Latest Posts

"Il voto anticipato può battere lo spred?", di Eugenio Scalfari

La giornata di venerdì non è stata la più felice sui mercati europei. In particolare non lo è stata per la Spagna e per l’Italia, ma — almeno per noi — nulla che somigliasse a un’ondata di panico. Quella mattina il governo ha lavorato tranquillamente esaminando una serie di provvedimenti in gestazione. Monti ha dichiarato che «il contagio era da tempo un problema con il quale ci si deve misurare» e che «l’Italia i suoi compiti li ha già fatti e altre manovre restrittive non sono e non saranno all’ordine del giorno». Il giorno prima si era recato al Quirinale.
L’incontro è stato messo in relazione — da alcune voci interessate a diffondere nervosismo e incertezza — con il ribasso delle Borse e con il “contagio”, come se il premier l’avesse scoperto solo allora; i ribassisti sono specializzati nel manipolare i fatti per rendere più profittevoli le loro iniziative. Sta di fatto che il colloquio con il Quirinale aveva tutt’altro tema; un tema che Monti sta rimuginando da tempo e che al punto in cui siamo riteneva indispensabile sottoporre al capo dello Stato: l’eventuale anticipo delle elezioni entro il prossimo ottobre anziché attendere l’aprile del 2013 come finora si pensava e come i tre partiti della “strana maggioranza” si erano impegnati a garantire. Non crisi pilotata, dunque, ma scioglimento delle Camere e nuove elezioni.
Un capovolgimento così imprevisto deriva evidentemente da un accurato esame della situazione politica ed economica. E Monti lo spiega così: a partire dalla ripresa settembrina i partiti entreranno di fatto in campagna elettorale; le distanze e le crepe all’interno della strana maggioranza aumenteranno per ovvie ragioni elettorali e le forze d’opposizione a loro volta accresceranno i toni per convogliare i voti dei ceti che sopportano i maggiori sacrifici della politica di rigore. Insomma, l’atmosfera peggiorerà e l’azione di governo rischierà di risultare paralizzata, come in parte sta già avvenendo.
I mercati ne approfitteranno spargendo sul fuoco politico il loro olio ribassista. Continuare in queste condizioni fino all’aprile senza sapere come andranno le elezioni, chi verrà dopo Monti e con quale programma, è un rischio enorme che spiega fin d’ora almeno una parte del nervosismo che deprime i listini e accentua lo sbilanciamento degli “spread”.
Per stroncare queste aspettative della speculazione e dei mestatori d’ogni risma e colore non sarebbe meglio interrompere subito la legislatura aprendone un’altra? Con una maggioranza non più “strana” ma questa volta politica che abbia come programma di proseguire la linea montiana in un quadro europeo dove il mantenimento del rigore sia finalmente affiancato da un vero sviluppo e da una tangibile equità sociale? Questo è stato l’argomento principale dell’incontro al Quirinale.
Venerdì Monti ha preso il treno per Milano alle 17 per passare finalmente un weekend in santa pace con la moglie sul Lago Maggiore. Evidentemente non era affatto sconvolto dal panico. Sapeva che il collocamento dei titoli alle aste in scadenza non presenta difficoltà, confidava (e confida) che sia l’Olanda sia la Finlandia ritireranno i loro veti all’operazione del fondo “salva Stati” sugli “spread” da lui patrocinata; aveva avuto un colloquio importante e rassicurante con Draghi.
Ora aspetta che Napolitano rifletta sull’ipotesi di elezioni anticipate per poi decidere il da farsi dopo le necessarie consultazioni informali con i partiti che sostengono il governo.
* * *
Che cosa pensi Napolitano su quest’argomento è impossibile dirlo, ma un punto è chiaro: il calendario è strettissimo. Se si decidesse di votare entro la fine di ottobre bisognerebbe sciogliere le Camere nella seconda metà di settembre. Prima di allora occorre che il Parlamento approvi una nuova legge elettorale perché andare a votare con questa è escluso: darebbe legittimamente fiato alle trombe dell’antipolitica con esiti probabilmente catastrofici per la democrazia italiana. Lo sfascismo si rifletterebbe moltiplicato per cento sui mercati. Insomma una vera tragedia non solo per l’Italia ma per l’Europa.
Le conseguenze sul calendario rendono strettissimo il margine di tempo per approvare la legge elettorale: dev’essere approvata entro la prima metà di settembre. Tenendo conto che le Camere lavoreranno fino al 10 agosto e riprenderanno alla fine del mese ci sono venti giorni a partire da domani e quindici giorni in settembre. Il tempo c’è purché ci sia un accordo e l’accordo è in teoria raggiungibile: una legge con criteri proporzionali ma con un premio di governabilità per il partito che raggiunga la maggioranza relativa, restituendo agli elettori la possibilità di scegliere i candidati attraverso collegi uninominali e/o voti di preferenza alle liste, oppure un mix tra questi due sistemi, con soglie per evitare un eccessivo frazionamento. Infine, possibilità di coalizioni e nessun nome di leader sulle schede elettorali.
Questi sono i problemi sul tappeto, derivanti in parte dal calendario in parte dalla capacità dei partiti di varare in tempo utile una legge elettorale decente, più o meno di questo tipo.
La decisione naturalmente spetta al presidente della Repubblica al quale la Costituzione conferisce il potere di scioglimento anticipato della legislatura. Dice esattamente così la Costituzione e non mette alcun paletto a questa prerogativa presidenziale. Naturalmente non sarebbe certo uno scioglimento determinato dal cattivo esito della politica di Monti. Al contrario: proverrebbe da una valutazione positiva dell’operato del governo e dai suoi dieci mesi di attività. Di qui la necessità di proseguire quella politica non più affidandola ad un governo tecnico ma con la diretta partecipazione di esponenti politici, come del resto Monti avrebbe voluto che avvenisse anche nel governo attuale. Ma quale maggioranza verrà fuori dalle elezioni? E quale sarà la posizione di Monti nel nuovo governo?
* * *
Sarebbe molto interessante poter entrare nella testa di Giorgio Napolitano ma è escluso che si possa entrare nella testa e nei pensieri di chicchessia, visto che è difficilissimo perfino entrare nella propria. Una cosa però è certa: anche Napolitano starà riflettendo sulle questioni fin qui indicate perché è a lui che tocca decidere ed è molto grande la responsabilità che gli incombe.
Riflettiamo anche noi. È possibile che un partito come il Pd proponga ai suoi elettori un’alleanza politica che attui il programma economico montiano ed abbia come alleato il partito di Berlusconi?
La risposta è sicuramente no. Il Pd è attualmente collocato tra il 25 e il 30 per cento dei voti con un bacino potenziale di oltre il 40 per cento, in presenza di un astensionismo del 35 e d’uno strato di indecisi del 15 per cento. Una parte notevole dei votanti per il Pd e del bacino potenziale ha la fisionomia di quella che un tempo si chiamava sinistra democratica. La sinistra democratica può essere disponibile ad allearsi con partiti d’ispirazione liberale, non certo con il partito proprietario berlusconiano. In esso i veri liberali non mancano. Si facciano avanti. Se non ora quando?
Pensare che il Pd — auspicabilmente partito di maggioranza relativa — si allei non dico con Berlusconi ma con Cicchitto, Gasparri, La Russa “et similia”, sembra da escludere. Nasca una vera destra repubblicana e si alterni in futuro con la sinistra democratica e liberale, ma queste sono ipotesi desiderabili e futuribili. Il tema di oggi è un altro e si risolve con un’alleanza della sinistra democratica con un centro liberale per proseguire il montismo dando spazio allo sviluppo e all’equità, naturalmente nel quadro europeo.
