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"Coppie gay, in cosa consiste il «modello tedesco»", di Andrea Carugati

Dopo tanto rumore, tensioni, liti, contestazioni, rivalità (anche in seno alla comunità omosessuale dentro il Pd), dunque i democratici si avviano verso il modello tedesco per le unioni gay. Guardandoci dentro si capisce che, pur non essendo un matrimonio, si tratta di uno dei modelli più avanzati in Europa. Non a caso Paola Concia, una delle deputate Pd più attive sulla questione, si è “sposata” la scorsa estate in Germania con Riccarda usufruendo di questo istituto, che ha consentito alla compagna di prendere il cognome Concia e di vederselo registrato anche sul passaporto. Dopo aver partecipato a una cerimonia davanti a un pubblico ufficiale, con amici e parenti, in cui le due partner hanno pronunciato il fatidico “sì”.
Bersani ha annunciato questa posizione mercoledì scorso alla festa dell’Unità di Roma, e subito sono seguite prese di posizioni favorevoli da tutte le anime del Pd, dalla Concia a Beppe Fioroni. «Credo che il sistema tedesco possa aiutarci a trovare una soluzione condivisa, perché circoscrive i soggetti a cui fa riferimento e, soprattutto, in undici anni ha avuto vari step evolutivi che possono offrirci una pluralità di approdi», ha spiegato l’ex ministro.

In Germania quell’istituto si chiama «Eingetragene Lebenspartnerschaft», è in vigore dall’agosto 2001, e si riferisce solo alle coppie omosessuali. Non equipara a tutti gli effetti la convivenza al matrimonio, ma applica ai conviventi disposizioni analoghe a quelle contenute nel codice civile tedesco per la disciplina del matrimonio.

I due soggetti coinvolti devono dichiarare reciprocamente, personalmente e in contemporanea, d’innanzi all’autorità competente, di voler condurre una convivenza a vita e hanno obbligo di assistenza e sostegno reciproco che persiste anche dopo eventuale separazione. La legge, inoltre, assicura pieno riconoscimento alla coppia dal punto di vista contributivo ed assistenziale, e conferisce gli stessi diritti del matrimonio in materia di cittadinanza. Inoltre, in caso di morte di uno dei partner, al convivente sono attribuiti i diritti successori, come la pensione di reversibilità, il diritto a subentrare nell’affitto e l’obbligo di soddisfare i debiti contratti dalla coppia. La legge tedesca (e anche su questo c’è una convergenza con il documento sui diritti votato sabato scorso dall’assemblea Pd) non riconosce ai conviventi il diritto di adozione congiunta. In una prima fase (fino al 2004) non permetteva neppure l’adozione dei figli del convivente. Una normativa, dunque, molto lontana dai Dico, la legge sui diritti conviventi (intesi come persone e non come coppia) su cui avevano lavorato le ministre Bindi e Pollastrini nel 2007 e che non ha mai visto la luce.

Perchè allora tanta tensione tra i democratici, con le tessere degli attivisti gay restituite nell’infuocata assemblea di sabato e le successive contestazioni a Rosy Bindi alla festa dell’Unità di Roma? Qui le ricostruzioni divergono. C’è chi accusa i militanti gay (e anche l’ala più laica del partito) di aver voluto strumentalizzare alla ricerca di visibilità. E chi, dal fronte opposto, accusa la presidente Bindi di aver gestito l’assemblea in modo «burocratico» e di aver voluto «forzare la mano» impedendo il voto sulle nozze gay. Bindi sostiene che il documento sui diritti partorito della commissione da lei presieduta «ha aperto la strada alla soluzione “alla tedesca” enunciata da Bersani». Dall’altro fronte Concia replica che invece l’uscita del segretario è servita a «rendere più chiara e più avanzata la proposta del partito, come avevano chiesto oltre 200 delegati con il documento Cuperlo, superando le ambiguità del testo Bindi». Vero è che nessuno dei documenti si avventurava sul terreno dei modelli legislativi. E che il Pd, con quella bagarre di sabato, «non ha saputo valorizzare, anche all’esterno, il grande passo avanti culturale che abbiamo fatto tutti insieme decidendo di dare riconoscimento a tutte le coppie», come dice Ivan Scalfarotto, che ritiene «eccellente» la soluzione alla tedesca e difende il lavoro del comitato: «Io combatterò sempre per le nozze, ma in quella sede abbiamo fatto un grande lavoro, il Pd ha saputo evolvere».

