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"Quanto Stato c'è nella Silicon Valley", di Mariana Mazzuccato, La Repubblica 04.10.14

 
Renzi il mese scorso ha visitato la Silicon Valley con lo scopo dichiarato di portare in Italia innovazione, concorrenza e dinamismo. Il presidente del Consiglio fa bene a fissare questi obiettivi come priorità, se si pensa allo scarsissimo dinamismo che ha caratterizzato l’economia italiana negli ultimi vent’anni, a causa della stagnazione della produttività e conseguentemente della crescita.
Purtroppo, però, invece di imparare da quello che è successo veramente nella Silicon Valley, sembra aver sposato gli slogan e i miti che circondano quell’esperienza, in particolare il mito che attribuisce il fenomeno della Silicon Valley all’impulso di imprenditori geniali, finanzieri disposti a prendersi grossi rischi e uno Stato che si dedica a ridurre i vari tipi di «impedimenti » che ostacolano questi risktakers . E infatti la riforma del lavoro che Renzi sta patrocinando in questo momento punta proprio a rimuovere tali impedimenti.
Ma se è sbagliata la lettura della storia, sono sbagliate anche le politiche. La Silicon Valley è il risultato di imponenti investimenti pubblici diretti (non sussidi) lungo l’intera catena dell’innovazione, dalla ricerca di base e applicata fino alla fase finale della commercializzazione. Mentre i venture capitalists , mitizzati da Renzi, perseguono profitti nel breve termine e puntano a un’«uscita» rapida dall’investimento attraverso un collocamento in Borsa o l’acquisizione da parte di un’altra società, il Governo degli Stati Uniti ha dimostrato di essere un finanziatore paziente, fornendo (attraverso una rete decentralizzata di organismi pubblici) finanziamenti ad alto rischio ad aziende come la Compaq, l’Intel e la Apple. E oggi fornisce lo stesso genere di finanziamenti a compagnie della green economy di successo come la Tesla, che recentemente ha ricevuto un prestito garantito per 465 milioni di dollari, e meno di successo come la Solyndra, che ha ricevuto un prestito di 500 milioni: nel gioco dell’innovazione qualche volta si vince e qualche volta si perde.
Se Renzi fosse andato alla Apple Inc., avrebbe trovato designer straordinari come sir John Ives che lavorano accanitamente insieme a team di grande talento, ma di ricerca e sviluppo ne avrebbe trovata poca. La ragione è che la Apple storicamente ha messo insieme, con un brillante senso del design e della semplicità, tecnologie già esistenti. Tecnologie finanziate dallo Stato. Nel caso dell’iPhone, Internet, il Gps, il sistema di comando vocale Siri e lo schermo tattile, tutti finanziati dai contribuenti. Naturalmente la Apple non è l’unico esempio di questo tipo: l’algoritmo di Google è stato finanziato dalla National Science Foundation; il settore delle biotecnologie, quello delle nanotecnologie e dei gas di scisto sono tutti nati grazie ai fondi pubblici.
Pretendere che l’innovazione in Italia arriverà semplicemente abbassando le tasse e riducendo la regolamentazione (specie, come è ovvio, intorno al solito bersaglio facile, il mercato del lavoro), significa ignorare questa storia. Il paradosso è che Renzi ha scelto di copiare dagli Stati Uniti una cosa soltanto, il tanto criticato Jobs Act del 2012 (dove Jobs sta per Jumpstart Our Businesses , cioè «mettiamo in moto le nostre imprese»). E non sorprende l’accoglienza che ha ricevuto questa settimana nella City visto che sono proprio questo tipo di politiche a produrre uno