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"Tanti, longevi (e trascurati) Ecco i vecchi giovani di oggi", di Claudio Magris – Corriere della Sera 08.10.14

 
«E dunque, o vecchio, non dire/che troppi sono i tuoi anni;/oggi,degli anni passati,/nessuno, più, vecchio, è con te». Così si dice in una splendida lirica dell’ Antologia palatina , la raccolta poetica ellenistica grande e concisa nel parlare di amore e di morte, che tanti secoli più tardi avrebbe ispirato un’altra celebre opera, Spoon River dell’americano Edgar Lee Masters.
Come spesso accade alla poesia ed è suo diritto che accada, quei versi di Pallada dicono una cosa vera e insieme non vera. Ognuno si porta tutto dietro, consapevole o no; il suo vissuto, la sua salute e la sua malattia, il suo coraggio e la sua paura, le sue fedi e quella buia palude interiore in cui sembra che ogni certezza e ogni speranza si dissolvano. Ma è anche vero che in certi istanti la vita sembra raccogliersi in un unico punto ignaro di tutto il resto e l’individuo sente di esistere nell’epifania di quell’istante, sente che esiste solo quell’istante. Può essere l’attimo della morte, l’attimo in cui Saulo cade da cavallo per diventare San Paolo e forse pure l’attimo in cui ci si avvicina al letto di una persona amata o anche solo desiderata.
I vecchi diventano sempre più — positivamente e negativamente — protagonisti del nostro mondo; oggetto di solidarietà o di fastidio, comunque di preoccupazione. Il prolungarsi della vita e la parsimonia delle nascite popolano sempre più la nostra società di vecchi, guardati con solidarietà — perché più deboli e indifesi in un mondo sempre più spietato — e insieme con impaziente ostilità per il loro peso che grava sulle spalle degli altri, per il costo del loro mantenimento che tarpa le generazioni più giovani, sempre più in difficoltà nella ricerca di un lavoro.
All’immagine del vecchio ricco di un’esperienza che è fondamentale trasmettere e ricevere si affianca quella del parassita che succhia sangue ed energie altrui. Il crescente numero dei vecchi, ampio bacino di elettori, li fa corteggiare dalla politica, ma un brutale culto della giovinezza induce a considerarli oggetti usati e inutili da rottamare. Paradossalmente, a una longevità sempre più lunga e capace di prestazioni che rivelano una pienezza di vita — Oliveira sta girando un film a 106 anni, i 101 di Boris Pahor sono in piena efficienza e in piena attività intellettuale — si contrappone una febbre di gioventù, un’idolatria della brevità e dell’attualità ridotte a dimensioni sempre più brevi, a un film all’acceleratore come quelli di Ridolini, e consegnate al cassonetto del vecchiume. Un ventenne mi ha detto alcuni mesi fa che non si sognerebbe nemmeno di andare a vedere un film girato prima della fine degli anni Ottanta, così come io non mi sognerei di usare una di quelle biciclette ottocentesche che avevano una ruota piccolissima e una enorme e che ho visto solo in qualche fotografia. Mi hanno detto che stanno uscendo libri quali «Come eravamo negli anni Novanta», epoca che per l’autore di questo libro è antidiluviana; temo che non lo leggerò perché quando apparirà in libreria sarà già vecchio e sorpassato. Mi propongo invece di scrivere un elzeviro su come ero io lo scorso giugno.
A questi protagonisti e/o esclusi della nostra società è dedicato un intenso, vivacissimo e documentato libro di Carlo Vergani e Giangiacomo Schiavi, Ancora troppo giovani per essere vecchi . Si tratta di un dialogo in cui il nostro Giangiacomo Schiavi pone a Carlo Vergani — grande gerontologo e geriatra che ha coperto la relativa cattedra e diretto la scuola di specializzazione, coordinando il dottorato di ricerca in Fisiopatologia dell’invecchiamento e assumendo la responsabilità dell’Unità operativa di geriatria presso l’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano — incalzanti domande sui vari aspetti (clinici e sociali, politici e morali, economici e psicologici) e prendendo a sua volta spunto dalle sue risposte per sviluppare altri temi.