Ora sarà la direzione, convocata ad hoc per settembre, a ratificare la posizione definitiva. «Il sistema tedesco va studiato per bene, e adeguato alla nostra Costituzione», dice Bindi. «Per me resta un paletto: non si tratta di matrimonio». E la Concia sorride: «Se vogliono un ripasso su quel sistema mia moglie Riccarda è disponibile…».

l’Unità 22.07.12

Il posto fisso è un miraggio Bankitalia: "Buste paga al palo", da repubblica.it

In Italia il posto fisso è sempre più un miraggio, ormai meno di due assunzioni su dieci sono a tempo indeterminato. E’ quanto emerge dall’Indagine Excelsior di Unioncamere e Ministero del Lavoro sul terzo trimestre del 2012. Nel periodo luglio-settembre le assunzioni stabili previste sono appena il 19,8% su un totale di quasi 159 mila. Le cattive notizie poi non finiscono qui. Secondo la relazione annuale di Bankitalia, le busta paga dei dipendenti sono al palo. Le retribuzioni medie reali nette, dal 2000 al 2010, sono infatti aumentate solo di 29 euro, passando da 1.410 a 1.439 euro (+2%). Risultati su cui pesa, ovviamente, la crisi economica e gli interventi che hanno toccato in particolare gli statali. Su cui, per il momento, sembra tuttavia scampato il pericolo di un taglio delle tredicesime.

Dai dati emerge inoltre che il gap tra centro-nord e sud-isole non arresta la sua corsa: l’incremento è stato del 2,5% contro lo 0,7%. In termini reali al centro-nord si è passati da 1.466 euro del 2000 a 1.503 euro del 2010, con un aumento di 64 euro; mentre nel mezzogiorno le retribuzioni passano da 1.267 euro a 1.276 euro, con una crescita di soli 9 euro. Rispetto alla media nazionale le retribuzioni si attestano a un +4% per i lavoratori del centro-nord e -10,1% per quelli di sud e isole, mentre 10 anni dopo di arriva a +4,4% e -11,3%.

I grafici mostrano anche gli effetti negativi che la crisi ha avuto sulle retribuzioni; secondo le rilevazioni condotte con cadenza biennale emerge che nel 2006 le retribuzioni medie arrivavano a 1.489 euro, due anni dopo (con l’inizio della crisi) erano scese a 1.442 euro, e nel 2010 la situazione era ulteriormente peggiorata, arrivando a 1.439 euro. La riduzione in termini reali, in quattro anni, è stata di 50 euro (-3,3%).

In generale la crisi ha influito sulle buste paga di tutti i lavoratori dello stivale: nel centro-nord del paese la riduzione è stata di 46 euro (-2,9%), mentre nel sud e isole il taglio è stato di 56 euro (-4,2%). Le differenze restano notevoli anche tra i due sessi; con gli uomini che sono passati da 1.539 euro a 1.586 euro (+47 euro), e le donne, che partivano da 1.220 euro e sono arrivate e 1.253 euro (+35 euro).

Tra il 2008 e il 2010 le retribuzioni reali mensili pro capite dei lavoratori a tempo pieno, al netto di imposte e contributi sociali, spiega Bankitalia, sono cresciute dello 0,8% (2% per le donne). Nello stesso periodo la quota dei lavoratori a bassa retribuzione è salita di tre decimi di punto percentuale, al 9,4%. Palazzo Koch spiega che, proprio a causa dell’espansione del part-time, le retribuzioni nette medie per il totale dei lavoratori dipendenti sono diminuite dello 0,2%, riflettendo esclusivamente il calo del mezzogiorno.

www.repubblica.it

"1944, Rodi-Auschwitz ebrei italiani dalle rose all’inferno", di Umberto Gentiloni

Un lungo abbraccio, dopo sessantasette anni, un incontro inatteso, imprevisto, quasi incredibile. Sami Modiano e Moshe Cohen fanno parte del gruppo di sopravvissuti alla distruzione della comunità ebraica dell’isola di Rodi. Senza saperlo si danno appuntamento per celebrare l’anniversario della deportazione (23 luglio 1944). Faticano a riconoscersi, sopraffatti dalla lacrime e dal tempo che li separa dall’ultimo incontro a Roma nel 1945.

