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"Dieci grandi città a rischio crac", di Paolo Baroni

In cima alla “lista nera” i capoluoghi di Campania e Sicilia. Boom di commissariamenti negli ultimi due anni

Ci sono dieci grandi città italiane con più di 50 mila abitanti che sono ad un passo dal crac. Napoli e Palermo in cima alla «lista nera», anche se da settimane una task force a Palazzo Chigi sta facendo di tutto per evitare il peggio. Poi Reggio Calabria, finita in rosso già nel 2007-2008 ed ora oggetto di un’inchiesta della magistratura. E poi tante altre amministrazioni, grandi e meno grandi (come Milazzo), magari fino ad oggi virtuose, potrebbero essere costrette a chiedere il «dissesto», che significa scioglimento della consiglio, entrata in campo della Corte dei Conti e commissario prefettizio.

L’ultimo colpo, o se vogliamo il colpo di grazia, sta infatti per arrivare: è una norma inserita nel decreto sulla spending review che nelle pieghe delle nuove regole che impongono l’«armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio» impone di svalutare del 25% i residui attivi accumulati sino ad oggi. Si tratta di entrate contabilizzate ma non ancora incassate, come possono essere i proventi delle multe e le tassa sui rifiuti. Cifre importanti, che servono a «fare» il bilancio di un ente che spesso, per prassi, gonfia queste voci pur sapendo di non riuscire a poter incassare il 100% degli importi messi a bilancio. Incassi spesso molto dubbi insomma, che ora non possono più servire a far quadrare i conti.

«A rischio sono almeno una decina di grandi città» confidano i tecnici del governo che stanno monitorando la situazione. «La situazione sta diventando ogni giorno più difficile», conferma il presidente dell’Anci Graziano Del Rio. Che punta il dito contro l’ennesimo taglio dei trasferimenti, contro le misure introdotte dalla spending review, e che rilancia l’allarme di tanti colleghi sindaci. «Tagliando di colpo i residui attivi è chiaro che i bilanci non quadrano più». Di per sè il principio, argomenta Del Rio, non sarebbe nemmeno sbagliato, «ma serve più gradualità per dare tempo ai sindaci che hanno utilizzato questa modalità di adattarsi. Perché altrimenti anche Comuni virtuosi, come ad esempio Salerno, a questo punto sono a rischio».

In base ai dati a disposizione del Viminale il fenomeno dei Comuni che hanno dichiarato il dissesto negli ultimi due anni è letteralmente esploso: da 1-2 casi all’anno si è passati a circa 25, comprese anche amministrazioni del Centro-Nord dove questo tipo di fenomeno fino a ieri era sconosciuto. Eclatante il caso di Alessandria, il cui sindaco solo poche settimane fa, ha gettato la spugna sotto il peso di 100 milioni di euro di debiti. Stessa sorte in precedenza era toccata a Comuni più piccoli come Riomaggiore (Sp), Castiglion Fiorentino e Barni in provincia di Como.

C’è un problema di tenuta dei bilanci e ce n’è uno ancora più forte di cassa. Che spesso il sindaco di turno si trova vuota. Perché la centralizzazione della Tesoreria decisa di recente ha sì fatto affluire alla cassa nazionale qualcosa come 9 miliardi di liquidità aggiuntiva ma, al tempo stesso, ha reso più complicato da parte degli enti poter beneficiare di anticipazioni da parte del sistema bancario. Prima col proprio tesoriere municipale ogni sindaco poteva contrattare e in casi di emergenza otteneva liquidità praticamente anche gratis, ora se si rivolge ad una banca deve certamente pagare gli interessi. Ammesso che il prestito riesca ad ottenerlo. A tutto ciò occorre poi aggiungere gli ennesimi tagli ai trasferimenti imposti dalla spending review: 500 milioni già entro fine 2012 e 1 miliardo all’anno dal 2013.

«A 4 mesi dalla chiusura dei bilanci 2012 – spiega Del Rio – anche i 500 milioni di tagli ai trasferimenti previsti per quest’anno sono molto pesanti. Rappresentano una quota molto importante dei nostri bilanci e cancellarli così di colpo non solo crea altri problemi di cassa ma sconvolge anche gli obiettivi del patto di stabilità». Per questo l’associazione dei Comuni, che domani tornerà a manifestare a Roma contro i nuovi tagli, manda a Monti un messaggio preciso: «Attenzione a forzare la mano, perché avanti di questo passo il giorno in cui comuni come Milano, Napoli e Torino usciranno dal patto di stabilità basterà questo solo gesto a scassare i conti dell’intero Stato». Conclude Del Rio: «Siamo disponibili a ragionare, ma le cose vanno fatte con criterio. E soprattutto bisogna tenere conto che come Comuni negli ultimi anni abbiamo già dato 22 miliardi di euro».

da www.lastampa.it

"Allarme spread: sfondati i 525 punti"

Borse in picchiata, Piazza Affari -3,1%. Euro ai minimi sul dollaro e sullo yen. Alta tensione sui titoli di Stato. Da Fmi e Germania no a nuovi aiuti o a proroghe per la Grecia
milano

E’ già un lunedì nero. Le Borse europee crollano e gli spread di Italia e Spagna schizzano a livelli record. Milano (-3,1%) e Madrid (-3,5%) segnano i maggiori ribassi, con le banche in picchiata. Avvio in rosso anche per Londra, Parigi e Francoforte.

E dopo il venerdì nero è ancora tensione sui titoli di Stato: il differenziale tra il Btp e il Bund tedesco ha sfondato questa mattina i 525 punti facendo salire ancora il rendimento dei titoli decennali italiani. Male anche i Bonos spagnoli: spread addirittura oltre quota 640 punti con il rendimento che tocca un nuovo record oltre il 7,5% .