degli aspetti più anomali del capitalismo dei giorni nostri: socializzazione dei rischi, privatizzazione dei benefici. L’obbiettivo del Jobs Act era di ridurre ancora di più il rischio di investimento per venture capitalists già avversi al rischio allentando gli obblighi di rendicontazione finanziaria per le aziende «più piccole» (quelle con meno di 1 miliardo di dollari di ricavi annui). Oltre a questo, il Jobs Act legalizzava il crowdfunding, consentendo ai fondi di venture capital di reclutare una gamma più ampia di investitori (e singoli individui) al momento di quotare le aziende in Borsa. In che modo tutto questo possa generare crescita occupazionale non è dato sapere: sembra anzi fatto su misura per consentire ai venture capitalists di realizzare profitti smisurati con piccole aziende che rivendono tecnologie realizzate con fondi pubblici. In realtà si ingrossa sempre di più l’esercito delle piccole imprese che si lamentano per i danni provocati dall’atteggiamento speculativo e orientato esclusivamente al breve termine dei fondi di venture capital.
E allora sì, se Renzi vuole regalare all’Italia innovazione e dinamismo deve rendere il Paese più efficiente, ma deve anche evitare di focalizzarsi unicamente sulle «rigidità». Il dibattito dovrebbe vertere sul tipo di investimenti necessari, sia da parte del settore pubblico che da parte del settore privato, e soprattutto si dovrebbe chiedere alle imprese italiane di mostrarsi all’altezza della situazione: non piegarsi ossequiosamente alla City (e alla finanza italiana) ma chiedere invece al mondo della finanza di smetterla di fare pressioni per abbassare la tassazione dei capital gains, una politica da breve periodo e pretendere invece che co-investa nel lungo periodo in quelle aree che in una crescita trainata dall’innovazione richiederebbe. E smetterla di chiedere sussidi ed elargizioni, smetterla di lamentarsi della burocrazia (che non è tanto maggiore di altre parti d’Europa che stanno crescendo) e decidendosi a investire, in collaborazione con lo Stato, in quelle opportunità in grado di costruire un futuro innovativo per l’Italia. E quando gli economisti di destra gli dicono che tutto quello che deve fare è tagliare le tasse, dovrebbe farlo in modo oculato, riducendo le tasse sulle assunzioni e non sulle plusvalenze. E poi ricordarsi che ai tempi del presidente Eisenhower, repubblicano ed ex generale dell’esercito — non certo un comunista — l’aliquota più alta negli Stati Uniti sfiorava il 90 per cento: e fu sotto di lui che vennero realizzati alcuni dei più importanti investimenti in innovazione. E magari citare anche un altro che non è comunista, uno degli investitori più abili e di successo della storia, Warren Buffett, che al contrario di Renzi sembra aver capito che le pressioni della City hanno distrutto e non creato posti di lavoro: «Sono sessant’anni che lavoro con gli investitori e devo ancora vederne uno, nemmeno nel 1976-1977 quando l’aliquota sulle plusvalenze era al 39,9 per cento, rinunciare a un investimento sensato per via dell’imposizione fiscale sui potenziali guadagni. Le persone investono per fare soldi e le tasse potenziali non le hanno mai scoraggiate. E a quelli che sostengono che aliquote più alte penalizzano la creazione di posti di lavoro faccio notare che tra il 1980 e il 2000 sono stati creati quasi 40 milioni di posti di lavoro in più. Cos’è successo dopo lo sappiamo: aliquote più basse e molta meno creazione di posti di lavoro ». (Traduzione di Fabio Galimberti)