I loro destini non si erano più incrociati: Modiano, dopo alcuni anni trascorsi nel Congo belga, vive oggi tra Rodi e Ostia; Cohen aveva lasciato l’Italia per combattere volontario contro gli inglesi in Medio Oriente, e dopo un periodo in Israele si è trasferito in California. Si guardano intensamente, l’occhio cade sui numeri tatuati sull’avambraccio dai nazisti nella Sauna di Birkenau nell’estate del 1944: sono divisi da 150 cifre, nella sequenza che unisce i pochi scampati alla selezione sulla rampa della morte. Erano partiti dall’isola delle rose insieme, quando la macchina della deportazione nazista si era messa in moto. Ricordano a fatica, commossi e felici di incrociare il loro cammino. I racconti sfiorano gli sguardi dei turisti che popolano la città vecchia nei pressi della Giuderia, il vecchio quartiere ebraico.

È una storia secolare quella della comunità di cui sono parte: cominciata nel XVI secolo, si interrompe il 18 luglio di sessantotto anni fa. I capifamiglia vengono arrestati dai tedeschi, con il pretesto di un controllo dei documenti, e rinchiusi nella Kommandantur, già caserma dell’Aeronautica militare italiana. Il tempo di Rodi italiana, iniziato con la guerra del 1912, si era chiuso nel 1943 con il passaggio dell’isola sotto il controllo nazista. Ma lasciamo parlare Modiano: «Il giorno dopo, il 19 luglio, chiesero a tutti i familiari di fare un fagotto con i beni di prima necessità: cibo, vestiti e oggetti di valore. Cercavano soprattutto oro. In silenzio andammo anche noi verso la caserma, mio padre Giacobbe era già lì. Restammo chiusi per alcuni giorni».

All’alba del 23 luglio 1944 ha inizio il lungo viaggio verso la fine. I numeri sono incerti, mancano riferimenti anagrafici e ricostruzioni attendibili. Dopo un breve tratto di strada fino al porto, circa duemila persone vengono stipate in quattro o cinque chiatte adibite al trasporto di animali. Un viaggio per molti insopportabile. Una prima sosta all’isola di Kos per imbarcare altri nuclei familiari, poi rotta verso il Pireo. «All’improvviso la nostra adolescenza era finita del tutto», prosegue Modiano. «Già nel 1938 ero stato espulso dalla scuola italiana in seguito all’applicazione delle leggi razziali di Mussolini. Avevo un maestro bravissimo, lo ricordo ancora con nostalgia. Il viaggio fu davvero una marcia di avvicinamento verso l’inferno. Il caldo, gli odori, i bisogni e i primi cadaveri gettati in mare».

Ad Atene il trasferimento su un treno, per molti un oggetto sconosciuto e misterioso. L’arrivo ad Auschwitz il 16 agosto. Un mese di viaggio attraverso l’Europa nel vivo della fase decisiva dell’offensiva alleata al cuore del Terzo Reich. Ebrei italiani scovati e catturati in un’isola del Dodecaneso, a ridosso della costa turca, quando già Roma era in mano agli anglo-americani e la guerra di Hitler si stava trasformando in una sconfitta, una resa incondizionata. Eppure la macchina dello sterminio non si inceppa, non conosce ostacoli, prosegue il suo cammino di morte e terrore.

