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"Gli insegnanti italiani all'estero scrivono a Napolitano", da La Tecnica della Scuola

Di seguito la lettera che un gruppo di insegnanti ha inviato quest’oggi al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Onorevole e Illustrissimo Presidente, siamo un gruppo di Insegnanti di Scuole Statali di vari ordini e gradi in Italia e all’Estero, che hanno espletato in Dicembre scorso la Pubblica Selezione per l’Accertamento Linguistico indetto dal Ministero Affari Esteri al fine di insegnare e divulgare la Lingua e la Cultura Italiana nelle Istituzioni pubbliche all’Estero. Pur essendo in attesa dell’Ordinanza per la dichiarazione dei titoli professionali e culturali e della relativa formulazione delle Graduatorie, valevoli dal 1 settembre 2013, Le scriviamo per esprimere preoccupazione riguardo a quanto emerso nell’ultimo periodo in relazione agli ulteriori tagli – sulla già vessata scuola pubblica – previsti dal D. L. 6 luglio 2012, n. 95, sullo Spending Review, recentemente varato dal governo, in cui il contingente statale all’estero verrebbe ridotto del 40%. Non ci sembra di ravvisare alcuna coerenza con quanto votato con larga maggioranza dal Senato della Repubblica, che, nella seduta del 3 e 4 luglio u.s. si era espresso a favore e sostegno delle Istituzioni Pubbliche all’estero, bocciando l’emendamento al DDL n. 3331 presentato dal Sen. Micheloni, volto a richiamare gli insegnanti di ruolo in servizio all’Estero a favore invece di finanziamento a enti gestori privati. Merita un plauso la sua recente dichiarazione del 10 luglio u.s. all’indirizzo del Presidente della Repubblica di Slovenia circa un “bisogno di più Europa, di più integrazione”, così come ci appare degna di nota l’inchiesta Italiano 2010. Lingua e cultura italiana all’estero promossa dal MAE, da cui emerge l’interesse che la Lingua e Cultura Italiana suscitano fuori dai confini nazionali. Siamo tuttavia sconcertati da quanto ci sembra di ravvisare nel D.L. succitato circa il diritto fondamentale all’Istruzione pubblica e libera, sancito dagli artt. 33 e 34 della Costituzione. Decreto che, con la scusa di una giustificabile e necessaria Spending Review, ridurrà drasticamente – se convertito in legge – le Istituzioni Pubbliche all’Estero per gli anni a venire (comma 11, lettera b “non possono essere disposte nuove selezioni per il personale da destinare all’estero ai sensi dell’articolo 639 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297, né possono essere rinnovati i relativi comandi o fuori ruolo”), diversamente da quanto proposto, per es., da Francia e Germania. In qualità di Insegnanti non possiamo fare altro che scrivere anche a Lei, così come abbiamo fatto con tutti i Senatori e Deputati dal nostro attivissimo gruppo virtuale “Insegnare all’Estero” su Facebook, con la richiesta precisa di vederLa continuamente impegnata nel vigilare con attenzione, in qualità di Garante della Costituzione, sull’eventuale Progetto di dismissione della Scuola Pubblica all’Estero allo scopo di salvaguardare la dignità dell’Italia, la sua prestigiosa Cultura e la sua meravigliosa Lingua. Sperando che non vengano vanificate le risorse, sin qui investite, dallo Stato nel bandire il concorso e dai 22.000 concorrenti che vi hanno partecipato, restiamo a disposizione per un eventuale incontro con la S.V. Cogliamo inoltre l’occasione per ringraziarLa per quanto di utile e giusto è stato e sarà fatto nonché per porgerLe Distinti Saluti.