Facile dirlo, ma che cosa significa esattamente “il quadro europeo”?
* * *
Avviso i lettori che hanno avuto la cortesia di seguirmi fin qui che ora il tema diventa più complesso, entrano in gioco altri personaggi e altre forze. Cercherò di essere il più chiaro possibile.
Il quadro europeo ha come obiettivo finale la nascita di uno Stato federale al quale gli Stati nazionali cedano una parte della loro sovranità, soprattutto per quanto riguarda la politica di bilancio e quindi il fisco, la spesa, la politica dell’immigrazione, le grandi opere infrastrutturali europee, i diritti e i doveri di cittadinanza.
In questo quadro, la Germania ha un ruolo di grande rilievo ma insieme con lei ce l’hanno tutti gli altri Paesi dell’eurozona ed anche alcuni che sono al di fuori di essa. Ruoli altrettanto importanti di quello tedesco ce l’hanno la Francia, l’Italia, la Spagna.
Il punto d’arrivo di questo processo è condiviso da tutti i protagonisti a cominciare dalla cancelliera Angela Merkel, quindi si procede compatti verso l’obiettivo finale anche se in tutti i Paesi esistono falchi che si oppongono e interessi che reclamano tutela. Ma c’è un però: anche se la squadra degli esperti sta lavorando intensamente sui dossier del futuro Stato federale, quanto tempo ci vorrà? Gli ottimisti dicono cinque anni, i pessimisti dicono dieci. Ebbene, non si può aspettare tanto, è necessario che nel frattempo accada qualcosa di efficace e di importante.
Efficace e importante è l’unione bancaria, un’assicurazione che garantisca i depositi e la vigilanza sugli istituti di credito demandata alla Bce. Anche su questi obiettivi tutti i protagonisti sono d’accordo ed anche qui esistono falchi e interessi conservatori. Ma quanto tempo ci vorrà? Gli ottimisti dicono un anno, i pessimisti due. Si va avanti a tutta forza ma non basta. A questo punto entra necessariamente in scena Mario Draghi.
* * *
Draghi ha accordato un’intervista a Le Monde che oggi pubblica anche il nostro giornale. L’intervista è importante ed è anche una novità perché il presidente della Bce non ama parlare con i giornali. Questa volta l’ha fatto e l’ha fatto bene. Segno che era il momento giusto.
Enumera anzitutto quali sono i poteri e lo “status” della Banca centrale da lui guidata. Anzitutto la sua indipendenza dai governi, poi le cose che può fare e quelle che non può fare. Non può intervenire a sostegno dei debiti sovrani, cioè non può partecipare alle aste di quei titoli. Deve vegliare sulla stabilità della moneta e dei prezzi. Deve vigilare sulla stabilità finanziaria. Può intervenire per rassicurare quelle due stabilità, ma, ha aggiunto, che per ora non c’è alcuna minaccia né alla moneta né alla finanza, per ora dunque non c’è bisogno d’intervenire.
Ma se quel bisogno ci fosse? «Allora si vedrà» ha risposto. Poi, sollecitato ulteriormente: «Probabilmente qualche cosa faremo».
Qual è esattamente l’intervento che potrebbe effettuare oltre a quello “non convenzionale” che fece nel dicembre e nel gennaio scorsi prestando a tre anni e all’1 per cento di interesse mille miliardi al sistema bancario europeo?
Può intervenire sul mercato secondario dei titoli per calmierare lo “spread”. L’ha già fatto ampiamente nell’autunno del 2011 acquistando titoli italiani e spagnoli ma anche francesi e austriaci, forse perfino tedeschi.
Questo dovrebbe fare adesso. È necessario? Sì, caro Mario Draghi, è necessario e nessuno lo sa meglio di te. Basterebbe l’annuncio e un inizio d’intervento per spuntare le unghie della speculazione che vuole disarticolare il sistema euro. Questo tipo d’intervento consentirebbe di arrivare in buone condizioni alla nascita dell’unione bancaria, darebbe tranquillità ai governi che potrebbero procedere al taglio delle spese non necessarie e all’abbattimento di alcune imposte sul lavoro e sugli investimenti.
Draghi è il guardiano della stabilità del sistema, i poteri li ha. E anche qui diciamo: se non ora quando?
* * *
C’è un ultimo tema che merita qualche riflessione. Apparentemente non ha alcun collegamento con gli argomenti trattati fin qui, ma non è così, il collegamento c’è: l’attacco in corso contro il presidente della Repubblica persegue un fine di destabilizzazione al tempo stesso istituzionale e politico. Vuole colpire Napolitano e indebolire Monti. Non a caso è portato avanti da gruppi e persone che mettono sotto accusa sia Napolitano sia Monti: Grillo, Di Pietro, i giornali berlusconiani, “il Fatto Quotidiano”. L’accusa a Monti è la solita: ha imposto sacrifici insopportabili ai soliti noti. Tralascio di confutarlo visto che lo faccio da quando questo governo si è insediato.
L’accusa contro Napolitano è di voler impedire l’accertamento della verità nella trattativa tra lo Stato e la mafia. Risale, quella trattativa, agli anni 1992-93. Napolitano non era al Quirinale, c’è arrivato nel 2006, tredici anni dopo e si è sempre battuto affinché quella verità fosse accertata. L’ha ricordata nel suo messaggio di tre giorni fa nella ricorrenza della morte di Borsellino e della sua scorta, indirizzato a tre destinatari: il Consiglio superiore della magistratura, la Procura di Palermo e la moglie e il figlio del magistrato ucciso in via D’Amelio a Palermo.
Ha ricordato le sue battaglie contro la mafia, ha indicato le date e i nomi dei caduti, dei sindacalisti, dei magistrati, dei politici di sinistra, a partire della strage di Portella della Ginestra.
Ha confermato che le indagini della Procura di Palermo possono e debbono proseguire, che raggiungere la verità è un impegno che lo vede parte attiva e partecipe. Ha ripetuto che quell’accertamento deve avvenire nel rispetto della normativa evitando sovrapposizioni ed errori e poi ha ribadito il suo diritto-dovere di chiedere alla Corte costituzionale il chiarimento sulle prerogative del Quirinale sulla base dell’articolo 90 della Costituzione.
Qual è dunque l’accusa? Non c’è, è inventata, è una manipolazione di marca eversiva. Il tema è di capire se il ricorso — necessario — di Napolitano alla Corte impedisca l’accertamento della verità sulla morte di Borsellino. Un accertamento che non ha e non può avere come obiettivo la cosiddetta verità storica, ma la verità che riguarda i reati, quali reati e commessi da chi. Finora e da vent’anni questa verità non è stata accertata o lo è stata in modo drammaticamente sbagliato. Speriamo che in futuro lo sia. Di questo si tratta e non di altro.
E’ forse utile ricordare a chi finge di non saperlo che questo giornale ha fatto della lotta contro la mafia uno dei suoi compiti principali nel quale si sono impegnati i nostri migliori giornalisti da Giorgio Bocca a Giuseppe D’Avanzo a tutta la redazione di Palermo. Mafia siciliana, mafia calabrese e camorra. Grillo a quell’epoca faceva un altro mestiere e Travaglio aveva i calzoni corti.
La Procura di Palermo farà ciò che deve e aspetti, solo per quanto riguarda il tema delle attribuzioni, la sentenza della Corte col rispetto che le è dovuto. E ricordi che le Procure cercano indizi e prove ma chi poi accerta i fatti è il giudice e non il titolare dell’accusa. La mia laurea in Legge mi consente di ricordare questo aspetto elementare che molti ignorano ed alcuni fingono di dimenticare.

