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Enti locali, parlamentari PD: "Così si deprime il territorio" – comunicato stampa 03.11.14

In mattinata, i parlamentari modenesi del Pd hanno incontrato, presso la sede della Provincia, i sindaci e il presidente Muzzarelli che, nei giorni scorsi, avevano denunciato l’insostenibilità dei tagli al sistema degli Enti locali previsto dalla Legge di stabilità. All’appello degli amministratori locali hanno risposto solo i parlamentari modenesi del Pd: erano presenti Davide Baruffi, Manuela Ghizzoni, Edoardo Patriarca, Giuditta Pini e Maria Cecilia Guerra. Assenti giustificati per ragioni di impegni istituzionali i rimanenti parlamentari Pd. Ecco la loro dichiarazione al termine dell’incontro:

 

“Condividiamo la preoccupazione e l’allarme lanciato dai nostri amministratori. In effetti, ci sembra venga richiesto uno sforzo eccessivo al sistema degli Enti locali, soprattutto se paragonato a quello richiesto, ad esempio, ai Ministeri. Insomma, i sacrifici sono troppo sbilanciati sul versante del territorio, piuttosto che su quello dello Stato centrale. Sotto il profilo quantitativo, la dimensione dei tagli che, ad esempio, decurtano di più di un terzo, nel solo 2015, le risorse a disposizione della provincia di Modena, appare tale da rendere impossibile lo svolgimento delle funzioni al servizio dei cittadini. Sotto il profilo qualitativo è, inoltre, sbagliato percorrere, ancora una volta, la strada dei tagli lineari, uguali per tutti. In questo modo non si distingue tra amministrazioni virtuose e non, non si tiene conto di chi, negli anni, ha fatto sforzi per razionalizzare la spesa e rendere più efficiente la propria azione. Ci sembra assente la doverosa logica della spending review: tutti vengono colpiti e non si promuove chi ha già fatto scelte di efficacia. Come parlamentari Pd ci impegneremo, come sempre, a farci portavoce a Roma delle richieste e delle denunce delle nostre amministrazioni, in particolare proprio adesso che la Legge di stabilità è approdata alla Camera. Si tratta di un testo che punta alla sviluppo, e questo è senz’altro positivo, ma se non si prevedono i necessari aggiustamenti si rischia davvero di deprimere il territorio. Alle preoccupazioni espresse dai nostri amministratori, infine, ne aggiungiamo una anche noi: quella relativa a quella parte di Comuni modenesi che, negli ultimi due anni, è stata colpita, da successive e violente calamità naturali. Crediamo che nei confronti di questi Comuni debba esserci un elemento di attenzione ulteriore e specifico”.

 

 

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Dallo sfregio di Dachau un invito a coltivare la memoria – Manuela Ghizzoni 03.11.14

Un fatto di cronaca? Il rischio è che rimanga tale, dopo le dovute manifestazioni di sdegno. Il rischio è che rimanga relegato alla voce “passato”. Il rischio è che non si vogliano riconoscere nel mondo le stesse radici, mai seccate, di odio, razzismo, fanatismo. I testimoni dell’Olocausto sono sempre meno, ma la memoria è un esercizio di costante attualità che va coltivato ogni giorno. Esattamente come i principi della democrazia, da non dare mai per scontati. Oggi, a scuola, si potrebbero chiudere i libri e aprire i giornali. Ne risulterebbe una bella lezione.  

