questa dell’acqua minerale: la camorra negli anni 80 aveva iniziato a esportare l’acqua campana negli Stati Uniti. Poi d’improvviso le bottiglie smisero di partire da Napoli. Eppure il commercio d’acqua in America continuava. Cosa accadde lo ha raccontato il film di Giuseppe Tornatore Il camorrista (tratto dall’omonimo libro di Giuseppe Marrazzo pubblicato nel 1984 da Pironti): il boss o’ Malacarne decise di spedire soltanto le etichette, che venivano incollate su bottiglie riempite con acqua di rubinetto di New York. Bastava il marchio, perché, come diceva o’ Malacarne: «Che ne capiscono gli americani, tanto quelli bevono la Coca- Cola».
I clan, anche quelli che investono nei mercati finanziari di tutto il mondo, hanno i piedi ben radicati nei Paesi, nelle province, nella terra, nelle cose. E partono da bisogni primari. Dal cibo. Dal pane. Ma poiché sul pane il margine di guadagno è spesso bassissimo, le strategie cambiano. O il racket impone un vero e proprio monopolio nella vendita della farina ai panettieri della zona che, terrorizzati dalle continue minacce, comprano a un prezzo altissimo e completamente fuori mercato una farina scadente e di bassissima qualità (lo racconta l’operazione Doppio zero a Ercolano). Oppure i clan si trasformano in panificatori: hanno spesso forni clandestini che utilizzano per produrre tonnellate di pane da vendere la domenica mattina in strada. Pane clandestino ed esentasse. I forni venivano alimentati evitando di comprare legna costosa e bruciando vecchie bare trovate nei cimiteri, infissi marci, tronchi di alberi morti trattati con agenti chimici: tutto ciò che avrebbe dovuto essere smaltito perché rifiuto speciale, finiva nei forni per cuocere il pane.
E poi il latte. Nulla di male assoceremmo mai al latte: bianco, candido, ricordo d’infanzia. E invece il suo è uno dei mercati più ambiti dalle organizzazioni criminali che presero a proteggere anche quello, anche il latte Parmalat. Il clan dei casalesi e i Moccia avevano praticamente eliminato nelle province di Napoli e Caserta ogni residua concorrenza. Quando qualche ditta riusciva ad abbassare il prezzo del proprio latte, il racket bruciava i camion o imponeva un pizzo elevatissimo costringendo quindi ad aumentare il prezzo per non insidiare il mercato del latte Parmalat. Cirio e Parmalat agivano in regime di monopolio grazie a un obolo che ogni mese versavano ai clan. Era tale la gravità della situazione che a fine anni 90 l’Autorità garante per la concorrenza si trovò costretta a imporre alla Eurolat (acquisita da Parmalat nel 1999) la cessione di alcuni marchi per sanare la situazione.
Pane, latte e burro: un tempo la prima colazione si faceva così. Ma anche il burro per anni è stato al centro degli affari dei clan. Nel 1999, la Dda di Napoli scoprì una vera e propria holding mafiosa che coinvolgeva i maggiori produttori di burro a uso industriale dell’Italia meridionale insieme ad aziende di burro piemontesi e grandi aziende dolciarie francesi e belghe compiacenti. Protagonista la Italburro controllata dal clan Zagaria, che produceva un burro venefico, utilizzando sostanze tossiche, oli per la cosmesi, sintesi di idrocarburi e grassi animali.
Non poteva sfuggire il mercato della carne, da sempre settore con una forte influenza mafiosa, come già aveva denunciato Giancarlo Siani nel 1985 parlando del clan Gionta nell’articolo che probabilmente lo condannò a morte. Forse l’operazione più importante sul traffico illegale del mercato della carne è stata Meat Guarantor, un’inchiesta conclusasi nel 2002 e condotta dai carabinieri del Nas che ha descritto il coinvolgimento di rappresentanti di tutti i settori della filiera della carne: allevatori, macellatori, proprietari delle macellerie, amministratori pubblici conniventi. L’organizzazione sgominata aveva base a Napoli e in provincia di Salerno, ma si estendeva al nord Italia e in Germania; utilizzava veterinari che certificavano la buona salute di animali che invece erano stati sequestrati perché malati. Ad altri animali, privi di documentazione sanitaria e spesso malati, somministravano medicine perché rimanessero vivi e potessero essere macellati. Recentemente il collaboratore di giustizia Domenico Verde ha dichiarato ai pm: «Si vende esclusivamente la carne delle aziende di Giuseppe Polverino», dell’omonimo clan che già commercializzava acqua. Polverino, camorrista e imprenditore, arrestato pochi mesi fa in Spagna, aveva utilizzato lo spaccio di cocaina e hashish come apripista per le sue imprese nel settore alimentare. Aveva i piedi saldi a terra, saldi nella sua terra, e utilizzava l’attività criminale per sostenere l’impero dei generi alimentari.