Anche il viaggio dei rodioti è senza ritorno. Poche decine i sopravvissuti: 31 uomini e 120 donne ce la fanno. Per tutti loro la dolorosa ricerca dei familiari e di una patria: Rodi passa alla Grecia nel 1947, i beni dell’antica comunità si popolano di nuovi inquilini. Il ritorno alla vita è lontano dall’isola. Diverse le mete: America, Australia, Argentina, Italia, Israele, Congo o Sud Africa. Rodi rimane nel cuore di tutti, come imperativo per non dimenticare, omaggio ai tanti sommersi che non ci sono più. «È un mondo che se n’è andato in fretta, eravamo migliaia e l’isola era un luogo fantastico. Quando cammino per queste stradine nel silenzio della sera lo rivivo con dolore. Eravamo ospitali e solidali. In pochi metri vivevano ebrei, musulmani e cristiani. Si parlava ladino (la nostra lingua), turco, italiano e greco. Se penso al paradiso non riesco a trovare un’immagine migliore».

Il tempo scorre impietoso. La stele di granito nella piazza Martiron Evreon (dei martiri ebrei) recita in sei lingue «Alla memoria eterna dei 1604 ebrei di Rodi e Kos sterminati nei campi di concentramento nazisti. 23 luglio 1944». L’antica sinagoga è a pochi passi, la comunità oggi non raggiunge le trenta unità. Modiano depone un sasso in memoria della sua famiglia e di tutti gli altri: «Sono tornato vivo da quell’orrore per tutti loro, per poter raccontare a chi è venuto dopo o non credeva, per non disperdere la loro voce e la loro memoria».

La Stampa 22.07.12

Diciamo BASTA alla violenza sulle donne

In Europa ogni giorno 7 donne vengono uccise dai loro partner. L’Italia, in Europa, ha questo drammatico primato: nel 2011 sono morte 127 donne ( il 6,7% in più rispetto al 2010) e nel 2012 fino al mese di giugno ci sono state già 63 vittime. Abbiamo il dovere di fermare questo massacro silenzioso.
Chiediamo al governo italiano:
1) di rafforzare le politiche, anche di carattere finanziario, per sostenere il lavoro dei centri antiviolenza, per promuovere campagne di sensibilizzazione, per dotarsi di strumenti di conoscenza del fenomeno e per la formazione degli operatori
2) di firmare quanto prima la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e il contrasto della violenza sulle donne e alla violenza domestica, e di permettere così al Parlamento di ratificarla.
La Convenzione di Istanbul prevede per la prima volta a livello internazionale misure di prevenzione, di tutela in sede giudizi aria, di sostegno alle donne vittime di violenza.
Per la prima volta, la violenza sulle donne è definita come una violazione dei diritti umani fondamentali e una forma di discriminazione da contrastare, raggiungendo l’obiettivo di un’eguaglianza di genere, di fatto e di diritto.
La Convenzione indica specifiche misure che gli Stati firmatari devono adottare per prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire gli autori dei reati. Sono previste, in particolare, azioni di prevenzione nel settore educativo e dell’informazione; sanzioni contro la violenza fisica, psicologica e sessuale, i matrimoni forzati, le mutilazioni genitali, lo stalking; strumenti di sostegno medico, psicologico e legale alle vittime; meccanismi di monitoraggio sulla piena attuazione della Convenzione.
Ad oggi, la Convenzione di Istanbul è già stata firmata da 21 paesi europei.
Nonostante il pronunciamento favorevole del Parlamento, l’Italia non ha ancora aderito alla Convenzione: è ora che lo faccia. Nonostante il lavoro di tante associazioni, enti locali, operatori ed operatrici, le politiche fin qui attuate rischiano di non riuscire ad affrontare un fenomeno tanto pervasivo: è ora di
rilanciare una strategia complessiva. I diritti, la dignità e il rispetto delle donne non possono più attendere.
Le donne democratiche