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Il commento di Adriano Sofri su  La Repubblica del 3.11.14 

NUOVO OLTRAGGIO ALL’ OLOCAUSTO

di ADRIANO SOFRI
La nuova impresa è il furto dell’intera porta-inferriata di Dachau, col motto “AR-BEIT MACHT FREI” (il lavoro rende liberi), che là fu inaugurato e poi si diffuse alla maggioranza dei campi di concentramento e di sterminio nazisti. Sdegno suscitato dalla profanazione, esecrazione: ci mancherebbe altro.
Universali , sentiti? Chissà. Dopotutto, è passato tanto tempo, la specie dei testimoni superstiti è quasi estinta, anche sul sacro incombe una prescrizione. E se non altro la prescrizione inesorabile dell’abitudine: dopotutto, ancora, si tratta di una replica. L’insegna con la scritta “ARBEIT MACHT FREI” era già stata rubata ad Auschwitz e ritrovata poco dopo (bisogna scriverla maiuscola com’era, anche nelle citazioni, almeno per non perdere la B invertita dal prigioniero costretto a lavorarla). Una bravata di neonazisti inetti, e largamente svedesi, per giunta. (Rileggere Larsson, prego). Del resto, chi può dire chi stia dietro la provocazione di Dachau… Già. Si oscillerà, così, “responsabilmente”, fra la preoccupazione di eccedere nei toni indignati e quella di minimizzare. C’è qualcosa di meglio da dire e da fare? Forse. Intanto, si può aver voglia di imparare, o richiamare alla memoria, che cosa fu Dachau. È così facile oggi informarsi, e perfino fare un viaggio. Dachau non fu solo il prototipo, il lager- scuola del concentrazionismo e dello sterminio nazionalsocialista. Fu anche il luogo in cui gli alleati occidentali, gli americani soprattutto, videro coi propri occhi che cosa vi si fosse consumato, e lasciarono documenti impressionanti del loro sgomento.
Ma c’è un’altra sollecitazione che viene dall’impresa di Dachau, ed è legata alla stessa incertezza sulla sua matrice. Non che il neonazismo sia introvabile: non è mai stato così in salute, anche nel parlamento europeo. In salute rigogliosa è l’antisemitismo, modello fondatore e perpetuo in ogni tempo di crisi, e di razzismi, nazionalismi, cospirazionismi, separatismi e altre purezze. Se Auschwitz tiene il primato simbolico e materiale della Shoah, la storia di Dachau è segnata fin all’origine dalla persecuzione di dissidenti, “minorati”, e di omosessuali, zingari, migranti. A contrassegnare l’Europa della crisi non è tanto l’auge del neonazismo, quanto la sua coincidenza e combinazione con chiusure e regressioni che sembrano avere, o pretendono di avere, un segno altro e magari opposto. L’equivoco la fa da padrone. L’allarme motivato — e tardo, esitante — contro il fanatismo jihadista sta sull’orlo del confine, e spesso lo scavalca, dell’intolleranza per i musulmani. La solidarietà con la gente palestinese e l’opposizione alla politica del governo di Israele sconfina volentieri nei discorsi su “gli ebrei” e nella confusione fra governo e stato israeliano. L’esasperazione contro la confisca di libertà e ricchezza da parte di poteri sovranazionali e indifferenti, anzi insofferenti delle regole della democrazia, fomenta una paranoia collettiva che istupidisce e incattivisce.