"Se l’economia dei numeri minaccia la convivenza", di Giancarlo Bosetti – La Repubblica 03.10.14

Quando dice che la tenuta della società è a rischio se non si mette subito mano a una manovra per la crescita, il ministro Pier Carlo Padoan sa di sfiorare la leva della estrema emergenza, sa di fare come chi avvicina la mano al bottone che scatena le sirene dell’allarme. Si tratta di una minaccia, non ancora di un fatto compiuto. Ma il senso di quelle parole è chiaro: o si comincia a risalire o si annega. Dietro le schermaglie europee sui parametri del debito e i tempi del rientro si affaccia un incubo sociale, il peggio è dietro l’angolo. Padoan è un economista collaudato nelle valutazioni macro e non proviene da una formazione strettamente keynesiana.
Ma sa che una crisi della coesione sociale è l’equivalente di un fallimento assoluto, per chi fa il suo mestiere. E per tutti noi con lui. L’equilibrio infatti è l’obiettivo degli economisti, i quali sanno pure che la crisi della «coesione» e cioè un collasso dei fattori che tengono in vita una società sono l’estremo male da cui ogni mossa di governo è tenuta a preservarci. La crisi del ‘29 insegna.
I requisiti della «tenuta» sociale sono parenti stretti di una gestione economica funzionante e sono fatti di occupazione, reddito, istruzione, sicurezza sociale, servizi sanitari efficienti e accessibili a tutti. La macroeconomia si è definita, in negativo, attraverso la catastrofica esperienza degli anni seguiti alla Grande Guerra. Allora, nel 1919, il promettente, prodigioso talento di Cambridge, che partecipava alle trattative di Versailles come delegato del Tesoro britannico, fu sconfitto e le clausole punitive nei confronti della Germania furono dure come le volevano soprattutto i primi ministri francese e britannico, Clemenceau e Lloyd George. Keynes abbandonò i lavori e scrisse di getto un’opera, Le conseguenze economiche della pace , che ebbe grande successo sul piano intellettuale, ma esiti politici purtroppo tardivi, solo trent’anni e molti milioni di morti dopo, con il Piano Marshall, che è stato il rovesciamento speculare della politica di Versailles, quella che aveva spinto la Germania nelle spire dell’inflazione e di Hitler.
Appresa la lezione — sostenere la crescita e la domanda, soprattutto nei paesi sconfitti —, l’economia europea e quella di tutto l’occidente attraversarono un luminoso periodo di stabilità, sviluppo industriale, aspettative crescenti, benessere e coesione sociale; un periodo definito di «compromesso socialdemocratico ». Un compromesso i cui contraenti erano le imprese, il capitale e «il mercato», da una parte, e il lavoro, i partiti, i sindacati dall’altra. Chi c’era ricorda anche violenti conflitti, ma il senso generale della storia era chiaro. In quei decenni benigni, ‘50, ‘60, ’70, i requisiti della «coesione sociale » hanno messo radici diventando come il teatro naturale non solo di una ragionevole equità, ma anche dell’affermazione dei diritti, delle diverse generazioni di diritti della persona, dei diritti di libertà attraverso lo Stato, vale a dire dei diritti garantiti da una prestazione pubblica. La società ne ha ricevuto benefici di sicurezza, crescita economica e civile attraverso molte contraddizioni, ma sempre confermando per l’essenziale uno scambio di comunicazioni tra l’individuo e la collettività.
Da almeno due decenni questo scambio presenta aspetti inquietanti. L’idea che «il diritto di avere diritti» si presenti come una linea semiretta, da qui verso l’infinito futuro, non è più moneta corrente. La qualità dei diritti non ha perso il suo fascino e nemmeno la sua attualità (dalla scuola alla casa, dalla sicurezza sul lavoro all’ambiente): quel che ha perso forza è la loro capacità di attuarsi in sintonia con la crescita economica, che si è fermata, mentre si sono allargate le distanze sociali e si sono allentate le prestazioni dello Stato che ne attenuavano la percezione. Aumenta la povertà e lo sguardo verso il futuro non offre più autostrade dei diritti, né prospettive migliori per i figli.
In Italia la presa d’atto del cambio di orizzonte è stata più lenta che altrove e il conto degli arretrati (che ha preso la forma di un terribile debito pubblico) si presenta più pesante. Le ragioni del ritardo sono oggetto del dibattito a destra e a sinistra. Il campanello delle politiche di Terza Via è suonato in Gran Bretagna e in Germania dalla fine degli anni Novanta ed ha tenuto il campo per quasi tutto il decennio successivo. Nella sua forma più esplicita, quella del New Labour, si è affermato anche grazie alla forza ideologica con cui Tony Blair ha voluto annunciare un cambiamento di orizzonte: meno protezioni pubbliche più responsabilità individuale, meno garanzie dall’assistenza sociale più spinte all’intraprendenza privata. Unica certezza l’assegno universale di disoccupazione, che da noi ancora non c’è. Ora il campanello suona anche qui, davanti alla minaccia di un declino che non è cominciato oggi, ma che produce scricchiolii ai quali può seguire il frastuono di un cedimento strutturale.
Da una parte la linea punitiva — fate i compiti — deve essere piegata, anche in questa Europa che non è reduce da una guerra, ma solo dalla crisi dell’euro e dell’Unione, ed è indispensabile far cambiare verso alla Merkel. In metafora: quello che non riuscì a Keynes nel 1919 contro Clemenceau- Lloyd George. Dall’altra il cambiamento di orizzonte deve essere reso esplicito se si vogliono attenuare i contraccolpi su una società, la nostra, alla quale le cattive notizie sono state, in un certo senso, taciute e messe in ombra da varie promesse. La tentazione dei politici è stata a lungo quella di rinviare il momento doloroso, con la conseguenza di renderlo ancora più difficile e di prolungare aspettative non più realistiche. È ormai chiaro che la combinazione virtuosa per l’Europa di crescita economica, crescita demografica e compromesso sociale redistributivo dei benefici, si è interrotta non solo a causa degli errori dell’Unione, ma anche perché ne sono venute meno le basi materiali e le condizioni internazionali. Ma evitare il disastro di una lacerazione sociale senza fine resta l’assoluta priorità, anche degli economisti.