La Repubblica 22.07.12

******

Draghi: “L’euro non rischia se serve agiremo senza tabù ma ora via all’unione politica”

L’intervista

“Il presidente Bce: l’economia migliorerà a fine anno”, di CLAIRE GATINOIS, ERIK IZRAELEWICZ e PHILIPPE RICARD

«NO, l’euro non è in pericolo». Interrogato su quanto la Bce potrebbe fare per sostenere l’economia, il suo presidente Mario Draghi dichiara «di non avere tabù». Dai vertici Ue a quelli dell’Eurogruppo, la crisi dell’Eurozona continua ad allarmare. Finora sembra che le disposizioni prese dalla Banca centrale europea siano state le sole a calmare i mercati; ma oggi c’è chi le rimprovera di non aver fatto di più.
Il Fondo monetario internazionale ha riveduto al ribasso le sue previsioni di crescita a livello mondiale, a causa dell’Europa. Stiamo rischiando una recessione?
«No. Certo, dall’inizio dell’anno i rischi di deterioramento dell’economia che ci preoccupavano si sono in parte materializzati; la situazione è andata via via peggiorando, ma non al punto di sprofondare i Paesi dell’Unione monetaria nella recessione. Nelle nostre previsioni c’è tuttora un miglioramento molto graduale della situazione alla fine di quest’anno, o all’inizio del 2013».
Grazie alla Bce?
«L’abbassamento del tasso d’interesse della fine del 2011 e quello di luglio dovrebbero produrre i loro effetti, così come i prestiti triennali alle banche, decisi per scongiurare il rischio di restrizione del credito».
La Bce non dovrebbe fare di più per sostenere l’economia, come ha chiesto l’Fmi?
«Noi siamo molto aperti e non abbiamo tabù. Abbiamo deciso di ridurre i tassi d’interesse a meno dell’1%, perché per l’inizio del 2013 prevediamo un’inflazione vicina o anche inferiore al 2%; è anzi probabile un suo riflusso fin dal 2012. Il nostro mandato è mantenere la stabilità dei prezzi, per evitare non solo l’eccesso di inflazione, ma anche il loro abbassamento generalizzato e globale. Se constateremo rischi di deflazione di questo tipo, entreremo in azione».
I mercati hanno salutato Consiglio europeo del 28 e 29 giugno, ma da allora hanno manifestato qualche dubbio. «Il vertice è stato un successo. Mi sembra che per la
prima volta si sia dato un messaggio chiaro: più Europa per uscire dalla crisi. Une serie di tappe per la creazione di un’Unione con quattro componenti: finanziaria, fiscale, economica e politica. E con strumenti concreti: un’unione finanziaria, un supervisore bancario e la creazione di fondi di soccorso in grado di ricapitalizzare le banche quando questa supervisione sarà operante. E un calendario per l’attuazione di queste tappe».
Si tratta di soluzioni a lungo termine. E per gestire l’emergenza?
«Vorrei parlare della mia esperienza. Nel 1988 il Comitato Delors aveva tracciato il percorso verso l’unione monetaria con un obiettivo, un calendario e una serie di impegni da rispettare. Questa prospettiva è sfociata, nel 1992, nel Trattato di Maastricht. In quel periodo in Italia i tassi d’interesse dei prestiti erano altissimi; ma si sono ridotti bruscamente, prima ancora della diminuzione del deficit, che era all’11% del Pil quando l’Italia si è impegnata nel progetto di unione monetaria. Questo mi induce a pensare che se i Paesi si mostrano fermi nei loro impegni di lungo periodo, gli effetti si vedono anche nel breve termine».
Si rimprovera alla Bce di non fare di più per gli Stati. Forse prima di agire attende gli sforzi da parte dei governi?
«Quest’idea di un mercanteggiamento tra gli Stati e la Bce si fonda su un equivoco. Il nostro mandato non è di risolvere i problemi degli Stati, bensì di assicurare la stabilità dei prezzi e contribuire a quella del sistema finanziario, in piena indipendenza»
Cosa pensa del patto di crescita caro a François Hollande?
«Sarà sicuramente d’aiuto. Ma bisogna andare oltre. Ogni Stato deve fare la sua parte».
Pensa a riforme strutturali, più che a un rilancio in senso keynesiano?
«Sì, anche se si tende troppo spesso a focalizzarsi sulla riforma del mercato del lavoro, che non sempre si traduce in un miglioramento della competitività, dato che a volte le imprese approfittano delle situazioni di monopolio e delle rendite di posizione. Bisogna anche guardare ai mercati dei prodotti e dei servizi, e liberalizzare laddove è necessario. Politicamente, sono decisioni difficili da prendere. In questo senso sarebbe di grande aiuto un’agenda europea, così come un rafforzamento della capacità decisionale comune a livello della Ue».
Dunque, il trionfo delle tesi liberiste?
«No. La fine di certe rendite di posizione è una questione di giustizia, sia per i lavoratori dipendenti che per gli imprenditori e per tutti i cittadini».
Cosa pensa della politica che si sta portando avanti attualmente in Francia?
«Mi rallegro per gli sforzi tesi al risanamento del bilancio, e anche per la priorità alla crescita potenziale, che porrà le basi per la ripresa. Ridurre l’indebitamento è indispensabile. Il Paese deve rispettare il proprio impegno a riportare il deficit al 3% del PIL entro il 2013, continuando così ad approfittare di tassi di interesse contenuti».
Lei è uno degli uomini più influenti d’Europa, ma non è stato eletto. Non pensa che questo sollevi un problema di legittimità democratica?
«Sono consapevole dell’importanza di rendere conto del mio operato. Mi presento al Parlamento europeo una decina di volta all’anno. In termini di comunicazione siamo molto attivi, e saremo pronti a fare di più se i nostri poteri saranno rafforzati. Nelle condizioni straordinarie che viviamo oggi, la Bce deve prendere posizione su questioni che non possono essere risolte dalla politica monetaria, come ad esempio quella degli elevati deficit pubblici, della mancanza di competitività o degli squilibri insostenibili, a fronte dei rischi per la stabilità finanziaria. Dobbiamo preservare l’euro: ciò fa parte del nostro mandato».
Al momento della sua nomina alla testa della Bce lei era considerato come il più tedesco degli italiani. Lo è tuttora?
«Lo lascio dire a lei! Noi dobbiamo mantenere la stabilità dei prezzi nei due sensi. Dobbiamo fronteggiare i problemi così come si pongono, e agire senza pregiudizi».
In un certo senso, lei è molto tedesco quando sostiene gli appelli all’unione politica lanciati da Angela Merkel.
«A mio parere, il movimento verso un’unione di bilancio, finanziaria e politica è inevitabile, e condurrà alla creazione di nuove entità sopranazionali. Il trasferimento di sovranità che ne consegue — ma preferirei parlare di condivisione — è al centro dell’attenzione in alcuni Paesi, mentre non lo è in altri. Ora, in tempi di globalizzazione, è precisamente attraverso questa condivisione che ogni Paese ha le maggiori probabilità di salvaguardare la sua sovranità. A lungo termine, l’euro dovrà essere fondato su una maggiore integrazione».
L’eventuale uscita dalla Grecia dall’Eurozona è di attualità?
«Noi preferiamo, senza alcun equivoco, che la Grecia rimanga nell’Eurozona. Ma la decisione spetta al governo di Atene, che ha dichiarato il suo impegno e ora deve produrre i risultati. Quanto alla rinegoziazione del memorandum [per ammorbidire le riforme imposte al Paese] non prenderò nessuna posizione prima di aver visto il rapporto della “troika”».
I ministri delle finanze dell’Eurozona hanno messo a punto, venerdì 20 luglio, il piano di aiuti alle banche spagnole. Basterà questo per evitare il naufragio del Paese?
«E’ importante il coinvolgimento dei creditori senior delle banche, che a parere della Bce, in caso di liquidazione di una banca dovrebbe essere possibile. I risparmiatori vanno protetti, ma i creditori dovrebbero essere associati alla soluzione della crisi, per limitare l’impegno dei contribuenti, che hanno già pagato molto.
Pensa di partire serenamente per le vacanze estive?
«Non prevedo mai le mie vacanze, e parto solo per alcuni giorni. Una cosa è certa: non andrò in Polinesia. E’ troppo distante».
Dunque l’euro è sempre in pericolo?
«No, assolutamente no. Alcuni analisti prefigurano scenari di esplosione dell’Eurozona; ma chi lo fa disconosce il capitale politico che i nostri dirigenti hanno investito in quest’Unione, così come il sostegno degli europei. L’euro è irreversibile!».
Copyright Le Monde Traduzione di Elisabetta Horvat

