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"I furbetti di Arcore", di Rinaldo Gianola

Dopo aver combattuto con ogni mezzo le intercettazioni telefoniche, Silvio Berlusconi affronteràn un nuovo processo proprio per essersi procurato indebitamente la registrazione telefonica tra Piero Fassino e Giovanni Consorte, all’epoca della scalata Bnl, ed averla usata per danneggiare l’ex leader dei Ds e Unipol. Il caso, che arriverà a processo il 15 marzo, è ben noto ai lettori dell’Unità, perchè fu il nostro giornale a svelare la vicenda, ma qualche dettaglio va ricordato. L’ex premier è imputato di rivelazione del segreto istruttorio nell’ambito dell’operazione Unipol-Bnl avviata nel 2005. Nel gennaio del 2006 Il Giornale, di proprietà della famiglia Berlusconi, pubblicò il testo della telefonata fatta da Piero Fassino a Giovanni Consorte, nella quale l’attuale sindaco di Torino pronunciava la famosa domanda: «Allora abbiamo
una banca?». Berlusconi sarebbe venuto a conoscenza del contenuto della telefonata attraverso Roberto Raffaelli, titolare della Rcs che aveva l’appalto delle intercettazioni per conto della procura, e l’imprenditore Fabrizio Favata ospiti ad Arcore alla vigilia di Natale del 2005, presenti il Cavaliere e il fratello Paolo, per portare il gradito “dono”. Qualche giorno dopo l’incontro a Villa San Martino il testo della telefonata fu pubblicato in prima pagina dal Giornale, allora diretto da Maurizio Belpietro, che non si fece scrupolo di pubblicare persino le normali telefonate di lavoro di qualche giornalista con Consorte.
La famosa frase di Fassino, che si è costituito parte civile, aveva una rilevanza vicina allo zero per le indagini avviate in quel momento sull’Opa. Probabilmente sarebbe finita in qualche archivio, o addirittura cancellata, perchè priva di alcun interesse per gli inquirenti. Ma quell’interrogativo produsse un effetto mediatico abnorme, suscitò un interesse patologico nei fanatici che sognano di mettere la loro firma sotto qualunque verbale, mobilitò eserciti di improbabili moralizzatori che vedevano in quella telefonata la “prova” definitiva della commistione indebita tra la politica, cioè i Ds, e gli affari, l’Unipol e il progetto delle cooperative di conquistare una grande banca. Montezemolo e Della Valle si indignarono assai, la grande stampa padronale si interrogò se, alla luce di quella telefonata, la sinistra avrebbe mai potuto prendere la guida del governo o se, invece, avrebbe dovuto superare nuovi, più impegnativi esami di affidabilità.
Niente è casuale, tutto si tiene. In quel momento si stava preparando la campagna elettorale, Berlusconi era in difficoltà, interi salotti di oligarchi temevano che potessero emergere nuovi protagonisti nel sistema bancario e finanziario mettendo
in discussione antichi equilibri e sicure protezioni. Sono i mesi in cui si ipotizzava un’irreale aggressione al Corriere della Sera, controllato al 60% da un patto azionario blindato, da parte dell’immobiliarista Stefano Ricucci, un allarme che spinse alcuni politici, compreso Francesco Rutelli, a immaginare un provvedimento legislativo per difendere l’«istituzione di garanzia» di Via Solferino dall’inesistente assalto dei barbari.
È, inoltre, interessante ricordare il doppio comportamento di Berlusconi e dei suoi sodali in quei mesi. Da una parte il governo assicurava l’Unipol di Consorte di non aver alcuna riserva od opposizione al tentativo di acquisto della Bnl perchè, come disse il sottosegretario Gianni Letta all’ex amministratore delegato della compagnia bolognese in un incontro riservato a Palazzo Chigi, l’esecutivo non intendeva interferire con un’operazione di mercato.Ma poi, probabilmente, Berlusconi ci ripensò e quando due imbroglioni gli regalarano per Natale la famosa intercettazione ecco che prevalse la volontà di strumentalizzarla contro il leader del partito di opposizione che, in quel momento, era largamente favorito per la successiva consultazione elettorale e contro le ambizioni di espansione della compagnia delle cooperative.
Sono episodi lontani. La “scandalosa” frase di Fassino oggi fa sorridere mentre l’Unipol viene addirittura chiamata da Mediobanca per un salvataggio di sistema. E Berlusconi? Per lui gli anni non passano. Dice di non aver mai ascoltato la registrazione. Forse punta a scaricare la responsabilità sul fratello Paolo, formale editore del Giornale. Non è giusto, povero Paolo.