Firmato

Il gruppo “Insegnare all’Estero” su Facebook, che oggi conta 5963 membri.

https://www.facebook.com/groups/32496209130/

"Avari con la scuola già un secolo fa", di Gian Antonio Stella

«Non è possibile tenere la penna in mano. I ragazzi piangono dal freddo…». È difficile leggere dell’ultima manifestazione dei precari della scuola e delle loro sofferenze senza riandare al diario che teneva un secolo fa il maestro Emilio Alchini di Vallada Agordina, che girò per diversi anni nelle più remote contrade di montagna.
Quel diario, gonfio di afflizione e insieme amore per gli alunni, è una delle chicche di una piccola ma deliziosa mostra aperta fino ai primi di settembre a Caprile, una frazione di Alleghe in provincia di Belluno. Si intitola «Leggere, scrivere, fare di conto», espone un’aula intatta di un’ottantina d’anni fa (i banchi, la cattedra, il calamaio, la lavagna, i ritratti di Mussolini, Pio XI e Vittorio Emanuele III…) e una ricca collezione raccolta da Egidio Guidolin di quaderni, abecedari, carte geografiche, cannucce e mille altre cose utili a ricostruire la storia della scuola dall’Unità d’Italia al secondo dopoguerra.
Da non perdere i sussidiari. Savoiardi, fascisti, colonialisti. Come il rarissimoVerso la vita, un «sillabario fonico» bilingue edito a Tripoli e scritto a quattro mani da Scek Mohammed Kamel El Hammali e Baldassarre Indelicato. Dove ai bambini arabi della Libia italianizzata viene mostrato ad esempio come tenere la bocca per pronunciare la «O» oppure la «E».
Ciò che più colpisce, tuttavia, sono i quaderni degli scolari e i diari dei maestri. Che confermano, insieme con le cartelle di legno, le scarpine chiodate o lo «scalda-mani» da riempire di braci ardenti, come la scuola sia sempre stata lasciata in una situazione di povertà se non di estrema indigenza, come fosse un settore da curare con meno attenzione di tanti altri.
In un secolo e mezzo siamo diventati più ricchi e anche se le angosce di questi ultimi mesi oscurano il resto non va dimenticato che, come ricorda Luca Paolazzi nel saggio Libertà e benessere in Italia, dall’Unità al 2007, prima che scoppiasse la crisi, «il reddito medio degli italiani è salito di otto volte e mezzo (il Pil per abitante è passato dall’equivalente di 2.500 a 21.700 euro, in potere di acquisto del 2000), la vita si è allungata da trenta a ottant’anni, l’analfabetismo in senso stretto è stato sradicato…». Unica costante, nella povertà e nel benessere: la perenne avarizia verso la scuola. La girandola di ministri, che nel 1901 erano già cambiati 33 volte. Le sanatorie dei precari, la prima nel 1859.
L’unica consolazione, per i maestri di oggi, è che almeno non sono più chiamati a eroismi come quelli richiesti alla maestrina Tecla Guadagnin che nel diario esposto a Caprile racconta di come ci mise cinque giorni ad arrivare, a dorso di mulo, alla «sua» misera scuola alle sorgenti dell’Isonzo, oltre Caporetto. Una camera sopra l’ovile, il tetto rotto, «per letto un lurido saccone di fieno con coperta tolta al mulo della guardia di frontiera». E lei che sospirava sul ritornello di una canzone: «O maestrina della montagna / non ci badar se la neve ti bagna / cuore temprato, pieno d’ardor / tu sei del confine il solo bel fior».

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Il Corriere della Sera 18.07.12

"Distretti emiliani un valore etico", di Giacomo Becattini

Le distruzioni del terremoto emiliano colpiscono al cuore la formula produttiva italiana; quella formula distrettuale che in pochi decenni ci ha portati da Paese industrialmente arretrato a punta aguzza dell’industrializzazione mondiale. Vi è un sostanziale accordo, fra gli storici economici italiani, che ciò è accaduto, in modo spontaneo e imprevisto, per accumulazione interna e reinvestimento sistematico delle risorse aziendali e – a parte le svalutazioni degli anni pre-euro e l’azione dell’Ice sui mercati esteri – senza alcun sostanziale sostegno pubblico degli investimenti privati.