La repubblica 22.07.12

******

“Che cosa fare per difendere l’Italia”, di MARIO CALABRESI
Improvvisamente la primavera del 2013 sembra lontanissima. Troppo lontana per sopportare incertezza, speculazione, scontri politici. Così lontana da giustificare la rottura di un tabù: le elezioni anticipate a novembre.

Quei nove mesi che ci separano dalla fine della Legislatura li abbiamo fin qui considerati un problema perché troppo limitati e vicini per un proficuo programma di risanamento e di riforme: la sensazione prevalente era che avremmo avuto bisogno di più tempo per rimetterci in piedi.

La presenza di Mario Monti, si ragionava in Italia come all’estero, era uno scudo contro scenari catastrofici, era ed è una garanzia fino alle elezioni, ma nessuno è mai stato in grado di dire cosa sarebbe successo poi e le paure più diffuse erano proprio per questo incerto «dopo».

Insomma il nostro problema in questo 2012 è sempre stato il dopo Monti, la pagina incerta che si sarebbe aperta dopo il voto.

Oggi le cose sembrano in parte cambiate: il problema è il troppo tempo che ci separa da un chiarimento e la strada autunnale e invernale che ci porta alla primavera del 2013 appare invece come la traversata di un mare in tempesta.

Intendiamoci, in presenza di una maggioranza coesa nei suoi obiettivi e nel suo sostegno al governo, questo tempo continuerebbe ad essere poco, ma lo si potrebbe sfruttare per portare il Paese il più lontano possibile dal baratro.

La verità però è un’altra, la campagna elettorale è già cominciata con le sue divisioni, la necessità per i partiti di distinguersi, definirsi, prendere le distanze dalle politiche più impopolari, così la navigazione è diventata ancora più faticosa per il governo e il nostro spread parla chiaramente anche di questo.

La prima telefonata che ho ricevuto il giorno in cui è uscita la notizia del ritorno in campo di Silvio Berlusconi è stata di Hugo Dixon, fondatore di Reuters Breakingviews e uno dei più influenti analisti economico-finanziari inglesi: mi chiedeva se fosse vero e mi spiegava che questo avrebbe aumentato le fibrillazioni, le paure e le incomprensioni con gli investitori internazionali. Le frasi poi su un ritorno alla lira, così come i mille distinguo emersi a sinistra, hanno risvegliato stereotipi e fantasmi sull’affidabilità dell’Italia.

Il fattore incertezza pesa in modo consistente sulla valutazione che viene fatta da chi investe e contribuisce a formare l’eccessivo interesse che dobbiamo pagare per riuscire a piazzare il nostro debito. Lo ha sottolineato, tra le polemiche, l’agenzia di rating Moody’s e ce lo hanno confermato gli oltre trenta corrispondenti stranieri che sono venuti alla Stampa all’inizio della settimana per raccontarci quanto sia difficile comprendere noi italiani e il nostro sistema politico in questo momento.

E’ inutile e perfino un po’ ridicolo prendersela con gli stranieri, gridare ai complotti e ergersi a paladini dell’orgoglio nazionale di fronte alle critiche, sarebbe meglio – lo dice con chiarezza in queste pagine anche l’ex direttore dell’ Economist Bill Emmott – se ognuno di noi si facesse una domanda semplice: «Ma io presterei i miei soldi all’Italia? Rischierei i miei risparmi, i miei capitali o la mia pensione mettendomi nelle mani di una classe politica che non mi offre garanzie per il futuro?». Penso che la risposta sarebbe univoca. Anche i mercati ragionano così.

Per questo, per non passare nove mesi in balia dell’incertezza e della speculazione, da alcuni giorni si è cominciato a ragionare, nei palazzi del governo e nei colloqui tra il premier e i partiti, dell’ipotesi di elezioni anticipate. All’inizio di novembre. Elezioni che imporrebbero un chiarimento in tempi brevi e permetterebbero poi di impostare programmi di legislatura e di largo respiro. La cosa circolava da un paio di giorni ed è stata raccontata ieri dal Corriere della Sera , che per primo ha affacciato l’ipotesi di una crisi pilotata per andare al voto anticipato. Ieri sera è arrivata, comprensibilmente, una smentita da Palazzo Chigi, ma il ragionamento esiste e ha un fondamento.

L’idea non sarebbe quella di mettere fine ad un’esperienza di governo o di considerarla come una sconfitta bensì di vederla come un’opportunità, un’occasione che si può prendere in considerazione nelle strategie di difesa dell’Italia.

Certo, un passaggio così sarebbe possibile solo se ci fosse unità di intenti da parte delle forze politiche che formano la maggioranza di Monti e se, come ha sottolineato anche il presidente Napolitano in più occasioni, i partiti dicessero chiaramente che si impegnano anche nella prossima legislatura a continuare nella direzione del rigore e del risanamento. Di fronte ad avventurismi, nostalgie per la lira, piani fantascientifici di rilancio dell’economia basati su un aumento della spesa, ogni mossa sarebbe suicida. Ma se ci fosse una competizione leale aperta da un preambolo comune, una sorta di documento di impegno a tenere l’Italia nell’euro e ad onorare gli impegni presi, allora questa strada diventerebbe una possibilità da tenere in considerazione. Con una precondizione: una nuova legge elettorale varata al più presto, perché gli italiani non meritano di tornare alle urne con quella attuale.

Tutto ciò richiederebbe maturità politica, vista lunga, l’abbandono di tatticismi e egoismi di giornata. Quelle stesse caratteristiche che dovrebbero spingere le forze politiche alla massima serietà di fronte ai rischi che stiamo correndo. Se non vogliamo svegliarci a Madrid o ad Atene, c’è da essere onesti e conseguenti: nove mesi di battaglia elettorale sulla pelle dell’Italia e degli italiani non si possono fare, o si va al voto prima o si assicura a Monti il sostegno necessario perché la nave non affondi e si possa arrivare alla prossima primavera se non sani perlomeno salvi.

La Stampa 22.0712

"Responsabilità e opportunisti", di Claudio Sardo

In questa estate infuocata e così carica di paura per le sorti dell’Europa e per la stabilità finanziaria del nostro Paese, è doveroso il richiamo alla responsabilità. Nessuno – istituzioni, partiti, forze sociali, cittadini – può sottrarsi. Ma l’esercizio della responsabilità non è solo la pretesa di un comportamento altrui.
Il premier Monti si sta prodigando per mettere l’Italia in sicurezza, minacciata com’è dai tassi troppo elevati con cui è costretta a finanziare il proprio debito. E la sua preoccupazione è condivisibile, compresa l’indicibile riserva di elezioni anticipate in autunno qualora l’emergenza si rivelasse tecnicamente ingovernabile da un governo di tecnici. Tuttavia anche il presidente del Consiglio dovrebbe evitare di rappresentare i nostri affanni sui mercati come se questi dipendessero dal «rischio democratico» delle elezioni future: non si può passare di colpo dalla narrazione di uno spread impennatosi per colpa del governo precedente al racconto di un spread che resta alto per colpa del governo futuro.