Non è vero, ed è losco, che non ci sia più distinzione, bisogno di distinzione, fra sinistra e destra. È vero che il peggio della sinistra e della destra vanno sempre più nutrendosi e confondendosi nella frustrazione della crisi, nella paura della retrocessione e dell’invasione, nella convinzione che un burattinaio tiri i fili, e che tutto ciò che si vede sia la mascheratura di ciò che è.
Il po’ di buono che succede nell’Europa di oggi ha del paradosso. Nella Polonia che vuole riscattare l’antisemitismo proprio, non quello altrui, con il museo dedicato a Varsavia, prima che alla memoria della Shoah, alla lunga, preziosa vita ebraica polacca. Oppure nell’Ungheria del plebiscitato Orbán costretto a ordinare una clamorosa marcia indietro sulla tassazione dell’uso della rete dopo la mobilitazione delle strade.
Quanto al resto, desolazione. Il governo di sinistra francese ha sul collo il fiato del Fronte Popolare, e non trova una parola decente per dolersi dell’uccisione di un giovane botanico nella manifestazione contro una diga sciagurata. L’alleato italiano della signora Le Pen sale nei sondaggi al ritorno da una missione internazionalista nella Corea del Nord e nella Piazza Rossa di Mosca, con tanto di maglietta putinista. Una buona parte della “sinistra” europea trova nella fatica dell’Ucraina a fare i conti con il proprio passato una giustificazione alla simpatia, o almeno all’indulgenza, nei confronti di Putin. Il quale fa la sua lezione sull’arroganza planetaria degli americani chiamandoli, lui, “nuovi ricchi”. Del resto sono la stessa Lega e la stessa “sinistra radicale” che al tempo della Bosnia andavano a cercare a Belgrado la loro illuminazione. Dei pasticci a Cinque Stelle meglio tacere. Nemmeno l’avventura mostruosa dello “Stato Islamico” basta a fare un po’ di ordine in tante teste voltate.
Ciò avviene dentro una crisi mondiale acuta, si vieta l’ingresso all’ebola e si drizzano frontiere artificiali mentre qualche migliaio di volontari armati di barba parte dall’Europa alla volta della Siria, e qualche centinaio di migliaia di siriani spogliati di tutto arranca alla volta dell’Europa. Abbiamo 29 ministri della difesa e degli esteri, e nemmeno una politica estera e una difesa europea. Facciamo finta che siano ancora affari nazionali. Il ministro degli interni dispone del primo problema internazionale, i migranti. (Finito Mare Nostrum, aspettiamo che affoghino all’ingrosso, in una volta sola, almeno 350 altri fuggiaschi — al minuto lo fanno ogni giorno — per riparlarne). L’Europa soccombe sotto l’incapacità di occupare i quattro cantoni della crisi economica e sociale, delle migrazioni, della sfida jihadista e di Israele-Palestina. Qualcuno ha pensato che fosse il momento, l’altroieri notte, di provvedere, ed è andato a prendersi il cancello di Dachau, con la scritta: “ARBEIT MACHT FREI”.

