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"«Quotidiano in classe» da record", di Andrea Biondi – Il Sole 24 Ore 30.10.14

Numeri in crescita, anno dopo anno. La quindicesima edizione del progetto Il Quotidiano in classe segna un altro record sul fronte delle adesioni, con 2.082.504 studenti delle scuole secondarie superiori che parteciperanno durante l’anno scolastico 2014-2015.
Insomma, un numero pari a oltre il 76% degli iscritti che per quest’anno scolastico prenderanno parte al progetto promosso dall’Osservatorio Permanente Giovani-Editori grazie al quale i quotidiani, da 15 anni a questa parte, hanno fatto stabilmente il loro ingresso nelle scuole. Gli insegnanti coinvolti saranno invece 45.172, preparati anche grazie ad appositi corsi di formazione organizzati in collaborazione con le più prestigiose Università italiane.
Si tratta di un’operazione senz’altro importante per rendere più familiare anche ai “Millennials” un prodotto – il quotidiano – il cui stato di salute non è dei migliori. Secondo gli ultimi dati contenuti nel Rapporto 2014 sull’industria dei quotidiani in Italia (Asig-Fieg) oggi in Italia si vendono poco più della metà delle copie rispetto a vent’anni fa. Dal 1990, anno del massimo storico diffusionale con poco meno di sette milioni di copie giornaliere, è andato perso il 45,3 per cento. E dal 2010 sono andati persi anche tre milioni di lettori, scesi a quota 20,6 milioni nel giorno medio (39% della popolazione contro un 49% di media mondiale).
In questo quadro, il lavoro legato al progetto Il Quotidiano in classe è tanto più importante considerando il momento in cui viviamo, con i giovani fra i 14 e i 18 anni che rappresentano senz’altro una delle categorie (se non la categoria) più esposta alle insidie della Rete e dell’informazione non di qualità. «Una buona scuola dovrebbe insegnare a imparare. E imparare a dubitare è una lezione che merita di essere appresa», commenta Andrea Ceccherini, presidente dell’Osservatorio Permanente Giovani-Editori. «È con questo spirito che portiamo una volta alla settimana, in classe, tre diversi giornali a confronto, per dimostrare ai ragazzi come la stessa notizia si possa dare diversamente. È importante sapere che l’informazione non è verità infusa, ma una sua rappresentazione, nella migliore delle ipotesi resa in buona fede».
Con questo esercizio «basato sul pluralismo delle opinioni, intendiamo allenare lo spirito critico e il senso civico dei più giovani, per farne dei cittadini più liberi, degli attori del cambiamento più partecipi, dei protagonisti di una democrazia in trasformazione. E agli insegnanti italiani vogliamo offrire uno strumento in più per rilanciare un modello inedito di educazione civica, meno lento e più rock», ha aggiunto Ceccherini, da poco rientrato da un lungo viaggio negli Usa dove ha fatto un tour tra i direttori dei più importanti quotidiani americani (New York Times, Wall Street Journal, Washington Post e Los Angeles Times) e i leader della Silicon Valley: da Apple a Yahoo, da Twitter ad Amazon fino a Google. Proprio con il gigante di Mountain View l’Osservatorio ha costituito un tavolo di lavoro che partirà a novembre.
Dal 7 ottobre è intanto ripreso nelle scuole il progetto Il Quotidiano in Classe che si basa su un’ora di lezione settimanale, in classe, dedicata alla lettura critica di più testate a confronto. Gli iscritti hanno la possibilità di ricevere settimanalmente le copie digitali o cartacee delle testate che aderiscono: Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore, La Stampa, Il Gazzettino, La Nazione, Il Giorno, Il Resto del Carlino, L’Unione Sarda, Il Tempo, L’Adige, La Gazzetta di Parma, L’Arena, Il Giornale di Vicenza, Bresciaoggi, La Gazzetta dello Sport e L’Osservatore Romano oltre a Focus. Il progetto è condiviso anche da 26 fondazioni bancarie oltre all’Acri.
In questa edizione, ha puntualizzato Ceccherini, «il successo è superiore al successo degli anni scorsi e il merito va riconosciuto interamente a quegli insegnanti italiani che si sono messi personalmente in gioco per conquistare al fascino dei dubbi quei giovani animati da solide certezze».