E poi c’è la frutta: la camorra fa da tramite dall’Africa al mercato ortofrutticolo di Fondi e nei porti: senza pagare i clan, non si può
scaricare la merce che rimane a marcire nei container. L’operazione della Dia Sud Pontino svelò un patto tra Cosa nostra e camorra per controllare ortofrutta e trasporti. Fondi, in provincia di Latina, era lo snodo centrale per controllare il mercato della frutta e della verdura al centro-sud e anche in alcune zone del nord. Il clan dei Casalesi, i Mallardo, i Licciardi, insieme alle famiglie mafiose siciliane dei Santapaola-Ercolano di Catania, imponevano il monopolio dei trasporti facendo fluttuare i prezzi. Non solo Fondi, anche la frutta e la verdura nel nord Italia hanno avuto un controllo mafioso. L’ortomercato
alla periferia sud-est di Milano è stata una delle piazze in cui la ’ndrangheta ha compiuto molti dei suoi affari, controllando ampi settori della filiera agroalimentare. Non esisteva mela, pera o melanzana trasportata in tutta Italia che non portasse nel suo prezzo la traccia dell’affare mafioso.
Allearsi con le mafie spesso significa distribuire i propri prodotti a prezzi migliori, a condizioni vantaggiose. Non è raro che importanti marchi finiscano per essere rappresentati da agenti dei clan. Agli inizi degli anni Duemila, un affiliato del clan Nuvoletta, Giuseppe Gala detto Showman, aveva acqui-
stato importanza nel clan proprio perché nel business alimentare sapeva muoversi. Era diventato agente della Bauli. I Nuvoletta tra l’altro imponevano il raddoppio del prezzo del panettone Bauli a Natale come “tassa” per sostenere le famiglie dei detenuti in carcere.
Infine c’è la mozzarella, prodotto campano d’eccellenza, nel mirino delle organizzazioni da sempre. I casalesi importavano latte proveniente dall’est Europa, dove avevano allevamenti di bufale, mozzarelle romene che venivano vendute come mozzarelle casertane. Poi hanno iniziato a importare a basso costo le bufale dalla Romania, per infettarle con sangue marcio di brucellosi e guadagnare dall’abbattimento. Inquinare con affari mafiosi la produzione di mozzarella significa compromettere una delle storie culturali ed economiche più preziose della Campania. E i clan lo fanno da decenni. Nella vicenda che ha portato all’arresto di Giuseppe Mandara e al sequestro dell’azienda è emerso che grazie al rapporto con i La Torre, l’imprenditore aveva tratto vantaggio dalla rete criminale messa a disposizione dal clan e dalla sua condotta mafiosa. Non solo ci sarebbe un rapporto economico, ma anche un appoggio strategico. Mandara, secondo le accuse, utilizza una prassi tipica della logica mafiosa: per abbassare i costi utilizza prodotti di scarsa qualità o mischia tipi di latte diverso. Nelle mozzarelle di bufala prodotte da Mandara era infatti presente anche del latte vaccino in percentuali considerevoli. Le mozzarelle di bufala venivano quindi messe in commercio con l’indicazione Dop anche se il procedimento non l’avrebbe affatto consentito.
Ultimo viene il dolce. I clan sono riusciti a infettare, secondo la Dda di Napoli, persino uno dei marchi di pasticceria industriale più famosi d’Europa: la Lazzaroni e i suoi amaretti. Secondo le accuse dell’antimafia, capitali criminali avrebbero risollevato aziende del Nord in crisi sanando i conti e facendo chiudere i bilanci in attivo. Un miracolo in tempo di crisi. È un salto di qualità: la trasformazione del crimine in un’imprenditoria ricca, forte, competitiva. Ma dalle fondamenta marce.
Ciò che dovrebbe far riflettere è che le mafie hanno solo anticipato quei meccanismi che spesso sono diventati prassi nel settore alimentare italiano, europeo e non solo. Essere competitivi, per molte imprese, significa abbassare a tal punto la qualità, da rendere talvolta ciò che si produce al limite dei criteri consentiti per la commercializzazione. Come per ogni settore, prima che arrivino forze dell’ordine e magistratura, i consorzi di categoria sono fondamentali. È fondamentale che chi fa prodotti di qualità pensi di unirsi e tutelare i consumatori, se stessi e il proprio mercato. L’alternativa è che il massimo ribasso non farà vincere la qualità, la bravura, i talenti, ma solo i prodotti più corrotti e le imprese più furbe. Triste destino per l’eccellenza italiana.