 

"Lezioni per professori", di Roberto Casati – Il Sole 24 Ore 02.11.14

Perché insegniamo? E perché insegniamo nel modo in cui insegniamo? Che cosa ci porta davanti a una classe, che cosa ci sveglia la notte alla ricerca delle parole giuste, del modo più coinvolgente di presentare un concetto difficile; che cosa fa sì che siamo insoddisfatti del modo in cui abbiamo valutato uno studente, o contenti di vederlo prendere il volo nella vita? Ci sono certo molte narrazioni sull’insegnamento, da Platone a Don Milani, ciascuna delle quali mette in luce un qualche aspetto di questa pratica lunga, costosa, e in fin dei conti abbastanza innaturale per come viene praticata; tanto innaturale da farne un vero e proprio marchio di umanità. “Abbastanza” innaturale, e comunque meno naturale dell’imparare, che è un vero e proprio automatismo di un cervello fatto per guidarci in un ambiente complesso e aleatorio. Forse siamo anche in parte insegnanti di nascita; e tuttavia la complessità del sistema di istruzione odierno è un artefatto culturale recente, segue la complessità dell’evoluzione sociale, e richiede un’organizzazione della pratica di insegnamento, giorno per giorno, anno dopo anno. Che cosa sappiamo di questa pratica, per come è organizzata oggi? Quali sono le sue motivazioni, chi sono le persone che insegnano? Che cosa possiamo fare per migliorarla?
Franco Lorenzoni risponde – direttamente e indirettamente – con un libro molto intenso, che riprende ed espande una sua precedente pubblicazione di cui ebbi modo di parlare un paio di anni fa. Non affronta direttamente la domanda con cui ho aperto questo articolo, ma mostra quale possa essere la risposta. Lorenzoni è insegnante della scuola primaria a Giove, un paese della provincia di Terni, dove ha lavorato per tutta la sua carriera; molto attivo nel Movimento di Cooperazione Educativa, e molto impegnato sulle questioni di riforma della scuola, della formazione degli insegnanti e della valutazione (di cui scrive su queste colonne – ndr). Il libro racconta in modo fluido, appassionato e appassionante, l’ultimo anno di una classe che il maestro ha seguito dalla prima elementare. Attività costruite intorno al tema delle radici mediterranee, filosofia, matematica, astronomia; letture di tragedie greche, di miti lontani; la misura della Terra; un’opera d’arte lungamente approfondita – quella della Scuola di Atene di Raffaello – che permette di raccogliere le idee e di lanciare nuovi progetti; episodi che turbano la vita di Giove, una morte, l’attività della classe fa una pausa e affronta l’immensa difficoltà del tema; l’integrazione di una comunità di immigrati, e non c’è verso, solo la scuola può mostrare la strada, costruire sull’immensa ricchezza costituita dal fatto che la seconda generazione è madrelingua italiana, ovvero italiana, portare un senso di appartenenza che coinvolga le famiglie; il teatro che permette di rielaborare e mettere in prospettiva non soltanto le conoscenze ma anche le personalità, consolida le prime, fa sbocciare le seconde.
La risposta alla domanda «perché insegniamo» non è però – e qui avanzo un’ipotesi, dovrei forse procedere con più cautela – non è soltanto nella definizione di un percorso, per quanto ricco, per quanto misteriosamente coinvolgente; non è solo nella forza di una passione, per quanto ciò traspaia a ogni pagina, quasi ad ogni riga. Il libro di Lorenzoni è un canto corale, la sua voce si perde tra quelle dei bambini, si fa da parte, e a un certo punto ci ritroviamo a pensare qualcosa di simile alla risposta di Mallory a chi gli chiedeva perché mai scalare l’Everest: Because it’s there, perché esiste, perché eccolo. Siamo da qualche decennio imprigionati nella cultura del figlio-oggetto, un bambino senza voce che cerca come può di barcamenarsi tra le richieste contraddittorie di un ambiguo copione genitoriale: il bimbo creativo e votato a un sicuro successo, da addobbare come un albero di Natale con capacità complesse perché sia poi competitivo sul feroce mercato mondiale del lavoro, quindi proiettato in una dimensione lontana dall’infanzia; poi però lasciato per ore ogni giorno davanti a schermi che lo incatenano a una realtà mediata, indifferente, e ritardano ogni confronto. Non è tanto giocare con la creta o guardare le stelle o imparare le canzoni rumene o tenere un epistolario con Eratostene, non è solo questo che colpisce nel libro, non è un’immagine di pedagogia fuori dagli schemi (che pure va bene e fa bene). È piuttosto l’idea che i bambini e le bambine abbiano una voce, possano esplorare piste che sfuggono agli adulti, trovino normale sbagliare e avere una seconda possibilità, e poi una terza, e poi un’altra ancora. Insegnare è allora tenere aperte queste possibilità, dare loro un volto e un nome, credere e dimostrare di credere che l’infanzia sia un momento sospeso e insostituibile, e lottare perché continui ad esserlo, guardare con sospetto le scorciatoie: “allungare la strada”.

"Indice dell'ignoranza primato senza gloria", Beppe Severgnini – Corriere della Sera 02.11.14