Il libro è un incisivo, sintetico panorama del pianeta della vecchiaia nei suoi vari e contraddittori aspetti, scandito da dati precisi e indagato con una finezza che unisce competenza scientifica, prospettiva politico-sociologica e profonda, asciutta partecipazione umana. Un atlante sobrio e completo. Il numero crescente dei vecchi, quelli fra loro che non vivono ma sopravvivono fragili e dimenticati facendo la spola fra ricoveri e dimissioni ospedaliere; l’aumento della speranza di vita e un’opaca disperazione; la solitudine, i costi della demenza, le domande e l’imbarazzo delle risposte, le ragioni della pietas, i segni dell’invecchiare; la capacità di riconoscere e anche amare le tracce che gli anni lasciano su un viso e la patetica aridità del lifting, il ruolo e i limiti del sesso, i drammi della memoria — che è amore, dice Vergani, ricordando come in francese e in inglese imparare a memoria si dica significativamente par coeur, by heart — la depressione e il dolore, l’insufficienza delle cure, l’assistenza. Vergani auspica una necessaria «medicina narrativa», un nuovo rapporto tra medico e pazienti non più silenziosi e imbarazzati davanti all’autorità del camice bianco, un «medico nuovo». Cita il cardinal Martini che parlava della necessità di «dare volto, voce e parola alla malattia», dimostrando un’intelligenza diversa dalla spiritosaggine di quello scrittore inglese che propone «pubs per l’eutanasia», in cui «si entra, si beve un bicchiere e si passa a miglior vita». È un libro che mostra come «una società che invecchia è senza futuro e senza passato, perché non ha rincalzi generazionali e trascura le sue radici».
«Fra le tante domande destate dal libro che vorrei porvi — chiedo loro — c’è, come dice il titolo, oltre al problema dei vecchi e dei giovani, quello di una generazione ancora abbastanza giovane che deve ritirarsi dalla vita attiva — i prepensionamenti, gli esuberi e così via — e che si trova in un disagio forse ancora più pesante, in un’età contraddittoria e indistinta, in cui sarebbe necessario ma non è possibile essere attivi e in cui l’emarginazione è forse più dura che nella vecchiaia».
Vergani — «La generazione ancora abbastanza giovane è quella che i demografi chiamano generazione X. Sono persone di età intermedia fra i baby boomers, nati negli anni Cinquanta, e i millennials, nati alla fine del secolo scorso che hanno compiuto i 18 anni nel corso del terzo millennio. In un periodo di crisi economica la perdita del lavoro, senza la possibilità di uno sbocco alternativo, toglie la fiducia nel domani: è così che subentra la rassegnazione e si diventa vecchi dentro. È una vecchiaia esogena che non ha niente a che fare con la fisiologia del soggetto, un indotto sociale sul quale si può intervenire».
Schiavi — «C’è un corto circuito provocato dalla crisi economica e dal giovanilismo tecnologico. La sintesi è una parola orribile: rottamazione. Si considerano già vecchi i cinquanta-sessantenni, pensando di ridurre i costi del lavoro. Cosi abbiamo il boom dei pensionamenti e delle malattie legate all’invecchiamento. Dovremmo rendere produttiva l’anzianità, invece di creare un apartheid. E rileggere García Márquez, quando dice che ai vecchi la morte non arriva con l’età, ma con la solitudine…».
Magris — «Certo, la letteratura di ogni secolo e di ogni Paese ha affrontato la vecchiaia nei suoi vari e contraddittori aspetti. Ad esempio negli ultimi racconti di Svevo, il vecchio — che ne è il protagonista — vive una stagione di libertà selvaggia: estromesso dalla lotta per la vita e dalla competizione, non ha più l’ansioso dovere di vincere, di sedurre, di dominare, di essere efficiente. Ha il diritto di essere debole, sconfitto e si gode questa zona di nessuno, questo spazio solo suo, il piacere di vivere senza dover essere valutato, messo in classifica, senza il dovere assillante di primeggiare. Arrigo Levi, citato nel vostro libro, parla della vecchiaia come di una nuova avventura, in cui c’è più tempo — più libertà dal lavoro, da quella esigenza di fare, di produrre, di partecipare, di intervenire, che toglie il respiro e rende schiavi. È un dramma non avere un lavoro che permetta di vivere con dignità, ma c’è una febbre ansiosa di attività, di interventi; un assillante bombardamento di cose da fare, domande cui rispondere, eventi cui partecipare, una vera maledizione che avvelena l’esistenza. Si è persa la capacità di oziare, di quel “grande ozio” che permette di vivere veramente, di cui parlava Comisso proprio sul Corriere . Se la vecchiaia offrisse una liberazione da tutto questo non sarebbe poco…».

