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Regolamentazione master universitari, la risposta del ministro – Manuela Ghizzoni 27.10.14

La risposta alla mia interrogazione sulla regolamentazione dei master universitari mi ha lasciata perplessa. Il Ministero, infatti, affida la soluzione del problema al futuro accreditamento sulla base degli indicatori definiti dall’ANVUR, l’agenzia di valutazione del sistema universitario, che dovrebbe assicurare i requisiti didattici, strutturali, organizzativi e di qualità dei corsi proposti dagli atenei. Un modo per non rispondere alla nostra interpellanza che, nel rispetto dell’autonomia universitaria, più semplicemente chiedeva al Ministero se e come intendesse sollecitare i singoli atenei ad adottare nei regolamenti didattici la programmazione, il coordinamento e la valutazione dei propri master. In altre parole si chiedeva al Ministero se intendesse “governare” il principio della responsabilità e dell’autovalutazione da parte degli atenei. Mi pare che la sollecitazione mossa dall’interrogazione non sia stata colta, eppure essa resta valida, per assicurare qualità ed efficacia agli studenti che investono denaro e attese nei master, per mantenere uno standard omogeneo con i paesi europei ed anche evitare accuse che spesso gettano discredito sul nostro sistema universitario.

http://www.camera.it/leg17/824?tipo=A&anno=2014&mese=10&giorno=23&view=&commissione=07#data.20141023.com07.allegati.all00040

"Poche matricole tra i meno abbienti, laureate sempre più numerose", di Marzio Bartoloni – Scuola 24 27.10.14