Ho capito che qualcosa non andava domenica 12 ottobre, durante una lettura pubblica dei giornali organizzata al Museo Diocesano di Milano. Ho domandato ai presenti: «Quanti sono, secondo voi, gli immigrati in Italia?». Sguardi interrogativi, qualche sorriso imbarazzato. «Chi pensa rappresentino metà della popolazione, alzi la mano». Con mia grande sorpresa, diverse mani alzate. «Chi ritiene siano il 30%?». Altre mani alzate. «Chi crede, invece, che gli immigrati rappresentino il 15% degli abitanti?». Ancora mani alzate.
In realtà, gli immigrati in Italia costituiscono il 7% della popolazione.
Ad ascoltare la lettura dei giornali la domenica mattina, in un museo di Milano, vanno persone istruite e informate: eppure. Non è superficialità né sciatteria. Non dipende da scarsa dimestichezza con numeri e statistiche. Si tratta, invece, di una percezione sbagliata. Anzi, di una trasposizione: le preoccupazioni diventano realtà.
Non sono rimasto stupito, perciò, quando ho letto i risultati di un sondaggio Ipsos Mori, condotto in 14 Paesi. Titolo: The Ignorance Index . Questo «indice dell’ignoranza» vede noi italiani ingloriosamente primi. Meglio di noi Usa, Corea del Sud, Polonia, Ungheria, Francia, Canada, Belgio, Australia, Gran Bretagna, Spagna, Giappone, Germania, Svezia (la nazione più informata).
Qualche esempio delle risposte in Italia? «Quanti sono i musulmani residenti?». Risposta: il 20% della popolazione! (in verità sono il 4%). «Quanti sono gli immigrati?» Risposta: 30% (in realtà 7%). «Quanti i disoccupati?» Risposta: 49% (in effetti 12%). «Quanti i cittadini con più di 65 anni?». Risposta: 48% (sono il 21%, e già assorbono una fetta sproporzionata della spesa sociale).
Sono dati allarmanti. Perché la discussione pubblica italiana parte di qui: da una somma di percezioni clamorosamente sbagliate. La politica — che pure dovrebbe conoscere la situazione — non si premura di ripetere i dati corretti. Usa la nostra ignoranza, invece. Ci costruisce sopra proposte, programmi, allarmi, proteste. Immaginate Matteo Salvini che, davanti una distesa di bandiere verdi, proclama: «Gli immigrati in Italia sono solo il 7%! I musulmani il 4%!». Calma, fratelli leghisti. Non lo farà mai. Le sue fortune politiche sono costruite sull’ansia. Tutto ciò che concorre ad aumentarla è benvenuto.
Non c’è solo la Lega, non c’è solo l’immigrazione e non c’è solo l’Italia, ovviamente. Prendiamo il numero delle gravidanze durante l’adolescenza. Gli americani pensano che il fenomeno interessi il 25% delle teenager : in pratica che un’adolescente su quattro, ogni anno, metta al mondo un figlio! Il dato corretto è 3% (allarmante, ma non catastrofico). Prendiamo gli omicidi. Il 49% della popolazione nei Paesi esaminati pensa siano in aumento, il 27% crede siano in diminuzione. In effetti gli omicidi sono in calo ovunque. Ma se gli elettori pensano il contrario, state certi: qualcuno incoraggerà queste paure e ci costruirà sopra un programma politico.
I media hanno responsabilità, ovviamente: se informiamo male, o non informiamo, la gente rischia di credere alla prima sciocchezza che sente. Ma non è solo colpa dei media. Spesso si tratta di quella che gli psicologi chiamano «ignoranza razionale»: si decide di non voler sapere. Pensate a certi quotidiani o a certi commentatori. Chi li legge/li ascolta/li guarda non vuol essere informato: chiede solo di essere confermato nei propri pregiudizi.
I pregiudizi, infatti, rassicurano: evitano il fastidio del dubbio. Le idee confuse consolano: permettono di lamentarsi senza protestare, di commiserarsi senza impegnarsi. «Siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno», cantava Francesco Guccini. Ma in quella canzone, Incontro , si racconta di amanti sensibili e rassegnati, non di cittadini emotivi e disinformati. La fine di una coppia, non il declino di una nazione.

Pd Modena, lunedì si parla de “La buona scuola” con l’on. Ghizzoni – comunicato stampa 31.10.14

 

Un momento di approfondimento e confronto sulla riforma della scuola: è questo l’obiettivo dell’incontro dal titolo “La buona scuola”  organizzato dal Pd modenese, per lunedì prossimo. A introdurre i lavori il segretario provinciale Lucia Bursi, mentre relatori dell’incontro saranno Elena Malaguti, docente del liceo Muratori, Giorgio Siena, dirigente scolastico dello stesso liceo e dell’istituto Luosi e Monica Barbolini della Cisl Scuola. Le conclusioni saranno affidate, invece, alla deputata modenese del Pd Manuela Ghizzoni.