"Il biomedicale dimentica il sisma", di Natascia Ronchetti – Il Sole 24 Ore 03.10.14

Qualche gru rompe ancora la naturale skyline del centro storico di Mirandola. Ma in periferia, nell’area industriale, i cantieri sono sempre di meno. Il distretto simbolo della devastazione provocata dal terremoto che ha colpito l’Emilia sta diventando il simbolo della ricostruzione e della corsa verso il rilancio. Con le delocalizzazioni produttive, il polo del biomedicale, due anni fa, era riuscito a mantenere quasi intatti i livelli della produzione.
Oggi viaggia all’estero con una crescita delle esportazioni, nel primo semestre dell’anno, pari al 5,7%, a fronte di un 4,5 a livello regionale. E si prepara all’inaugurazione – il prossimo 29 novembre – del tecnopolo, l’undicesimo della rete ad alta tecnologia dell’Emilia Romagna, sul quale ha puntato la Regione per sostenere la ripresa di un cluster che è tra i capofila in Europa e nel mondo. Una corsa contro il tempo, visto che la firma della convenzione tra l’ente e Democenter, che sta completando il tecnopolo per assumerne la gestione, risale a soli otto mesi fa.
«Stiamo installando le ultime attrezzature – conferma Enzo Madrigali, direttore di Democenter – e la nostra dead line è la metà di novembre, quando saremo pienamente operativi». Il tecnopolo ospiterà tre laboratori di ricerca (in tossicologia, biologia cellulare e sensoristica) in uno spazio di 750 metri quadrati nel nuovo polo scolastico di Mirandola, il cuore di un distretto, con un fatturato stimato in oltre 900 milioni, che è riuscito a neutralizzare gli effetti del sisma sull’occupazione – gli addetti sono circa 3.500 – e si muove nuovamente con grande agilità oltreconfine, intercettando soprattutto la domanda dei Paesi con sistemi sanitari avanzati, che chiedono massima qualità e innovazione. «Il trend – dice Alberto Nicolini, consigliere dell’associazione DBM, distretto biomedicale di Mirandola – è di assoluta crescita, soprattutto nei mercati maturi dove facciamo leva su uno dei fattori che ci rendono maggiormente competitivi: l’investimento in ricerca e sviluppo. Intravediamo già il traguardo: entro sei-sette mesi il terremoto comincerà ad essere definitivamente archiviato».
Il distretto di Mirandola – che comprende altri cinque comuni del Modenese, tutti nell’area del cratere – conta 94 aziende, delle quali sei multinazionali, big come B.Braun o Gambro che hanno fatto ricorso alle proprie forze per ricostruire. Se ancora problemi ci sono riguardano i tempi per accedere ai contributi per la ricostruzione. «Le domande che si sono concluse con la liquidazione del risarcimento – spiega Giuliana Gavioli, vice presidente di Confindustria Modena, con delega al biomedicale – sono circa il 30 per cento. Ma va anche detto che molte aziende, dopo la pre-presentazione, non hanno ancora inoltrato la richiesta».
Per provvedere c’è ancora poco tempo (la scadenza per formalizzare le domande è infatti fissata alla fine dell’anno): una proroga, a questo punto, non è esclusa. Nel frattempo le inaugurazioni dei nuovi stabilimenti non si fermano. Dopo il nuovo centro logistico di Gambro, domani sarà la volta di PTL, azienda del biomedicale attiva da quasi quarant’anni. A sua volta il tecnopolo, con l’apertura ufficiale di fine novembre, sarà al servizio delle imprese con uno staff di venti persone (tra cui undici ricercatori e tre coordinatori scientifici) e con una dotazione di 4,4 milioni di euro per garantire l’attività di ricerca fino alla fine del 2015.
L’area dove si trovano i laboratori sarà affiancata entro breve da uno spazio di altri mille metri quadrati che ospiterà, oltre a un incubatore di imprese, la Fondazione Its Biomedicale, l’istituto tecnico superiore post-diploma per formare gli specialisti richiesti dal settore. «Servirà non solo per preparare i giovani – aggiunge Madrigali – ma anche per le esigenze formative delle aziende». Forte della crescita il distretto si presenta nei prossimi giorni (8 e 9 ottobre) al Medtec, a Modena Fiere, uno dei principali appuntamenti europei per la filiera dei dispositivi medici. Un salone – 150 gli espositori, duemila gli operatori attesi – che è anche una anteprima di nuove tecnologie e materiali.