Anzi, nella generale incomprensione e – paradossalmente – condanna dell’arretratezza di una industria che appariva attestata sulla dimensione aziendale, piccola e media. Ebbene, la permanenza dell’Italia al top dell’industria mondiale è oggi in serio pericolo. Anche nei settori più tipicamente nostri.

I distretti industriali emiliani, oggi colpiti dal terremoto, sono, infatti, una delle punte di diamante del nostro export.
Il terremoto emiliano mette il dito sulla piaga. Se sbagliamo la diagnosi della peculiarità del nostro processo di sviluppo, corriamo il rischio di vanificare gli sforzi dei 50 anni passati. Prendiamo due casi emblematici: il biomedicale di Mirandola e la meccanica/meccatronica, diffuse in quelle aree. Si tratta di produzioni che si sono costruite, lentamente, tenacemente, un posto di monopolio condizionato, ampiamente riconosciuto, nel mercato mondiale. Voler vedere, come certuni fanno, la fonte della loro eccellenza, negli impianti modernissimi, quasi avveniristici, dell’una e/o dell’altra zona, significa deviare l’attenzione dai veri fattori differenziali del loro primato, come la competenza tecnica e la diffusa convinzione (e l’orgoglio) di essere nel flusso del progresso, non solo tecnologico o organizzativo, ma, in senso generale, umano e civile.

Ebbene, è in questa consapevolezza la preziosa risorsa che deve guidarci, oggi, nell’opera ricostruttiva. I piccoli e medi imprenditori emiliani e i loro dipendenti, consapevoli che le loro fortune sono legate a una collaudata formula organizzativa-economica e, al tempo stesso, civile – il distretto industriale -, si trovano a porsi l’interrogativo se delocalizzare l’attività in zone sismicamente più sicure, oppure pazientemente ricostruire in loco, le infrastrutture umane materiali, intaccate o distrutte dal terremoto. Sappiamo tutti che alcune delle imprese di questi distretti cadranno a metà strada della ripresa, e altre finiranno col delocalizzare, ma è il clima civile, di ricostruzione e di sviluppo, che anch’esse avranno contribuito a produrre, quel che conta. Clima culturale e civile di una popolazione storicamente fattiva, che si riconosce e si misura nelle sfide più impegnative.

Popolazioni di tal genere – oggi, nelle difficoltà angosciose del dopo terremoto, lo possiamo dire meglio di sempre – sono un patrimonio prezioso per un Paese come il nostro. Esse debbono, conseguentemente, nel l’interesse di tutti, essere aiutate a risorgere dai calcinacci del terremoto. Ogni misura promozionale della loro ricostruzione e del loro sviluppo, ci ritornerà moltiplicata, siamone certi, a tempo debito.

L’appello è stato sottoscritto dalle Università di Modena e Reggio Emilia, di Parma e di Ferrara

dal Sole 24 Ore 18.07.12

"Droga leggera, carceri piene. Ma legalizzare resta un tabù", di Massimo Solani

Legalizziamo le droghe, e i crimini di strada crolleranno». L’economista Milton Friedman lo scriveva nel maggio del 1972 e la sua, più che una proposta concreta, sembrava solo una provocazione. Quarant’anni dopo, però, il tema della legalizzazione delle droghe, almeno per quanto riguarda le droghe leggere, è diventato argomento di riflessione serissima ma troppo spesso confinata fuori dai grandi media o dagli ambienti della politica. A poco, in questo senso, sono serviti anche gli «endorsement» del procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia («un dibattito interessante, non sono contrario. Anzi sono per il sì»), del procuratore generale di Firenze Beniamino Deidda («serve una cauta depenalizzazione e una cauta liberalizzazione»), del governatore della Toscana Enrico Rossi («sono favorevole ad una distinzione fra droghe leggere e pesanti e a forme di legalizzazione di quelle leggere») o di Roberto Saviano. L’argomento, purtroppo, resta un tabù perché, per dirla col procuratore Deidda, «c’è un po’ di fariseismo e l’ideologia prevale su una serena valutazione dei fatti».