 

Sarà la deputata modenese del Pd Manuela Ghizzoni, componente della Commissione Istruzione della Camera, a concludere l’incontro di approfondimento e confronto sulla riforma della scuola che il Pd provinciale ha organizzato per la sera di lunedì 3 novembre, a Modena, con dirigenti scolastici, docenti, studenti, genitori, rappresentanti delle associazioni e organizzazioni sindacali. Ad introdurre la serata sarà il segretario provinciale del Pd modeneseLucia Bursi. Per analizzare i diversi ambiti che l’iniziativa del Governo mira a riformare, a confrontarsi con i presenti saranno Elena Malaguti, docente del liceo Muratori, Giorgio Siena, dirigente scolastico dello stesso liceo e dell’istituto Luosi e Monica Barbolini della Cisl Scuola, insieme a rappresentanti del dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna. A moderare il confronto l’assessore all’Istruzione del Comune di Carpi, Stefania Gasparini. L’appuntamento è fissato per la sera di lunedì prossimo, 3 novembre, dalle ore 20.30 a Palazzo Europa, in via Emilia ovest 101, a Modena.

 

"L'amaca", di Michele Serra – La Repubblica 01.11.14

 

eduardoCi voleva Eduardo perché un’aula della politica — il Senato — assumesse, almeno per poche ore, l’aspetto di una comunità raccolta, silenziosa, unita. Nessun berlusconiano si è alzato per dire che con la cultura non si mangia. Nessun renziano ha rivendicato al governo il merito di avere versato ottanta euro cadauno ai figli di Filumena Marturano. Nessuno della Lega ha gridato “Forza Vesuvio”. Nessuno dei Cinque Stelle ha accusato Eduardo di essere stato favorito dalla lobby del Banco di Napoli a scapito di altri meritevoli commediografi operanti sul web. Nessuno della minoranza del Pd oppure di Sel ha protestato perché la commemorazione di Eduardo non era stata concordata anche con la Fiom. Nessuno del Nuovo Centro Destra si è sentito in dovere di difendere Alfano. E nessuno della SVP ha chiesto chiarimenti sulla mancanza di traduzione simultanea in tedesco mentre Lina Sastri recitava la scena madre di Filumena. Tutti zitti e tutti seduti, e tutti sembravano emozionati anche a nome nostro. Non c’eravamo e avremmo voluto esserci, ma ci siamo sentiti, una volta tanto, rappresentati dai rappresentanti. E c’è ancora chi si chiede a cosa serve la cultura, a cosa l’arte.

L'abilitazione scientifica nazionale fra TAR e attendismo – Manuela Ghizzoni 31.10.14

Giovedì ho avuto risposta all’interrogazione presentata al Ministero in merito ai ricorsi avanzati al TAR da moltissimi candidati dell’abilitazione scientifica nazionale. La risposta, come si può leggere, è ponderata ma non soddisfa. Il Ministero ha deciso di attendere i pronunciamenti definitivi del giudice amministrativo, ed eventualmente quelli di annullamento, invece di definire una chiara “via d’uscita” alle tante criticità della prima tornata dell’abilitazione scientifica nazionale. Da parte del Governo ci si aspettava, oltre che un’azione di autotutela, una volontà politica, che non c’è stata, per intraprendere la strada indicata dalla Commissione Istruzione già nella primavera scorsa. Si sarebbe potuto così alleggerire nei tempi e nei numeri il lavoro dei TAR (le sentenze arriveranno nell’autunno 2015), si sarebbero evitati probabili costi per il Ministero e si sarebbe chiarita più  velocemente la sorte di tanti aspiranti abilitati.
Ho apprezzato, invece, che nella risposta si riconosca positivamente il lavoro svolto dal Parlamento per introdurre modifiche alle procedure dell’abilitazione a partire dalla prossima tornata.

 

5-03549 Ghizzoni: Sui lavori delle commissioni per l’abilitazione scientifica nazionale dei professori universitari.