"Con lo «sblocca-Italia» a rischio i 150 milioni per le borse di studio" , di Eugenio Bruno – Scuola 24 03.10.14

Il decreto “sblocca-Italia” mette a rischio l’erogazione delle borse di studio. A sostenerlo è la commissione Istruzione della Camera che – nel parere consultivo sul provvedimento reso ieri – chiede al Governo di modificare la norma. Raccogliendo le sollecitazioni giunte nei giorni scorsi dal Pd, dal Movimento 5 Stelle e dalle associazioni studentesche. Nel mirino c’è l’articolo 42, comma 1, del decreto 133 del 2014 che ha eliminato l’esonero dal patto di stabilità interno per i contributi delle Regioni sul diritto allo studio universitario.  Ma l’impatto della misura è ancora più ampio visto che coinvolge anche gli stanziamenti per scuole paritarie, studenti disabili e libri di testo.

La norma contestata 
L’articolo 42, comma 1, dello sblocca-Italia interviene sull’articolo 46 del cosiddetto “decreto Irpef” che imponeva un contributo alla finanza pubblica da parte delle regioni di 500 milioni. Dando attuazione all’intesa sancita in sede di Conferenza permanente tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano del 29 maggio 2014, la disposizione sospendeva l’esonero dal patto di stabilità interno di una lunga serie di voci, gran parte delle quali interessano l’istruzione. Si tratta dei 150 milioni destinati alle borse di studio universitarie, dei 100 milioni per le scuole paritarie, degli 80 milioni per i libri di testo e dei 15 milioni per il sostegno agli studenti disabili.

L’impatto sulle borse di studio
Alla questione si è interessata la commissione Istruzione che ha esaminato in sede consultiva lo “sblocca-Italia”. Durante la discussione di mercoledì la relatrice Simona Malpezzi (Pd) ha sottolineato come il reinserimento all’interno del patto di stabilità metta «seriamente in forse tutto il sistema». Nel ricordare che il finanziamento del diritto allo studio universitario poggia su tre gambe (i 154 milioni di aiuto statale, la tassa regionale pagata dagli studenti e i contributi delle Regioni) la deputata democratica ha evidenziato che se mancassero questi ultimi due forme di finanziamento i livelli di prestazione «scenderebbero immediatamente sotto il livello attuale che è già il minimo in Europa». Sottolineando poi l’urgenza in sé della questione: la norma – ha aggiunto – si riferisce già al 2014 e «quindi concerne le borse di studio che dovranno essere pagate a decorrere dal 1° novembre di quest’anno».