Le piazze asiatiche hanno chiuso in rosso. L’euro è sceso sotto la soglia psicologica di 1,21 dollari, per la prima volta dal giugno 2010, e sotto i 95 yen, come non succedeva da 11 anni. La moneta unica viene scambiata a 1,2099 dollari contro gli 1,2200 dollari delle quotazioni Bce di venerdì. Sulla riapertura dei mercati pesa l’uno-due Spagna-Grecia. Mentre a Madrid, infatti, si allunga la lista delle regioni a rischio default e proseguono le proteste, dal settimanale tedesco “Der Spiegel” arriva la notizia, da fonti «ufficiali» non meglio identificate dell’Ue, che il Fondo Monetario sarebbe intenzionato a bloccare gli aiuti alla Grecia con un probabile default del Paese a settembre. Atene non ce la farebbe infatti a ridurre il debito al 120% del Pil entro il 2020 e mantenere i propri impegni sulle riforme. Questo vorrebbe dire per i Paesi dell’Eurozona un ulteriore esborso in aiuti di 10-50 miliardi. E nessuno sarebbe intenzionato a spendere ancora di più.

L’Ue non commenta: il portavoce del commissario agli Affari monetari Olli Rehn si limita a dire che «non sappiamo da dove vengano queste informazioni dello “Spiegel” su cui non facciamo commenti» ricordando inoltre che la nuova missione della troika incaricata di valutare la situazione di Atene non si è ancora messa in marcia e, ha ricordato Simon O’Connor, «deve partire martedì 24». Ma da Berlino il ministro dell’Economia, Philipp Roesler, rilancia, dicendosi «più che scettico» sulla possibilità che Atene rispetti gli impegni: e «se la Grecia non soddisfa i requisiti chiesti, non ci potranno essere più risorse verso il Paese», spiega. «Per me un’uscita della Grecia non rappresenta più da tempo uno spauracchio», aggiunge il ministro, secondo il quale bisogna tuttavia attendere la prossima missione ad Atene della troika composta dai rappresentanti di Ue, Bce e Fmi.

Il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble intanto ha lanciato un ulteriore avvertimento alla Grecia affinché intensifichi gli sforzi per conformarsi alle condizioni del piano di salvataggio imposto dai creditori internazionali. In un’intervista al quotidiano Bild in edicola stamane Schaeuble ha affermato: «Se ci sono dei ritardi, la Grecia deve provvedere a risolverli». Ma il ministro conservatore si è rifiutato di fare previsioni sulla permanenza o meno di Atene nella zona euro. «Non voglio precedere la troika. Quando il suo rapporto sarà pronto l’Eurogruppo si riunirà», ha detto Schaeuble facendo riferimento alle conclusioni attese dall’Unione europea, dal Fondo monetario internazionale e dalla Bance centrale europea, i tre creditori della Grecia. Schaeuble ha anche affermato di non vedere paralleli tra la situazione della Grecia e quella della Spagna, per la quale l’Eurogruppo ha approvato venerdì un piano di aiuti al settore bancario da 100 miliardi di euro: «Le cause della crisi nei due Paesi sono diverse. L’economia spagnola è molto più competitiva e ha una struttura differente. Il Paese si riprenderà rapidamente», ha concluso il ministro tedesco.

Gli esperti della troika sono attesi ad Atene questa settimana per un esame approfondito del programma economico del nuovo governo greco. Il loro rapporto sarà determinante per la concessione del nuovo prestito da 31,5 miliardi di euro previsto per settembre. Tutti guardano ora anche alla Bce. Il presidente, Mario Draghi, cerca di tenere le fila: «L’euro è irreversibile» – spiegava ieri – e non c’è un pericolo «esplosione» dell’unione monetaria. Ma l’Eurotower – sottolineava anche – non ha il mandato di risolvere i problemi finanziari degli Stati, ricordando anche il recente taglio del costo del denaro. Mentre in Italia il direttore generale del Tesoro, Annamaria Cannata, rassicurava sul buon andamento delle ultime aste. In attesa che il 12 settembre la Corte costituzionale tedesca si pronunci sul meccanismo di difesa europeo iniziando così il percorso per innescarlo in caso di attacchi speculativi, il premier Mario Monti agisce su due fronti: estero e interno. Il Professore ha già iniziato il suo “road show” da Mosca dove incontrerà le massime cariche ma anche gli imprenditori. Poi volerà in Finlandia, per cercare di superare le «resistenze» del Paese, spiegava Monti, infine in Spagna.

In Italia, in mancanza della rete di protezione europea, molti sperano comunque in un intervento in caso di attacchi, il governo si preparerebbe a fronteggiare l’agosto bollente con un’ulteriore sforbiciata alla spesa tra i 6 e gli 8 miliardi. Il menù del terzo step della spending review sarebbe pronto: taglio ai trasferimenti ai partiti e ai sindacati, revisione degli sconti fiscali, taglio e razionalizzazione degli aiuti alle imprese, ulteriore intervento sul pubblico impiego e un dettagliato pacchetto di dismissioni. Il Parlamento è già preallertato. Ma se i Palazzi dovranno aprire a metà agosto si saprà solo a partire da domani e molto dipenderà appunto dall’andamento dei mercati. La situazione è ’esplosivà anche se il Tesoro, grazie al buon andamento delle entrate, ha cancellato l’asta di titoli di agosto prendendo così un pò di tempo in più. Gli spread di Spagna e Italia venerdì si sono impennati fino a toccare i 610 e i 500 con rendimenti altissimi del 7,2% e del 6,1% e le borse hanno chiuso a picco.

da www.lastampa.it

"Crisi, spread: è meglio votare a novembre?", di Simone Collini

La settimana che si apre oggi sarà determinante per capire che tipo di piega prenderà il finale di legislatura e se sia giustificata la discussione sull’ipotesi di un voto anticipato in autunno, che ormai da quarantott’ore tiene banco. Il punto non è tanto la riapertura delle Borse e l’andamento del mercato dei titoli di Stato, che pure saranno sotto i riflettori dopo il venerdì nero che ha fatto registrare un meno 4 per cento e uno spread a quota 500. Saranno piuttosto le votazione in Parlamento dei decreti su spending review, dismissioni e sviluppo, che il governo vuole incassare in tempi rapidi anche ricorrendo alla fiducia, ad essere attentamente esaminate da Palazzo Chigi e Quirinale.