Nuovo appuntamento con il focus di Almalaurea, questa volta dedicato all’identikit dei giovani al loro ingresso all’università e ai fattori che influenzano le scelte
La maggior parte delle matricole proviene da famiglie di estrazione più elevata o con almeno un genitore laureato. I più disposti a spostarsi per motivi di studio sono i giovani del Mezzogiorno e, in generale, tra i laureati le donne sono più numerose degli uomini. Il nuovo focus realizzato da Scuola 24 in collaborazione con Almalaurea traccia l’identikit dei laureati al loro ingresso all’università , individuando i fattori che influenzano le scelte dei giovani: contesto socio familiare, migrazioni territoriali, differenze di genere e motivazioni. Scoprendo innanzitutto una prevalenza dei laureati provenienti da contesti familiari avvantaggiati dal punto di vista socioculturale. «Solo 30 diciannovenni su 100 si iscrivono all’università,provenendo nella maggioranza dei casi dai contesti familiari più favoriti – spiega il direttore di Almalaurea, Andrea Cammelli – mentre al restante 70 per cento dei giovani non è consentito affrontare gli studi universitari per l’assenza di una seria politica del diritto allo studio, delle difficoltà economiche incontrare soprattutto negli ultimi anni dalle famiglie e per le poche risorse destinate nel nostro paese alla formazione superiore».
Differenze di genere, mobilità e età all’immatricolazione
Il Profilo 2013 conferma una strutturale prevalenza femminile fra i laureati: le donne costituiscono il 60% del totale, con forti caratterizzazioni per area disciplinare. In testa, troviamo il gruppo dell’insegnamento (94% di laureate), linguistico (85%), psicologico (83%), letterario (71%).
Un altro aspetto che occorre tenere in considerazione è la migrazione per ragioni di studio. Complessivamente, 49 laureati su 100 hanno conseguito il titolo universitario nella stessa provincia in cui avevano ottenuto il diploma di scuola secondaria di II grado; un altro 26% si è spostato in una provincia limitrofa; altri 11 si sono laureati in una provincia non limitrofa, ma sono rimasti all’interno della stessa ripartizione geografica; 12 si sono spostati in un’altra ripartizione e 3 provengono dall’estero. Le migrazioni di lungo raggio riguardano prevalentemente studenti del Mezzogiorno che scelgono di studiare in Atenei del Centro o del Nord.
L’indagine mette inoltre in luce che buona parte dei laureati del 2013 ha compiuto il proprio ingresso all’università all’età canonica o con un solo anno di ritardo (84%), con punte superiori al 90% per i gruppi di ingegneria (96%), medicina (94%), geobiologico (93%), scientifico (91%), economico statistico e chimico farmaceutico (90%).
Le motivazioni all’immatricolazione
Quali sono le motivazioni che spingono i laureati, al momento dell’accesso all’università, a optare per un corso di laurea piuttosto che per un’altro? L’indagine evidenzia che per quasi la metà degli studenti (45%) sulla scelta di iscriversi all’università pesano in eguale misura fattori culturali (cioè l’interesse per le discipline insegnate nel corso) e i fattori professionalizzanti (legati agli sbocchi occupazionali offerti dal corso).
