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"Un Pd da Tabacci a Vendola", di Michele Prospero

Al crepuscolo della seconda Repubblica torna a riproporsi con forza il tema del partito come sbocco ad una transizione che, apertasi con il tonfo epocale dell’asse Berlusconi-Bossi, rischia di avvitarsi senza trovare approdo in un nuovo sistema. Non si esce dal pantano dell’antipolitica, egemone in questi ultimi vent’anni, evitando ancora una volta l’appuntamento con il partito. appuntamento culturale prima ancora che organizzativo: ha ragione Asor Rosa. Per sconfiggere l’antipolitica come eterna ricetta caldeggiata dai vari conservatorismi nostrani occorre, infatti, dare una rapida sepoltura alla grande illusione di rimuovere la forma partito per edificare una ragnatela di poteri personali che, messi alla prova, si rivelano incapaci di esprimere autentiche culture politiche, autorevoli classi dirigenti, un vero radicamento sociale.

Il partito è ancora oggi una sfida democratica lanciata contro i grandi poteri, non è la difesa dell’esistente (centri opachi di comando con agganci nel cinico mondo degli affari e dei media), alla quale semmai si aggrappano con le unghie tutti i potentati che invocano ancora l’alluvione di micro partiti personali. Il nuovo non risiede certo nella venerazione mistica e primitiva del carisma, fatta dagli affranti Galli Della Loggia e Panebianco, sentinelle provinciali dello status quo antipolitico, andato per sempre alla rovina. Il nuovo è la (ri)costruzione di soggetti politici organizzati, con un legame più solido con la società e con canali permanenti di partecipazione, in grado di attrarre i soggetti contagiati dal pathos della politica ben oltre le improvvise fiammate elettorali.

Fino a qualche settimana fa, quando ancora Maroni non aveva rimosso la spettrale immagine di Bossi dalla Lega, il Pd era l’unico partito impersonale esistente, la sola formazione cioè in cui l’organizzazione vantasse una durata più lunga di quella del suo leader. Un partito solo, immerso però in un minaccioso oceano di partiti personali, ha il compito di disegnare le tappe per un approdo non traumatico ad un diverso sistema. La decisione di convocare le primarie aperte di coalizione contiene in nuce il rischio, evidenziato da Asor Rosa, di tornare a giocare con le logore vecchie carte (un fragile soggetto presidenzializzato, strumentale all’ascesa del leader che si afferma attraverso i gazebo) in un contesto mutato che reclama una ristrutturazione del sistema di partito nel solco delle linee divisorie europee. Questa insidia di un ripescaggio dell’antico (primato dell’elettore indistinto sulla membership più attiva) può essere controllata solo avvalendosi dell’invenzione organizzativa (si evoca non a caso oltre all’albo degli elettori di sinistra anche il principio di maggioranza per scongiurare le fughe che caratterizzarono l’Unione) e dalla coerenza della analisi politica (ferma nel proposito di sostituire l’asse destra-sinistra a quello del tutto fuorviante politica-antipolitica).
Sembra al momento che attorno alla proposta del Pd, con le mosse di Vendola e Tabacci, si venga definendo un’area politico-culturale diversificata, ma omogenea almeno nelle sue linee di fondo, che prelude a comportamenti unitari, in aula e non solo. Andrebbe nondimeno evitato l’errore, piuttosto frequente in questi anni, di pensare che l’itinerario di un soggetto politico unitario possa scaturire solo dalle confluenze pur significative registrate sul piano delle mutevoli aggregazioni elettorali. Un grande partito popolare e riformatore, come lo definisce Asor Rosa, che sia un deposito di storia e un laboratorio di un nuovo progetto, non può che maturare nella dimensione europea.