Ci vuole misura, e rispetto, per la regola democratica, che resta la via maestra per il riscatto di un Paese. Come ci vuole rispetto per le istituzioni. Cosa ha a che spartire con il centrosinistra di domani un Di Pietro che evoca persino l’impeachment di Napolitano – per «tradimento» della Costituzione – solo perché il Capo dello Stato ha chiesto il giudizio della Consulta su una intercettazione telefonica che lo riguarda e che la stessa Procura di Palermo ha giudicato penalmente irrilevante e ininfluente ai fini dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio? Quale moralità della politica c’è dietro una volontà di conflitto, che dimentica le priorità sociali, per inseguire i demagoghi di turno? Quale credibilità c’è nel sottrarsi alla responsabilità di oggi e candidarsi magari a quella di domani?

Allo stesso modo è inaccettabile il comportamento del Pdl, che per un verso protegge la propria crisi dietro la paratia della Grande coalizione e per un altro traffica con la Lega in Senato, per piccole quote di potere e un po’ di propaganda, ripristinando all’occorrenza la vecchia maggioranza, quella che ha portato il Paese alla soglia del default. È uno scempio ciò che è accaduto nei giorni scorsi: pur di affossare le riforme istituzionali, hanno rialzato la bandiera del presidenzialismo; pur di nominare un senatore Pdl alla presidenza della commissione Difesa, hanno stracciato la regola più elementare di convivenza parlamentare; pur di impedire una riforma del Porcellum, sembrano ora disposti a qualunque trabocchetto. Il Pdl ha dato il via libera a Monti perché non poteva fare altrimenti. Ma non è stato capace di diventare partito e neppure di dare una successione a Berlusconi. Ora pare avere un solo scopo: impedire che il centrosinistra vinca le elezioni, a qualunque costo.

Ma la responsabilità è richiesta anche al Pd e al centrosinistra. Lo spettacolo dell’ultima Assemblea nazionale è stato mortificante per i suoi sostenitori. Non tanto per il dissenso che si è manifestato attorno al tema delle unioni omosessuali: se un dissenso esiste, non c’è ragione democratica perché non si manifesti. La quasi rissa che ha concluso quella riunione, però, ha dato un senso di inadeguatezza, di irresponsabilità, appunto. Perché, come si è visto nei giorni successivi, la convergenza sul merito era assai maggiore delle diversità. Perché il documento del comitato Bindi conteneva aperture e innovazioni, che avrebbero dovuto essere discusse e valorizzate, prima di uteriori approfondimenti e critiche. E perché non ha senso, al di là delle legittime opzioni giuridiche sulla tutela delle unioni civili, mettere in discussione la natura del Pd come «partito di credenti e non credenti». Proprio ora che il Pd è chiamato a farsi carico, più di ogni altro, di una funzione nazionale. È il partito della nazione, su cui è possibile ricostruire una democrazia competitiva e un governo di respiro europeo. Se fallirà, non è detto che la nostra discussione sui diritti sociali e civili possa continuare sui paradigmi di oggi.

C’è bisogno di responsabilità. E di forza politica nella battaglia. Abbiamo davanti un bivio storico, che può condurre al rinnovamento o allo stravolgimento del nostro modello sociale, che ci può far riconquistare la democrazia politica oppure ce la può far perdere decretando la servitù alla finanza, alle sue oligarchie, persino alle sue dinamiche corruttive. Non ci sarà vera uscita dalla crisi senza democrazia. Vale per l’Italia, vale per l’Europa. Chi vuole prorogare sine die il governo dei tecnici, magari spalleggiando quando serve la demagogia anti-partiti e il populismo dei leader carismatici (siano essi Berlusconi o Grillo), in realtà sta zavorrando il Paese. Altro che sviluppo.
Tocca alle forze politiche, anzitutto al centrosinistra, proporre una credibile alternativa di governo. Senza più le ammucchiate modello Unione. Poi però la responsabilità sarà degli elettori. Che sia l’autunno prossimo o la primavera 2013 non ci saranno alibi. Chi era Berlusconi lo sapevano i cittadini che lo hanno votato e anche le classi dirigenti che largamente lo hanno sostenuto.

L’Italia non è declinata per un destino cinico e baro. È stato il frutto di una scelta, o meglio, di una convergenza di interessi. Presto la scelta da fare sarà ancora più importante, perché la crisi brucia i tempi. Coesione o rottura nazionale. Governo europeo o populismo nostrano. Continuità nella linea economica o alleanze per cambiarla. È una responsabilità storica. Nessuno potrà scaricare su altri i propri errori.

L’Unità 22.07.12

"L'abitudine alla violenza", di Michele Serra

Il giovane americano “normale” che si arma fino ai denti e fa strage di innocenti è una figura ormai tragicamente classica della cronaca nera. Ma così come nessuno ricorda niente, o quasi, degli autori delle stragi di Austin, o di Columbine, o di Fort Hood (non il nome, non il volto, non una qualche specifica vocazione al male), presto nessuno ricorderà niente di questo James Holmes, che si è accanito contro una folla di ragazzi e bambini a Denver, Colorado.
L’anonimato — l’implacabile anonimato che la società dello spettacolo ha trasformato nella più definitiva, nella più insopportabile delle colpe — è l’ingrediente più vistoso di queste orribili mattanze. È il solo tratto comune tra le povere vittime e il loro carnefice, un essere umano impazzito o marcito nel bozzolo infetto della porta accanto, dove ha progettato per mesi o magari per anni, come via d’uscita dalla sua nullità, un tiro a segno da record. L’appuntamento è dentro un cinema, in un supermercato, in una scuola, dovunque si concentrino tante sagome umane quante ne bastano a scaricare le provviste di piombo accumulate con l’accanimento del maniaco, con il fervore malato del feticista. La folla come bersaglio perché è nella folla che si teme di annegare, di sparire per sempre. Sul mito del Grande Tiratore (vedi il beffardo romanzo omonimo di Kurt Vonnegut) è costruita l’epopea degli Stati Uniti, migliaia di chilometri di territorio sono stati conquistati e quasi tracciati dagli spari (una successione di spari che va da Costa a Costa), migliaia di chilometri di pellicola li hanno celebrati. Finita ormai da parecchie generazioni l’epopea della Frontiera, il culto delle armi ristagna, malsano e involgarito, nei cassetti di casa, nei bauli dei fuoristrada, nelle pullulanti armerie che hanno imbottito l’America di quasi mezzo miliardo di armi da fuoco private, quasi due per ogni abitante compresi i neonati e compresi i pacifici e i disarmati, e le femmine che di questa malattia maschile sono quasi sempre infermiere impotenti. Parodia dei cow-boys che puntavano il fucile verso il ciglio sconosciuto delle praterie, anziani maschi ottusi o scellerati (sempre Vonnegut li chiamava: vecchi porci) difendono il diritto a tenere la mano sul calcio di una pistola, e capeggiano lobbies così potenti che nessuna amministrazione, Obama compreso, osa mettere un freno a questo incessante riarmo privato.
E poi, si sa, c’è la febbrile moltiplicazione tecnologica e mediatica di tutto: spari compresi. Neurologia, sociologia, psichiatria non danno risposte certe, nessuno sa se esiste un nesso verificabile tra la crescita esponenziale della violenza virtuale, dei games di sterminio, dei film violenti, e l’aumento delle persone violente. Ma almeno un dato certo, indiscutibile, lo abbiamo: la morte violenta, già potentemente riprodotta e diffusa da cinema e televisione, diventa, di generazione in generazione, un’immagine sempre più familiare, domestica, normale. Ovunque sagome umane da crivellare, puro score per l’abilità del tiratore. Ovunque un obiettivo da raggiungere liberandosi di nugoli di intrusi, e anche videogame “per famiglia”, che hanno lo stesso crisma di innocente divertimento di un gioco di carte o da tavolo, prevedono la morte degli altri come i gradini della scala che conduce alla vittoria.
Se il sesso, pur nella progressiva liberalizzazione di ogni cosa, conserva almeno qualche caratteristica del tabù, e svariati “parental control” e password tentano di confinarlo entro i suoi recinti, la morte violenta no, è arredo quotidiano, è gioco per bambini, è diffusione “in chiaro”. Scorre come acqua anche il sangue. Si tende a nascondere il corpo umano che rantola di piacere, ma non esistono pecette che coprano il corpo umano che rantola di dolore, e muore ammazzato. Forse non sapremo mai che cosa ha guastato la vita, e la testa, di James Holmes e degli stragisti “senza movente” come lui. Di certo, sappiamo che le armi, gli spari, le sagome umane da colpire e cancellare, l’altro da eliminare per liberare la strada, sono moneta corrente, appena spiccioli, nel loro mondo compreso tra una stanza chiusa e un video acceso.