Ventinove laureati su 100, invece, hanno scelto il corso sulla base di motivazioni prevalentemente culturali, il 10% è spinto da motivazioni prevalentemente professionalizzanti; per il 15% a influenzare la scelta non sono né fattori culturali né quelli professionalizzanti.
Un’indagine più approfondita delle motivazioni alla base della scelta del percorso universitario evidenzia che pesa in misura rilevante l’indirizzo di studio selezionato. Ad esempio, a motivare 60 laureati su 100 del gruppo letterario sono soprattutto i fattori culturali, sebbene l’interesse per le materie del corso sia decisivo anche per numerosi laureati dei gruppi geo-biologico, psicologico, linguistico, scientifico e politico-sociale.
Le motivazioni prevalentemente professionalizzanti pesano in misura maggiore (oltre il 13%) tra i gruppi ingegneria, economico-statistico, insegnamento e professioni sanitarie.
Le motivazioni all’ingresso sono risultate una caratteristica personale indipendente dalle condizioni socioeconomiche della famiglia di origine e poco associata all’area geografica di provenienza e alla carriera scolastica pre-universitaria. Solo in riferimento al genere si riscontrano alcune differenze, dal momento che la motivazione prevalentemente culturale è più frequente fra le femmine e quella professionalizzante fra i maschi.
Il contesto socio-economico di origine
L’analisi del contesto socioeconomico di provenienza dei laureati 2013 mostra che l’ascensore sociale nel nostro paese è ancora bloccato a tal punto che i giovani che provengono da contesti sociali meno favoriti hanno minori chances di proseguire gli studi dopo la scuola dell’obbligo fino al completamento degli studi universitari.
Il legame che intercorre fra il grado di istruzione dei genitori e la probabilità di arrivare alla laurea, tuttavia, non deve far dimenticare che ancora nel 2013 la gran parte (71 su 100) dei laureati che hanno completato il proprio percorso di studi proviene da famiglie in cui il titolo di studio universitario entra per la prima volta.
Ma le origini sociali, non pesano solo sulla possibilità di scegliere o meno di intraprendere un percorso di studi universitario, ma hanno un ruolo rilevante anche sulle preferenze disciplinari dei laureati. Chi proviene da famiglie meno favorite intraprende infatti prima qualsiasi tipo di attività. Viceversa, chi proviene da famiglie più favorite, tende a resistere più a lungo alla ricerca di una professione più coerente agli studi compiuti e può frequentare in misura maggiore un programma Erasmus, ovviando così al problema dei ridotti finanziamenti. L’indagine mette infatti in luce che a influenzare la scelta del percorso intrapreso all’università non è solo il tipo di diploma scolastico conseguito dallo studente, ma anche e soprattutto il background economico e culturale di origine. Emerge così che gli studenti che provengono da famiglie più istruite, con almeno un genitore laureato, si iscrivono in misura maggiore a discipline come medicina, giurisprudenza e farmacia, mentre scelgono con minore frequenza l’insegnamento, le professioni sanitarie, l’educazione fisica e gli studi politico-sociali.