IL DIBATTITO ALL’ESTERO
Il tema però, almeno all’estero, è di grandissima attualità e ampiamente dibattuto. Gran parte del merito di aver infranto un muro di silenzio e ideologia va sicuramente tributato «Global Commission on Drug Policy», il panel di esperti guidato dall’ex presidente dell’Onu e premio Nobel Kofi Annan di cui facevano parte, tra gli altri, l’ex presidente brasiliano Ferdinando Cardoso, l’ex segretario di Stato Usa George Shultz e l’ex premier greco George Papandreu. Nelle loro conclusioni, un anno fa, gli esperti decretavano infatti che «la guerra mondiale alla droga ha fallito con devastanti conseguenze» e che «le politiche di criminalizzazione e le misure repressive – rivolte ai produttori, ai trafficanti e ai consumatori – hanno chiaramente fallito nello sradicarla». La prova, secondo il panel, stava esattamente nei dati: nel 1998 il consumo di oppiacei riguardava 12.9 milioni di persone mentre nel 2008 17.35 milioni (+34.5%). Nel 1998 il consumo di cocaina riguardava 13.4 milioni per passare, dieci anni dopo, alla cifra di 17 milioni (+27%) Stesso trend anche per i consumatori cannabis: nel 1998 erano 147.4 milioni, per passare 160 milioni nel 2008 (+8.5%).

Riflessioni e numeri che, in giro per il mondo, hanno spinto diversi governi a interrogarsi sul tema. Compresi molti esecutivi del Sudamerica, dove la piaga del narcotraffico e delle violenze ad esso legate rappresentano ogni anno un costo sociale insopportabile. E così, da qualche mese, di legalizzazione si parla in Guatemala come in Colombia, in Uruguay come in Brasile. Discussioni la cui eco è arrivata fino in Europa. In Francia, ad esempio, la nuova ministra verde Cécile Duflot si è spinta a dichiarare che «bisogna considerare la cannabis come il tabacco o l’alcool».

Una posizione condivisa anche dall’ex ministro dell’Interno socialista Daniel Vaillant. Del resto, come scrisse l’ Economist nel 2009, «il proibizionismo ha stimolato la criminalità su scala globale a un livello mai visto prima». il ritardo italiano E da noi? Poco, o quasi nulla si sta muovendo nonostante il rapporto Onu World Drug Report 2012 assegni all’Italia la palma di paese leader in Europa per consumo di cannabis (il 14,6% dei cittadini fra i 15 e i 65 anni) e nonostante, secondo le stime, i proventi per le mafie del traffico di droga oscillino attorno ai 60 miliardi di euro all’anno.

L’Italia, infatti, è ferma alla legge Fini-Giovanardi del 2006 che non riconosce alcuna distinzione fra droghe pesanti e leggere e azzera di fatto la distizione fra possesso e spaccio. Un irrigidimento legislativo che, come ampiamente prevedibile, ha prodotto sfacelli. Un’occhiata ai numeri: «in soli 5 anni – hanno infatti scritto i curatori del III Libro bianco sullaFini-Giovanardi – i detenuti per violazione della legge sulla droga sono quasi raddoppiati: dai 15 mila nel 2006 ai 28 mila del 2011. È l’impatto carcerario della legge antidroga la principale causa del sovraffollamento». Numeri che sono ancora più drammatici se solo si tiene conto che, nel periodo fra il 2006 e il 2007, migliaia di persone hanno lasciato gli istituti di pena dopo l’approvazione dell’indulto.

I dati del rapporto, curato da Antigone, Cnca, Forum Droghe e Società della Ragione, con l’adesione di Magistratura Democratica e Unione Camere Penali, fanno paura: aumentano gli ingressi in carcere per droga in rapporto al totale degli ingressi, dal 28% del 2006 al 33,15% del 2011 (25.390 su 90.714 e 22.677 su 68.411); aumentano le denunce, specie per l’art. 73 della legge (detenzione illecita a fini di spaccio), da 29.724 nel 2006 a 33.686 nel 2011 (14.680 per cannabis, pari al 41%, 8.535 per hashish, 5.211 per marijuana, 1.416 per coltivazione di piante).