www.partitodemocratico.it

"Rischio Italia Monti acceleri", di Paolo Guerrieri

È stato un venerdì nero per la moneta europea, col crollo verticale delle Borse, gli spread alle stelle, gli investitori esteri e europei che hanno accelerato il loro esodo dalla zona euro. La Spagna, in particolare, ha vissuto una delle peggiori giornate sui mercati finanziari negli ultimi anni e ora rischia di finire commissariata, trascinando con sé anche l’Italia.
E sì che il tanto temuto mese di agosto deve ancora cominciare. Il commento più diffuso è stato che questa tempesta di vendite sia avvenuta nonostante il varo da parte dell’Eurogruppo del piano di salvataggio, fino a 100 miliardi di euro, per le banche spagnole. In realtà, è proprio questa decisione che può aver provocato il tonfo delle Borse e dei mercati dei titoli spagnoli e italiani, in quanto ha vanificato le residue speranze degli investitori in decisioni più efficaci e coraggiose da parte dei paesi della eurozona. Va ricordato come il summit europeo di fine giugno avesse illuso molti – e per un po’ anche i mercati – che le misure varate fossero finalmente il riconoscimento da parte dell’Europa della natura sistemica della crisi dell’euro. Quest’ultima non era dunque imputabile solo agli eccessi di debito e spesa dei Paesi della periferia meridionale. Quanto avvenuto nelle ultime due settimane e alla riunione dell’Eurogruppo dell’altro ieri, ha ridimensionato fortemente la portata di quelle decisioni, sia in riferimento agli aiuti diretti alle banche sia allo strumento cosiddetto salva spread. Anche le posizioni di molti Paesi, tra cui la Germania, a favore di una soluzione a lungo termine in chiave di più integrazione dell’Europa (sul piano fiscale, bancario e anche politico), al centro del Rapporto che sta coordinando il Presidente del Consiglio Europeo Van Rompuy, rischiano di rimanere vuote promesse, ponendosi in aperto contrasto con scelte di breve periodo, tardive e insufficienti, quali quelle effettuate ieri l’altro. Il risultato è che l’Eurogruppo continua a non avere una strategia efficace e coerente per contrastare la crisi, al di là delle fallimentari politiche di austerità fin qui perseguite.
Una prima seria conseguenza riguarda la Spagna, una delle quattro grandi economie dell’Eurozona. Alla luce degli andamenti più recenti potrebbe non bastare più l’intervento a favore delle banche spagnole. È infatti probabile che a questi tassi (7%) il governo di Madrid finirà per perdere l’accesso al mercato dei capitali e in assenza di una rete di salvaguardia di liquidità europea (il meccanismo salva spread) si vedrà costretto a ricorrere ai finanziamenti e alle cure dell’Eurogruppo, al pari di quanto avvenuto per la Grecia, il Portogallo e l’Irlanda. Serviranno a questo scopo molto di più dei 100 miliardi già stanziati, ponendo problemi seri alle finanze del nuovo fondo Salva stati (ESM), peraltro fino al 12 settembre ancora sotto scrutinio della Corte costituzionale tedesca. A quel punto, è evidente che problemi altrettanto seri si porranno per l’Italia, come si è già