 

 

"Attenti ai pifferi delle Isole Cook", di Mario Pirani – La Repubblica 27.10.14

” Repubblica se lo sogna che la Svizzera sia davvero disposta a seppellire il segreto bancario” ci scrive un lettore di Lugano polemizzando con una mia rubrica del 29 settembre a proposito della legge che introduce anche in Italia la “collaborazione volontaria” (voluntary disclosure) del contribuente con lo Stato per la riemersione dei capitali nascosti. La legge è passata ora anche al Senato: dal rientro dei capitali sono attesi introiti erariali di diversi miliardi, che completeranno e rafforzeranno durante il 2015 la manovra economica espansiva che il Governo vuole realizzare. Gli accordi firmati all’Ocse e nel G20 prevedono che, dal primo gennaio 2016, i clienti dovranno fornire all’intermediario che opera in uno dei paesi aderenti, al momento della sottoscrizione di un prodotto finanziario, un’autocertificazione. Sarà a carico dell’intermediario verificare la correttezza dell’informazione.
Banca d’Italia fa una stima di 124-194 miliardi di capitali italiani nascosti all’estero, di cui il 60 per cento in Svizzera, infatti i banchieri svizzeri, consultati informalmente, parlano di 50-100 miliardi italiani nascosti nei loro caveau. Sempre dal nostro anonimo commentatore (il cui stile denota una dubbia parentela bancaria) viene espressa una preferenza per lo scudo anonimo al posto della voluntary disclosure. Vediamo cosa ci scrive: “…il possessore italiano di soldi all’estero dovrebbe recarsi all’Agenzia delle entrate e discutere il proprio caso. È come mettere la testa nella bocca del leone… oltretutto, per chi voglia rimanere nascosto, le stesse banche svizzere suggeriscono società finanziarie svizzere nei paradisi fiscali, per esempio nelle Isole Cook … per far rientrare quei capitali si dovrebbe addivenire a più miti propositi: per esempio, far pagare, se non il cinque per cento di Tremonti, non più del 10%”. Falso suggerimento: in tutti i paesi civili del mondo il contribuente, per regolarizzare le proprie posizioni, la testa la deve per forza mettere nella bocca del leone. Così succede negli Usa, ma anche in Francia e in Germania. La Francia, ad esempio, ha già offerto ai suoi contribuenti un percorso di “collaborazione volontaria”, i cui dati, resi noti a settembre, parlano di circa 2 miliardi di gettito erariale, quasi il doppio delle previsioni. Le banche svizzere che stanno collaborando, consigliano alla loro clientela di aderire alla procedura e i banchieri svizzeri, sempre consultati in modo informale, dicono che i tassi di adesione sono molto elevati.
L’Italia è, come al solito, in ritardo. Letta aveva proposto un decreto alla fine del 2013, in contemporanea con l’analoga norma francese. Il decreto è decaduto e le norme sul rientro sono state salvate dall’onorevole Causi, che le ha trasformate in un disegno di legge parlamentare. La Camera ci ha messo sette mesi ad approvare, e adesso è Padoan a trainare. E tuttavia, quando la legge sul rientro dei capitali sarà definitivamente approvata, il contribuente italiano che ha nascosto all’estero i suoi capitali per un certo numero di anni pagherà anche meno del dieci per cento. La legge prevede un calcolo forfetario su un tasso di rendimento nazionale del 5 per cento su cui si paga il 27 per cento, quindi l’1,35 per cento per ogni anno di esportazione non comunicata al fisco italiano. Questo, naturalmente, in assenza di evasione. Laddove risultasse un’evasione fiscale, si paga doverosamente il dovuto, ma con rilevantissimi sconti in materia di sanzioni pecuniarie e interessi e, soprattutto, di eventuali sanzioni penali di tipo tributario.
Certo, resta sempre l’alternativa di continuare ad occultare le somme non dichiarate al fisco trasferendole nelle Isole Cook, o in qualche altro posto esotico del Golfo Persico o del Sud America. Ma si tratta di un’alternativa molto rischiosa: i rendimenti garantiti da queste piazze finanziarie sono aleatori e incerti, le operazioni di occultamento sono molto costose (i soliti bene informati dicono che ci si può perdere anche il trenta per cento), e soprattutto se — con le informazioni che saranno sempre più utilizzate dall’amministrazione fiscale grazie alla tracciabilità dei movimenti finanziari — si venisse in futuro scoperti, allora il prezzo da pagare può diventare molto alto. Si pagherà infatti senza gli sconti previsti dalla procedura di “collaborazione volontaria” e, sul piano penale, si pagherà non solo il reato tributario originario, ma anche il reato connesso all’operazione di occultamento delle somme. Se l’occultamento è opera di un intermediario, scatta il reato di riciclaggio. Ma anche se il nostro evasore decidesse di fare tutto da solo, nella legge sul rientro dei capitali è stato opportunamente introdotto il reato di autoriciclaggio, finora mancante nel nostro codice.
Le banche svizzere sono istituzioni più serie e solide di come giudica il nostro furbastro lettore — diverso forse potrebbe essere il giudizio se parlassimo di piccoli intermediari “artigianali” e grigi, certamente non consigliabili. La Svizzera ha deciso — con atti politici e legislativi impegnativi, a partire dalle firme dei trattati internazionali e bilaterali — che dalla black list dei paesi che consentono il riciclaggio si vuole tirare fuori. Noi non possiamo che esprimere contentezza per questa decisione e auspicare che, grazie alla nuova legge italiana, la Confederazione possa finalmente andare alla firma di un trattato bilaterale anche con l’Italia.