Atenei, Ghizzoni “A rischio la metà delle borse di studio del 2014” – comunicato stampa 30.10.14

 

Con l’inclusione nel Patto di stabilità delle risorse destinate alle Regioni in materia di diritto allo studio, si rischia che, quest’anno, “saltino” 50mila borse di studio. Su questo tema il Governo si è impegnato a una soluzione, grazie all’accoglimento di un ordine del giorno nell’ambito del decreto legge SbloccaItalia, presentato dalla deputata modenese del Pd Manuela Ghizzoni.  

La ratifica, nel decreto legge SbloccaItalia, dell’intesa Stato-Regione siglata nel maggio scorso, rappresenta un rischio reale, e cioè che quest’anno si dimezzi il numero delle borse di studio, vanificando la possibilità per molti studenti di continuare gli studi. A lanciare l’allarme è  la deputata modenese del Pd Manuela Ghizzoni, componente della Commissione Istruzione della Camera, prima firmataria di uno specifico ordine del giorno, approvato nel tardo pomeriggio di mercoledì 29 ottobre dall’Aula di Montecitorio nell’ambito del decreto legge SbloccaItalia. “L’odg – spiega Manuela Ghizzoni – impegna il Governo a risolvere al più presto gli effetti della norma che ha incluso nel patto di stabilità le spese per le borse di studio: una disposizione che era stata già evitata in precedenza proprio per liberare il sostegno al diritto allo studio dai vincoli del patto di stabilità. Ora, si rischia di perdere qualcosa come 50mila borse di studio, poco meno della metà di quelle assegnate nel 2013”. In Italia, spiegano i parlamentari Pd che hanno sottoscritto l’ordine del giorno, il tasso di accesso dei giovani agli studi universitari e quello dei laureati sono drammaticamente più bassi delle medie europee. Dato aggravato dall’alto costo delle tasse universitarie: “E’ di ieri la denuncia di Federconsumatori che conferma non solo l’aumento delle tasse universitarie, ma anche il permanere di un profondo divario tra Nord e Sud del Paese – continua Manuela Ghizzoni – E’ quindi fondamentale che il Governo, come si è impegnato a fare con l’accoglimento del nostro ordine del giorno, ripristini l’esclusione dal Patto di stabilità delle risorse destinate alle Regioni in materia di diritto allo studio, per non vanificare di fatto le misure di recente adottate, fondamentali per il sostegno fattivo degli studenti e delle famiglie”.

Tasse agricoltori, deputati Pd “Già fissato un incontro con l’Inps” – comunicato stampa 30.10.14

 

I deputati modenesi del Pd Davide Baruffi e Manuela Ghizzoni si fanno portavoce del malessere degli imprenditori agricoli delle zone terremotate e alluvionate che non possono contare su una proroga nel pagamento dei tributi.“Abbiamo già fissato un appuntamento con i dirigenti dell’Inps per la prossima settimana – confermano gli on. Baruffi e Ghizzoni – Crediamo si debba lavorare a forme di dilazione, o quantomeno di rateizzazione congrua dei pagamenti”.

Da una parte il senatore Stefano Vaccari sta lavorando con Regione e Governo per sbloccare i contributi europei, dall’altra i deputati Davide Baruffi e Manuela Ghizzoni si sono attivati con l’Inps per farsi portavoce della necessità di una dilazione o rateizzazione congrua dei pagamenti. I parlamentari modenesi del Pd, ancora una volta, si fanno carico delle denunce degli imprenditori dei territori colpiti dal sisma prima e dall’alluvione poi. “Abbiamo già fissato un appuntamento con i dirigenti dell’Inps per la prossima settimana – confermano gli on. Baruffi e Ghizzoni – Occorre venire incontro alle richieste degli imprenditori agricoli terremotati e alluvionati che non possono contare sulla proroga nei pagamenti delle tasse. Viste le difficoltà oggettive che queste imprese hanno dovuto e stanno ancora affrontando, crediamo che l’Inps debba mettere in campo misure che vadano loro incontro. Si lavori a forme di dilazione, o quantomeno di rateizzazione congrua dei pagamenti”.