E se, come fotografa il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, si considera che al momento i detenuti presenti in carcere per reati legati alla droga sono 26.559 (il 34% circa del totale) ben si capiscono le dimensioni del problema, specie se si tiene conto del fatto che, come riporta il Libro Bianco, «sui 37.750 detenuti con condanna passata in giudicato, presenti al 27 novembre 2011, ben 14.590 (38,90%) lo sono per violazione della legge sugli stupefacenti».
Eclatante il dato della Toscana dove, secondo una ricerca, «il 40% dei detenuti sono in carcere per reati di droga minori: si tratta spesso di consumatori che semplicemente detenevano quantità superiori al limite tabellare e sono stati trattati alla stregua di spacciatori». Nel frattempo aumentano i sequestri di marijuana (+54,19% nel 2011) e hashish (+29,43%) mentre crollano quelli di eroina (-45,97%). Ma il tema della legalizzazione delle droghe leggere, oltre che da un punto di vista repressivo-carcerario, può rappresentare una svolta anche dal punto di vista economico.

Lo sanno bene i senatori del Pd Roberto Della Seta e Francesco Ferrante che nel novembre scorso hanno presentato un disegno di legge contenente «norme per la legalizzazione dei derivati della cannabis indica». «Uno studio del professor Marco Rossi dell’Università La sapienza di Roma – hanno scritto nella loro relazione – stima le imposte ricavate sulla vendita della cannabis in 5,5 miliardi di euro l’anno». Con la depenalizzazione, poi, si stima che si potrebbe risparmiare un altro miliardo per le sole spese carcerarie. In tempi di crisi, forse vale la pena rifletterci.

L’Unità 18.07.12

"Bersani al governo: basta tagli, serve di più per lo sviluppo" di Simone Collini

Pd, Pdl e Udc lavorano per presentare emendamenti unitari che impediscano tagli lineari nel settore sanitario, men- tre il governo prepara un maxiemendamento su cui porre la fiducia. Sulla spending review il confronto tra l’esecutivo e la maggioranza che lo sostiene in Parlamento non sarà in discesa. E il fatto che i tempi per la discussione siano stretti non aiuta a trovare un punto di convergenza prima di arrivare alle votazioni: il termine per presentare le proposte di modifica scade domani a mezzogiorno, dopodiché la commissione Bilancio del Senato discuterà fino a mercoledì prossimo, quando il decreto sarà portato in Aula. Sarebbe a questo punto, secondo quanto trapela da Palazzo Chigi, che il governo accorperebbe il decreto dismissioni nella spending review, presentando un maxiemendamento su cui l’esecutivo è pronto a porre la fiducia.

Il problema è che l’opera di razionalizzazione della spesa pianificata dal governo preoccupa seriamente non soltanto enti locali e sindacati, ma anche quelle forze politiche che garantiscono a Monti una maggioranza in Parlamento. A cominciare dal Pd, che dopo aver visto fallire gli incontri tra esecutivo e Regioni e Comuni punta ora a modificare la spending review in Parlamento.

Pier Luigi Bersani in questi giorni ha più volte discusso dell’argomento con il presidente della Conferenza delle Regioni (oltre che dell’Emilia Romagna) Vasco Errani e con quello dell’Anci Graziano Delrio. Ieri ha anche incontrato nella sede del Pd i sindaci (membri dell’ufficio di presidenza Anci) di Livor- no Alessandro Cosimi, di Lodi Lorenzo Guerini, e di Bologna Virginio Merola, per ragionare con loro sugli scenari che si aprirebbero per i Comuni, anche quelli virtuosi, nel caso fossero confermati i tagli prospettati dal governo. E non ci è voluto molto per capire, in base alle simulazioni fatte durante l’incontro dal senatore del Pd Paolo Giaretta, che è relatore per il decreto sulla revisione della spesa, che dopo le misure approvate nelle precedenti manovre, ulteriori tagli sarebbero insostenibili per le realtà territoriali. E di conseguenza, come dice il responsabile Enti locali del Pd Davide Zoggia sottolineando che sarebbe «impossibile pensare di mantenere la stessa efficienza e diffusione dei servizi» nel caso il governo andasse avanti, per i cittadini.