"Ristoranti, mostre e teatri ecco le nuove vite delle stazioni abbandonate", di Jenner Meletti, La Repubblica 26.10.14

CERVIA (RAVENNA) .
Entri in stazione e senti i profumi di maccheroni al ragù, di arrosto di maiale, di frittate con la cipolla. Odori di cibo come negli anni Cinquanta e Sessanta, quando alla stazione di Bologna i camerieri in giacca bianca consegnavano cestini con lasagne calde ai viaggiatori affacciati ai finestrini.
A volte ritornano, i profumi. Nell’ex Dlf, Dopolavoro ferroviario, adesso c’è un ristorante che si chiama “Mensa Amica”. Settanta pasti al giorno, serviti gratuitamente a chi si presenta. «È una mensa per chi è in difficoltà — dice Silvia Berlati, che guida questo ristorante accanto ai binari — non una mensa dei poveri. Anche la solitudine è una difficoltà. Arrivano qui gli anziani che vivono soli e vogliono mangiare in compagnia. Poi magari, come è successo a P., la nostra prima “cliente”, diventano anche loro volontari».
“Impresenziate”, si chiamano queste stazioni dove i ferrovieri sono scomparsi. Un altoparlante che annuncia arrivi e partenze, nessun berretto rosso da capostazione, una macchinetta che ha rubato il posto ai bigliettai. «In questo momento — dice Ilaria Maggiorotti di Rfi, Rete ferroviaria italiana — abbiamo a disposizione 1.900 stazioni abbandonate. Possono essere richieste da chi vuole farle rivivere, soprattutto da associazioni di volontariato, con la garanzia dei Comuni. Il comodato è gratuito, i lavori di ristrutturazione e manutenzione sono a carico di chi chiede gli spazi».
Sono già 500 le stazioni che hanno trovato una nuova vita. Puoi ballare la break dance o guardare un film nell’ex sala d’attesa di prima classe a Mondovì, puoi incontrare i ragazzi della redazione di Radio Appennino a Marzabotto, puoi visitare “l’Orto segreto” con 45 varietà di ortensie a Orta Masino. Oppure puoi passare una sera al Teatro Binario di Cotignola.
«In questo Dlf — racconta Silvia Berlati di Cervia — i ferrovieri si rimettevano in ordine dopo il lavoro, avevano qui le docce e la cucina. Anche adesso arrivano persone che vogliono rimettersi a posto». In stazione arrivava pure Grazia Deledda, che qui aveva comprato un villino «color biscotto» per le sue vacanze. Ora 80 volontari, a turno, preparano i pranzi e anche «la sportina» da portare a casa per la cena (con un panino con arrosto di tacchino, pizza, dolce e frutta). Ci sono le docce, lavatrici ed asciugatrici. «Il 55 per cento sono italiani. Non c’è bisogno di iscriversi, basta presentarsi. I nostri volontari sono persone che si sono sempre date da fare per il prossimo. C’è la Piera, che più “rossa” non si può. Eppure fa i turni con suor Lucia, 85 anni, che per una vita è stata caposala all’ospedale e che adesso lascia la casa di riposo per venire a servire a tavola». Un bilancio di 35mila euro all’anno, con l’aiuto di banche e privati per i soldi e di Banco alimentare e Coop Adriatica per il cibo.
Cotignola è nel cuore della Romagna, e non per caso. Il racconto della nascita del Teatro Binario sembra scritto da Tonino Guerra. «Era una sera di nebbia, passavo qui vicino con due miei amici, Cristiano e Abe. Il magazzino dello scalo merci era lì, dietro le sterpaglie. Sembrava che ci chiamasse… Sì, è stato lui a cercare noi, come se parlasse». Era l’anno 2000 e Maurizio Casadio faceva l’assessore alla cultura. «Ho parlato con il sindaco di allora, abbiamo chiesto il comodato alle Fs e il magazzino è diventato “nostro”. Il teatro è stato aperto nel 2006, con Dante l’è un pataca di Ivano Marescotti». Un paese di 7.400 abitanti, per rimettere in ordine questo spazio, ha speso 240 mila euro. «Certo — dice Maurizio Casadio, che adesso è presidente dell’associazione “Cambio Binario” che gestisce il teatro — ci sono state polemiche. Ma io raccontavo a tutti che non si poteva buttare via uno spazio così bello, così ricco di storia».
Una sala con 99 posti, i camerini sono in un vagone merci. «Abbiamo comprato altri cinque vagoni, metteremo un caffè, costruiremo il foyer… Lo scalo merci è il posto giusto per la cultura. In ferrovia i vagoni caricavano e scaricavano merci, ora in teatro c’è lo scambio di cultura, di poesia, di emozioni».
«La stazione — dice il sindaco Luca Piovaccari — è il posto giusto, perché non sembra un teatro. E così è frequentato anche da chi ha sempre avuto timore a entrare in un museo o, appunto, in un teatro. Spendiamo 80 mila euro all’anno, per la cultura. Ma non servirebbero a nulla, se non ci fossero i volontari. Nel “Teatro Binario” lavorano tante associazioni, dalla scuola di musica a quella di fotografia. Solo nella stagione invernale ci sono 70 appuntamenti ».
«Lavorano» è la parola giusta. Il presidente Maurizio Casadio, per esempio, fa il cantiniere. Lasciate botti e cisterne, assieme agli altri cento volontari, toglie il legno marcio dai vagoni appena acquistati dalle Fs, mette quello nuovo, prepara le piattaforme e il tunnel fra vagoni e teatro… È arrivato anche Nicola Piovani, a suonare qui. Sul palcoscenico è salita Paola Quattrini. «Nel nostro cartellone, che si chiama “Sipario 13”, ci sono però tante nuove proposte. Puntiamo sul settore giovanile, come se fossimo una squadra di calcio. Così costruiamo anche il futuro». Scende la prima nebbia d’autunno. Lo scalo merci non ha più bisogno di «parlare». Il suo appello è stato ascoltato.