visto lo scorso venerdì con l’impennata degli spread e dei tassi di interesse dei nostri titoli. Si dice spesso che l’Italia ha fondamentali più robusti e solidi di Madrid. È vero. Ma se la Spagna dovesse finire col chiedere aiuto all’Europa, tutto ciò difficilmente potrà evitarci l’effetto contagio e la firma, anche da parte nostra, di un vessatorio protocollo di assistenza. Oltre a vantare il terzo più elevato stock di debito nel mondo, il nostro Paese condivide oggi con la Spagna quella camicia di forza, impostale dalla cura dell’Eurogruppo e della Germania, in particolare, chiamata trappola dell’austerità. È un circolo vizioso in cui una volta entrati si rischia un peggioramento del deficit e dello stock di debito pubblici a causa degli effetti recessivi indotti dalle politiche di austerità, così da vanificare larga parte dei potenziali miglioramenti legati a queste stesse politiche. A quel punto lo spread può aumentare senza sosta, imponendo nuove misure restrittive e chiudendo il circolo vizioso. La drammatica deriva greca – che minaccia da vicino l’economia spagnola – al di là delle peculiarità del Paese è nata proprio così. Tanto più che la recessione si prolungherà in Spagna e Italia anche per tutto il 2013 e non si scorgono per ora segnali a medio termine di miglioramento, al di là di vaghi e confusi auspici.
È necessario un grande sforzo da parte di tutti nei prossimi mesi per scongiurare la drammatica eventualità di un drastico peggioramento delle condizioni economiche e un commissariamento del nostro Paese. A cominciare, in primo luogo, dal governo, che può e deve fare di più per fronteggiare l’attuale fase di emergenza. In primo luogo sul fronte europeo, dal momento che non possiamo salvarci da soli. Va dunque intensificata la pressione sugli alti Paesi, a partire dalla Germania, perché venga perseguita con più forza e in varie direzioni l’obiettivo dichiarato da tutti di una maggiore integrazione, cercando di valorizzare l’originario contenuto dei due provvedimenti varati nel summit di fine giugno – aiuto diretto alle banche e fondo salva spread – che sono per noi fondamentali, pur se per ragioni diverse.
Poi c’è il fronte interno. È giusto preoccuparsi dei futuri assetti istituzionali e dei programmi di qui alle elezioni. Ma ancor di più lo è un cambio di passo nell’azione del governo, che sia diretta, da un lato, a fronteggiare il crollo del mercato interno e il rilancio di meccanismi di crescita, con misure in grado di agire a sostegno contemporaneamente della domanda e dell’offerta. Bisogna dall’altro pensare a come affiancare al percorso programmato di aggiustamento e consolidamento fiscale un piano straordinario di rientro dal nostro debito, più consistente e accelerato di quanto fin qui ventilato. Le varianti sono più d’una e di fronte all’aggravarsi della situazione va mantenuto un ampio portafoglio di opzioni. Tanto più che l’eventualità che l’Europa lasci i Paesi a fronteggiare da soli il mare in tempesta dei mercati è purtroppo molto concreta e il tempo a disposizione per prepararsi è davvero poco.