La richiesta di modifica
Nel parere reso ieri sul decreto la relatrice ha dedicato una delle due condizioni al nodo borse di studio. Chiedendo che venga ripristinata l’esclusione dal patto di stabilità interno delle risorse destinate alle Regioni relativamente agli interventi in materia di diritto allo studio, scuole paritarie, contributi e benefici agli studenti anche con disabilità ed erogazione gratuita di libri di testo se non si vogliono «vanificare misure recentemente adottate nel settore scolastico». E la sua collega di partito, Manuela Ghizzoni, è andata anche oltre presentando un emendamento allo “sblocca-Italia” per «tornare allo spirito originario della norma». Anche perché – ha commentato – sul diritto allo studio già siamo il fanalino di coda dell’Ue: «Nel 2013 in Italia sono state erogate 141.310 borse di studio, quando in Spagna erano state 305.454, in Germania 440.217 e addirittura in Francia 629.115». Numeri che si commentano da soli.

 

Università, Ghizzoni “Togliere le borse di studio dal Patto stabilità” – comunicato stampa 02.10.14

“Occorre ritornare allo spirito originario della norma”: la deputata modenese del Pd Manuela Ghizzoni, componente della Commissione Istruzione della Camera, ha presentato un emendamento al decreto Sblocca Italia che chiede di ripristinare l’esenzione dal Patto di stabilità delle risorse relative al Diritto allo studio provenienti dal Fondo integrativo nazionale.

Nel 2013 si era battuta per ottenere fondi da destinare a sostegno del Diritto allo studio, oggi continua a battersi affinché quei fondi, 150 milioni di euro, vengano esclusi dai vincoli del Patto di stabilità: la deputata modenese del Pd Manuela Ghizzoni, componente della Commissione Istruzione della Camera, ha presentato un emendamento al decreto Sblocca Italia che chiede di ripristinare l’esenzione dal Patto di stabilità delle risorse relative al Diritto allo studio provenienti dal Fondo integrativo nazionale. “L’Italia è purtroppo fanalino di coda in Europa per investimenti a sostegno del Diritto allo studio – conferma Manuela Ghizzoni – meglio di noi fanno Paesi, come la Spagna, che pure attraversano un periodo di crisi altrettanto pesante. Nel 2013 in Italia sono state erogate 141.310 borse di studio, quando in Spagna erano state 305.454, in Germania 440.217 e addirittura in Francia 629.115. Gli ultimi dati ci confermano che la mancanza di efficacia nel sostegno al Diritto allo studio innesca un meccanismo perverso che, a caduta, travolge tutto il sistema. Abbiamo una delle più basse percentuali di laureati in Europa, ma, negli ultimi anni, è continuata l’emorragia di immatricolazioni: solo nell’anno accademico 2013/2014, in Italia, abbiamo registrato un calo del 3,4% rispetto all’anno accademico precedente”. Se questo è il contesto complessivo, quindi, secondo Manuela Ghizzoni, diventa fondamentale ripristinare la situazione originale: “Come Pd – ricorda l’on. Ghizzoni – ci eravamo battuti affinché i fondi stanziati con la legge di stabilità 2013 a favore del Diritto allo studio fossero tenuti fuori dai vincoli del Patto di stabilità. Ragioni di risparmio hanno, invece, prodotto un accordo tra Stato e Regioni che reinserisce questi finanziamenti tra quelli vincolati: si rischia concretamente che alcune Regioni non riescano a erogare queste risorse per rispettare i vincoli definiti dal Patto. E’ indispensabile ritornare allo spirito originario che ci aveva guidato nel predisporre le nuove risorse da indirizzare al sostegno degli studenti meritevoli, ma provenienti dalle fasce sociali più deboli”.