L’Unità 08.02.12

“I furbetti di Arcore”, di Rinaldo Gianola

Dopo aver combattuto con ogni mezzo le intercettazioni telefoniche, Silvio Berlusconi affronteràn un nuovo processo proprio per essersi procurato indebitamente la registrazione telefonica tra Piero Fassino e Giovanni Consorte, all’epoca della scalata Bnl, ed averla usata per danneggiare l’ex leader dei Ds e Unipol. Il caso, che arriverà a processo il 15 marzo, è ben noto ai lettori dell’Unità, perchè fu il nostro giornale a svelare la vicenda, ma qualche dettaglio va ricordato. L’ex premier è imputato di rivelazione del segreto istruttorio nell’ambito dell’operazione Unipol-Bnl avviata nel 2005. Nel gennaio del 2006 Il Giornale, di proprietà della famiglia Berlusconi, pubblicò il testo della telefonata fatta da Piero Fassino a Giovanni Consorte, nella quale l’attuale sindaco di Torino pronunciava la famosa domanda: «Allora abbiamo
una banca?». Berlusconi sarebbe venuto a conoscenza del contenuto della telefonata attraverso Roberto Raffaelli, titolare della Rcs che aveva l’appalto delle intercettazioni per conto della procura, e l’imprenditore Fabrizio Favata ospiti ad Arcore alla vigilia di Natale del 2005, presenti il Cavaliere e il fratello Paolo, per portare il gradito “dono”. Qualche giorno dopo l’incontro a Villa San Martino il testo della telefonata fu pubblicato in prima pagina dal Giornale, allora diretto da Maurizio Belpietro, che non si fece scrupolo di pubblicare persino le normali telefonate di lavoro di qualche giornalista con Consorte.
La famosa frase di Fassino, che si è costituito parte civile, aveva una rilevanza vicina allo zero per le indagini avviate in quel momento sull’Opa. Probabilmente sarebbe finita in qualche archivio, o addirittura cancellata, perchè priva di alcun interesse per gli inquirenti. Ma quell’interrogativo produsse un effetto mediatico abnorme, suscitò un interesse patologico nei fanatici che sognano di mettere la loro firma sotto qualunque verbale, mobilitò eserciti di improbabili moralizzatori che vedevano in quella telefonata la “prova” definitiva della commistione indebita tra la politica, cioè i Ds, e gli affari, l’Unipol e il progetto delle cooperative di conquistare una grande banca. Montezemolo e Della Valle si indignarono assai, la grande stampa padronale si interrogò se, alla luce di quella telefonata, la sinistra avrebbe mai potuto prendere la guida del governo o se, invece, avrebbe dovuto superare nuovi, più impegnativi esami di affidabilità.
Niente è casuale, tutto si tiene. In quel momento si stava preparando la campagna elettorale, Berlusconi era in difficoltà, interi salotti di oligarchi temevano che potessero emergere nuovi protagonisti nel sistema bancario e finanziario mettendo
in discussione antichi equilibri e sicure protezioni. Sono i mesi in cui si ipotizzava un’irreale aggressione al Corriere della Sera, controllato al 60% da un patto azionario blindato, da parte dell’immobiliarista Stefano Ricucci, un allarme che spinse alcuni politici, compreso Francesco Rutelli, a immaginare un provvedimento legislativo per difendere l’«istituzione di garanzia» di Via Solferino dall’inesistente assalto dei barbari.
È, inoltre, interessante ricordare il doppio comportamento di Berlusconi e dei suoi sodali in quei mesi. Da una parte il governo assicurava l’Unipol di Consorte di non aver alcuna riserva od opposizione al tentativo di acquisto della Bnl perchè, come disse il sottosegretario Gianni Letta all’ex amministratore delegato della compagnia bolognese in un incontro riservato a Palazzo Chigi, l’esecutivo non intendeva interferire con un’operazione di mercato.Ma poi, probabilmente, Berlusconi ci ripensò e quando due imbroglioni gli regalarano per Natale la famosa intercettazione ecco che prevalse la volontà di strumentalizzarla contro il leader del partito di opposizione che, in quel momento, era largamente favorito per la successiva consultazione elettorale e contro le ambizioni di espansione della compagnia delle cooperative.
Sono episodi lontani. La “scandalosa” frase di Fassino oggi fa sorridere mentre l’Unipol viene addirittura chiamata da Mediobanca per un salvataggio di sistema. E Berlusconi? Per lui gli anni non passano. Dice di non aver mai ascoltato la registrazione. Forse punta a scaricare la responsabilità sul fratello Paolo, formale editore del Giornale. Non è giusto, povero Paolo.