I quali, in base alla Costituzione, possono avviare l’iter (il primo passo spetta al premier, presentando le proprie dimissioni al capo dello Stato) che porterebbe allo scioglimento delle Camere (prerogativa del Presidente della Repubblica, esaurita la fase delle consultazioni) e quindi al voto anticipato. I segnali arrivati negli ultimi passaggi parlamentari – in commissione su quei decreti economici ma anche in Aula sulle riforme istituzionali affossate dal rinnovato asse Pdl-Lega – hanno fatto suonare un campanello d’allarme.

Secondo Monti sarebbe drammatico per il Paese affrontare il «percorso di guerra» che ancora abbiamo davanti e rispondere agli attacchi speculativi mentre le forze politiche sono di fatto impegnate in una campagna elettorale che si trascinerebbe per otto mesi. E allora meglio sarebbe, per dare un messaggio di stabilità, anticipare le elezioni. Questo sarebbe il ragionamento fatto di fronte a pochi fidati interlocutori da Monti, che però smentisce di aver deciso per una crisi pilotata. Napolitano osserva e non interviene. Per poter votare tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, dovrebbe sciogliere le Camere entro settembre (devono passare almeno 45 giorni tra lo scioglimento e le elezioni). Ma forse non bisognerà aspettare così tanto per capire se tutte le forze che sostengono Monti saranno leali e determinate ad arrivare a fine legislatura.

UNA FASE NUOVA
Ad agitare le acque non c’è solo la «doppia maggioranza» che si è venuta a creare in Parlamento sul presidenzialismo e sul Senato federale, o l’insistenza di Berlusconi sul suo ricandidarsi (ieri Palazzo Grazioli ha smentito la smentita di questa sua volontà). È proprio l’atteggiamento del Pdl che è cambiato negli ultimi tempi, al di là della ritrovata sintonia con la Lega. Basta guardare alla discussione sulla spending review: se il Pd chiede di rivedere i tagli alla sanità, il Pdl ha iniziato ad attaccare i «difensori della spesa pubblica», ben sapendo che saranno i Democratici a pagare il prezzo sociale più salato nel caso in cui la spending review venisse approvata così com’è.

Un atteggiamento che il Pdl non ha tenuto neanche sulla riforma del lavoro, di fronte alle proposte di modifica avanzate dal Pd sull’articolo 18. Che siamo entrati in una fase nuova, piena di incognite, se ne rende conto anche Casini. Per la prima volta da quando è in carica Monti, il leader dell’Udc non si limita a dire che si dovrà votare nella primavera del 2013, ma aggiunge che «se ci fosse una valutazione comune» si potrebbero anticipare le urne. Si inizia a discutere delle “subordinate” anche nel fronte dei più convinti sostenitori di questo governo. Anche Eugenio Scalfari, su Repubblica, pone la questione: «Il voto anticipato può battere lo spread?».

E legge con un sorriso il lungo editoriale della domenica chi, come Matteo Orfini, aveva fatto analogo ragionamento circa un mese fa. «Un benvenuto a Scalfari tra i “guastatori”», scrive su twitter il responsabile Cultura del Pd, riprendendo un precedente editoriale del fondatore di Repubblica, in cui si chiedeva a Bersani di sollecitare le dimissioni dello stesso Orfini e di Stefano Fassina, rei di aver messo nel novero delle ipotesi le elezioni anticipate. Il leader del Pd non intende partecipare a questa discussione. Bersani si attiene a quello che dice la Costituzione. E cioè che sta al capo di Stato Napolitano e al premier Monti la decisione ultima sul destino della legislatura (e al secondo sta anche la decisione se, fatto il passo indietro, candidarsi alle politiche).

Quanto ai partiti, dice il segretario del Pd a chi gli ha parlato in queste ore, devono ora dimostrare di voler fare sul serio per cambiare la legge elettorale. «Noi stiamo dando una disponibilità enorme, anche rinunciando a punti per noi molto importanti, ma non ci sono interlocutori in grado di stringere», dice polemizzando con il Pdl. Anche Casini è convinto che si debba chiudere in fretta sulla legge elettorale: «Gli italiani non possono fare ulteriori sacrifici – dice il leader Udc alla Stampa – ai signori dello spread è opportuno mandare un ultimo messaggio: approvando una nuova legge elettorale almeno in un ramo del Parlamento prima della pausa estiva, daremmo un segnale forte a chi dubita della stabilità futura dell’Italia».

Ci sono una decina di giorni, reali, per arrivare a un’intesa che faccia superare il Porcellum. Altrimenti, ogni discussione su un ipotetico anticipo di elezioni sarà basata sul nulla.