Sblocca Italia, Pd “Su rifiuti penalizza Regioni virtuose, non va” – comunicato stampa 01.10.14

 

I parlamentari modenesi Pd Baruffi, Ghizzoni e Vaccari critici sull’art. 35 del decreto

 

«Non riteniamo questa posizione coerente con le politiche di riduzione dei rifiuti e di riciclo che lanostra Regione ha portato avanti da anni e che hanno consentito di raggiungere percentuali di raccolta differenziata di oltre il 50%: gli impianti dell’Emilia-Romagna non possono diventare l’unica soluzione al problema dei rifiuti in Italia. Lavoreremo nelle sedi opportune per modificare sostanzialmente l’articolo 35 del decreto Sblocca Italia.» Questo quanto dichiarato dai parlamentari modenesi del Pd Stefano Vaccari, Manuela Ghizzoni e Davide Baruffi. Ecco la loro dichiarazione:

 

L’articolo 35 del decreto ‘Sblocca Italia’, che di fatto liberalizza lo smaltimento dei rifiuti urbani attraverso l’utilizzo degli impianti di termo-trattamento presenti nella nostra Regione, così come formulato dal Governo non è sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale. Ci aspettavamo una proposta più complessiva sul tema della gestione integrata dei rifiuti, e non una scorciatoia che rischia di trasformare gli impianti dell’Emili- Romagna, compreso quindi quello della città di Modena, nell’unica soluzione al problema dei rifiuti in Italia. Non riteniamo coerente questa posizione con le politiche di riduzione dei rifiuti e di riciclo che da anni la Regione Emilia-Romagna porta avanti e che oggi consentono di raggiungere percentuali di raccolta differenziata di oltre il 50%. Per questo lavoreremo per modificare sostanzialmente l’articolo 35 nelle sedi opportune”.

 

"Sì significa sì", la lezione della California contro gli stupri – Manuela Ghizzoni 30.09.14

emma

Lo stupro è forma di violenza le donne antica. Una violenza che si nutre degli stereotipi patriarcali e sessista,  diffusi nelle società democratiche occidentali più di quanto non siamo portati a credere, perché è più comodo per la nostra coscienza credere che la libertà e la dignità delle donne sia oltraggiata solo dalle “altre culture”. Non c’è dubbio sul fatto che la  violenza alle donne sarà sconfitta grazie ad un profondo lavoro culturale, in grado di rimuovere stereotipi e modelli che pongono la donna in un ruolo subordinato.  Ma il cammino è lungo e per accelerarlo ben vengano anche strumenti giuridici “estremi”, come la legge Usa  contro gli stupri nei campus universitari. Pronunciare un no e un si è un atto di libertà e autodeterminazione, tanto che provenga da una donna o da un uomo. Ma poiché questo facile principio non pare sia condiviso da tutti, allora è giusto che sia la legge a sancirlo.

La Repubblica 30.09.14
Sacramento. Il provvedimento contro le violenze sessuali nei college si chiama “Sì significa sì” Mette fine a insabbiamenti e umiliazioni: il silenzio non costituisce più consenso. “Ora tutta l’America si adegui”
La svolta della California Prima legge negli Usa contro gli stupri nei campus universitari
di Federico Rampini
 