 

Dodici condizioni per la ricerca – Manuela Ghizzoni 29.10.14

Oggi pomeriggio, in commissione Istruzione, è stato approvato il parere, previsto dalla legge, sullo schema di decreto ministeriale per il riparto dei finanziamenti statali destinati agli enti di ricerca vigilati dal Miur. Il parere è  stato approvato all’unanimità: un risultato importante, ottenuto dalla discussione seria ed approfondita svolta in commissione e dalla capacità della relatrice, Ilaria Capua, di fare sintesi del dibattito in 12 punti, che hanno condizionato il parere favorevole. 12 questioni che a nostro avviso chiariscono e rendono più  trasparenti le procedure di riparto dei finanziamenti (come potrete verificare direttamente dall’immagine sottostante).  Oggi è intervenuta ai lavori anche la ministra Giannini, che ha condiviso e accolto le condizioni proposte dalla commissione. Questo significa che il testo del decreto andrà modificato: a questo proposito mi limito ad un apice e ad una considerazione finale. L’auspicio è che non si modifichino ogni anno le modalità per ripartire le risorse, come se si procedesse per approssimazioni successive in assenza di una visione chiara. Apportate le modifiche richieste dalla Commissione, le modalità individuate in questo decreto potrebbero costituire una matrice stabile per il futuro.
La considerazione: siamo ad ottobre e stiamo ancora discutendo le modalità per ripartire le risorse del 2014. Agli enti questi finanziamenti arriveranno quindi a fine anno, mentre la quota premiale, come l’anno scorso, avverrà a primavera inoltrata del 2015. E’ chiaro che questi ritardi “cronici” danneggiano la buona funzionalità degli enti di ricerca così come la loro programmazione: come possiamo pretendere che siano competitivi a livello internazionale se ad ottobre ancora non hanno contezza delle risorse statali a loro disposizione! So bene che le modifiche da apportare al testo richieste dalla Commissione fanno temere agli Enti ulteriori ritardi per l’assegnazione delle risorse, ma se i criteri individuati si stabilizzassero, già dal 2015 si potrebbe procedere con tempi “europei” alla suddivisione delle risorse. Lavoriamo per questo obiettivo: forse piccolo, ma “rivoluzionario”.

 

finanziamenti ricerca

Legge di stabilità, tra i tagli il teatro si salva – Manuela Ghizzoni 29.10.14

storchi

Nonostante i tanti sacrifici richieste alle spese dei ministeri dalla legge di stabilità, una buona notizia c’è: il Fondo Unico per lo Spettacolo non subirà tagli (come invece è accaduto con frequenza negli anni passati). Il finanziamento della grande fucina di idee, produzioni e laboratori dello spettacolo dal vivo italiano viene riconosciuto e sostenuto dal governo. In Emilia Romagna i fondi assegnati per il 2014 hanno confermato l’ importanza del sistema Ert come una realtà dinamica da sostenere con risorse cospicue che tengono conto anche dell’acquisizione bolognese dell’Arena del Sole. Ora si dovrà mantenere questo livello anche per il futuro, quando troverà applicazione il nuovo regolamento per il riparto del FUS, illustrato a Modena non più tardi di una settimana fa dal direttore generale dello spettacolo dal vivo, Salvatore Nastasi. Nuove regole che ci auguriamo riusciranno a valutare ancora di più l’esperienza di gestione e di produzione di Ert e del circuito teatrale dell’Emilia Romagna. 

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"La parità sul lavoro? Le donne aspetteranno (forse) fino al 2095", di Elena Tebano – Corriere della Sera 28.10.14