Stragi naziste, parlamentari Pd “Storica sentenza della Consulta” – comunicato stampa 25.10.14

I parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Manuela Ghizzoni, Maria Cecilia Guerra, Giuditta Pini e Stefano Vaccari commentano con soddisfazione la recentissima sentenza della Corte costituzionale che stabilisce che, nel nostro ordinamento, non vige il principio dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati in caso di crimini di guerra e contro l’umanità. Domani a Palagano si chiudono le celebrazioni per il 70esimo anniversario della strage nazista e i parlamentari Pd ribadiscono il proprio impegno a fianco dell’Amministrazione comunale e dell’associazione dei familiari delle vittime. Ecco la loro dichiarazione:  

«La Corte Costituzionale, contraddicendo una sentenza della Corte dell’Aja del 2012, ha stabilito che il principio dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri Stati non opera, nel nostro ordinamento, quando l’altro Stato si è macchiato di crimini di guerra e contro l’umanità. In sostanza si riconosce che il principio di diritto internazionale è lesivo dei diritti inviolabili della persona stabiliti dalla Costituzione italiana che, pertanto, prevalgono. Si tratta di una sentenza storica che consentirà non solo di stabilire verità, ma di avere giustizia. Si apre, infatti, la strada per quanto finora era stato negato alle vittime delle stragi naziste e ai loro famigliari: la possibilità di un equo indennizzo. Pensiamo a quanto hanno lottato per questo risultato i familiari delle vittime delle stragi naziste compiute in Emilia-Romagna, quella di Palagano, Monchio, Susano e Costrignano in  particolare. Proprio domani, domenica 26 ottobre, a Palagano, si chiudono le celebrazioni per il 70esimo anniversario della strage nazista e come parlamentari Pd saremo al fianco dell’Amministrazione comunale e dell’associazione dei familiari delle vittime per le azioni che vorranno intraprendere. Finalmente, dopo tanti anni da quei dolorosi fatti, arriva una nuova speranza».

 

Pd Soliera, lunedì si parla de “La buona scuola” con l’on. Ghizzoni – comunicato stampa 23.10.14

 

23 ottobre

 Pd Soliera, lunedì si parla de “La buona scuola” con l’on. Ghizzoni

L’incontro è programmato presso “Il Mulino” di Soliera, in via Nenni 55, dalle ore 20.45 

 

Sarà la deputata del Pd Manuela Ghizzoni, componente della Commissione Istruzione della Camera, l’ospite dell’incontro pubblico, organizzato dal Pd di Soliera, per la sera di lunedì 27 ottobre sul tema della riforma della scuola. Appuntamento presso il centro civico “Il Mulino” di Soliera a partire dalle ore 20.45.

Il Pd di Soliera ha organizzato per la sera di lunedì prossimo un incontro di approfondimento sulla riforma della scuola intitolato “La buona scuola”. Relatore dell’incontro sarà la deputata modenese del Pd Manuela Ghizzoni, componente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera. “Abbiamo organizzato questo incontro – spiega il segretario del Pd di Soliera Roberto Drusiani – con l’intento di approfondire una delle riforme più importanti messe a punto dal Governo Renzi, fondamentale per il futuro dei nostri ragazzi e per la crescita del nostro Paese”. L’iniziativa è aperta a tutti, ma è rivolta in particolare a docenti, genitori, studenti e rappresentanti delle associazioni. L’appuntamento è, quindi, per lunedì 27 ottobre presso il centro civico “Il Mulino” di Soliera, in via Nenni 55, a partire dalle ore 20.45.

 