La Repubblica 22.07.12

"Tasse università: aumenti indecenti", di Mariagrazia Gerina

Le tasse pedagogiche sono l’ultima frontiera della spending review. Qualcuno in passato era arrivato a sostenere la bellezza del tributo versato allo Stato. Ma nessuno, ancora, si era spinto a suggerirne quasi il valore educativo, insieme all’aumento. Più si paga, più si impara? Se così fosse, gli studenti italiani dovrebbero davvero eccellere. Visto che le tasse che pagano sono già adesso tra le più alte d’Europa (più care, solo quelle di Regno Unito e Olanda). E invece succede che le università italiane devono fare i conti con 31mila matricole in meno rispetto a dieci anni fa.

Ventenni, certo, scoraggiati anche dai costi dell’università. Non a caso, finlandesi, norvegesi, danesi, svedesi, islandesi, cechi per incentivare le iscrizioni non fanno pagare tasse. Il governo Monti ha scelto tutt’altra strategia. Nella revisione della spesa ha inserito una serie di norme che permetteranno in sostanza gli atenei di far pagare più tasse ai loro studenti. Il ministro Profumo, appunto, sostiene anche che ci sia un risvolto pedagogico in tutto questo. Il «processo di responsabilizzazione dei nostri studenti» – spiega – in tempi di crisi passa anche attraverso i meccanismi della contribuzione universitaria. Nel mirino, sono finiti in particolare gli studenti «fuori corso»: «Non fanno bene al paese», «sono un problema culturale», «non possiamo permetterceli». Soluzione: aumentiamogli le tasse, così imparano. Ma davvero il bersaglio sono loro? I Giovani democratici della Rete universitaria nazionale, numeri alla mano, dimostrano che non è così: secondo le loro proiezioni, se passerà la norma introdotta nella spending review, in realtà, l’aumento delle tasse, almeno potenzialmente, riguarderà tutti. Ciascuno studente potrebbe dover pagare fino a 600 euro in più l’anno. Il calcolo è semplice. Ma richiede una premessa. Sui tributi, gli atenei hanno sempre fatto come hanno voluto. Unico limite: la contribuzione non doveva superare il 20% dei trasferimenti sul fondo di finanziamento ordinario. Anche così, la metà delle università in questi anni ha chiesto agli studenti più tasse del dovuto. E il governo invece di schierarsi dalla parte di questi ultimi, ha deciso di mettere nelle mani delle università uno strumento in più per rivalersi sulla contribuzione.

Una operazione che sa tanto di «dividi e tassa». Di qua, gli studenti in regola, anzi «gli studenti italiani in corso» – proprio così specifica la norma: “italiani” – i cui contributi non potranno superare il nuovo limite del 20%. Di là, un calderone che, con una logica che ha fatto gridare gli studenti alla “discriminazione”, unisce le sorti degli studenti extracomunitari, seconde generazioni incluse, a quelle dei fuori corso, che sono circa il 40%. Tutti loro, da domani, quando gli atenei decideranno di aumentare le tasse, non si ritroveranno più un “tetto” contributivo sulla testa a proteggerli. Gli altri saranno rimasti così pochi che il tetto alla contribuzione universitaria superato oggi da 34 atenei su 62 improvvisamente lascerà ampio spazio agli aumenti. Anche perché il governo lo ha ritoccato verso l’alto: se prima il 20% si calcolava rispetto al fondo di finanziamento ordinario, ora si calcola rispetto a una più generica somma di tutti i trasferimenti dallo Stato.

Risultato: tolti 166mila esonerati, gli studenti che pagano le tasse attualmente sono un milione e 475mila. I regolari sono il 61,3%, E, a parità di importo, quello che tutti insieme verserebbero nelle casse delle università non supererebbe il 12,6% dei finanziamenti statali. Insomma, il margine per aumentare le tasse, grazie alle nuove norme, è assai ampio. L’aumento potenziale medio si aggirerebbe intorno a 600 euro. Ma vista l’attuale varietà di trattamento che gli atenei riservano è chiaro prevedere che in molte università le tasse potranno aumentare anche di più.
È sulla base di questi numeri che i Giovani democratici hanno lanciato la sfida al ministro Profumo. E, tra gli stand di salsicce e le tavole imbandite della festa dell’Unità di Roma, dieci giorni fa, hanno strappato la promessa di un incontro nelle alte stanze di Viale Trastevere.

Nell’attesa, hanno convinto il Pd a sposare la loro battaglia. Con un emendamento già depositato in parlamento che chiede l’abrogazione dell’articolo introdotto nella spending review.

«In effetti, non si capisce perché introdurre una norma che permetterà agli atenei di alzare le tasse in un provvedimento che dovrebbe invece occuparsi di rivedere la spesa pubblica», concorda una delle massime esperte di contribuzione studentesca, Federica Laudisa, dell’Osservatorio per il diritto allo studio del Piemonte. Molto critica con le nuove norme imposte dalla spending review. I numeri elaborati dai Giovani democratici se mai a suo avviso sono approssimati per difetto. A quelli, aggiunge un altro dato che la preoccupa: gli studenti part-time nel 2010-11 sono stati poco meno di 36mila, appena il 2% della popolazione studentesca. Molti di più evidentemente preferiscono iscriversi regolarmente e finire fuori corso. Quanto alle norme che regolano le tasse, la deregulation è totale. Con qualche eccezione positiva. Al Politecnico di Torino, rettore lo stesso Profumo, è stata intro- dotta – ricorda Federica Laudisa – una tassazione progressiva che, invece delle 4 o 5 fasce di reddito, prevede che, so- pra ai 12.500 euro, ogni mille euro di reddito in più scatti un aumento di 28 euro. Per ora, da ministro, Profumo non ha esteso l’esperimento. Anzi, in questi mesi: «A fissare delle regole generali a tutela degli studenti non è stata emanata neppure una direttiva ministeriale», sottolinea la studiosa. Mentre contro l’aumento delle tasse, l’unica possibilità per gli studenti è stata appellarsi ai tribunali. Adesso l’ulteriore “via libera” che arriva dalla spending review renderà vano anche quel tentativo già percorso (con successo).