Scienze della terra, Ghizzoni “Materia basilare, più attenzione” – comunicato stampa 08.10.14

 

Sostegno alla formazione e alla ricerca delle Scienze geologiche: è questo l’obiettivo della proposta di legge di cui inizia oggi l’iter parlamentare, firmata da numerosi deputati, e presentata dalla deputata modenese Pd Manuela Ghizzoni. Quello delle Scienze della terra è un ambito fortemente penalizzato dai provvedimenti di razionalizzazione e risparmio previsti dalla riforma universitaria targata Gelmini. Il rischio è di mettere a repentaglio un ambito scientifico e una figura professionale – quella del geologo – di fondamentale importanza per la conoscenza, la gestione e la tutela del territorio, in un Paese tra i più fragili per condizioni idrogeologiche, come dimostrano le sempre più frequenti calamità naturali. Ecco la dichiarazione di Manuela Ghizzoni, che è anche stata nominata relatore della proposta di legge:

 

“La riforma universitaria del 2010, ispirata a principi prevalentemente economicistici e dei grandi numeri, ha di fatto portato alla chiusura di molti Dipartimenti di Scienze della terra (come accaduto nei quattro atenei emiliano-romagnoli), mentre la riduzione dei finanziamenti ha compresso gli spazi per la ricerca e la preparazione dei geologi professionisti. Si tratta di un mancato investimento a vantaggio della cultura della difesa del territorio, che rappresenta un problema non solo accademico ma anche sociale, ambientale ed economico. Nel Paese con più alto rischio idrogeologico e con le più diffuse condizioni di dissesto del territorio abbiamo bisogno di geologi, figure dalle competenze e professionalità qualificate che in questa situazione vengono messe a repentaglio. Basta richiamare alla memoria le calamità naturali degli ultimi tre anni in Toscana, Liguria, Emilia-Romagna, Sardegna, Veneto, Umbria e Calabria, aggravate da una mancata manutenzione della rete idraulica, da una pianificazione distratta non supportata dalla conoscenza della fragilità dei territori e dall’incompleta applicazione della classificazione sismica. Occorre un rinnovato impegno a sostegno delle scienze geologiche,  per rendere coerente ed efficiente il sistema di programmazione e gestione del territorio di cui il geologo è una delle figure fondamentali,  pena un grave degrado della qualità della vita e della pubblica incolumità. Con la proposta di legge di cui oggi inizia l’iter di approvazione chiediamo alcune fondamentali modifiche alla legislazione attuale: che le Scienze geologiche vengano inserite nel Piano nazionale di agevolazioni per l’orientamento alle lauree scientifiche,  che venga destinata una quota del  Fondo per la protezione civile a progetti di prevenzione dei rischi geologici presentati dai Dipartimenti di Scienze della terra, infine che si introducano deroghe ai limiti numerici posti dalla legge Gelmini per facilitare la costituzione dei Dipartimenti universitari anche di Scienze della terra”.