“Yes Means Yes”. Così la California ha deciso di chiamare la nuova legge anti-stupro. È una misura draconiana decisa per mettere un argine alle violenze sessuali nei campus universitari. La piaga è nazionale, la legge californiana è la prima a dare una risposta così drastica. “Yes Means Yes”, cioè solo se dico sì vuol dire sì. Occorre un consenso chiaro perché l’atto sessuale non sia violenza. Basta con la cultura sessista che considera come un implicito assenso il fatto che la ragazza sia ubriaca, oppure che abbia deciso lei stessa di uscire da sola con un partner, o che inizialmente abbia dato l’impressione che “ci stava”.
Non è un problema d’altri tempi. Questo tipo di attenuanti e giustificazioni allignano tuttora tra le autorità accademiche americane. Spiegano il fatto che la maggioranza degli stupri fra studenti non vengono sanzionati. Perfino un’istituzione prestigiosa e “liberal” come la Columbia University è finita alla gogna: l’anno scorso non ha preso un solo provvedimento, malgrado le numerose denunce (dieci). Una studentessa della Columbia ha dovuto inventarsi una sua forma di protesta solitaria, legandosi a un materasso, per attirare l’attenzione sul suo caso ed altri simili. A livello nazionale, meno di un terzo delle violenze sessuali compiute nei campus vengono seguite da una sanzione, anche una semplice espulsione del colpevole. Il fatto che non scatti neppure l’espulsione, tra l’altro aumenta il rischio di recidiva. Secondo uno studio della University of Massachusetts- Boston, il 6% degli studenti maschi ha commesso uno stupro, la maggioranza lo ha fatto più di una volta, senza ricevere alcun castigo.
In base alla nuova legge approvata dal Parlamento di Sacramento (la capitale della California) il “consenso” viene definito come «un accordo affermativo, consapevole e volontario, di avere un rapporto sessuale ». Il testo esclude quindi che il silenzio o la mancanza di resistenza della vittima siano sufficienti a indicare un consenso. Spesso finora le indagini sulle denunce di stupro venivano insabbiate col pretesto che la vittima non aveva lottato, non aveva tracce fisiche di un’aggressione, ferite o abrasioni. La normativa inoltre stabilisce che l’essere sotto l’effetto dell’alcol, di stupefacenti, in stato di incoscienza o nel sonno, impedisce di dare un consenso. «Questa è una grande vittoria — ha detto Meghan Warner che dirige la commissione studentesca sulle violenze sessuali alla University of California — il nuovo standard sul consenso ci aiuterà a voltare pagina dopo che tante vittime sono state umiliate. Ora tutta l’America deve adeguarsi».
La svolta di Sacramento arriva al termine di un crescendo di denunce, mobilitazioni nei campus, proteste. Solo di recente si è cominciato a capire l’estensione del problema nei campus universitari. In base a un recente studio della Casa Bianca, una donna che frequenta l’università ha più probabilità di essere violentata, rispetto ad altri ambienti. Quasi il 20%, una studentessa su cinque, ha subito qualche molestia sessuale nei college degli Stati Uniti, sempre secondo quel rapporto. Come accade in altre situazioni, le vittime hanno spesso paura a denunciare gli stupratori. Ma questa ritrosia è perfino accentuata nell’ambiente universitario.
Spesso in base ai regolamenti interni, e nel rispetto di antiche tradizioni di autonomia degli atenei, la denuncia non finisce alla polizia ordinaria bensì alla polizia del campus oppure alle autorità disciplinari dell’università. E qui si scopre che il mondo accademico è incredibilmente arretrato. Insabbia le indagini, non crede alle accuse, costringe le ragazze a interrogatori umilianti. La vittima finisce sul banco degli imputati, è la sua immagine a essere distrutta, prima di quella dell’aggres- sore. Una responsabilità è anche della pedagogia progressista, secondo cui all’università i ragazzi devono essere educati non puniti. Ma la spiegazione non è solo di tipo culturale.
Il mondo universitario è un grande business negli Stati Uniti. Facendo luce sulla piaga delle molestie sessuali, le università temono di danneggiare la propria reputazione e quindi di “perdere clienti”, i futuri iscritti e le loro alte rette. La mobilitazione studentesca ha fatto emergere proposte innovative per colpire gli atenei “dove fa male”, cioè nei soldi. Si potrebbero multare le autorità accademiche che non perseguono le denunce di stupro, con sanzioni proporzionali alla dotazione dei loro fondi capitali. Per una prestigiosa università dell’Ivy League come Yale che ha un fondo di 3 miliardi, una multa dell’1% cioè 3 milioni sarebbe adeguata. La nuova legge della California intanto stabilisce dei criteri precisi per le indagini e le istruttorie: ora le autorità accademiche che non le rispetteranno si esporranno a rischi reali.