La convinzione di Bersani è che gli enti locali siano fondamentali per la ripresa del Paese e che continuare con i tagli lineari non sia la ricetta giusta per farci uscire dalla crisi. Per questo invia al governo un estremo messaggio di allarme, dopodiché il confronto si sposterà a colpi di voti in Parlamento. Agli emendamenti sta lavorando un gruppo di lavoro creato ad hoc e guidato dal responsabile Economia del Pd Stefano Fassina. Ma in queste ore sono in corso contatti anche con i parlamentari di Pdl e Udc, per arrivare per domani a mezzogiorno con proposte di modifica blindate in partenza.

FACCIA A FACCIA CON CASINI

Ma la preoccupazione di Bersani va al di là della spending review. I dati economici dicono, per il leader del Pd, che il governo deve fare di più e meglio sul fronte crescita e sviluppo, che non sia sufficiente approvare nuove norme sul lavoro per affrontare il drammatico nodo della disoccupazione che e invece siano necessarie politiche economiche, investimenti, misure che aiutino le imprese in una crisi che, ormai va ripetendo Bersani negli ultimi giorni, «è la peggiore dal dopoguerra ad oggi».

Una preoccupazione che il leader del Pd condivide con Casini. Ieri i due si sono incontrati alla Camera e hanno discusso di economia, degli attacchi speculativi, delle scelte del governo e di quel che sarebbe necessario facesse per portare il Paese fuori dalLa crisi. «La situazione è seria e siamo preoccupati – dice il leader dell’Udc al termine del faccia a faccia – non si può fare una manovra al mese».

Altra cosa che allarma Bersani è la reazione dell’establishment di fronte a questa situazione. Non si capacita, il leader del Pd, come sia possibile da parte dei principali organi di informazione dare tanto spazio a vicende come il ritorno di Forza Italia, il simbolo dell’Aquilone, la vicenda Minetti, e così pochi approfondimenti sulla crisi economica.

l’Unità 18.07.12

Università: Ghizzoni (PD), bandi vanificati da tagli

Per ricercatori e docenti unica programmazione possibile è rinunciare a lavorare in Italia. “Coloro che si dedicano alla ricerca in Italia hanno purtroppo poco da programmare per la loro vita nei prossimi anni – così Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura della Camera, commenta le dichiarazioni del Ministro Profumo –
Infatti, anche se valutiamo con soddisfazione la prossima emanazione del bando per le abilitazioni scientifiche, non possiamo non ricordare che la Spending Review del Governo prevede un nuovo e ancor più pesante blocco delle assunzioni dei docenti universitari e dei ricercatori oltre che nuovi tagli ai finanziamenti, rendendo inutile – spiega Ghizzoni – conseguire l’abilitazione per il periodo 2012 – 2015.

Molti giovani ricercatori capaci saranno costretti ad accettare le offerte delle università straniere e molti professori universitari a rinunciare ad ogni ambizione di carriera. Con questi tagli – conclude Ghizzoni – sarà questa l’unica programmazione possibile.”