Nel tempo storico attuale, o i partiti transnazionali in (troppo) lenta gestazione definiscono l’ossatura di una vera Europa politica, oppure l’Europa rimane una evanescente espressione ingannevole, dentro cui covano delle vistose asimmetrie di potenza tra gli Stati, che non sono certo compatibili con uno spazio politico-costituzionale che dovrebbe essere tendenzialmente unitario.
La principale prospettiva è quindi oggi quella di inaugurare il tempo dei partiti metanazionali richiesti per l’allestimento di un’Europa politica senza di cui i Paesi periferici sono destinati al tramonto. È dentro questo faticoso processo (da cui dipende anche la salvezza dell’Italia) che va collocato il lavoro necessario per il consolidamento e l’espansione del Pd come originale condensato delle culture critiche. I partiti come costruttori d’Europa hanno dinanzi una missione storico-politica che impone loro degli ingenti investimenti in cultura, in organizzazione, in radicamento nei laceranti conflitti sociali dell’epoca liberista. Non si tratta di spingere le diverse componenti del progressismo italiano ad abbandonarsi tra le braccia delle idealità socialiste (quali? Sono così diversi i paradigmi dei laburisti inglesi e dei socialisti francesi, dei socialisti spagnoli e di quelli tedeschi). Si può certo andare oltre il socialismo europeo così come è ora configurato per ospitare altre letture critiche del moderno, ma non si procede nella costruzione di un’Europa politica senza il socialismo europeo, inteso come un polo politico plurale e ricco di varianti specifiche che condivide un’idea di città solidale (lavoro, diritti, cittadinanza) nella quale possono ben rispecchiarsi anche altre sensibilità, come quelle di una fervida coscienza religiosa.

Questi temi non emergono a sufficienza nel dibattito pubblico perché l’Italia pare oggi stritolata da un antico riflesso condizionato che la sospinge verso la eterna polarità politica-antipolitica, così agognata dalla restaurazione berlusconiana del partito personale, dalle esortazioni del Corriere per partiti di capi carismatici con sherpa a loro contorno, dall’autorappresentazione con liste fai da te promosse da manager, tecnici, magistrati, comici, scrittori. Gli appuntamenti europei si giocano su ben altre tensioni identitarie (destra-sinistra, capitale-lavoro) assai distanti dalla triste eccezione italiana che, sulle stridule corde dell’antipolitica ringalluzzita ad arte, vede ogni volta maturare la mala pianta del populismo distruttivo.

l’Unità 21.07.12

"Scuola, l’Italia resta divisa in due", di Raffaello Masci

La scuola italiana si è misurata la febbre per il quarto anno di fila e ha capito di stare un po’ meglio, sia pur all’interno di una diffusa patologia, particolarmente grave nelle regioni del Sud. Ieri mattina è stato presentato il Rapporto dell’Invalsi (l’istituto del ministero dell’Istruzione che si occupa della valutazione) e questo è il dato di sintesi. L’Istituto ha valutato «i livelli di apprendimento» in italiano e in matematica raggiunti nelle classi seconda e quinta elementare, in prima e terza media e nel secondo anno delle superiori.

Un lavoro immane, effettuato da valutatori esterni, che ha coinvolto 31 mila istituti, per un totale di 141 mila classi e 2 milioni e 900 mila studenti: non una campionatura, dunque, ma un vero screening. Per quanto riguarda l’italiano «gli studenti sembrano trovare più facili le domande relative ai testi narrativi, rispetto a quelle dei testi espositivi e argomentativi, in cui viene richiesto anche di interpretare dati e grafici funzionali all’esposizione dei contenuti del testo».

Quando però si tratta di ricostruire il significato globale di un testo, assemblando più elementi, gli studenti italiani si arenano: ricordano, intendono, ma non elaborano con altrettanta facilità.

Per quanto riguarda la matematica le difficoltà emergono «soprattutto in geometria, nell’ambito denominato “relazioni e funzioni” e nei processi che richiedono competenze di argomentazione».

L’Invalsi ha poi rilevato come i ragazzi stranieri nelle nostre scuole presentino una difficoltà maggiore dei loro coetanei italiani nello scrivere e nell’intendere la nostra lingua, ma solo se immigrati di prima generazione. Nel caso della seconda, invece, le differenze tendono a scemare.

Il dato di sintesi, tuttavia, ha una sua declinazione geografica che penalizza il Sud. La qualità degli apprendimenti è, infatti, sensibilmente più apprezzabile nel centro-nord e, in questo, l’Invalsi conferma un trend già rilevato nelle precedenti valutazioni. Tuttavia qualcosa di nuovo è accaduto: la Puglia, la Basilicata e l’Abruzzo hanno compiuto notevoli passi avanti e per la maggior parte delle loro scuole lo standard nazionale è raggiunto o comunque prossimo a essere raggiunto.