La Repubblica 23.07.12

"La rivincita dell'albero degli zoccoli nel cuore della Bassa Bergamasca", di Michele Brambilla

«L’albero degli zoccoli» è un film del 1978 diretto da Ermanno Olmi, vincitore della Palma d’oro al 31º Festival di Cannes. Il film fu girato nel dialetto bergamasco della zona in cui l’opera è ambientata (il film è stato girato prevalentemente nella pianura compresa tra i comuni di Martinengo, Palosco, Cividate al Piano, Mornico al Serio, Cortenuova e principalmente Treviglio) e fu poi doppiato in italiano dagli stessi attori per la distribuzione italiana. Notevole è la perfetta corrispondenza tra l’ideologia e il linguaggio. Tutti gli attori sono contadini e gente della campagna bergamasca senza alcuna precedente esperienza di recitazione. In una cascina di pianura a Palosco (nella campagna bergamasca), tra l’autunno 1897 e la primavera 1898, vivono 4 famiglie di contadini. Minek (Domenico), un bimbo di 6 anni sveglio ed intelligente, deve fare 6 chilometri per andare a scuola. Un giorno torna a casa con uno zoccolo rotto. Non avendo soldi per comprare un nuovo paio di scarpe, il padre Batistì decide di tagliare di nascosto un albero per fare un nuovo paio di zoccoli al figlio. Il padrone della cascina però viene a saperlo e alla fine viene scoperto il colpevole: la famiglia di Minek, composta dal padre Batistì, dalla moglie Battistina e dai tre figli di cui uno ancora in fasce, caricate le povere cose sul carro, viene cacciata dalla cascina. Accanto a questa vicenda che apre, chiude e dà il titolo al film, si alternano episodi della umile vita contadina della cascina, contrassegnata dal lavoro nei campi e dalla preghiera. Tra i personaggi esterni alla cascina, oltre al padrone e al fattore, ha una significativa importanza il parroco del paese don Carlo, il quale pur avendo un’istruzione e appartenendo a un diverso ceto sociale, si prende cura della vita dei contadini e li guida e consiglia con le sue parole.

A Treviglio ci sono 29.000 abitanti e 29.000 maiali. Nel comune confinante, Caravaggio, il rapporto è addirittura di uno a due: 15.000 esseri umani, 30.000 suini. Infatti i caravaggini in dialetto vengono chiamati «porsèli», porcelli. Non è un insulto, da queste parti, perché queste sono le parti dell’«Albero degli zoccoli», e qui tutto quello che è legato al mondo contadino è storia, cultura e, ancora oggi, sostentamento. Treviglio il maiale l’ha messo nello stemma del Comune, dove lo si vede afferrato agli artigli di un’aquila e sospeso per aria sopra una torre e due leoni.

Ermanno Olmi venne qui nel 1977 a girare il suo film più bello. Questa era la terra di sua nonna Elisabetta, qui veniva da bambino a passare l’estate; poi ci passò gli anni della guerra, quando la sua famiglia era sfollata da Milano per i bombardamenti. Qui, a Castel Cerreto, che è una frazione agricola di Treviglio, arruolò tutti gli attori dell’«Albero degli zoccoli», recitato interamente da contadini perché doveva essere il più vero possibile. La cascina utilizzata per le riprese si chiama Roggia Sale ed è invece a Palosco, un po’ più a est, nella Bassa Bergamasca orientale. Olmi la trovò per caso, una sera in cui si era perso nella nebbia fra i tratturi di campagna: «D’un tratto imboccai per sbaglio un sentiero e mi trovai di fronte una cascina che era esattamente come la casa della mia infanzia. Avevo 46 anni e scoppiai a piangere».