L’Unità 08.02.12

"Gli stupri come la mafia: sì al carcere preventivo", di Mila Spicola

La recente sentenza della Corte Costituzionale che abolisce il carcere preventivo nel caso degli stupri di gruppo ha provocato indignazioni, polemiche e mille riflessioni. Leggendo con raziocinio tutte le posizioni messe in campo, i mille articoli, i blog, mi sono venute in mente altre riflessioni, mano a mano che raccoglievo maggiori dati. Tra le considerazioni a favore della sentenza di quella Corte sta la costituzionalità della presunzione d’innocenza.
Diritto sacrosanto, si legge e si ripete e si condivide. Poi però, leggendo ancora, scopriamo che c’è un caso in cui è permesso il carcere preventivo e senza nemmeno tante indignazioni: nel caso dei reati per mafia. Tutto il Paese sano e onesto si stringe giustamente a raccolta e, in quel caso, la regola sacrosanta al diritto di essere giudicato colpevole dopo la sentenza vacilla in nome di ferite e di morti che non possono essere dimenticate. E allora continuo a leggere e a cercare e scopro che le donne ammazzate in un anno, il 2008, sono state in numero maggiore, (109 femminicidi in Italia), ai morti ammazzati dalla mafia due anni prima, (nel 2006 108 vittime della criminalità organizzata). Se qualcuno ha voglia di approfondire potrà mettere in relazione numeri e dati su più anni e scoprirà con sconcerto i numeri della strage delle donne in Italia. Li scoprirà. È il verbo giusto. Perché non è che interessino granché, se non alle donne e solo quelle tacciate di «vittimismo femminista». Ecco: di fronte a certi numeri, davvero numeri da guerra come si fa a mantenere in vita resistenze e rimozioni simili? Come si fa ancora a dover «alimentare il dibattito delle difese e delle opportunità»? 109 donne morte a fronte di migliaia di stupri, di violenze fisiche, di violenze psicologiche. Pensiamo poi a una donna vittima di violenza e di intimidazione psicologica che va in questura e mettiamola accanto a una vittima di estorsione. Chi riceverà maggiori attenzioni, cure, nessun sospetto, nessun pericolo e nessuna domanda del tipo «sì, ma lei cosa ha fatto per meritarsi tutto questo?».
Non mi pare, anche a costo di voler entrare nel sacrario della madre di tutte le battaglie e cioè quella contro la mafia, ma, voglio dire, da palermitana, potrò pur dirne qualcosa no? E da donna vorrei pur dire altro, e dunque non mi pare, a fronte di due problemi di eguale, ripeto, eguale gravità, che ci sia da parte della coscienza collettiva, politica, culturale e sociale italiana né lo stesso allarme né lo stesso interesse nella lotta o prevenzione. Entrambi sono dei mali innanzitutto culturali e di mentalità. Entrambi provocano vittime innocenti e devastano. Sarebbe il caso di affrontarli con lo stesso vigore di mezzi e di volontà. Entrambi meritano il carcere preventivo senza bisogno che dobbiamo nuovamente raccontare e spiegare il perché.

L’Unità 08.02.12

“Gli stupri come la mafia: sì al carcere preventivo”, di Mila Spicola

La recente sentenza della Corte Costituzionale che abolisce il carcere preventivo nel caso degli stupri di gruppo ha provocato indignazioni, polemiche e mille riflessioni. Leggendo con raziocinio tutte le posizioni messe in campo, i mille articoli, i blog, mi sono venute in mente altre riflessioni, mano a mano che raccoglievo maggiori dati. Tra le considerazioni a favore della sentenza di quella Corte sta la costituzionalità della presunzione d’innocenza.
Diritto sacrosanto, si legge e si ripete e si condivide. Poi però, leggendo ancora, scopriamo che c’è un caso in cui è permesso il carcere preventivo e senza nemmeno tante indignazioni: nel caso dei reati per mafia. Tutto il Paese sano e onesto si stringe giustamente a raccolta e, in quel caso, la regola sacrosanta al diritto di essere giudicato colpevole dopo la sentenza vacilla in nome di ferite e di morti che non possono essere dimenticate. E allora continuo a leggere e a cercare e scopro che le donne ammazzate in un anno, il 2008, sono state in numero maggiore, (109 femminicidi in Italia), ai morti ammazzati dalla mafia due anni prima, (nel 2006 108 vittime della criminalità organizzata). Se qualcuno ha voglia di approfondire potrà mettere in relazione numeri e dati su più anni e scoprirà con sconcerto i numeri della strage delle donne in Italia. Li scoprirà. È il verbo giusto. Perché non è che interessino granché, se non alle donne e solo quelle tacciate di «vittimismo femminista». Ecco: di fronte a certi numeri, davvero numeri da guerra come si fa a mantenere in vita resistenze e rimozioni simili? Come si fa ancora a dover «alimentare il dibattito delle difese e delle opportunità»? 109 donne morte a fronte di migliaia di stupri, di violenze fisiche, di violenze psicologiche. Pensiamo poi a una donna vittima di violenza e di intimidazione psicologica che va in questura e mettiamola accanto a una vittima di estorsione. Chi riceverà maggiori attenzioni, cure, nessun sospetto, nessun pericolo e nessuna domanda del tipo «sì, ma lei cosa ha fatto per meritarsi tutto questo?».
Non mi pare, anche a costo di voler entrare nel sacrario della madre di tutte le battaglie e cioè quella contro la mafia, ma, voglio dire, da palermitana, potrò pur dirne qualcosa no? E da donna vorrei pur dire altro, e dunque non mi pare, a fronte di due problemi di eguale, ripeto, eguale gravità, che ci sia da parte della coscienza collettiva, politica, culturale e sociale italiana né lo stesso allarme né lo stesso interesse nella lotta o prevenzione. Entrambi sono dei mali innanzitutto culturali e di mentalità. Entrambi provocano vittime innocenti e devastano. Sarebbe il caso di affrontarli con lo stesso vigore di mezzi e di volontà. Entrambi meritano il carcere preventivo senza bisogno che dobbiamo nuovamente raccontare e spiegare il perché.