L’Unità 21.07.12

"Ma chi ha spento la radio pubblica?", di Giovanni Valentini

La radio è il primo risultato di quella tecnologia che via via si è sviluppata a grandissima velocità ben oltre le aspettative dei suoi fondatori.
(da “Storia della radio e della televisione in Italia” di Franco Monteleone – Marsilio, terza edizione, 2003 pag. 4). Quando si parla di Rai, e negli ultimi tempi le occasioni non sono mancate, in genere si parla di televisione pubblica e raramente di radio pubblica. La “grande sorella” e la “piccola sorella”. Eppure, per riconoscimento comune, la radio fa più servizio pubblico della tv. È più pluralista; meno schierata; offre mediamente un “prodotto” di qualità superiore, sia sul piano dell’informazione sia su quello dell’intrattenimento. Non è un caso che in campo radiofonico la concorrenza in Italia sia di gran lunga maggiore in confronto al mercato della televisione.
Senza la suggestione delle immagini, senza la spettacolarizzazione e l’imbonimento televisivo, la radio privilegia la sostanza rispetto all’apparenza: qui è più importante che cosa si dice, di come si dice. E poi, è uno strumento più capillare, meno invasivo, che consente di ascoltare e anche di svolgere contemporaneamente altre attività: guidare, cucinare, sbrigare le faccende domestiche, lavorare, studiare, correre o fare ginnastica. Più che un “persuasore occulto”, è un interlocutore invisibile che lascia spazio alla comprensione e al vaglio critico: anche per ragioni puramente tecniche, di solito alla radio non si riproduce il parapiglia delle risse televisive, la politica non diventa spettacolo, il talk non si trasforma in uno show.
Sappiamo che nella storia dei mezzi di comunicazione di massa, nessun nuovo mezzo ha mai soppiantato completamente quelli precedenti. Piuttosto, c’è stata una contaminazione reciproca e magari una rigenerazione. Per reggere all’avvento della televisione, nel tempo la radio ha saputo rinnovarsi di continuo, nei contenuti, nel linguaggio, nello stile, mantenendo un suo ruolo e una sua funzione. Fino al boom delle emittenti private, nazionali e locali. Nella crisi generale della Rai, oggi la radio pubblica soffre di una sua crisi particolare: di ascolti e soprattutto d’identità. Ad accusare il colpo più pesante è proprio l’informazione “annacquata” dei Gr che, sotto la direzione unificata di Antonio Preziosi, mortifica professionalità, competenze ed esperienze interne. Tanto da indurre il comitato di redazione a esprimere la propria preoccupazione per il futuro, dichiarando formalmente lo stato di agitazione.
Da quando sono state sospese le rilevazioni ufficiali di Audiradio, sono già tre le indagini esterne che segnalano un calo di ascolti: prima quella dell’Ipsos, poi dell’Istituto Piepoli e quindi di Eurisko- Monitor. Secondo quest’ultima, dal 2009 a oggi Radio 1 sarebbe scesa da 6,208 milioni di ascoltatori a 4,585 (-26%), retrocedendo dal primo al quinto posto nella graduatoria nazionale; la seconda rete da 3,735 milioni a 3,188 (-15%), la terza da 1,850 a 1,435 (-22%). E nella fascia oraria più importante della giornata, dalle 6 alle 9 del mattino, l’ammiraglia della radio pubblica registrerebbe addirittura un calo del 40%. Ma non è soltanto una crisi di ascolti. C’è una questione di identità culturale; di “mission”, come si usa dire, cioè di programmazione e di obiettivi. In base all’ultimo piano editoriale, Radio 1 doveva diventare una rete “all news”, sul modello televisivo della Cnn americana; Radio 2 una rete più giovane e moderna; Radio 3 una rete di approfondimento. Il fatto è che, a volte, non si distingue l’una dall’altra e il peggio è che si rischia di non distinguere la radio pubblica dalle radio private.
Quanto all’informazione, i giornali radio della Rai assomigliano tendenzialmente a un bollettino; una rassegna di notizie, piatta e burocratica. La loro formula è antiquata, ripetitiva, poco attraente. Dietro un’apparente neutralità, emerge spesso un’impostazione ufficiale che rievoca le “Cronache del Regime”, imposte dal fascismo a metà degli anni Trenta.
Eppure, nel rispetto del pluralismo politico, culturale e religioso, la radio pubblica può fare opinione quanto e anche più della televisione. E più della tv, può svolgere quel ruolo pedagogico che appartiene alla natura e alla vocazione del servizio pubblico. Non per “educare” o “convertire” le masse al pensiero unico dominante, ma per contribuire alla crescita civile del Paese, attraverso il confronto delle idee e delle opinioni. E magari con una più organica ed efficace proiezione interattiva sulla Rete, per cercare di coinvolgere soprattutto il pubblico più giovane.

La repubblica 21.07.12

"Di Pietro, il punto di non ritorno", di Pietro Spataro

Antonio Di Pietro sembra ormai arrivato al punto di non ritorno. L’attacco al Quirinale ha superato infatti i confini, anche i più duri, della critica politica ed è diventato una vera e propria aggressione, spesso con toni e argomenti che ricordano molto da vicino le vergognose e devastanti campagne berlusconiane degli anni passati.
Il problema serio è che in gioco non c’è la persona di Giorgio Napolitano, un uomo che ha comunque fatto della correttezza e del rispetto delle istituzioni il centro della propria vita politica e parlamentare. Qui è in gioco la Costituzione, il ruolo del Quirinale e le sue prerogative, il formale rispetto della separazione dei poteri: insomma, i principi fondativi della democrazia e dello Stato di diritto. Napolitano infatti, come abbiamo titolato qualche giorno fa in prima pagina, «difende il Quirinale». Ed è quanto di più lontano ci sia dalla cura, in altri luoghi esercitata in modo disinvolto, di interessi personali. Ecco, l’attacco di Di Pietro rischia di trasformarsi in un attacco al cuore del sistema costituzionale.
Gli argomenti usati per tentare di infangare il Capo dello Stato sono del tutto inconsistenti. Come si fa a sostenere che l’iniziativa di Napolitano è un tentativo di imporre una «ragion di Stato» che impedisce di «accertare la verità»? Persino i magistrati di Palermo, nei confronti dei quali è stato sollevato il conflitto di attribuzione alla Corte Costituzionale per le intercettazioni dei colloqui con Mancino, hanno ritenuto legittima quella scelta. Il procuratore Francesco Messineo, proprio in un’intervista a l’Unità, ha sostenuto che è un «mezzo previsto dall’ordinamento e del tutto corretto», che i pm non hanno «alcuna tesi preconcetta» e sono «perfettamente aperti a recepire le indicazioni». Non solo: ha aggiunto che quella decisione del Quirinale non «collide con l’indagine che può continuare tranquillamente». E allora dov’è l’ostacolo all’accertamento della verità? E dove il «tradimento della Costituzione» da parte del Capo dello Stato di cui parla Di Pietro? E dove sono gli elementi per dire “se fossi pm chiederei una condanna politica”, come fa oggi sul Fatto dimenticando che dai pm non ci si aspettano condanne politiche?
Napolitano ha semplicemente posto alla Consulta la seguente domanda: è legittimo intercettare il capo dello Stato visto che c’è una legge che lo vieta e che l’articolo 90 della Costituzione prevede che egli «non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione»? È a questo che punta Antonio Di Pietro, cioè mettere addirittura il presidente in stato d’accusa?
Da qualunque punto lo si guardi, insomma, il comportamento del leader Idv non è soltanto ingiustificato ma è fuori dallo spirito di responsabilità nazionale e rischia di danneggiare le istituzioni democratiche. Il motivo di questa scelta è politicamente abbastanza chiaro: un tentativo, per la verità un po’ maldestro, di ottenere più visibilità e di occupare quello spazio che finora era proprietà esclusiva di Grillo. Chissà se questo consentirà da Di Pietro di raccattare qualche voto in più. Sicuramente rischia di confinarlo, se non si fermerà in tempo, ai margini dello spazio politico, in un ruolo di opposizione antisistema che è incompatibile con qualsiasi impegno di governo. Se si guarda al 2013 è ormai del tutto evidente che l’Idv sta tagliando tutti i ponti nei confronti di qualsiasi alleanza. Quale compatibilità ci può mai essere, infatti, tra chi mena fendenti contro le istituzioni e chi vuole ricostruire il Paese sventolando la bandiera della Costituzione?