 

allegato: la relazione alla proposta di legge “Interventi per il sostegno della formazione e della ricerca nelle scienze geologiche”

relazione (1)

"Europa dei meriti, non capro espiatorio", di Beppe Severgnini – Corriere della Sera 08.10.14

 
Potremmo chiamarla, o chiamarlo, «The Million Euro Baby», se il titolo non fosse così cinematografico. La Commissione europea ha calcolato che un terzo degli studenti Erasmus ha conosciuto il partner durante l’esperienza all’estero. «Stimiamo che da queste coppie, a partire dal 1987, sia nato un milione di bambini», ha dichiarato Androulla Vassiliou, commissaria uscente per l’Istruzione, la Cultura e la Gioventù.
Secondo voi, quanti leader politici hanno commentato la notizia con orgoglio? Quanti hanno capito che altri programmi Ue producono norme europee, mercati europei, prodotti europei; mentre il programma di scambi universitari Erasmus, da ventotto anni, produce europei. Un sostantivo, senza aggettivi. E costa lo 0,7% della politica agricola comune.
«The Million Euro Baby». Nessun governante, nei 28 Paesi, ha ricordato il traguardo, che io sappia. Tanti, invece, sono impegnati a scaricare sull’Unione responsabilità e colpe: anche responsabilità nazionali, anche colpe che i governi dovrebbero assumersi. La Conferenza di alto livello sul lavoro, in programma oggi a Milano, offrirà probabilmente ulteriori, malinconici esempi di questa tendenza.
L’Europa è diventata il capro espiatorio delle inadempienze nazionali. È facilissimo attaccarla: non può difendersi. Un club non può farci niente, se i soci vanno in giro a parlarne male. Ma i soci del club europeo non sono soltanto i governanti, di ogni nazionalità e credo politico. Siamo tutti noi e dovremmo essere meno cinici di chi ci guida.
Certo è facile, per Matteo Renzi, ripetere «Non sarà l’Europa a dirci quello che dobbiamo fare!». Certo è utile, per David Cameron, rispondere: «Tengo mille volte più alla Gran Bretagna che all’Europa». Certo è comodo, per Manuel Valls, dire: «La Germania deve cambiare tono!» invece di metter mano alla mastodontica spesa pubblica francese (56% del Pil). Ma tutti e tre, e altri, dovrebbero chiedersi: cosa faremmo, senza il fiato dell’Europa sul collo?
La risposta, per l’Italia, è facile: eviteremmo la fatica del cambiamento e torneremmo a spendere come cicale. Un ex-presidente del Consiglio, privatamente, giorni fa lo ha ammesso: «Senza lo scudo delle norme di bilancio Ue, chi governa l’Italia non potrebbe resistere alla pressioni di sindacati, industriali, amministrazioni locali, interessi vari». Senza i vincoli europei — ricordiamolo — il debito pubblico italiano è schizzato dal 50% del Pil nel 1974 al 122% del 1994. Ora siamo al 132%. Non è poco: la Francia è al 92% e la Germania al 78%. Ma almeno, grazie ai guardiani di Bruxelles, non ci siamo finanziariamente suicidati.
È irritante aver bisogno di guardiani? Ovvio. Si può evitare? Certo, basta mostrare di poterne fare a meno. Se facessimo le riforme che promettiamo — lavoro, giustizia, fisco, scuola — il cielo economico sopra l’Italia schiarirebbe all’improvviso. Non dimentichiamo che 600 miliardi del nostro debito pubblico sono in mano a fondi stranieri. Se decidessero che parliamo tanto e facciamo poco — se concludessero che di noi non ci si può fidare — sarebbero guai seri. Chiedete a Silvio Berlusconi: ne sa qualcosa, il 2011 non è così distante.
Il deficit al 3% non è un dogma, si può modificare. E, come ha ricordato Pier Carlo Padoan aprendo il convegno anglo-italiano di Pontignano (Siena), «alcuni Paesi europei pensano di aver fatto tutto e non è così». La possente ed egocentrica Germania, convitato di pietra d’ogni incontro europeo, potrebbe usare l’enorme surplus commerciale, creare domanda, liberalizzare il mercato interno dei servizi. Questo, tuttavia, non autorizza i politici europei, di ogni colore e latitudine, a parlare con sarcasmo e disprezzo dell’Unione Europea. È una questione di rispetto e di lungimiranza.
L’Europa dobbiamo farla migliore: non disfarla.

"Tasse universitarie, il nuovo Isee avvantaggia le famiglie numerose che vivono in affitto", di Gianni Trovati – Scuola 24 07.10.14

Una condizione migliore per le famiglie numerose e per chi abita in affitto, e un “peggioramento” per chi ha la casa di proprietà e per chi, soprattutto, finora ha sfruttato autodichiarazioni non veritiere per ottenere sconti a cui non aveva diritto. 