Si sentiva figlio di quella terra e fare «L’albero degli zoccoli» fu per lui come fare il ritratto di una madre che non c’è più, cercandola nel profondo della memoria. Lo volle parlato in bergamasco, e gli obiettarono che non si sarebbe capito. Invece, il film stregò anche la giuria internazionale di Cannes, che nel 1978 gli assegnò la Palma d’oro. Fu come il segno di una svolta: alle soglie del Duemila ci si accorse che il mondo contadino era depositario di una cultura millenaria che non doveva andare dispersa. «Ho cercato di riscoprire», spiegò il regista anni dopo, «i tratti di una genitrice che ci ha protetti e che continuerà a proteggerci: la terra».

Ci trovammo così a fare i conti con le nostre radici: l’Italia di fine Ottocento, la cascina del Batistì dove vivevano quattro o cinque famiglie; con le bestie, gli alberi e gli attrezzi che appartenevano a un padrone cui spettava la maggior parte del raccolto. Un’Italia povera, ma non disperata. «Insomma, un’altra bocca da sfamare», dice il Batistì alla moglie che ha appena partorito il terzo figlio. «Ma no», risponde lei, «non dovete preoccuparvi. Va rigurdì cusa va disìa la pora òsta màma? Quando viene al mondo un bel bambino, la Provvidenza gli dà il suo fagottino».

Un mondo in cui la dignità personale non coincideva con l’avere, né con il successo, e neppure con la salute, la bellezza o la giovinezza. «No bambini, non va bene ridere», dice la mamma ai figli che scherzano lo scemo del villaggio entrato in casa a chiedere un pezzo di pane, «quei poveretti lì, che non hanno niente dalla vita, sono quelli più vicini al Signore». Un mondo in cui l’amore era una cosa delicata: «Volevo sapere se potevo salutarvi, mi farebbe piacere darvi almeno la buonasera», è il primo approccio di Stefano a Maddalena, che risponde: «Se è solo per quello, non c’è niente di male». Al secondo incontro lui confessa: «Volevo cercarvi un bacio»; e lei risponde: «Queste sono cose che bisogna aspettare il suo tempo».

La cascina Roggia Sale di Palosco è stata abbattuta una decina d’anni fa ed è stata ricostruita. Castel Cerreto invece è rimasto un centro agricolo. C’è ancora la cascina del vero Batistì, cioè del contadino-attore, che a metà degli anni Novanta sciaguratamente si prestò per una parodia hard che si chiamava «L’albero delle zoccole» (sembra una barzelletta sporca ma purtroppo è vero), cosa che la sua comunità non gli ha perdonato. La cascina del Batistì si chiama Corte di Sotto, è stata ristrutturata dalla Fondazione Istituti Educativi di Bergamo e ospita una fraternità di famiglie numerose. A pochi metri di distanza, separata da una via intitolata ai «Probi Contadini», c’è la Corte di Sopra, un’altra vecchia cascina – è del 1773 – che è stata rimessa a nuovo, ma rispettando le antiche caratteristiche, dalla Fondazione della Cassa Rurale di Treviglio, e ospita ventidue famiglie con affitti popolari. Ritorna e non solo qui a Castel Cerreto, ma in tanta parte della Bassa Bergamasca – la consuetudine di vivere in cascina tra famiglie diverse, vecchi e giovani tutti insieme. Come nelle sere degli inverni di allora, quando ci si trovava tutti nella stalla perché c’era il tepore degli animali, e prima del rosario i più anziani raccontavano ai bambini storie antiche di campagna che facevano un po’ paura.

È una delle inaspettate rivincite che si sta prendendo il mondo dell’albero degli zoccoli, che sembrava, quando uscì il film, destinato a sopravvivere solo nei ricordi. Torna invece il vivere in cascina, e anche l’agricoltura è protagonista di un inatteso riscatto: «Da quando c’è la crisi», ci spiega un dirigente della Cassa Rurale di Treviglio, «le aziende agricole sono quelle che reggono meglio. Il loro margine di guadagno è sempre lo stesso, cioè basso, ma resta costante. Chi lavora la terra lega la sua economia a cose concrete, che non passano». In provincia di Bergamo le aziende agricole sono più di cinquemila; nella zona di influenza della Cassa Rurale di Treviglio più di duemila. Zootecnia da latte e da carne, granoturco, molta orticoltura che produce le insalate già pronte e lavate che troviamo al supermercato.