«In genere – dice il rapporto le regioni seguono i risultati delle macroaree di appartenenza. Tra le eccezioni, al Nord c’è la Liguria, che non si discosta dalla media italiana. I risultati meno soddisfacenti invece sono quelli della Campania. In Matematica la regione con il risultato più elevato è il Veneto, che supera di 35 punti la media della Sardegna, la regione che consegue il risultato più basso».

Ora questi risultati verranno trasmessi là dove sono stati prelevati, cioè alle singole scuole con i dati disaggregati per istituto, per classe e per singola domanda: ciascuna scuola, ma anche ciascuna classe, saprà quali sono le sue eccellenze ma anche le sue lacune. E su che cosa lavorare da settembre in poi. La migliore scuola d’Italia? Quella del Trentino.

La Stampa 21.07.12

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“Così dovrà ripartire l’ascensore sociale”, domande a Elena Ugolini sottosegretario

Elena Ugolini,sottosegretario all’Istruzione, sono quattro anni che l’Invalsi valuta la scuola italiana. È servito a qualcosa questo lavoro? «È servito moltissimo. Esiste ancora un forte divario NordSud, anche se alcune regioni come la Puglia, la Basilicata e l’Abruzzo hanno fatto dei passi in avanti fino a raggiungere i livelli medi del Paese. Il dato a mio parere più significativo riguarda l’esistenza nelle regioni meridionali di una forte variabilità di risultati tra scuole dello stesso livello».

Quali sono le criticità forti su cui occorre lavorare? «È stato rilevato che in matematica le maggiori difficoltà sono in geometria e nella capacità di dare ragione delle soluzioni proposte. In italiano i ragazzi hanno difficoltà nelle prove che chiedono capacità interpretative e argomentative. Sono quindi queste le due aree principali su cui lavorare nell’immediato futuro. I dati sugli studenti stranieri dimostrano che la scuola non cambia. Inoltre abbiamo capito che occorre dedicare una cura specifica ai ragazzi stranieri di prima generazione».

Questi dati come possono essereutilizzatidallesingole scuole ? «Le singole scuole possono riflettere sul proprio lavoro, avendo a disposizione un sistema organico di dati e di strumenti che le aiutino a paragonarsi con un punto di riferimento esterno a livello nazionale e regionale per individuare i propri punti di forza e di debolezza, per migliorare».

Quali sono gli obiettivi di medio e lungo termine? «La scuola deve poter essere un ascensore sociale, senza nascondere dietro il manto dell’indistinto lacune che possono tradursi in una diminuzione di possibilità di successo nel proseguimento degli studi e nell’inserimento nel mondo del lavoro. In prospettiva è fondamentale precisare meglio i traguardi essenziali da raggiungere alla fine della scuola primaria e della scuola secondaria di primo grado, puntare sulla formazione iniziale e in servizio dei docenti e ripensare alla proposta della scuola secondaria di primo grado, che rimane sicuramente uno dei punti più problematici della nostra scuola».