da www.unita.it

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Perché non conviene, di Nicola Cacace
I timori che un inizio anticipato della campagna elettorale, anche nell’ipotesi della scadenza naturale della legislatura al 2013, rischi di dissolvere la precaria maggioranza che oggi regge il governo Monti, non sono infondati. L’alternativa secca di prendere l’attuale precarietà di maggioranza in contropiede, partendo subito con la campagna elettorale, in pratica con lo scioglimento a settembre delle Camere per votare in novembre, mi sembra una decisione di estrema audacia e di una rischiosità troppo alta per essere vera. Almeno tre condizioni negative giocano contro. innanzitutto l’assenza operativa dello scudo anti-spread negoziato al vertice UE di giugno.
Che infatti deve aspettare la decisione di settembre della Corte costituzionale tedesca e le conseguenti decisioni del bundestag, senza le quali ogni difesa dell’euro contro attacchi veri sarà vana. In secondo luogo, l’alta probabilità, quasi la certezza di votare con l’attuale legge elettorale. Terza questione: quello che abbiamo davanti sarà un trimestre molto duro per resistere alle speculazioni del mercato. per non parlare di altre condizioni negative, quelle che riguardano lo spread sociale, che anche i dati odierni della Camera di commercio e di bankitalia fanno emergere: l’esiguo numero di assunzioni previste nel prossimo trimestre, la metà delle assunzioni per il solo turn-over di sostituzione dei pensionati, la consistente perdita di potere d’acquisto dei salari nell’ultimo periodo.
A questi dati vanno sommati quelli relativi alle conseguenze del terremoto in Emilia-Romagna, con centinaia di aziende chiuse, al quasi fermo della produzione di quella che era la più importante impresa manifatturiera, la fiat, che mette in cassa integrazione anche Mirafiori, ai cattivi dati sulla stagione turistica che vive più sotto la minaccia di provvedimenti punitivi come la ventilata soppressione di festività nazionali che sotto lo stimolo di incentivi e provvedimenti necessari al suo rilancio. E poi? Che dire dello spread con la esse maiuscola? Chi è in grado di prevedere dove potrebbe arrivare l’attivissima speculazione al ribasso sull’euro, che già oggi è così preoccupante benché Monti legittimamente, un giorno sì e uno no, ammonisca i mercati sul fatto che, anche se «il contagio è in atto, l’Italia ha i fondamentali per resistere». È vero che le «grida» montiane non sono riuscite sinora a tenere sotto livello 400 e neanche 500, lo spread tra i btp italiani e i bund tedeschi, ma chi può dire dove arriverebbe, da qui ad agosto e settembre, lo spread del debito sovrano di un paese senza governo e, quel che è peggio, senza alcuna realistica previsione su un futuro governo post-elezioni di novembre? E poi? Quali previsioni sono oggi possibili sul governo che uscirebbe dalle elezioni anticipate in autunno quando ad oggi non sappiamo niente, o assai poco, della legge elettorale, delle possibili coalizioni, dei leader che le guiderebbero, senza parlare dei programmi, che sono anche materia strategica per i giudizi dei mercati. L’ipotesi di governo più probabile è anche la meno desiderabile per il paese: una grande coalizione, bella o brutta copia di quella di oggi, con monti o un suo succedaneo. Bella prospettiva. Prospettiva di un paese che rinuncia definitivamente alla politica (con la esse maiuscola) dichiarandosi pericolosamente inadatto alle normali regole di una democrazia competitiva. Ma questa sarebbe la prospettiva di governo più probabile se si votasse a novembre, anche perché sarebbe difficile consolidare leadership forti con una forte maggioranza alle loro spalle, in grado di formare una solida e duratura coalizione di governo. E con un parlamento dove l’antipolitica, di grillo ma non solo (dove mettiamo la lega anti monti e l’attuale Di Pietro?), avrà fatto molti danni rendendolo ancora più ingovernabile di oggi.
Last but not least: chi si assume, con la decisione di anticipare le elezioni, anche quella di non avere più alcuna arma governativa, per tre mesi interi, in grado di contrastare, non dico fermare, l’aumento dei nostri indici, compreso quello del debito che ci metterebbe poco a passare dal 120$ al 130$ del pil mandando definitivamente il paese a raggiungere la Grecia?

da L’unità

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Perché conviene, di Michele Prospero
Quali argomenti potrebbero indurre il capo dello stato a sciogliere in anticipo la legislatura? Chi, come Napolitano, sa intrecciare con sapienza il profilo tecnico di un ruolo super partes e la lettura della fase storico-politica, ad una decisione sempre controversa, come quella di votare a novembre, non potrà pervenire senza rassicurazioni sia di carattere istituzionale che politiche. Il presidente vuole essere sicuro che il suo atto non assuma i tratti di uno scioglimento di lotta. Un decreto di dissoluzione delle Camere, indotto da un lacerante conflitto istituzionale o da una rottura polemica tra le forze politiche, lascerebbe ferite difficilmente cicatrizzabili in una fase di dura emergenza.
Quindi, agli occhi di Napolitano, se scioglimento ci deve essere, esso sia anzitutto un atto largamente consensuale. Ci sono dei momenti politici in cui è una prova di responsabilità quella di andare al voto prima del termine naturale previsto dalla costituzione. Occorre, in questa ottica, che nessuno dei partiti stacchi da solo la spina del governo, assumendosi enormi e imponderabili rischi per un gesto inconsulto. La determinazione di tornare al giudizio dei cittadini deve essere il frutto di una ponderata analisi svolta dai partiti che concordano sulla opportunità di inaugurare una nuova fase perché quella che hanno con senso di responsabilità sostenuto finora è ormai sterile. E qui, dalle valutazioni di profilo istituzionale, si scende sul campo delle tendenze politiche ora visibili. Il quadro politico mostra già segni di logoramento. Lo stesso sovversivismo plebeo che ha aggredito in questi giorni il Quirinale con accuse risibili, è un indizio palese del deterioramento del clima. Camminando sul terreno minato di una crisi economica inafferrabile e assistendo impotenti alla radicalizzazione della sfida lanciata da opposizioni agitatorie, si potrebbe giungere ad aprile con un blocco populista variegato (Di Pietro, Grillo, la Lega, il Berlusconi redivivo) vicino alla maggioranza e capace quindi di far saltare tutti gli equilibri costituzionali. Condannare la legislatura a trascinarsi sino a primavera potrebbe logorare i partiti più seri e favorire la presa di agguerrite formazioni disposte al peggio. I duri sacrifici che il governo ha chiesto hanno evitato il baratro (a novembre scorso non c’erano i soldi per pagare gli stipendi e le pensioni, e quindi raffreddando i bollenti spiriti dei mercati monti è divenuto una riserva della repubblica) senza incontrare le fiamme che hanno devastato Atene e le pallottole (per ora) di gomma che vengono sparate a Madrid. Ora
però, per placare gli istinti di rivolta occorre un ritorno alla politica che deve decidere se sostenere la svolta europea inaugurata con il successo di Hllande oppure procrastinare una fase tecnica che non può dare molto di più rispetto a quello che ha già spremuto.
Eiste una convenienza di sistema nella scelta da tutti condivisa di andare al voto a novembre. La Lga vedrebbe incoraggiata la svolta di Maroni, che parla un linguaggio diverso, non vuole essere un semplice spauracchio e sta collocando il suo partito in una zona inedita, di semiaccettazione della lealtà costituzionale. Il PDL sarebbe indotto a sbarazzarsi della surreale ricomparsa di Berlusconi nelle vesti di Masaniello antieuropeo per ridare fiato alle timide velleità di allestire un partito normale della destra che, pur nella certezza di perdere, avrebbe comunque l’opportunità di occupare lo spazio politico come polo alternativo alla sinistra. Al PD la scelta di giocare d’anticipo conviene perché con la sua offerta di un patto tra progressisti e moderati (per agganciare il socialismo europeo, che solo può contribuire alla salvezza del paese) scompagina il blocco populista in agguato. È chiaro che una prova del reale senso di responsabilità delle forze politiche il Capo dello Stato la attende dalla riforma elettorale. occorre andare al voto senza il porcellum, ed è possibile con ritocchi marginali (preferenze, collegi di più piccola dimensione e mantenendo il premio di coalizione) oppure con una più incisiva manutenzione (premio del 10 per cento al primo partito, che così darebbe un segnale nitido di stabilizzazione, dall’alto del 40 per cento dei suoi seggi).
Se però, dopo aver tanto invocato il ritorno della politica, si confeziona una maldestra legge elettorale, che pare propedeutica alla ingovernabilità, si lavora con somma incoscienza per sprofondare negli abissi. Con una buona legge elettorale, recarsi al voto a novembre non sarebbe un trauma, soprattutto se i partiti sapranno mettere a frutto la loro reciproca legittimazione, in un bipolarismo finalmente maturo.