Eppure proprio questa terra che sta riscoprendo il passato sembra destinata a diventare anche uno dei punti strategici del nuovo Nord. In un Paese in cui le infrastrutture sono un punto dolente, il Trevigliese si appresta a svolgere un ruolo da snodo cruciale. L’anno prossimo sarà ultimata la Brebemi, autostrada che collegherà Brescia a Milano toccando tredici comuni della Bassa Bergamasca senza passare dal capoluogo, e quindi più velocemente rispetto all’A4 attuale. Tra poco partiranno i lavori anche per l’autostrada Treviglio-Bergamo, mentre un’altra grande e nuova strada che passerà più a nord, la Pedemontana, avrà una bretella parallela all’Adda che la collegherà con la Brebemi e con l’autostrada del sole. E poi la ferrovia ad alta velocità per Venezia: ci sono già lavori fra Treviglio e Pioltello. Grandi opere che vanno avanti con pochissime contestazioni, perché il territorio non è stato messo di fronte a un fatto compiuto ma è stato consultato, coinvolto, fatto partecipe. «Sono un ambientalista convinto ma debbo dire che l’impatto di questi lavori è stato davvero minimo e che si è fatto in modo di valorizzare la nostra agricoltura», dice Luigi Minuti, sindaco di Treviglio per tre mandati (dal 1988 al 2001) e ora consigliere comunale.

Minuti è una delle memorie storiche del Trevigliese, autore di molti libri di cultura locale. «L’albero degli zoccoli», racconta, «fu un film bellissimo, che esprimeva davvero l’atmosfera del tempo e il soffocante rapporto fra i contadini e i loro padroni, una situazione molto simile a quella della Russia zarista». A quelle generazioni di «padroni» apparteneva il Messagiù, lo spietato latifondista che alla fine del film caccia dalla cascina il Batistì, colpevole di aver tagliato un albero per ricavarne un paio di zoccoli da dare al figlioletto Minek che ogni mattina deve fare dodici chilometri a piedi per andare e tornare da scuola. «È un personaggio veramente esistito», spiega Minuti, «si chiamava Giuseppe Messaggi, nato nel 1870 e morto nel 1956. Era un grande possidente e da queste parti aveva il monopolio del vino. Un omone grande e grosso che si faceva portare in giro su una sedia gestatoria come il papa. In realtà non era cattivo, anzi fu generoso e alla fine lasciò tutto al Comune di Treviglio. Ma è l’immagine del padrone».

E fu per aiutare la povera gente vittima di tanti soprusi che nel 1893 un prete, monsignor Ambrogio Portaluppi, fondò la Cassa Rurale di Treviglio, di cui Olmi è socio onorario: «La nostra banca», dice Gianfranco Bonacina, l’attuale presidente, che è nato proprio a Castel Cerreto, «nacque appunto per dare ai tanti Batistì allora cacciati dai loro padroni la possibilità di diventare proprietari di una terra e di affrancarsi finalmente da una secolare condizione di sottomissione». Ancora oggi, la Cassa rurale di Treviglio ha come mandato quello di non pensare solo al profitto ma anche a dare una mano ai bisognosi, perché «ci si deve soccorrere a vicenda a questo mondo», come dice una suora in una delle ultime scene del film.

«Cercate di volervi sempre bene», dice don Carlo quando celebra il matrimonio di Stefano e Maddalena, «perché non c’è denaro al mondo che può pagare l’amore di due persone. El paradìs, regurdès, al cumìncia de l’amùr che saremo capaci di volerci noi qui sulla terra». Immagini e ricordi di un mondo lontano, che ci fanno pensare a quanto abbiamo guadagnato, rispetto a quei tempi, e a quanto abbiamo perduto.