Sono queste le conseguenze che il debutto del nuovo Isee dovrebbe produrre in ambito universitario.

L’utilizzo dell’Isee
L’indicatore della «situazione economica equivalente» è lo strumento che le università utilizzano per graduare i contributi studenteschi a carico degli iscritti e individuare chi ha diritto a borse di studio, alloggi (quando ci sono) e altri aiuti. L’Isee utilizzato oggi è vecchio di 16 anni, ma le regole sono state riformate nel 2011 con una serie di modifiche all’indicatore, fissate in un decreto attuativo del 2013. Da allora il nuovo Isee è tornato in naftalina, ma nei giorni scorsi il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, l’ha rilanciato annunciandone il debutto effettivo dal prossimo 1° gennaio.
Anche se questo calendario governativo fosse rispettato, nell’università ovviamente i primi effetti si avrebbero più tardi, cioè con le nuove iscrizioni al prossimo anno accademico.
Questi mesi, però, potrebbero essere sfruttati dagli uffici amministrativi e dai rettori per ridefinire gli scaglioni Isee che disciplinano tasse universitarie e diritto allo studio.

Le novità in arrivo
Sono parecchie le novità e possono cambiare anche radicalmente l’indicatore di ogni famiglia. Gli effetti più dirompenti, in realtà, potrebbero arrivare dalla nuova procedura, che limita i dati “autodichiarati” dal momento che le informazioni su redditi e trattamenti previdenziali e assistenziali dovrebbero arrivare direttamente dal Fisco e dall’Inps. Questo antipasto della “dichiarazione precompilata”, sulla falsariga di quanto previsto ora anche dalla riforma della dichiarazione dei redditi, dovrebbe tagliare di netto le tante informazioni parziali o scorrette che finora hanno garantito trattamenti privilegiati a chi non ne aveva diritto. Tutte le inchieste a campione, svolte dalla Guardia di Finanza in questo o quell’ateneo, hanno mostrato in questi anni un altissimo tasso di infedeltà nelle autocertificazioni Isee, ma ovviamente sono rimaste lontane dal dare una soluzione strutturale al problema.
Anche dai calcoli, pero’, arriveranno cambiamenti profondi. L’Isee, per esempio, appare destinato a schizzare verso l’alto per la casa di proprietà, che con il nuovo sistema sara’ calcolata in base al valore imponibile Imu, più alto del 60% rispetto al valore Ici utilizzato fino a oggi: il valore Imu viene abbattuto di un terzo, ma rimane comunque più alto di quello Ici.
Anche sul versante dei redditi, non mancano le novità che possono spingere l’indicatore verso l’alto. La riforma, infatti, fa rientrare nei calcoli tutte le entrate famigliari, comprese quelle soggette a tassazione separata (per esempio un affitto, su cui si paga la cedolare, oppure il Tfr); stessa sorte per gli assegni di mantenimento ricevuti dall’ex coniuge, i trattamenti assistenziali e le varie indennità, tutte voci finora ignorate dall’Isee.
Come accade per la casa, anche per i redditi vengono introdotti dei meccanismi di abbattimento dei valori, che tuttavia hanno un effetto limitato: in particolare, una nuova detrazione-base toglierà dall’Isee il 20% dei redditi da lavoro dipendente o da pensione. Scendono, invece, da 15.493 euro (i vecchi 30 milioni di lire) a 6mila le detrazioni relative al patrimonio mobiliare (azioni e titoli vari).
Il mix di questi fattori è destinato ad avere effetti molto differenziati a seconda della condizione di ogni nucleo famigliare, e non sarà facile per gli atenei rimodulare borse di studio e tasse universitarie in modo corretto.