"Così Amazon strangola il mercato", di Paul Krugman – La Repubblica 22.10.14

Amazon.com, il colosso del commercio online, ha troppo potere e il modo in cui usa questo potere danneggia l’America. Sì, lo so, detta così è un po’ brutale. Ma volevo arrivare al punto fin da subito, perché quando si parla di Amazon spesso e volentieri si finisce per perdersi in questioni di secondaria importanza. Per esempio i detrattori della libreria online a volte la ritraggono come un mostro pronto a inghiottire l’intera economia. Sono proclami esagerati: Amazon non ha una posizione dominante nemmeno nel commercio online, figuriamoci nel commercio al dettaglio in generale; e probabilmente questa posizione dominante non ce l’avrà mai. E con questo? Ciò non toglie che il ruolo che sta interpretando sia inquietante.
Sull’altro versante, chi la difende spesso si lascia andare a peana in onore della vendita di libri online, che in effetti è una cosa positiva per tanti americani, oppure esalta il servizio clienti di Amazon (e nel caso ve lo stiate chiedendo, sì, ho Amazon Prime e lo uso a profusione). E con questo, torno a dire? Il punto non è se una nuova tecnologia sia auspicabile o meno, e nemmeno se Amazon utilizzi questa tecnologia in modo efficace. Dopo tutto John Rockefeller e i suoi soci se la cavavano niente male nell’industria petrolifera, ma la Standard Oil aveva comunque troppo potere ed era fondamentale che lo Stato intervenisse per limitarlo.
La stessa cosa vale oggi per Amazon. Se non avete seguito le ultime vicende relative al colosso di internet, vi faccio un riassunto: a maggio una controversia tra Amazon e la Hachette, un’importante casa editrice, è degenerata in guerra commerciale aperta. Amazon pretendeva una fetta più grossa del prezzo dei libri venduti dalla Hachette; quando Hachette gli ha risposto picche, Amazon ha cominciato a ostacolare la vendita dei libri Hachette. Non li ha eliminati dal sito, ma ha preso a ritardare le consegne, alzare il prezzo e/o indirizzare i clienti verso altri editori.
Potreste essere tentati di dire che il mondo degli affari è così da sempre, come ai tempi in cui la Standard Oil, prima che venisse spezzettata, si rifiutava di utilizzare per il trasporto del suo petrolio quelle compagnie ferroviarie che non le garantivano uno sconto speciale. Ma il punto naturalmente è proprio questo. L’era dei robber barons finì proprio quando noi, come nazione, stabilimmo che certe tattiche affaristiche non erano accettabili. E la domanda che ci dobbiamo fare è se vogliamo cancellare quella decisione.
Ma Amazon ha davvero un potere di mercato comparabile a quello dei robber barons?
Nel settore dei libri sì, indubbiamente. Amazon ha una quota di mercato largamente maggioritaria nel settore della vendita di libri online, comparabile alla quota del mercato del petrolio raffinato controllata dalla Standard Oil quando fu spezzettata, nel 1911. E anche se si guarda alla vendita di libri in generale, Amazon è di gran lunga il primo operatore. Finora il colosso online non ha cercato di spremere i consumatori. Anzi, ha sistematicamente tenuto bassi i prezzi per rafforzare la sua posizione dominante. Quello che ha fatto, però, è stato usare il suo potere di mercato per spremere gli editori, riuscendo a ridurre il prezzo che paga per i libri (da qui lo scontro con la Hachette). Nel gergo economico, Amazon (almeno per ora) non si comporta come un monopolista, cioè un venditore dominante che ha il potere di alzare i prezzi, ma come un monopsonista, cioè un compratore dominante che ha il potere di ridurre i prezzi.
E su quel versante il suo potere è immenso veramente, ancora più grande di quanto segnalino i dati sulla quota di mercato. Per le vendite di libri il passaparola è importantissimo (per questo gli editori spesso spediscono gli autori a fare massacranti tour promozionali): compri un libro perché ne hai sentito parlare, perché altre persone lo stanno leggendo, perché è tra i più venduti. E Amazon possiede il potere di uccidere il passaparola. È sicuramente possibile, con qualche sforzo in più, comprare un libro di cui avete sentito parlare anche se Amazon non lo vende: ma se Amazon non vende quel libro, avete molte meno possibilità di sentirne parlare.
Insomma, possiamo fidarci che Amazon non abusi di questo potere? La controversia con la Hachette ci ha fornito una risposta definitiva: no, non possiamo. Non è solo una questione di soldi, anche se i soldi sono importanti: spremendo gli editori Amazon in ultima analisi danneggia autori eMa c’è anche il problema dell’influenza indebita. Per scendere nello specifico, la sanzione che Amazon sta imponendo ai libri Hachette è brutta di per sé, ma c’è una curiosa selettività nel modo in cui viene applicata. Il mese scorso il blog Bits del New York Times ha documentato il caso di due libri della Hachette che ricevono un trattamento molto diverso. Uno è Sons of Wichita di Daniel Schulman, un profilo dei fratelli Koch, i magnati di ultradestra; l’altro è The Way Forward di Paul Ryan, candidato alla vice presidenza nel 2012 con Mitt Romney e presidente della commissione bilancio della Camera dei rappresentanti. Entrambi i libri sono elencati fra quelli che hanno i requisiti per l’Amazon Prime, ma per il libro di Ryan Amazon offre la consueta consegna in due giorni, mentre per Sons of Wichita sono «normalmente 2-3 settimane» (ho controllato l’ultima volta domenica scorsa). Guarda guarda… Tutto questo ci riporta alla domanda fondamentale. Non venite a dirmi che Amazon dà ai consumatori quello che vogliono, o che si è meritata la posizione che occupa. La domanda che bisogna farsi è se ha troppo potere e se abusa di questo potere. E la risposta è sì, in entrambi i casi. ( Traduzione di Fabio Galimberti)