La Stampa 21.07.12

"Quella parola che fa paura", di Andrea Bonanni

Il contagio prosegue, avverte Mario Monti. La tempesta d’agosto, tanto temuta e largamente preannunciata, si sta addensando sul capo degli europei e della loro moneta. È a suo modo una tempesta perfetta perché allinea tutti i possibili fattori negativi e li fa interagire così che si rafforzino l’un con l’altro. LA CRISI dei titoli di debito sovrano aggrava la crisi delle banche che li hanno acquistati. La crisi delle banche costringe i governi a versare denaro pubblico per salvarle (4.500 miliardi fino al 2011) aumentando così i propri debiti. Il rigore nei conti pubblici imposto dai debiti crescenti alimenta la recessione. La recessione rende più difficile raggiungere gli obiettivi di risanamento delle finanze statali costringendo a nuovi tagli e nuove tasse. I tagli alla spesa creano malcontento, disordini, instabilità politica. L’instabilità politica aumenta la sfiducia nella capacità dei governi di far fronte alla situazione. La sfiducia provoca una fuga degli investitori dai titoli dei Paesi più esposti. La fuga degli investitori fa salire gli interessi e aumenta i costi del servizio del debito a carico dei contribuenti. Apparentemente non c’è via di uscita da un meccanismo di contagio che, come nelle epidemie, si autoalimenta crescendo in modo esponenziale.
Il vero problema, però, non è la tempesta. È la barca su cui la stiamo affrontando. E la barca dell’euro fa acqua da tutte le parti. Gli americani hanno dovuto far fronte alla crisi dei mercati finanziari prima di noi. Ma lo hanno fatto a bordo di una corazzata che si chiama dollaro, spinta dal motore della più potente democrazia e del più coeso degli Stati federali del pianeta.
Senza quella corazzata, oggi la California e almeno una decina di altri stati sarebbero in bancarotta. Invece il bilancio federale americano ha un debito quasi doppio rispetto a quello europeo, ma continua a navigare maestoso sui mercati senza neppure sentire l’assalto delle onde.
Sulla fragile caravella dell’euro, purtroppo, tutto quello che è stato fatto in questi due anni è cercare di gonfiare possibili salvagenti. Salvagenti collettivi, come il vecchio fondo salva-Stati, l’Efsf, e quello nuovo, l’Esm, che la Corte suprema tedesca potrebbe bucare prima ancora che entri in acqua. Oppure salvagenti individuali, con i governi che stampano segretamente le vecchie banconote nazionali. Con la Finlandia che chiede garanzia tangibili per concedere la propria quota (minima) di prestiti europei alla Grecia o alla Spagna. Con alcune cancellerie sempre più attratte dall’idea demenziale di un doppio euro: una moneta forte per i Paesi ricchi e una debole per quelli più poveri. Ma il doppio euro, oggi, è già una realtà di fatto se metà degli europei pagano lo stesso denaro tre volte più caro dell’altra metà.
Ed è un doppio euro cannibale, che premia i forti a spese dei deboli, e quindi contribuisce ad aumentare le divergenze già enfatizzate dalle politiche draconiane di austerità.
Per quasi tre anni gli europei sono rimasti paralizzati dal contrasto tra quanti chiedevano di mettere i debiti in comune e di fare della Bce il prestatore di ultima istanza, come nel caso della Fed americana, e i «falchi» che lamentavano (a ragione) il mancato rispetto delle regole comuni e pretendevano che la situazione si potesse risolvere solo con più disciplina. Finalmente, a primavera, sotto l’impulso del presidente della Bce Mario Draghi, è emersa la soluzione di compromesso che potrebbe, in teoria, salvare la moneta unica. La soluzione prevede un percorso per mettere in comune la sovranità sui bilanci nazionali, trasferendo a livello europeo anche la necessaria legittimità democratica di controllo, in cambio di una federalizzazione del debito. Questa soluzione, decisa in linea di principio al vertice di giugno e su cui le cancellerie stanno già febbrilmente trattando in gran segreto, metterebbe l’euro al riparo dei mercati tanto quanto lo sono il dollaro o lo yen. Ma è una soluzione che richiede tempo. E il tempo, ormai, è proprio quello che manca all’Europa. Perché la tempesta finanziaria perfetta, al contrario delle tempeste naturali, purtroppo ha occhi, orecchie e cervello. E sa quando è arrivato il momento di colpire prima che le navi raggiungano un porto sicuro.
In questo quadro, il dato più allarmante non è più economico ma politico. Non è tanto la lievitazione inarrestabile degli spread, quanto il tono dei dibattiti parlamentari che in Germania, in Finlandia e, diciamocelo, anche in Italia, accompagna le difficili scelte che i governi devono fare in sede europea. Rispetto alla media dei suoi deputati, Angela Merkel fa paradossalmente la figura di una eroina della causa europea. L’opinione pubblica tedesca non vuole neppure il salvataggio delle banche spagnole, anche se il loro naufragio significherebbe l’affondamento di quelle tedesche. Un po’ dovunque, il dibattito politico ha raggiunto livelli di irrazionalità e di incompetenza che lasciano poche speranze. E se perfino la cancelliera, che comunque si trova al timone della barca nella tempesta, dice si «non essere certa» della riuscita del progetto politico europeo, non si può certo criticare i topi che hanno già cominciato ad abbandonare le stive portando i capitali dove pensano siano più sicuri. Guardacaso, in Germania.