 Riusciranno ad averla forse le ragazze che nasceranno tra mezzo secolo, ma intanto la parità sul lavoro tra donne e uomini è ancora ben lontana. L’ultimo rapporto del World Economic Forum sul «Gender Gap», la disuguaglianza tra i generi, lascia poche speranze: a questi ritmi ci vorranno 81 anni per superarla in tutto il mondo. Bisognerà cioè aspettare il 2095. Salvo peggioramenti. Brutte notizie, visto che oltre ad essere un problema di giustizia sociale è uno degli ostacoli maggiori alla crescita economica: «Solo le economie che possono impiegare tutti i loro talenti rimarranno competitive e riusciranno a prosperare», avverte il fondatore e presidente del World Economic Forum, Klaus Schwab. Oggi sono 14 i Paesi al mondo che hanno superato per oltre l’80% le disparità lavorative tra uomini e donne. Tra questi ci sono la Norvegia, gli Stati Uniti, la Danimarca e l’Islanda, ma anche il Burundi, il Malawi e la Moldavia. Non l’Italia, che invece è 114esima su 142, con solo il 57% del «gap» recuperato. Ed è quindi ben lontana dal valorizzare tutti i suoi talenti. Certo, l’indice misura la disparità tra uomini e donne nella partecipazione alla forza lavoro, nella remunerazione a parità di carriera e nella presenza tra i legislatori e i dirigenti, e quindi non dice (bisogna tenerlo bene a mente) che le donne del Burundi hanno condizioni e opportunità lavorative migliori di quelle italiane. Ma che, data la situazione economica del nostro Paese, potremmo fare molto di più. La partecipazione delle donne alla vita economica, infatti, è uno dei fattori che più ci penalizza: lavora meno della metà delle italiane. Il messaggio è chiaro: servono misure che aiutino le donne a entrare (e andare avanti) nel mercato del lavoro. A cominciare dal sostegno alle madri che lavorano, asili compresi: perché sono loro quelle più penalizzate. Secondo Bankitalia una mamma su cinque lascia il proprio impiego dopo un anno e mezzo dalla nascita dei figli (in particolare le giovani sotto i 24 anni e quelle con livelli di istruzione più bassi). E in generale il tasso di occupazione femminile è inversamente proporzionale al numero dei bambini. Il paradosso è che rispetto all’anno scorso l’Italia è peggiorata: nel 2013 era 97esima su 136 Paesi, mentre adesso è scivolata di ben 17 posizioni. Segno che non solo non abbiamo fatto abbastanza: abbiamo fatto meno degli altri. C’è un altro indicatore che penalizza l’Italia: la partecipazione politica delle donne. Qui la disparità di genere è stata superata solo per il 24%, contro il 65% dell’Islanda o il 61% della Finlandia. Eppure qualche segnale positivo c’è: quest’anno siamo al 37esimo posto contro il 44esimo di dodici mesi fa. Sono aumentate infatti le donne in Parlamento e al governo. C’è da sperare che abbia ragione il fondatore del World Economic Forum Klaus Schwab, quando dice che se le donne sono più coinvolte nei processi decisionali prendono decisioni che rispondono di più ai bisogni delle donne.

"Un modo per sprecare i finanziamenti pubblici alla cultura", di Gian Arturo Ferrari – Corriere della Sera 28.10.14