La Stampa 23.07.12

"La diga della BCE", di Andrea Bonanni

Può capitare che i falchi, quando esagerano, diventino avvoltoi. È successo ieri con il ministro tedesco dell’Economia, Philipp Roesler, che ha confermato e rafforzato le voci su un’imminente uscita della Grecia dall’euro. Roesler è un esponente del Partito liberale, alleato della Merkel e portavoce dell’ala oltranzista del governo tedesco in materia di politica monetaria. Le sue dichiarazioni riprendevano voci riportate dalla stampa di Berlino sull’intenzione del Fondo monetario internazionale di non rinnovare il prestito ad Atene. Le parole del ministro tedesco accelerano l’agonia della Grecia. La Troika arriverà solo domani ad Atene per valutare la situazione e discutere le proroghe chieste dal governo greco. Ma già si sa che gli ennesimi ritardi nel risanamento colpevolmente accumulati durante la doppia campagna elettorale difficilmente potranno essere colmati. E proprio l’altro ieri la Bce ha rifiutato di accettare i titoli greci come collaterale a garanzia di finanziamenti alle banche. Forse Roesler ha pensato di inserirsi nel braccio di ferro in corso tra Atene, che chiede nuove proroghe, e Bruxelles, che non le vuole concedere. Ma di fatto il suo intervento intempestivo contribuisce a spingere la Grecia fuori dalla moneta unica e dà un altro colpo di vanga alla fossa che in molti stanno scavando per l’euro.
Il problema è che l’Unione monetaria è arrivata alla battaglia finale. E la possibilità che possa perdere per strada pezzi minori, come la Grecia, sembra quasi secondaria rispetto al rischio di un naufragio collettivo che ormai incombe su tutte le capitali. Di fronte a questo rischio, la Banca centrale europea appare ormai come l’ultimo baluardo difensivo e il suo presidente, Mario Draghi, come l’unico generale in grado di guidare e rianimare un esercito logoro e sfiduciato di leader nazionali
che hanno inanellato una sconfitta dietro l’altra.
Nella sua più recente intervista, pubblicata ieri sul nostro giornale, Draghi lascia capire che la Bce è pronta ad intervenire «senza tabù» in difesa della moneta unica. Si tratta sicuramente di un avvertimento lanciato ai mercati sul fatto che un eventuale attacco al cuore dell’Eurozona è comunque destinato a fallire e che «l’euro è irreversibile». Ma il problema è di capire di quali strumenti disponga la Banca centrale e, soprattutto, quanto grande sia il margine di manovra di Draghi nel farvi ricorso.
Gli strumenti, almeno quelli utilizzati fino ad ora, sono di due tipi. Il primo è un intervento diretto sul mercato secondario dei titoli di Stato per acquistare bond dei Paesi sotto attacco. Il secondo è una nuova iniezione di liquidità alle banche per consentire loro di acquistare titoli sul mercato e ridurre in questo modo lo spread.
Il primo strumento, l’intervento diretto
sul mercato, è stato utilizzato anche dal predecessore di Draghi, Jean-Claude Trichet. Il problema è che la Bce, teoricamente, può fare solo interventi limitati e destinati a normalizzare le condizioni del mercato, mentre non può finanziare direttamente il debito pubblico di uno stato membro. Evidentemente la distinzione tra le due fattispecie è sottile e lascia ampio margine di interpretazione al board della Banca centrale. Che però su questo tema non è unanime. In passato gli acquisti sul mercato secondario si sono scontrati con una dura opposizione dei rappresentanti tedeschi che ha portato alle dimissioni in rapida successione di due di loro. E alla fine l’Istituto di Francoforte ha dovuto sospendere questo tipo di operazioni.
Il secondo strumento, la concessione di finanziamenti illimitati alle banche ad un tasso vantaggioso, ha già consentito a inizio anno di salvare la zona euro da una crisi del sistema bancario che l’avrebbe travolta. Tuttavia i suoi effetti sulla riduzione degli spread sono limitati da due fattori. Il primo è che la Bce, evidentemente, non può dire alle banche come utilizzare il denaro che viene loro prestato. Il secondo è che la logica delle agenzie di rating finisce con il penalizzare le banche che hanno acquistato titoli considerati a rischio perché estende agli istituti che posseggono tali titoli ogni taglio sul rating sei titoli stessi. La conseguenza è che le banche prendono denaro dalla Bce ma poi preferiscono investirlo in titoli più sicuri anche se meno redditizi, e dunque l’effetto calmiere ne risulta assai ridotto.
E’ quindi ragionevole immaginare che Draghi pensi piuttosto a riprendere interventi del primo tipo, con un acquisto diretto di titoli da parte della Banca centrale. A favore di questa tesi c’è il fatto che in agosto, con i mercati poco attivi, bastano interventi relativamente limitati per determinare forti fluttuazioni dello spread e dunque contare eventuali manovre speculative.
Tuttavia, anche su questo fronte, il presidente della Bce dovrà fare i conti con le forti resistenze interne. Non è un caso che ieri, nella sua infelice intervista, il ministro tedesco si sia scagliato contro ogni ipotesi di acquisto di titoli spagnoli da parte della Banca centrale. «Giù le mani dalla Bce», ammonisce Roesler. Un modo per dire che le mani, sulla Bce, se le vogliono tenere saldamente i falchi tedeschi, che con i loro veti si stanno sempre più trasformando in avvoltoi della moneta unica.