La Repubblica 21.07.12

"La Consulta ci ridà sorella acqua bocciata la privatizzazione", di Calo Petrini

Il malvezzo della politica italiana di aggirare i responsi dei referendum popolari complice il passar del tempo, l’immobilismo e qualche decreto legge, ieri ha subito una sonora lezione. Grazie a una sentenza della Corte costituzionale. Dichiarando inammissibile l’articolo 4 del decreto legge 138 del 13 agosto 2011, la Corte esplicita chiaramente il vincolo referendario che vieta la privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali.
Dinanzi a quel decreto legge voluto dal governo Berlusconi per aggirare il voto di milioni di italiani, bene ha fatto la Regione Puglia a ricorrere alla Consulta. Tuttavia, questa sentenza non deve solo suscitare la gioia per chi ha a cuore la democrazia e la tutela dei beni comuni, ma dove spronare tutti nel costruire nuove idee e nuove pratiche per la gestione di questi beni. Qui iniziano le difficoltà, e la sfida di saperle affrontare con saggezza e pragmatismo è il terreno fertile di una nuova politica. Non è sufficiente denunciare la sistematica aggressione dei beni comuni, occorre sostenere esempi nuovi di gestione di quei patrimoni pubblici. In fondo, la natura di questa crisi che col passare del tempo diventa sempre più drammatica, dovrebbe spronarci a cercare nuove soluzioni. Mettere a valore e in sicurezza i beni comuni di questo straordinario Paese dovrebbe essere il primo obiettivo della politica. Dopo la battaglia per l’acqua come bene comune sta crescendo in tutta Italia l’esigenza di tutelare il paesaggio e i suoli agricoli contro un consumo del territorio selvaggio e incivile, complici molti enti locali costretti a far cassa su queste pratiche. Ben vengano i referendum se i partiti dormono, ben vengano le sentenze della Consulta si i governi disattendono il volere popolare. Ma, attenzione, se non prende corpo la coscienza che difendere e tutelare questi beni è economia sana e può generare sviluppo, le giuste battaglie rischiano di perdere buona parte del loro valore. Se penso a questa nostra Italia ai suoi paesaggi, al suo patrimonio di vestigia storiche, al fascino che suscita tra gli stranieri, credo che siamo esattamente sopra a una ricchezza incredibile, un possibile motivo di riscatto economico, ambientale e culturale, una prospettiva reale e affascinante. Questo Paese con le sue campagne e le sue coste, con la loro bellezza e la possibilità di creare cose buone e vite migliori è il luogo dove ri-apprendere certi ritmi, certi paradigmi, saperi che non possono dissolversi, perché ci fanno interagire con la natura come parte di essa e non come dominatori sfruttatori. Non è il bel mondo antico, o la tradizione fintamente rappresentata ma morta: è economia nuova, produzione, cultura, l’unica crescita ancora possibile.

La Repubblica 21.07.12

Camposanto, Bersani “Questa terra è nel cuore di tutto il paese”

Il segretario nazionale del Pd Pierluigi Bersani ha parlato nel cuore delle zone terremotate. In Emilia non si faranno gli errori del passato: il segretario nazionale del Pd Pierluigi Bersani, nel corso di un incontro con gli amministratori e i cittadini delle popolazioni colpite dal sisma, ha ribadito l’impegno totale del partito su questi temi. “Questa gente meravigliosa – ha ribadito Bersani – è nel cuore di tutto il paese”. Il segretario regionale del Pd Bonaccini ha anche annunciato che lunedì il partito consegnerà al commissario Errani i primi 500mila euro raccolti: saranno lo stesso Errani e i sindaci a decidere a cosa devono essere destinati questi fondi.