"E in quel piccolo mondo siamo cittadini e compaesani", di Ilvo Diamanti – la Repubblica 07.10.14

L’esodo dalle città verso la provincia non è un fenomeno solo italiano. Riflette il deterioramento della qualità della vita e dell’ambiente soprattutto nelle periferie urbane. Dove si addensano i flussi migratori. Dove, al tempo stesso, il sistema residenziale e il paesaggio si sono degradati. Così, quelli che possono, se ne vanno. Per echeggiare il linguaggio dell’ecologia sociale: “evadono” dalle città e si “rifugiano” nei paesi più piccoli. Possibilmente, non lontano dai centri urbani, perché, comunque, le città restano il principale luogo di offerta di servizi. L’Italia, d’altronde, è un Paese di compaesani (come ha osservato il sociologo Paolo Segatti). La “provincia”, il mondo dei piccoli paesi e delle piccole città, d’altronde, è, ancora, fonte di soddisfazione, personale e sociale. Anzitutto, perché offre una rete di relazioni più fitta.
Tra coloro che risiedono in comuni con meno di 10 mila abitanti, 7 persone su 10 affermano di avere legami e conoscenze con i vicini di casa. Oltre i 30 mila abitanti, la quota scende a poco più del 50% e negli agglomerati metropolitani, con più di 500 mila abitanti, al 40% (Indagini Demos). Di conseguenza, al crescere della dimensione urbana cresce anche il senso di solitudine. Che affligge il 26% di coloro che vivono nelle metropoli, ma solo il 18% nelle località più piccole. Nei piccoli centri, inoltre, risultano più elevate la soddisfazione economica e la fiducia nel futuro. Perché stare in mezzo agli altri, considerarsi parte di una “comunità”, abbassa il sentimento di vulnerabilità sociale. Proprio la provincia italiana, soprattutto nel Centro-Nord, peraltro, negli ultimi trent’anni, ha espresso il maggior grado di crescita economica, grazie allo sviluppo della piccola e piccolissima impresa, sostenuta dal ruolo della famiglia e dell’associazionismo. E dall’importanza del lavoro come valore. Anche per questo, la “provincia italiana” è divenuta, in effetti, “capitale”. Del benessere sociale e dello sviluppo economico. Tuttavia, i vantaggi del piccolo mondo locale, negli ultimi anni, si sono ridimensionati. Mentre emergono problemi, sempre più evidenti.
Anzitutto, l’ambiente e il paesaggio si stanno degradando. Lo sviluppo economico impetuoso del passato recente oggi è in declino. Ma ha ridotto molte aree di provincia in agglomerati di aziende e capannoni. Altrove, in micro- quartieri dormitorio. La diffusione urbanistica, spesso, è avvenuta senza regole. All’italiana. Così, la provincia ha smesso di essere accogliente come un tempo. Mentre il “localismo”, come sentimento e identità, si è tradotto in “spaesamento”. Tanto più di fronte all’impatto con la globalizzazione — economica, sociale e cognitiva. Ben testimoniata dall’immigrazione. Così, proprio in provincia, nei paesi più piccoli, oggi incontriamo indici di insicurezza crescenti. Che si traducono in reazioni sociali e (anti) politiche di autodifesa. Intercettate da “imprenditori politici” dello spaesamento, come la Lega. Per questo, occorre evitare che la spinta verso la provincia si traduca in “provincialismo”. E riduca le città in periferie. Abbiamo, invece, bisogno di riqualificare le città, ma anche la provincia. Per fare degli italiani un popolo di compaesani e, al tempo stesso, di cittadini.

"Lavoro, parlamentari Pd Modena “Bene ripresa del confronto coi sindacati” – comunicato stampa 06.10.14

In mattinata si è tenuto a Modena un incontro tra i segretari provinciali di Cgil, Cisl e Uil Tania Scacchetti, William Ballotta e Luigi Tollari e i parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni e Maria Cecilia Guerra sulla riforma del mercato del lavoro. All’invito, partito dai sindacati e rivolto a tutti gli eletti modenesi in Parlamento, hanno risposto solo i parlamentari modenesi del Pd. Ecco la dichiarazione congiunta di Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni e Maria Cecilia Guerra:

 