da L’Unità

"Ecco come i super ricchi del Pianeta sottraggono al fisco 21mila miliardi", di Roberto Mania

Super ricchi oppure super evasori. Qualche volta, più rozzamente, super delinquenti globali. Perché c’è una manciata di persone di tutto il mondo che ha depositato nei paradisi fiscali qualcosa come 21 mila miliardi circa di dollari americani. È una cifra impressionante, stratosferica. È una somma pari al Pil prodotto negli Stati Uniti e a quello giapponese messi insieme, due tra i paesi più ricchi del Pianeta.
Sono soldi sottratti al fisco, qualunque esso sia; soldi tolti agli investimenti produttivi e al lavoro; soldi molto spesso frutto di operazioni di riciclaggio della criminalità organizzata o del terrorismo internazionale. Sono soldi che arrivano da tante parti ma che si fermano nei cosiddetti paradisi fiscali, dalle Isole Cayman alla Liberia, con una identica principale motivazione: non pagare le tasse, o pagarne molto meno del dovuto. Sono soldi che per tante ragioni “devono” restare nascosti nei forzieri off-shore. Tanto chi li possiede se li può godere ugualmente, grazie a una rete di complicità che vede le banche (le stesse che dai subprime hanno generato la crisi) principali protagoniste insieme a un esercito di consulenti legali e finanziaria senza scrupoli. A misurare per la prima volta il “bottino” depositato nelle banche opache fiscalmente protette è stata l’organizzazione britannica anti evasione Tax Justice Network (Tjn) che ha fatto della lotta contro i paradisi fiscali una delle sue principali missioni, convinta che proprio l’esistenza di quei Paesi senza trasparenza sia una delle cause della povertà mondiale e della crescente diseguaglianza tra ricchi e poveri e tra il nord e il sud dell’emisfero. Tanto più quando anche la parte un tempo ricca del globo è avvolta nella coltre della nuova recessione.
Ventunomila miliardi di dollari, dunque. Una fortuna che appartiene a poco più di 10 milioni di persone, tra i quali sono circa 91 mila quelli che possiedono poco meno di 10 mila miliardi nei paradisi fiscali. Ma quei 21 mila miliardi forse sono di più. Tjn, infatti, ha considerato esclusivamente la ricchezza monetaria depositata nelle banche e gli investimenti finanziari realizzati, non le proprietà immobiliari né gli yacht.
Così la stima della ricchezza offshore arriverebbe a ben 32 mila miliardi di dollari. La ricerca dal titolo significativo “The price of off-shore revisited”, è stata realizzata dall’ex capo economista della società di consulenza McKinsey, James Henry, ed è basata su dati della Banca mondiale, del Fondo monetario internazionale, delle Banche centrali nazionali, dell’Onu e della Banca dei regolamenti internazionali. Cifre — sostiene Henry — che tutti i grandi organismi internazionali utilizzano solo in parte perché dedicano pochissime indagini a questo settore. «Uno scandalo», secondo lo studioso che denuncia la sostanziale «tolleranza » che accompagnato la progressiva crescita dell’economia off-shore.
C’è un circolo vizioso che genera quello che Henry definisce un «gigantesco buco nero nell’economia mondiale». Ci sono gli istituti di credito, innanzitutto. Lo
studio rivela che le tre principali banche coinvolte nei meccanismi di trasferimento del denaro dei super ricchi globali sono: Ubs, Credit Suisse e Goldman Sachs. E che, a fine 2010, le principali 50 banche intermediavano più di 12,1 mila miliardi di investimenti cross-border. Investimenti privati ma anche dei grandi gruppi e delle fondazioni controllate dai super ricchi. È questa la rete che spiega la crescita media del 16% ogni anno dei depositi off-shore.
Sono soldi che non vanno nemmeno un po’ in tasse. La ricerca ha stimato che tassando al 30 per cento un guadagno minimo del tre% dei 21 mila miliardi, si ricaverebbero intorno ai 180 miliardi (280 se fossero tassati tutti i 32 mila miliardi) pari più o meno a due volte quello che i paesi dell’Ocse destinano agli aiuti per lo sviluppo. Forse sta qua una delle ricette più concrete anche per uscire dalla Grande Crisi.