“Rinasceranno le fabbriche, rinasceranno le scuole, rinasceranno le case e rinascerà, da qui, anche la buona politica, quella da sempre più vicina ai cittadini”: il segretario nazionale del Pd Pierluigi Bersani, venerdì sera, a Camposanto, uno dei comuni colpiti dal sisma, ha voluto portare un messaggio di speranza, ma anche l’impegno del partito affinché queste terre, che lui ha confermato essere “nel cuore di tutto il paese”, possano ripartire. “La storia sarà lunga – ha detto Bersani – a un certo punto i riflettori si attenueranno, ma noi abbiamo fatto un patto con le popolazioni colpite, con gli amministratori, con i dipendenti pubblici, con i volontari, con il partito e con tutti quelli che vorranno starci: si rinascerà”. Un patto che, ha sottolineato il segretario nazionale del Pd, si basa su due capisaldi: innanzitutto “non un euro di più, ma neanche uno di meno”, perché qui non si chiedono regali, c’è solo voglia di rimettersi al lavoro. E poi, massima trasparenza. “Qui – ha ribadito Bersani – ci sarà controllo sociale. Ciascun al suo posto, si fa quel che si deve fare”. Importanti le prime risorse individuate, anche se non basteranno. “Intanto il partito – ha continuato Bersani – sta combattendo perché si mettano a regime meccanismi fiscali che permettano la ripresa delle attività produttive e di avere liquidità immediata per la ripartenza delle attività economiche e civili”. Qui non si commetteranno gli errori del passato. E Bersani ha concluso ricordando che, con tutti i problemi che ci sono oggi a Camposanto, si è comunque allestita una Festa del Pd. Queste zone sono il simbolo della buona politica e di questo simbolo il segretario nazionale del Pd ha voluto fare anche un manifesto. Proprio una foto di Bersani abbracciato da una volontaria del Pd di Carpi – Angela si chiama – impegnata nel dietro le quinte di una Festa di partito comparirà in uno dei prossimi manifesti del Pd. Molti gli applausi che hanno accolto anche gli interventi di coloro che hanno parlato prima del segretario nazionale: la segretaria del Circolo Pd di Camposanto Tamara Nart, il sindaco di Camposanto Antonella Baldini e il segretario regionale del Pd Stefano Bonaccini. Bonaccini ha colto l’occasione per annunciare che proprio lunedì prossimo consegnerà al commissario straordinario Vasco Errani i 500mila euro fin qui depositati sul conto corrente aperto dal Pd a livello regionale. Sarà lo stesso Errani, insieme ai sindaci, a decidere a cosa dovranno essere destinati. Ma l’impegno del partito – ha concluso Bonaccini – non si è fermato qui: 200mila euro sono stati destinati dai Circoli Pd a singoli progetti, sono stati trasportati e allestiti nelle zone terremotate 4mila metri quadrati di strutture, sono stati consegnati 120 pallets di materiali, cibo, medicinali.

"Salve le festività, non si toccano, Province, quali saranno soppresse" da unita.it

Nessuna ipotesi di tassa patrimoniale allo studio del governo. Lo ha affermato il premier Mario Monti, smentendo quanto affermato da un quotidiano: «La patrimoniale non rientra nelle intenzione nè nei programmi di goveno che abbiamo» ha detto durante una conferenza stampa a Palazzo Chigi alla fine del Cdm. Il premier ha inoltre precisato che lo spread sale per colpa dell’incertezza del quadro politico. “E’ importante l’accordo tra i partiti per la fiducia all’estero”, ha detto. “Il contagio è in corso. Ma dobbiamo fare di tutto, come stiamo facendo, per uscire dalle difficoltà con le nostre forze”. Ha espresso «delusione» per l’andamento dello spread, ma comunque dall’insediamento del governo Monti nel novembre 2011 è sceso di 84 punti rispetto alla fine del governo Berlusconi, ha sottolineato Monti.

CONFIDO SENSO RESPONSABILITÀ SINDACATI
«C’è una tenuta del sistema sociale e mi auguro che quel senso di responsabilità che è finora prevalso anche nell’atteggiamento sociale e sindacale, a differenza di quello che stiamo vedendo in altri Paesi come la Spagna, mi auguro possa continuare per non aggravare una situazione complessa»

FESTIVITA’, NESSUN ACCORPAMENTO
Nessun accorpamento delle festività per il momento. Il Consiglio dei ministri ne ha discusso ma «ha deciso di non procedere». «Il Consiglio – si legge nella nota stampa – ha definito i criteri per il riordino delle province».

«Il Consiglio ha definito i criteri per il riordino delle province – dimensione territoriale e popolazione residente – previsti dal decreto sulla spending review». Lo si legge nel comunicato stampa al termine del Consiglio dei ministri. «In base ai criteri approvati, i nuovi enti dovranno avere almeno 350mila abitanti ed estendersi su una superficie territoriale non inferiore ai 2500 chilometri quadrati».