La Repubblica 23.07.12

Utoya un anno dopo. Premier: «Breivik ha fallito», da unita.it

Il killer «ha fallito, il popolo ha vinto». Il primo ministro norvegese Jens Stoltenberg ha aperto con questa frase la cerimonia di commemorativa dell’anniversario della strage di Oslo e Utoya dove 77 persone morirono per mano dell’estremista di destra Anders Behring Breivik. «La bomba e e le pallottole volevano cambiare la Norvegia. Ma il popolo norvegese ha risposto tenendo fede più che mai ai propri valori. Il killer ha fallito, il popolo ha vinto», ha detto Stoltenberg a Oslo.

Sarà un tuffo nell’orrore per ogni norvegese la commemorazione delle stragi di Oslo e Utoya che lunedì, ad un anno esatto di distanza, il Paese scandinavo ha deciso di dedicare alle vittime dell’estremista di destra Anders Behring Breivik. Sarà una nuova dolorosa immersione nell’attacco più sanguinoso al cuore della Norvegia (la sua capitale e la sua gioventù) dalla fine della Seconda Guerra mondiale, ma sarà anche un’occasione per fare i conti con se stessa e con la sua concezione della democrazia.

Un anno fa Breivik, 32 anni, cresciuto in solitudine nell’odio contro l’altro – soprattutto se l’altro è musulmano – deciso a impedire che «nel giro di pochi anni non vi fosse più una sola ragazza norvegese bionda» come lui stesso ha detto al processo terminato il 24 giugno, piazzò 950 kg di esplosivo davanti al palazzo del governo nel pieno centro di Oslo. Poi, accertatosi che i suoi obiettivi più ambiziosi si erano salvati, nonostante la morte di otto passanti e il ferimento di altre decine, si rivolse verso il secondo target della sua impresa bellica: l’isola di Utoya che ospitava in quei giorni 600 giovani laburisti. Mentre Breivik si armava di mitra e sventagliava all’impazzata contro chiunque si trovasse sulla sua strada, sul suo sito internet 1.500 pagine di deliranti proposizioni a sfondo nazista e razzista facevano il giro del mondo. Sull’isola, circondata dalle cupe acque del nord tra scogli e anfratti, Breivik stanò decine di ‘marxistì. Sessantanove morti e centinaia di feriti è il bilancio del massacro, un decimo dei presenti. Poi freddo, pallido, il sorriso beffardo perennemente stampato sul viso, si fece platealmente arrestare. Di lui, il mondo ricevette l’immagine di uno dei molti killer solitari che, come oggi a Denver, può annidarsi ovunque, un cinema scintillante per una prima, o una cameretta da ragazzo con la porta sempre chiusa.

Del resto il giallista Jo Nesbo è arrivato a paragonare la sua Oslo ad una Gotham City scandinava. In questo anno la stampa norvegese si è occupata molto di Breivik e del suo comportamento al processo iniziato il 16 aprile, soprattutto per dar conto del dilemma relativo alla sanità mentale dell’assassino: l’uomo che, vestito di nero, alza il pugno al cielo e esclama «L’ho fatto per voi, sono sano e non sono pentito», è pazzo o no? La sentenza è prevista per il 24 agosto, ma ciò che agita ora il dibattito nel Paese è sapere se la Norvegia del dopo Breivik è cambiata, se è spaventata come all’indomani della strage, se si è fatta sedurre da pensieri e da atteggiamenti di chiusura e intransigenza. O se – come disse subito il primo ministro Jens Stoltemberg: «Reagiremo con più democrazia e umanità» – la parola d’ordine resterà ‘aperturà. Bjoern Ihler, un giovane laburista sopravvissuto, ha detto alla France Presse che anche «gli estremisti devono avere voce in capitolo per evitare che si rifugino nella clandestinità…dopo gli attacchi avevano promesso maggiore apertura, e quindi ciascuno dovrà poter esprimere le proprie idee, anche se estreme… Chi lo pensa può anche criticare l’immigrazione senza per forza essere associato alle stragi del 22 luglio».

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