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L’Unità 22.07.12

"Gli esiti Invalsi e il divario nord-sud, che si divarica sempre di più", di Pasquale Almirante

Perché nella primaria non si notano grandi differenze di preparazione fra i bambini italiani ma che invece si presenta sinistra e preoccupante dalla secondaria di primo grado in poi? Il sottosegretario all’Istruzione, Elena Ugolini, ha detto che le prove Invalsi servono per conoscersi meglio e meglio capire dove intervenire e come intervenire tra i complessi meandri del nel nostro sistema di istruzione: una mappatura insomma dello stato della scuola italiana e delle sue condizioni di salute, senza la quale si rischia di navigare a vista e di scontrarsi con imprevisti non ponderati.
Le prove Invalsi quindi escono dall’indeterminato della polemica e trovano applicazione, se non altro di dialogo e di analisi che però nel contesto relativo al rapporto sulla rilevazione degli apprendimenti pubblicati dal Miur il 20 luglio scorso interessa poco esaminare. Interessante invece appare il dato che esse hanno messo in evidenza, il divario cioè Nord-Sud all’interno della scuola nazionale.
“In particolare”, dice il rapporto del ministero, “i risultati sottolineano come i divari geografici tendano ad aumentare nei diversi livelli d’istruzione. Divengono cioè sempre più consistenti al crescere dell’età degli studenti. Rimane ancora consistente lo svantaggio del Sud, e in parte del Centro, rispetto al Nord per quanto riguarda la scuola secondaria di secondo grado. In termini percentuali, il divario supera di 12 punti la media per quanto riguarda l’Italiano e gli 11 per la Matematica. In particolare, la distanza tra Nord, Centro e Sud, inizia con la scuola secondaria di primo grado.”
Un comunicato quello del Miur comprensibilmente asettico e senza nessun commento o tentativo di spiegazione delle causa di tanta frattura, né di ricerca di responsabilità. Compiti questi che però si assumeranno i giornali, alla ricerca, che è coerente col loro ruolo, sia dei motivi di tale preoccupante disomogeneità di punteggi registrata nella secondaria di secondo grado e sia dei soggetti fisici, o immaginari, cui addebitare la colpa, visto che di colpa si tratta se i livelli di istruzione sono così distanti fra di loro.
Inoltre, di fronte a una edizione non commentata prescindendo dei freddi numeri, ciascun lettore si farà una sua personalissima opinione che darà il via ai consueti attacchi, strumentali per lo più, ora contro i professori meridionali, neghittosi e impreparati, ora contro gli alunni, strafottenti e ignoranti, ora contro la ben nota sonnolente pigrizia dei popoli sudisti, piagnoni e furbi e adusi a ottenere il massimo col minimo sforzo tant’è, dirà il solito politico nordista, che agli esami di stato vengono dal sud le percentuali di voti migliori a fronte di tanta scientifica e dimostrata debacle culturale.
Non siamo sociologi, ma appena letto il comunicato pubblicato da Miur, non abbiamo fatto altro che cercare all’interno del nostro portale alcune delle più recente pubblicazioni relative ai sondaggi Istat e no sulle condizioni di povertà, di lavoro, di abbandoni e di dispersione tra il nord e il sud, per dire, cercando di dimostrarlo, che la frattura non riguarda solo i livelli di preparazione scolastica ma anche di lavoro e di vivibilità, di reddito e spesa per cultura.
Ecco qualche assaggio:
A fronte della stabilità della povertà relativa al Nord e al Centro, nel Mezzogiorno si osserva un aumento dell’intensità della povertà relativa: dal 21,5% al 22,3%. In questa ripartizione la spesa media equivalente delle famiglie povere si attesta a 785,94 euro, contro gli 827,43 e 808,72 euro del Nord e del Centro.
Per quanto riguarda l’istruzione, la quota di spesa varia da un massimo del 2,0% in Basilicata ad un minimo dello 0,6% in Campania”.
La Campania è in vetta alla classifica come fondi erogati perché la divisione delle risorse viene effettuata in base alla percentuale di famiglie con un reddito inferiore ai 15mila euro, che nella Regione superano il 21%.
114 mila tra i 14 e i 17 anni abbandonano la scuola ogni anno, oltre il 20% in Campania
Nel 2010 la quota 15-29 che non lavorano e non studiano rimane decisamente più alta nel Mezzogiorno: al Sud l’incidenza del fenomeno raggiunge infatti il 30,9 per cento
E infatti, se nella scuola primaria, come dimostra l’esito delle prove Invalsi, non si notano grandi differenza di preparazione fra Nord, Centro e Sud un motivo ci deve pur essere e che non è certamente rintracciabile nella maggiore dedizione o preparazione dei maestri, oppure nella meno propensione di bambini alla strafottenza e neghittoseria.
Un pedagogista direbbe che a quell’età, l’età della primaria, le differenze di classe si colgono poco e poco si avverte il disagio economico della famiglia, né si costringe o si avverte l’esigenza spesso forte di cercare un lavoro, anche in nero, per tamponare pericolose falle di sopravvivenza.
E’ con la pubertà che il raffronto col mondo esterno diventa più conflittuale e dal mondo esterno si cercano risposte che le famiglie più povere e disagiate non riesce spesso a dare, quando non c’è dove pescare perfino l’euro per i libri.
E guarda caso la frattura tra Nord e sud nel nostro sistema di istruzione inizia proprio dalla secondaria di secondo grado e per alzarsi via via sempre più.

La Tecnica della scuola 22.07.12

"Nuovi contratti al via. Effetto Marchionne sui metalmeccanici", di Giuseppe Vespo