La Repubblica 23.07.12

"In busta paga solo 29 euro in più di dieci anni", di Valerio Raspelli

Ventinove euro. È l’aumento reale netto degli stipendi dei lavoratori dipendenti italiani. Ma non l’hanno avuto in un mese e neanche in un anno: la cifra si riferisce a ben dieci anni, quelli che vanno dal 2000 al 2010. Altro che moderazione salariale. L’ingresso nel nuovo Millennio dei lavoratori italiani è stato all’insegna di una fortissima austerità, a scorrere le tabelle contenute nella relazione annuale della Banca d’Italia. I dati forniti da Palazzo Koch sono stati elaborati dall’Adnkronos che è arrivata a conclusioni amarissime: le retribuzioni medie reali nette sono passate nel decennio da 1.410 a 1.439 euro, con un incremento del 2%. Decisamente risibile. Le cause sono diverse: la principale è la crisi finanziaria ed economica iniziata nel 2007 e tuttora viva e vegeta. Si pensi soltanto che, secondo le rilevazioni biennali, nel 2006 (quindi prima della crisi) le retribuzioni medie arrivavano a 1489 euro: due anni dopo si attestavano a 1.442 euro, quattro anni dopo nel 2010 scendevano a 1.439 con un calo secco di 50 euro, ovvero del 3,3%. Ha pesato anche il blocco contrattuale di interi comparti: a cominciare dall’esercito dei dipendenti pubblici colpito a più riprese dalle “riforme” Brunetta.

GLI OPERAI STAVANO MEGLIO PRIMA Procedendo per categorie e parlando di operai, le tabelle ci dicono che la sua famiglia stava meglio dieci anni fa: nel 2000, infatti, il reddito reale familiare equivalente disponibile per un operaio, apprendista o commesso era pari a 13.691 euro, ma nel 2010 era sceso a 13.249, ben 442 euro in meno. I dati confermano poi la distanza tra il centro-nord e sud-isole: l’incremento del primo è stato del 2,5% a fronte dello lo 0,7% del Meridione. In termini reali al centro-nord si è passati da 1.466 euro del 2000 a 1.503 euro del 2010, con un aumento di 64 euro; mentre nel Mezzogiorno le retribuzioni passano da 1.267 euro a 1.276 euro, con una crescita di soli 9 euro: cioè neanche 1 euro l’anno. Rispetto alla media nazionale le retribuzioni si attestano a un +4% per i lavoratori del centro-nord e -10,1% per quelli di sud e isole, mentre 10 anni dopo arriva a +4,4% e -11,3%. Se si prende a riferimento il periodo della crisi, si vede che la riduzione non ha guardato in faccia a nessuno: nel centro-nord il calo è stato di 46 euro (-2,9%); nel sud e isole il taglio è stato di 56 euro (-4,2%). Un altro divario che pare non riesca ad essere scalfito è quello che riguarda il diverso trattamento retributivo tra uomini e donne: gli uomini sono passati da 1.539 euro a 1.586 euro (+47 euro), e le donne, che partivano da 1.220 euro e sono arrivate e 1.253 euro (+35 euro). Tutto questo nel primo decennio del Ventunesimo secolo. Negli ultimi due anni tuttavia le cose non sono cambiate molto: la forbice tra salari e caro-vita segna un record dopo l’altro mentre 14 milioni di lavoratori aspettano il rinnovo del contratto e, possibilmente, aumenti che non siano briciole.

L’Unità 23.07.12

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“Il lavoro.Il posto fisso è sempre più un miraggio”,di Luisa Grion
Neoassunti, 8 su10 precari e i redditi operai precipitano 1.240 euro in meno in 4 anni

Più precariato per chi trova lavoro, meno reddito per chi riesce a mantenerlo. La crisi continua a pesare sulle famiglie sia in termini di occupazione che di potere d’acquisto. Il posto fisso, anche nel lavoro offerto dalle poche aziende che assumono, è diventato un miraggio. Secondo le previsioni di Unioncamere-Excelsior, dei nuovi posti resi disponibili nel trimestre in corso, solo due su tre saranno legati ad un contratto a tempo indeterminato. Sei mesi fa il rapporto era ancora fermo a tre su dieci. Né le nuove assunzioni freneranno la disoccupazione giovanile: agli under 29 anni sarà riservato solo il 32,7 per cento dei nuovi posti.
Il precariato in grande ascesa va di pari passo con il crollo dei redditi reali. Secondo la Banca d’Italia, fra il 2006 e il 2010 le famiglie, in termini di entrate annue, hanno perso 880 euro.
Sulle buste paga individuali la caduta è stata in media di 50 euro. Dieci anni fa, dunque, stavamo tutti meglio, pur se a subire i colpi della crisi sono stati soprattutto gli operai, che hanno visto precipitare il loro potere d’acquisto di 1.236 euro in meno di quattro anni. In caduta libera anche le entrate dei dirigenti, che negli anni della crisi sono crollate del 13 per cento; in crisi i lavoratori autonomi (meno 9 per cento). A risollevare il morale delle famiglie è rimasta solo la pensione dei nonni, l’unica fonte di reddito che negli anni più duri è rimasta ancorata ad un lieve aumento (più 3,3 per cento).