bronzi di riace
Mi trovavo nei giorni scorsi in Calabria e ne ho approfittato per andare a rivedere i bronzi di Riace, non tanto per le polemiche su Expo, quanto per la gioia interiore che sempre mi dà la contemplazione dei capolavori dell’arte greca.
I bronzi si trovano presso il Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria, ospitato in un edificio piacentiniano che è stato di recente sottoposto a un’energica ristrutturazione. Sono aperte per ora quattro sale. In una è esposto un arazzo restaurato del Museo diocesano di Gerace e che con l’archeologia non c’entra nulla. In un’altra si trovano invece pezzi di grande qualità provenienti dalla Locride, ciascuno illustrato da una lunga didascalia appesa al muro. Le didascalie sono un bell’esempio di quello specialismo altezzoso e arrogante che una parte della cultura italiana, specie quella accademica, usa come arma di difesa e di offesa. Ricorre l’espressione «tecnica acrolitica», senza ulteriori delucidazioni. Io sono un classicista di formazione ed ero in compagnia di un professore universitario, di uno scrittore e di un bibliotecario. Nessuno di noi sapeva che cosa fosse la tecnica acrolitica. A chi è indirizzata, di grazia, quella didascalia?
In una terza sala, più piccola, è esposto invece un solo pezzo, meraviglioso. Una figura maschile troncata sotto le ginocchia, priva del braccio sinistro e con il destro che arriva al gomito. A occhio e croce fine del VI – inizio del V secolo. Dico a occhio e croce perché qui, esauriti evidentemente dalle fatiche della tecnica acrolitica, gli estensori delle didascalie si sono concessi un meritato riposo.
Nella quarta sala ci sono i bronzi, ma per accedervi bisogna stare per due o tre minuti in una stanza di decontaminazione. Una volta decontaminati si entra nella sala sulle cui pareti e dietro ai bronzi — in modo che guardandoli li si vede su questo sfondo — stanno appesi due grandi e coloratissimi cartelloni che illustrano rispettivamente il terzo restauro e le basi antisismiche su cui i bronzi poggiano. Non una parola viene detta su che cosa i bronzi siano, da dove vengano, quando siano stati eseguiti e via dicendo. Più in generale, il restauro del museo è stato concepito su idee di svuotamento, grandi spazi e assoluto biancore. Peccato che per un’altezza di mezzo metro da terra tutto l’immacolato candore sia cosparso di nere pedate, sfregi, sbaffi, segnacci, un’aria di sporcizia che quello sfondo rigoroso contribuisce a mettere in risalto. Chi e come li ha fatti? Non si sa. Chi e come non li ha puliti, cancellati, rimbiancati? Non si sa. Quel che si sa è che il rifacimento del museo è costato finora 36 milioni di euro e ne costerà, a lavori finiti, 50. Soldi dei contribuenti, naturalmente.
Mi trovavo in Calabria perché partecipavo al Tropeafestival Leggere&Scrivere che, nonostante il nome, si è svolto a Vibo Valentia. Vibo è (era?) la più piccola provincia italiana, circa 160 mila abitanti, ma in compenso quella che conta proporzionalmente la più alta concentrazione di criminalità organizzata. Le cosche e ‘ndrine accertate, emerse, di ‘ndrangheta sono 26, secondo la valutazione del procuratore della Repubblica Mario Spagnuolo, un illuminista meridionale pugnace e senza illusioni, e del prefetto Giovanni Bruno, un messinese giovane per la sua carica (53 anni) capace di conservare il buonumore. La città di Vibo, che di abitanti ne conta poco più di 30 mila, si adorna anche — tutt’altro paio di maniche, certo — di 13 logge massoniche, tra censite e coperte.
Alla domanda di quanto la vita economica sia infiltrata dalla criminalità, il prefetto e il procuratore, concordi, asseriscono che il condizionamento è assolutamente endemico. L’economia legale ne viene quasi soffocata. Qui negli anni 70 trascorsero la loro felice latitanza i maggiori terroristi neri e alcuni anche rossi. Insomma, un bel posticino. Proprio qui, un gruppo di persone generose fa venire da diversi anni e per sei giorni consecutivi autori di libri e uomini (in realtà molte donne) di cultura che s’intrattengono, come in tutti i festival ma qui più familiarmente, con ragazzi, bambini, anziani, insegnanti, persone a vario titolo interessate. Il festival, con la sua capacità di attrazione, li mette insieme, li fa incontrare, connette i fili e comincia a tessere, con pazienza e senza miracoli, la tela della convivenza civile, di un mondo migliore. Tutto questo costa 200 mila euro l’anno, fondi europei conferiti dalla Regione.
Morale o, meglio, alcune morali. Primo. Guardare con i propri occhi, andare a vedere, quel che Erodoto chiamava «autopsia» che proprio questo vuol dire. Secondo. Fiumi d’inchiostro e tonnellate di carta si sono spesi sui bronzi a Milano. È questione di opinioni. I fatti sono un’altra cosa, sono quelli che abbiamo descritto. E dei fatti sarebbe bene che primariamente ci occupassimo. Terzo. Non è vero che lo Stato non spende in cultura. Spende, poco o tanto che sia. Soprattutto sceglie dove e quanto spendere. E di questo deve rendere conto ai cittadini. «Non ci sono soldi» è una scusa, nasconde il fatto che lì i soldi si danno e là no. Non si danno a chi la cultura la diffonde con coraggio e impegno, si danno per musei faraonici. E sporchi.