TESTO DELLA RISPOSTA

Con riferimento al contenzioso che si è formato in materia di abilitazione scientifica nazionale e in particolare alle ordinanze cautelari emesse dal TAR, l’interrogante chiede di conoscere quali provvedimenti il MIUR intenda assumere in autotutela qualora intervenissero sentenze di merito che riconoscano o l’illegittima composizione della commissione esaminatrice (1), o la carenza del giudizio espresso dalle stesse (2), e inoltre se si prevede l’attivazione nei casi specifici della procedura del riesame dei curricula dei candidati non abilitati, come indicato nella risoluzione n. 8-00064 approvata da questa Commissione parlamentare nella seduta del 18 giugno 2014 e tenendo conto delle ordinanze pronunciate.
(1) – (2) Si rappresenta preliminarmente che ad oggi il Giudice amministrativo non ha adottato alcuna sentenza di merito riguardante l’illegittimità della composizione della Commissione esaminatrice. Si ritiene doveroso, quindi, attendere un pronunciamento definitivo del giudice amministrativo al fine di poter agire in autotutela anche eventualmente ottemperando alle decisioni che il TAR riterrà di adottare.
Analogamente, anche nell’ipotesi in cui il TAR si pronunci riconoscendo l’illegittimità del giudizio di diniego di abilitazione reso nei confronti di un singolo candidato per difetto di motivazione, appare doveroso attendere l’eventuale pronuncia di annullamento per poi adottare i provvedimenti del caso.
A tal proposito, si evidenzia che, nei casi in cui il TAR ha avuto già occasione di pronunciarsi con sentenza annullando il giudizio negativo delle Commissioni reso nei confronti di un singolo ricorrente, la pronuncia ha generalmente imposto una rivalutazione del candidato da parte di una commissione in diversa composizione.
È evidente dunque che, come accade nella normale dinamica processuale, l’Amministrazione si riserva, caso per caso, di valutare l’opportunità di impugnare i provvedimenti giurisdizionali non favorevoli.
Per quanto attiene al possibile pregiudizio che i ricorrenti non abilitati potrebbero subire dall’intervenuto svolgimento delle procedure concorsuali presso le Università, nelle more dell’ottenimento di una soluzione della controversia instaurata ipoteticamente loro favorevole, si rappresenta che questi, qualora destinatari di provvedimenti di sospensione del giudizio negativo reso nei loro confronti, possono chiedere l’ammissione alla procedura con riserva, come peraltro risulta già avvenuto in alcune occasioni.
(3) Per quanto riguarda l’eventuale riesame della posizione di singoli candidati non abilitati in pendenza di giudizio, si ritiene opportuno sottolineare che le ordinanze cautelari favorevoli ai ricorrenti già indicano quale sia la forma di tutela ritenuta più adeguata alla singola fattispecie. Più in generale, il Consiglio di Stato, con orientamento costante, ha escluso, fino alla conclusione nel merito del singolo giudizio instaurato, di poter procedere ad un riesame in via cautelare del candidato ricorrente.
In proposito, si segnala che, comunque, diverse Commissioni (per la precisione 69 su 184) hanno attivato procedure di autotutela Pag. 97in relazione ai lavori della tornata 2012. Si tratta di un’attività che fisiologicamente si sta progressivamente esaurendo.
Non può non rilevarsi che, proprio nella consapevolezza della sussistenza di alcune problematiche applicative della procedura innovativa e complessa quale è quella dell’Abilitazione scientifica nazionale, il legislatore ha provveduto a riformare alcuni aspetti del procedimento. Con l’articolo 14 del decreto-legge n. 90 del 2014, convertito con modificazioni dalla legge n. 114 del 2014 sono state approvate variazioni rilevanti alla procedura, con particolare riferimento alla formazione delle commissioni, alla possibilità per i candidati non abilitati di ripresentare domanda dopo soli 12 mesi, anziché dopo due anni e all’introduzione di un sistema di candidatura «a sportello» in linea con i contenuti della risoluzione n. 8-00064.