I lavori a termine. Sei mesi fa erano il 70 per cento le aziende non hanno prospettive
SE IL posto fisso resta un sogno, solo due nuovi assunti su dieci riescono a realizzarlo. La crisi ha esasperato la precarizzazione del lavoro: dei 159 mila posti (meno 2 cento rispetto allo scorso anno) che le aziende intendono mettere a disposizione nel terzo trimestre di quest’anno, il 19,8 per cento appena riguarda contratti a tempo determinato. Solo sei mesi fa, all’inizio del 2012 le cose andavano un po’ meglio: la quota riservata al lavoro stabile era di tre posti ogni dieci. Lo rileva il Bollettino di luglio-settembre pubblicato da Unioncamere-Excelsior in collaborazione con il ministero del Lavoro. Il dato del 19,8 per cento, va detto, tiene conto di tutti i contratti, stagionali e non, ma anche escludendo i posti destinati a durare una sola estate la percentuale non cambia di molto: i posti fissi non arriverebbero a quattro ogni dieci (il 35,8 per cento, ma nei precedenti cinque trimestri superavano il 40). Segnale, commenta Unioncamere che la paura è tanta anche fra le poche aziende che decidono di aumentare la forza lavoro. A frenare i loro progetti è soprattutto l’effetto «incertezza» che le porta ad inquadrare, comunque sia, le nuove assunzioni nella stagionalità o nel tempo determinato. E ciò, commenta Unioncamere, al di là degli andamenti del lavoro, è legato soprattutto «alla debolezza e incertezza dello scenario economico».

I giovani. Solo un terzo dei nuovi occupati ha un’età inferiore ai 29 anni
POCHI, ma un po’ più giovani. Il 32,7 per cento delle assunzioni che le imprese intendono effettuare fra i mesi di luglio e settembre è destinato agli under 29: un punto in più rispetto al precedente trimestre. Il piccolo aumento segnalato da Excelsior, a dire il vero, riguarda solo il settore dei servizi, dove la quota di giovani in entrata viaggia attorno al 34,7 per cento. Tendenza opposta invece per l’industria: nel settore, particolarmente penalizzato dalla crisi, la quota di assunzioni (volte soprattutto a operai dell’alimentare e metalmeccanici) riservata agli under 29 non va oltre il 26,8 per cento. Le aziende, quindi, una volta deciso di assumere a tempo determinato, continuano a non guardare con particolare interesse alle forze fresche, anche perché sul mercato del lavoro stanno arrivando 40-50 enni che hanno perso il posto, ne cercano un altro e sono già formati. Difficile quindi immaginare che il pesante dato della disoccupazione giovanile possa essere scalfito. In lieve aumento, invece, la propensione ad assumere una donna (il 21,4 per cento trainato soprattutto dal settore moda e da quello dell’assistenza alla persona). In caduta libera, le assunzioni di personale immigrato, che saranno il 14,2 per cento in meno rispetto al precedente trimestre: fra luglio e settembre le assunzioni stagionali si fermano.

I mestieri più richiesti. Ingegneri, informatici e sanitari per loro il posto è assicurato
LE ASSUNZIONI sono in calo: nel terzo trimestre di quest’anno se ne faranno 3.800 in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno e 69 mila in meno rispetto ai precedenti tre mesi. Eppure la crisi non riguarda tutte le professioni o, comunque, non tutte allo stesso modo. In alcuni casi, per esempio, le aziende confessano di fare fatica a trovare candidati adatti: nella sanità e nei servizi socio-assistenziali sono previste, nel trimestre, 8500 assunzioni, mai il 20 per cento del totale è considerato di difficile reperimento. Stessa cosa per ingegneri e tecnici informatici: ci sarebbero 1.300 figure introvabili sulle 4.700 assunzioni previste. Difficile anche individuare i 6.700 operai specializzati nella metalmeccanica ed elettronica di cui le imprese annunciano di avere bisogno: nel 26 per cento dei casi assicurano che reperirli è problematico.
Lasciando invece da parte il grado di difficoltà e guardando ai grandi numeri, le professioni più richieste (anche se in diminuzione rispetto al passato) sono quelle di commesso (ne saranno assunti 10 mila), addetti alla segreteria (7.700 posti da coprire in questo trimestre), i 5.000 assistenti sociali (a domicilio e non) e più di tutto personale non qualificato per la polizia e il servizio alla persona (badanti): ne serviranno oltre 16 mila.

Le retribuzioni. La caduta del potere d’acquisto è iniziata due anni prima della crisi
CHI non ha lavoro fa fatica a trovarlo, ma chi ancora può contare su una busta paga deve fare i conti con una netta caduta dei redditi e del potere d’acquisto. La Banca d’Italia, analizzando le entrate delle famiglie dal 2000 al 2010, ha scoperto che in dieci anni le retribuzioni reali, al netto dell’inflazione, sono rimaste ferme al palo: nel lungo periodo le entrate dei dipendenti sono aumentate di appena 29 euro, passando dalla media di 1.410 euro a 1.439 (più 2 per cento). Ma a pesare sul potere d’acquisto delle famiglie sono stati soprattutto gli ultimi anni, quelli legati all’esplosione della crisi: nel 2006 le retribuzioni medie arrivavano a 1.489 euro, due anni dopo (con l’inizio della crisi) erano scese a 1.442. Nel 2010 la situazione è ulteriormente peggiorata, arrivando a 1.439 euro. La riduzione in termini reali, in quattro anni, è stata di 50 euro, il 3,3 per cento. Ma se si guarda al reddito dell’intera famiglia, in media, le entrate annue reali di casa, fra il 2006 e il 2010, sono diminuite di ben 880 euro.
In generale, quest’ultimo periodo legato alla crisi, ha influito sulle buste paga di tutti i lavoratori, ma ha penalizzato un po’ di più il Sud. Nel Centro-Nord del paese la riduzione media reale è stata di 46 euro, mentre nel Meridione e nelle isole il taglio è stato di 56 euro.