«Nei prossimi giorni – si spiega – il Governo trasmetterà la deliberazione al Consiglio delle autonomie locali (Cal), istituito in ogni Regione e composto dai rappresentanti degli enti territoriali (in mancanza, la deliberazione verrà trasmessa all’organo regionale di raccordo tra Regione ed enti locali). La proposta finale sarà trasmessa da Cal e Regioni interessate al governo, il quale provvederà all’effettiva riduzione delle province promuovendo un nuovo atto legislativo che completerà la procedura».

«Le nuove province – si aggiunge nel comunicato – eserciteranno le competenze in materia ambientale, di trasporto e viabilità (le altre competenze finora esercitate dalle Province vengono invece devolute ai Comuni, come stabilito dal decreto ‘Salva Italià).

La soppressione delle province che corrispondono alle Città metropolitane – 10 in tutto, tra cui Roma, Milano, Napoli, Venezia e Firenze – avverrà contestualmente alla creazione di queste (entro il 1° gennaio 2014)».

Il Consiglio dei Ministri ha esaminato la questione del calendario delle festività e delle celebrazioni nazionali ma senza procedere. Nel comunicato si fa riferimento al decreto legge n. 138, «approvato dal precedente Governo nell’agosto 2011» che «prevede che, a decorrere dall’anno 2012, il Presidente del Consiglio stabilisca ogni anno le date in cui ricorrono le festività introdotte con legge dello Stato non conseguenti ad accordi con la Santa sede, nonchè le celebrazioni nazionali e le festività dei Santi Patroni, ad esclusione del 25 aprile, del 1° maggio e del 2 giugno».

«Il Consiglio – si spiega – ha deciso di non procedere all’accorpamento delle festività per tre ragioni. Anzitutto perchè, secondo le stime della Ragioneria generale, la misura non dà sufficienti garanzie di risparmio, contrariamente a quanto indicato dalla norma (che individua nel risparmio di spesa la propria finalità principale). Inoltre, perchè a differenza di quanto indicato dal decreto legge del 2011 nella parte in cui fa riferimento a »diffuse prassi europee«, non esistono in Europa previsioni normative di livello statale che accorpino le celebrazioni nazionali e le festività dei Santi Patroni. In alcuni Paesi (ad esempio la Germania, l’Austria e la Spagna) la celebrazione delle festività dei Santi Patroni rientra nell’autonoma determinazione delle autorità locali che le fanno coincidere col giorno a questi dedicato nel calendario gregoriano. Nei Paesi anglosassoni – ad esempio in Irlanda e in Scozia – i Santi Patroni delle principali città sono riconosciuti e celebrati, con giornate festive stabilite a livello statale. Infine – si sottolinea ancora -, perchè l’attuazione della misura nei confronti dei lavoratori privati violerebbe il principio di salvaguardia dell’autonomia contrattuale, con il rischio di aumentare la conflittualità tra lavoratori e datori di lavoro».

www.unita.it

Sviluppo: Ghizzoni, sembra finita "anoressia culturale"

Cultura è risorsa per uscire dalla crisi. “Sembra essere finita “l’anoressia culturale” imposta da anni di politiche economiche ottuse. Con il riconoscimento della qualifica di impresa agli organismi dello spettacolo la politica italiana è riuscita a voltare pagina, riconoscendo che la cultura non è un onere per il Paese, ma un vero e proprio comparto produttivo. – lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura alla Camera, dopo l’approvazione in Commissione Attività Produttive e Finanze dell’emendamento al decreto sviluppo che equipara le imprese culturali alle PMI – Proprio oggi emergono i dati relativi all’industria culturale italiana e al suo peso nell’economia nazionale. Un settore – spiega Ghizzoni, riferendosi al Rapporto Symbola-Unioncamere – che impiega il 5,6% degli occupati in Italia e che produce il 5,4% della ricchezza non può non essere considerato un settore produttivo. La cultura – ha concluso la Presidente Ghizzoni – è un fattore costitutivo di sviluppo e competitività, una risorsa per uscire dalla crisi.”