"Da tempo cresce la disuguaglianza", di Nicola Cacace

Ogni giorno siamo giustamente preoccupati per l’andamento pericoloso dello spred dei nostri BTP sui bund tedeschi, nel mentre lo spred sociale aumenta senza soste in modo drammatico. Dagli ultimi dati dell’Istat apprendiamo, infatti, che ormai una famiglia su cinque è povera o sulla via di divenirlo. Il 20% delle famiglie è già entrato nell’area della povertà o sta per entrarci. E il peso della povertà è molto più forte per i giovani ma anche per i cittadini del Mezzogiorno: va dal 30% al 40%. Sono record del tutto negativi che non si registrano in alcun Paese europeo, eccetto forse la Grecia alle prese con la difficilissima crisi di oggi. Questo scenario è il risultato di venti anni di crescita zero dell’Italia, del sacrificio a cui è stata sottoposta una intera generazione di giovani, dell’abbandono delle politiche di sviluppo del Mezzogiorno e della recessione attuale, accelerata da politiche di austerità e di rigore senza equità e soprattutto senza alcuno stimolo allo sviluppo.L’Italia soffre soprattutto di un calo verticale della domanda, conseguente a decenni di sacrificio del lavoro, di aumento della precarietà, di riduzione del valore reale di salari e pensioni. Sentiamo aleggiare invece intenzioni governative. abbastanza stupide, come quella di intervenire sulla crisi riducendo tre o quattro festività, 1 maggio, 25 aprile, 2 novembre, nel tentativo di far aumentare la produzione, quando il problema attuale più urgente del Paese è quello di aumentare la domanda. Spero che il premier Monti e i tecnici al governo si chiedano: chi comprerà quell’1% di superproduzione rispetto all’attuale, teoricamente ottenibile con 4 giorni di lavoro in più? E chi compenserà invece le ulteriori perdite di produzione e di occupazione di uno dei pochi settori che ancora vivacchia, cioè il turismo, in conseguenza della cancellazione delle festività? Spero proprio che la lucidità dei nostri governanti non arrivi ad attuare un provvedimento ingiustamente punitivo, economicamente inutile come quello dell’abolizione di alcune festività, già minacciato improvvidamente qualche settimana fa da un sottosegretario in cerca di visibilità e sicuramente privo di lucidità. I problemi del Paese sono ben altri, oltre quello dell’attacco dei mercati finanziari ai punti deboli di una Europa che ancora non riesce ad essere Europa compiuta, economica, politica e solidale. Sono i problemi di uno dei Paesi a più alta diseguaglianza del mondo dove il 50% della ricchezza è nelle mani del 10% delle famiglie. Un Paese sempre più vecchio che invecchia male perché povero sul fronte dell’innovazione. Infatti, è vero che l’Italia è tra i Paesi più vecchi del mondo con 45 anni di età media (nel Medio oriente siamo a 25 anni) ma il nostro problema non è solamente anagrafico. Anche la Germania, con 45 anni di età media è un Paese vecchio come l’Italia, ma evidentemente l’età biologica della Germania è assai più bassa se essa è stata capace di attuare le riforme necessarie e di utilizzare appieno una risorsa preziosa, quella degli innovatori e dei giovani, un fronte sempre più strategico nel mondo globale di oggi. E la Germania non ha certo puntato su monete false come quelle che in passato hanno inguaiato l’Italia ed ancora minacciano di inguaiarla. La Germania non ha infatti puntato sulla quantità della produzione ma sulla qualità, l’unica che nel mondo globale consente ai Paesi industriali di competere con Paesi a basso costo lavoro come Cina ed India. Infatti la Germania ha ridotto le ore lavorate annualmente a meno di 1500 contro una media italiana di più di 1700, concertando il tutto con le parti sociali. E sembra che entrambe le procedure, concertazione e produttività da qualità più che da quantità, abbiano funzionato bene. È una lezione che, anche alla luce del continuo aumento delle diseguaglianze italiane, con povertà e Mezzogiorno che peggiorano, i nostri ministri farebbero bene a meditare con attenzione, invece di attardarsi in provvedimenti punitivi ed inefficaci. C’è anche una norma per evitare il