Le categorie. Forte sforbiciata per i dirigenti la perdita secca è stata del 13%
DIECI anni fa stavamo tutti meglio: in termini di reddito reale la vita delle famiglie era più «ricca» rispetto a quella attuale. Anche in questo caso, a generare il crollo, sono stati soprattutto gli anni compresi fra il 2006 e il 2010, testimoniando che l’andamento delle buste paga, nel Paese, ha preceduto quello della crisi economica. Il prezzo più alto, secondo la Relazione annuale della Banca d’Italia, è stato pagato dalle famiglie operaie: fra il 2006 e il 2010 il loro reddito medio annuale ha subito un crollo dell’8,5 per cento, il taglio è stato di 1.236 euro scendendo a poco più di 13 mila euro. Non che ai dirigenti sia andata bene: anche loro, negli ultimi anni, hanno subito una diminuzione nel potere d’acquisto che sulla carta risulterebbe superiore a quello degli operai. La perdita secca, per loro, ha superato il 13 per cento, passando da oltre 43 mila euro anni, a poco più di 38 mila. Nei fatti però hanno potuto contare su disponibilità maggiori e nel quadro complessivo del decennio, al di là degli ultimi quattro anni, il loro reddito risulta in crescita. In scivolata anche i lavoratori autonomi: fra 2006 e 2010 hanno visto scendere il loro potere d’acquisto del 9 per cento. L’unica certezza delle famiglie sembra riposta nei nonni che negli anni della crisi hanno visto aumentare i loro redditi medi da pensione del 3,3 per cento.

da La Repubblica

"Perle di saggezza" nella CM sugli organici, di R.P. da La Tecnica della Scuola

La recente circolare sulla definizione degli organici di fatto contiene alcune piccole “perle di saggezza” che segnaliamo ai nostri lettori. Ecco le più interessanti. La CM, riferendosi a quanto previsto dall’articolo 64 della legge 133/08, segnala ai direttore regionali e agli assessori regionali che “il mancato raggiungimento degli obiettivi ha già comportato e comporterà ancora una corrispondente riduzione della quota dei risparmi conseguenti alla riduzione dei posti e destinata ad incrementare le risorse contrattuali stanziate per le iniziative dirette alla valorizzazione ed allo sviluppo professionale della carriera del personale della Scuola “. C’è da chiedersi se viale Trastevere siano al corrente che la contrattazione nazionale è ferma da anni e che misure concrete per lo sviluppo professionale del personale della scuola non si sono viste né se vedono all’orizzonte.
E che dire della affermazione secondo cui “una attenta gestione degli spezzoni orari inferiori a sei ore potrà, sicuramente contribuire al raggiungimento dell’obiettivo del contenimento della spese di cui all’art. 64 della legge 133 del 2008” ?
Il Miur intende riferirsi al fatto che accorpando spezzoni di modesta entità si creano di fatto ulteriori cattedre destinate ai precari; lasciando gli spezzoni alle scuole i dirigenti devono invece coprire le ore aumentando l’orario dei docenti già in servizio.
In realtà la spesa finale è assolutamente identica (anzi forse a conti fatti si spende persino di più affidando gli spezzoni ai docenti di ruolo !) anche se cambiano radicalmente i dati che il Miur deve trasmettere al MEF: nel primo caso aumentano le cattedre, nel secondo caso no; e, a quanto pare, ciò che interessa al MEF non è la spesa effettiva, ma solamente l’apparenza.
La CM sottolinea anche la necessità che i nulla osta per il trasferimento da una scuola all’altra venga rilasciati con parsimonia.
Peccato che già in più circostanze la giustizia amministrativa si sia espressa nel senso di riconoscere alle famiglie il diritto di spostare l’iscrizione anche durante il periodo estivo, soprattutto se nel frattempo sono insorte nuove esigenze familiari.
Interessante poi la annotazione relativa al “necessario rispetto delle norme relative alla sicurezza e alla prevenzione”.
“Relativamente a tale ultima previsione, si ribadisce che in presenza di certificazioni rilasciate dalle autorità competenti le classi vanno istituite tenendo conto di quanto indicato dalle certificazioni stesse”.
Sembra una apertura finalizzata ad evitare le cosiddette “classi pollaio”, ma in realtà si tratta come è spesso accaduto negli ultimi anni di una clausola messa lì per complicare ulteriormente la vita di uffici provinciali e dirigenti scolastici: se l’organico di fatto non può aumentare rispetto allo scorso anno, anche il richiamo alle norme sulla sicurezza si riduce ad una mera dichiarazione di principio.
Divertente, al limite del paradosso, il riferimento agli esoneri e ai semiesoneri.
La CM “rappresenta la necessità che i relativi provvedimenti siano adottati dai Dirigenti scolastici in tempo utile rispetto all’effettuazione delle citate operazioni e comunicati contestualmente alle competenti sedi territoriali degli uffici scolastici regionali”.
Ma il fatto è che in moltissimi casi gli esoneri o i semiesoneri riguardano scuole oggetto di dimensionamento e quindi il dirigente che dovrebbe fare la richiesta non ha conoscenza completa dei docenti che faranno parte del futuro comprensivo (senza contare che in numerose situazioni si tratta persino di dirigenti che dal prossimo settembre saranno collocati in pensione). E decidere già adesso di chiedere la copertura di una cattedra di lettere piuttosto che di un posto di scuola primaria o dell’infanzia significa porre una ipoteca sul nome d chi dovrà svolgere le funzioni di collaboratore del dirigente.
Per non parlare infine, delle “economie derivanti dalla scelta da parte delle famiglie del modello orario di 24 ore settimanali” nella scuola primaria
Ma, a viale Trastevere, conoscono i report dei servizi statistici del Miur stesso secondo cui le classi a 24 ore rappresentano a livello nazionale lo 0,1% del totale (come dire che in tutta Italia sono complessivamente meno di un centinaio) ?

La Tecnica della Scuola 23.07.12