La campagna è stata inaugurata dai ferrovieri: dal primo settembre in novantamila si ritroveranno con un nuovo contratto che, tra le altre cose, allunga la settimana di lavoro da 36 a 38 ore, mentre i cugini di città, gli autoferrotranvieri, non riescono ancora a riscrivere la loro parte del cosiddetto contratto unico della Mobilità. Da domani la stagione dei rinnovi dei contratti nazionali di categoria prende vita con uno dei confronti più aspri, quello dei circa due milioni di metalmeccanici. Per la prima volta, lamenta la Fiom, Federmeccanica si riunirà solo con Fim e Uilm per riscrivere le regole delle tute blu che scadono a dicembre. Fuori dalla sede di Confindustria, l’organizzazione guidata da Maurizio Landini terrà un presidio di protesta che si ripeterà davanti alle sedi locali degli Industriali. Per l’occasione i lavoratori incroceranno le braccia.
ACCORDO VIOLATO La Fiom punta il dito contro Federmeccanica, che ha invitato i metalmeccanici Cgil a un confronto separato. Invito respinto al mittente, con tanto di accusa di discriminazione: secondo le tute blu Cgil, gli industriali guidati da Pierluigi Ceccardi stanno violando l’accordo confederale del 28 giugno 2011. Ovvero l’intesa siglata da Cgil, Cisl e Uil e da Confindustria, che stabilisce la centralità del contratto nazionale e le regole della rappresentanza sindacale. Venirne meno, sostiene Landini «è un attacco alla democrazia che non ha precedenti nel nostro Paese. Siamo a rischio concreto che Federmeccanica faccia accordo con associazioni minoritarie per poi estenderlo a tutti». Per il sindacalista è la riproposizione del modello Marchionne: «La Fiat, pur uscendo da Confindustria, sta dettando la linea a Federmeccanica». Il problema è che le tute blu hanno attualmente in vigore due contratti: quello unitario del 2008, al quale fa riferimento la Fiom, e quello separato del 2009, firmato da Fim, Uilm e Federmeccanica, dopo la riforma del sistema contrattuale voluta tre anni fa da Confindustria, Cisl e Uil, e non accettata dalla Cgil. L’intesa del 28 giugno 2011 poteva rappresentare una spinta al superamento dello strappo del 2009. Ma non è andata così. Federmeccanica non ritiene di discriminare la Fiom: «Non esiste alcuna violazione dell’accordo interconfederale 28 giugno 2011». Gli industriali auspicano la «partecipazione al tavolo contrattuale anche della Fiom», ma prima chiedono a Landini di «condividere l’oggetto della trattativa, ovvero il rinnovo del contratto del 2009». Cosa che non succederà mai. In questa impasse pochi giorni fa si è inserita la Cgil. Corso Italia, come chiarisce la segretaria confederale Elena Lattuada, ha chiesto al presidente di Confindustria Giorgio Squinzi di intervenire su Federmeccanica e di far rispettare l’accordo interconfederale del 28 giugno, che impegna sindacati e Confindustria alla «certificazione degli iscritti delle singole organizzazioni e dei risultati delle elezioni delle rsu, individuando nel cinque per cento la soglia minima di legittimazione a negoziare». Sulla base di questi criteri, la Fiom ha diritto a sedere al tavolo. Insieme a quello delle tute blu, entro il prossimo dicembre sono 197 (su 262 complessivi) i contratti in scadenza e quindi da riscrivere. Interessano oltre 14 milioni di lavoratori, che sperano di ottenere maggiori tutele e un incremento delle buste paga che tamponi un po’ il caro-vita. Alle ultime tornate, nonostante la riforma contrattuale non firmata nel 2009 dalla Cgil, la maggior parte delle categorie è riuscita a superare le divergenze di Camusso, Bonanni e Angeletti. Tolte le tute blu e il commercio, che scadrà solo nel 2013 (l’ultimo rinnovo non è stato firmato dalla Filcams-Cgil), gli altri settori vengono tutti da accordi unitari. Così è stato per i quasi tre milioni di edili, i quasi due milioni di tessili e chimici e quelli dell’agroindustria. Dal conteggio resta fuori anche il pubblico impiego, dove il blocco del rinnovo dei contratti voluto dal tandem Brunetta-Tremonti è stato confermato da questo governo, che ha ulteriormente inasprito le condizioni di lavoro degli statali con le misure previste dalla spending review, la revisione della spesa.
SANITÀED ENTI LOCALI Accade per esempio ai circa 1,8 milioni di dipendenti della sanità e degli enti locali, due delle categorie degli statali più colpite dai tagli. «Con il blocco dei contratti ricorda Giovanni Torluccio, segretario generale Uil-Fpl il potere d’acquisto dei dipendenti pubblici si è eroso del trenta per cento. Adesso la revisione della spesa pubblica peggiora la situazione, determinando oltretutto la riduzione del personale e quindi anche della qualità di alcuni servizi fondamentali per il cittadino. Come i pronto soccorso o le sale operatorie». Per questo martedì Cgil e Uil manifesteranno con l’Anci, mentre il giorno dopo saranno ricevute, insieme alla Cisl, dal ministro Patroni Griffi. È probabile che a settembre gli statali di Cgil e Uil indiranno lo sciopero del pubblico impiego. Anche loro avrebbero diritto al rinnovo dei contratti, che probabilmente non arriverà prima del 2014.

L’Unità 22.07.12