ripetersi della «vergogna» esodati all’interno delle modifiche alla riforma del lavoro approvate ieri. L’emendamento al decreto sviluppo votato dalle commissione Finanze e Attività produttive della Camera istituisce «l’archivio dei contratti e degli accordi collettivi di gestione di crisi aziendali». In questo modo sarà sempre possibile tenere sotto controllo i numeri dei futuri «esodati». Il testo nel suo complesso ha subito una riformulazione dopo la trattativa tra partiti che sostengono al maggioranza e il governo. Prevede dieci punti di modifica della riforma Fornero che entra in vigore domani. Molte nelle novità fanno parte delle richieste contenute nell’avviso comune sottoscritto da sindacati e Confindustria. Le principali riguardano la proroga al 31 dicembre 2014 della mobilità secondo le regole attuali. Sul fronte della flessibilità in entrata vengono ridotti gli intervalli tra un contratto e l’altro a tempo determinato, nel caso dei lavori stagionali. La definizione delle pause di lavoro sono demandate alla contrattazione. L’emendamento poi spalma su due anni (anziché uno, come previsto nella riforma) due criteri che servono a individuare le fase partite Iva, cioè la collaborazione con lo stesso committente per più di 8 mesi e l’importo del reddito fino a 18 mila euro. Altra novità per le partite Iva e gli iscritti alla gestione separata dell’Inps è il blocco dell’aumento delle aliquote pensionistiche che nel 2013 restano al 27%. Per compensare le mancate entrata derivanti dal blocco viene accelerato l’aumento delle aliquote dei pensionati che hanno collaborazioni (l’aumento al 24% previsto nel 2018 viene anticipato al 2016). Altre modifiche: le aziende in crisi con prospettiva di ripresa potranno utilizzare la cassa integrazione straordinaria fino al 2015, si agevola il trasferimento dei rami d’azienda per quelle in crisi e si stabilisce che i contratti a termine fino a 6 mesi non siano inclusi nel conteggio del numero dei dipendenti. Nel solo 2013 sarà poi possibile per i «percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito» integrare il reddito fino a 3 mila euro. Il confronto tra Ministero del Lavoro e parti sociali per una «ricognizione delle prospettive economiche e occupazionali» al fine di «verificare la corrispondenza a tali prospettive della disciplina transitoria e proporre eventuali conseguenti iniziative» infine è previsto entro il 31 ottobre 2014. «La battaglia condotta dal Pd commenta soddisfatto Cesare Damiano, regista dell’emendamento ha conseguito un importante risultato dando attuazione all’impegno del presidente Monti. La scelta di prolungare la mobilità a tutto il 2014 aggiunge mette al sicuro i lavoratori e le imprese di fronte al protrarsi della crisi. Abbiamo concluso positivamente l’intervento di correzione del mercato del lavoro e possiamo dedicarci nella spending review ai cosiddetti esodati. Sono previsti solo 55mila nuovi salvaguardati, un numero insufficiente a risolvere il problema», conclude. «Sono modifiche che recepiscono le indicazioni delle parti ma che non cambiano il giudizio negativo sull’impianto di una riforma che va ridiscussa e modificata commenta Serena Sorrentino, segretario confederale Cgil tre toppe non fanno l’abito nuovo». Più positivi i commenti dagli altri sindacati. «Le modifiche vanno nella giusta direzione e ne miglioreranno l’efficacia: la proroga della mobilità e la clausola di salvaguardia per una verifica dei nuovi ammortizzatori sono importanti», spiega il segretario generale aggiunto della Cisl, Giorgio Santini. «La celerità con la quale il governo ha accettato le integrazioni proposte unitariamente dimostra che il confronto tra le parti sociali è l’unico metodo per trovare le soluzioni necessarie per accompagnare il Paese fuori dalla crisi», afferma il segretario confederale della Uil Gugliemo Loy. «Quando parti sociali, Parlamento e governo si confrontano è possibile raggiungere soluzioni utili per il
Paese afferma il segretario confederale dell’Ugl Paolo Varesi ma la partita per uscire dall’emergenza è ancora molto lunga».

l’Unità 18.07.12