“E’ stato un incontro sicuramente positivo. Noi crediamo che il confronto sia indispensabile sempre, sia a livello territoriale che nazionale. A Modena questo percorso non si è mai interrotto, apprezziamo, quindi, che anche a livello nazionale si riapra la stagione dei confronti con le parti sociali. Domani, a Roma, proprio sul tema della riforma del lavoro, tornano a incontrarsi, infatti, i rappresentanti del Governo e i sindacati nazionali. Purtroppo la crisi persiste e continua a gravare sulle imprese e sulle famiglie italiane. La nostra attenzione deve incentrarsi su come si possa creare nuova occupazione, come far ripartire e attrarre gli investimenti, su come far riprendere i consumi interni. Quindi non solo le regole del mercato del lavoro, ma la strategia complessiva contenuta nella Legge di Stabilità sarà fondamentale per il  nostro immediato futuro. Quanto alla Legge delega sul mercato del lavoro noi crediamo che passi in avanti siano stati fatti, in particolare dopo la Direzione nazionale del partito. Il provvedimento però necessita di ulteriori modifiche e precisazioni che, noi crediamo (e il sindacato ha convenuto con noi) debbano uscire dal confronto con le parti sociali e dalla doverosa discussione parlamentare, in Senato ora e alla Camera poi. Gli incontri a Modena con i rappresentanti dei lavoratori continueranno anche nei prossimi mesi: è nostro primo impegno raccogliere le istanze del territorio e portarle ai livelli istituzionali superiori”.

 

"La cultura non è ancora il nostro petrolio, solo il 50% dei laureati in beni culturali trova lavoro ed è anche sottopagato" – Scuola 24 06.10.14

Da sempre sentiamo ripetere che i beni culturali rappresentano il nostro petrolio, un bene prezioso su cui investire, anche perché possediamo il giacimento più ricco nel mondo visto che metà del patrimonio è in Italia. Eppure la conferma di come non si valorizzi per nulla come si dovrebbe questa risorsa arriva dal nuovo focus di AlmaLaurea sui laureati in beni culturali che mostra come il lavoro c’è ma meno di quanto registrato sul complesso dei laureati. Ed è anche poco pagato.

La fotografia degli occupati a un anno e a cinque anni dalla laurea 
A un anno dal conseguimento del titolo magistrale, il tasso di occupazione dei laureati in beni culturali coinvolge 50 laureati su cento. Tuttavia, di questi solo il 27% ha un lavoro stabile (tempo indeterminato o lavoro autonomo effettivo). La fotografia scattata da AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei laureati nell’ambito dei beni culturali, all’interno del XVI Rapporto sulla Condizione occupazionale, mostra che il dato migliora nel lungo periodo: a cinque anni dalla laurea magistrale sono occupati 72 laureati su cento contro l’87% della media nazionale. Anche la stabilità cresce, toccando quota 54%, sebbene ciò avvenga in modo più contenuto, soprattutto se il dato viene raffrontato con i colleghi di altre discipline, che a cinque anni dal titolo raggiungono una stabilità contrattuale nella misura del 73%. I restanti laureati in beni culturali hanno un contratto di tipo precario; in particolare, il 21% un contratto alle dipendenze a tempo determinato e il 13% un contratto a progetto.

Dove sono occupati i laureati in beni culturali e i guadagni 
A cinque anni dalla laurea la maggioranza (23%) è nei servizi ricreativi e culturali. Il 15% trova invece impiego nel commercio, il 14% nell’ambito istruzione e nella ricerca, l’8% nella pubblica amministrazione. Da segnalare l’8% che lavora in associazioni del non profit, contro il 5% della media dei laureati italiani. Il 36% dei laureati in beni culturali dichiara inoltre di svolgere un ruolo professionale perfettamente in linea con il percorso di studi intrapreso, professori, archivisti e bibliotecari; il 24% una professione tecnica (come, ad esempio, le guide turistiche), il 23% una professione esecutiva, solo il 4% occupa una posizione dirigenziale. Meno positivi i dati sul guadagno, che confermano quanto poco si investa in quello che potrebbe essere il “petrolio” dell’Italia. A un anno dalla magistrale, i laureati in beni culturali possono contare mensilmente su poco più di mille euro netti (per la precisione 1.008 euro), contro una media nazionale di 1.185 euro. A cinque anni, il divario aumenta a quasi 300 euro: 1.195 euro contro i 1.481 della media nazionale.