L’Unità 21.07.12

"Province, cambia l’Italia ne resteranno solo 43 e dieci città metropolitane", di Valentina Conte

Il governo fissa i nuovi criteri e alla fine, di Province, ne restano 43 su 107. «Una riforma storica, la prima dall’epoca napoleonica », si brinda alla Funzione pubblica, il cui ministro Patroni Griffi, autore della nuova fisionomia che stravolgerà la geografia italiana, assicura che, alla fine della “cura” (2013-2014), il processo di «soppressione e riordino» porterà a «40 Province, 10 Città metropolitane». L’iter non sarà breve (tempi e modi ancora da definire, secondo il ministro). E coinvolgerà innanzitutto le Regioni ordinarie, poiché su quelle Speciali vale il “muro” dell’autonomia e l’adeguamento seguirà procedure diverse. Al contrario, le prime dovranno affrettare il passo e stilare l’elenco, entro l’anno (quando l’accorpamento sarà legge), delle “ripescate”, le 50 Province destinate a perdere il loro status per “accorpare” sedi, funzioni, personale con le vicine (sarebbero
64 con quelle di Sicilia, Sardegna e Friuli). Basta che siano popolate da almeno 350 mila abitanti ed estese quantomeno per 2.500 chilometri quadrati (dai 3 mila ipotizzati in prima battuta). Parametri minimi, stabiliti ieri dal Consiglio dei ministri, a cui rispondono, secondo i primi calcoli del governo, 36 Province (le “salvate”). Gli “accorpamenti” già sollevano polemiche, ma anche opportunità che i territori sembrano voler cogliere. Si parla di Provincia Romagnola tra Cesena, Forlì, Rimini e Ravenna. E di Provincia del Buon gusto per Parma, Piacenza, Modena e Reggio Emilia. Ma anche di Provincia Pontina e della Ciociaria per Latina e Frosinone e di Provincia Adriatica per il “matrimonio” possibile tra Teramo, Pescara e Chieti. Mentre ancora Savona e Imperia paiono destinate a formare la Provincia di Ponente. Fantasie? Si vedrà se a prevalere saranno i campanilismi o le esigenze della
spending review.
Non mancano, intanto, critiche e distinguo, naturalmente. Come quelle dell’Unione province italiane (Upi), che apprezza il disegno complessivo, stimando risparmi di 500 milioni a regime dalla “dieta” imposta alle strutture politiche e alle sedi, più 1-1,5 miliardi dalla conseguente riorganizzazione degli uffici dello Stato: questure, commissariati, vigili del fuoco, protezione civile, agenzie economiche (Entrate, Demanio), prefetture (verrebbero dimezzate). Ma si teme per il destino occupazionale di 56 mila dipendenti (di cui 10 mila nei Centri per l’impiego) e per le funzioni. A vecchie e nuove
Province dovrebbero restare solo trasporti e viabilità (125 mila chilometri di strade) e ambiente. Via lavoro e scuole. In particolare, l’Upi teme per l’edilizia scolastica: 5 mila edifici relativi a 3.300 istituti secondari, su cui le Province negli anni hanno investito
moltissimo in manutenzione e controlli. E per le quali hanno circa 3 miliardi di debiti contratti con banche e Cassa depositi e prestiti.
L’unica scure certa, nel frattempo, è quelle delle 10 Province più grandi che entro il primo
gennaio 2014 diventeranno Città metropolitane: Roma, Milano, Napoli, Venezia, Firenze, Torino, Genova, Bologna, Bari e Reggio Calabria. Con il primo Super- Sindaco in arrivo già in primavera e proprio nella Capitale.

La Repubblica 21.07.12

******

Tutte le conseguenze per i cittadini tra incertezze e nuove competenze

È uno dei temi caldi, dal momento che l’edilizia scolastica, storica competenza delle Province per quanto riguarda gli istituti secondari, sarà loro sottratta per passare in capo ai Comuni. Spetterà dunque ai sindaci costruire nuove sedi, gestire eventuali accorpamenti o fusioni, fare la manutenzione ordinaria e straordinaria. E soprattutto vigilare e controllare le strutture.
NULLA cambia, purtroppo, sul versante tasse. L’addizionale versata dagli automobilisti quando sottoscrivono l’Rc auto — e che per il 2012 almeno la metà delle Province italiane ha provveduto a rincarare dal livello base (il 12,5% del premio) — rimarrà tal quale.
Analogamente i tributi ambientali e l’Imposta di trascrizione (Ipt) per i passaggi di proprietà o immatricolazioni di nuove auto.
Entrate ancora essenziali.
SI TRATTA di competenze che sembrano destinate alle Regioni. I 500 Centri per l’impiego oggi esistenti (in media 5 a Provincia) investono quasi un miliardo per le politiche del lavoro. Chi vorrà iscriversi nelle liste di isoccupazione o informarsi su borse, offerte, tirocini dovrà tenere conto ell’accorpamento dei Centri che seguirà l’assetto delle nuove Province. Così per la formazione professionale.
VIABILITÀ e trasporti rimangono competenze delle Province che gestiscono 125 mila chilometri di strade italiane con un impegno finanziario importante, tra i 2,5 e i 3 miliardi di euro. E investimenti altrettanto significativi, realizzati negli anni, tra costruzione, progettazione, miglioramento e manutenzione della rete. Senza trascurare i compiti di vigilanza che la legge assegna proprio alle Province.
TROPPO presto per dirlo. Le Super-Province del futuro potrebbero assumere nomi nuovi. E a quel punto si può supporre anche un cambio della sigla da apporre sulla targa (in modo facoltativo nella sua versione attuale) con logica e dolorosa, per i campanilismi, rinuncia a quelle storiche. Le motorizzazioni, poi, rischiano una severa dieta dimagrante: una sola per le Province accorpate, forse con sedi distaccate.
IL DIMEZZAMENTO delle Province comporterà in prospettiva anche una riorganizzazione degli uffici periferici dello Stato. Quasi sicura una riduzione dei Prefetti (della metà), ma anche uno snellimento nella distribuzione di Questure, Commissariati, Vigili del Fuoco, Protezione Civile. Con eccezioni per i territori dove il rischio criminalità è maggiore. Nessun abbandono, però, assicura Palazzo Chigi.
TUTTE le competenze “verdi” rimarranno alle Province, vecchie e nuove. Non solo compiti di protezione e osservazione di flora, fauna, acque e loro inquinamento, gestione del patrimonio idrico, ma anche la predisposizione e l’approvazione dei piani di risanamento. Resta alle Province pure l’emissione delle licenze di pesca e caccia e, con ogni probabilità, del patentino per le guide turistiche.
LE 107 Province italiane hanno un patrimonio immobiliare considerevole. Molte hanno sedi importanti, in palazzi storici che l’Unione delle Province si augura non siano dismessi, ma usati per le funzioni comuni nel momento in cui si procederà con gli accorpamenti.
Esiste poi la questione del personale, ben 56 mila dipendenti che andranno ricollocati presso Comuni o Regioni, seguendo il criterio delle “funzioni” cedute.

La Repubblica 21.07.12