L’Unità 08.02.12

"Pagare di più i contratti a tempo. Fornero incalza le aziende", di Giusy Franzese

Il lavoro flessibile costerà di più. Mentre continuano le polemiche per le frasi pronunciate l’altro giorno dalle ministre Fornero e Cancellieri sul posto fisso, il negoziato sulla riforma del lavoro va avanti a ritmi serrati. Agli incontri tecnici tra Cgil, Cisl e Uil, ieri si è aggiunto quello tra il ministro del Welfare e Rete Imprese (l’associazione che raggruppa le varie associazioni datoriali). Ed è proprio durante questa riunione che la Fornero, nonostante la contrarietà delle aziende, ha ribadito l’intenzione del governo di far costare di più i contratti a tempo determinato. Oggi nuova girandola di vertici tra le parti sociali, prima con riunioni separate e poi in serata tra i leader di Cgil, Cisl, Uil, Ugl e Confindustria.
Il nodo da sciogliere resta quello di sempre: come e se modificare le norme sui licenziamenti individuali e in particolare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Sul tavolo negli ultimi giorni si è aggiunta la proposta-apertura della Cisl: estendere le procedure e le conseguenti tutele (mobilità per due anni) previste dalla legge 223 che regola i licenziamenti collettivi per crisi aziendali e giustificazioni economiche, anche ai licenziamenti individuali. Di fronte a motivazioni economiche, quindi, le aziende (si parla sempre di quelle che hanno più di 15 dipendenti) potrebbero sciogliere un rapporto di lavoro senza temere eventuali sentenze di reintegro. «Non è la soppressione dell’articolo 18» ha spiegato ieri il leader Cisl, Raffaele Bonanni. «Un conto è la vicenda economica ed un conto è la discriminazione e l’abuso nei confronti di persone. Quindi noi diciamo no alla soppressione dell’articolo 18; siamo d’accordo a rivedere i tempi del giudizio ed alcuni aspetti che riguardano il giudizio» ha poi concluso.
La Cgil per ora non cambia idea: «L’articolo 18 non è il tema di cui parlare. Il problema è il lavoro e non i licenziamenti» ribadisce Susanna Camusso, negli studi televisivi di Matrix. La trattativa comunque va avanti: «Quando c’è un confronto in corso, l’obiettivo di tutti è provare a fare un’intesa» spiega la leader di Cgil. Una frase per niente ovvia, visti gli argomenti in campo e «la continuità di esternazioni da parte del governo sul posto fisso» che la Camusso definisce «fuori luogo». Tra l’altro, secondo la leader Cgil, si straparla attorno «a una cosa di vent’anni fa. Il tema – rimarca – non è mai stato il posto fisso, il tema è il lavoro tutelato come risposta a due generazioni che non sanno cosa è il lavoro stabile». Sulle posizioni della Cgil si schiera, a sorpresa, anche un’industriale di peso. «La mobilità in uscita c’è già. Spero che il ministro Fornero e il governo Monti cambino idea sull’articolo 18» dice l’editore Carlo De Benedetti.
Che le battute sul posto fisso non aiutino la trattativa ma creino solo grande can can, pare stia diventando una consapevolezza anche del governo. «Ho usato una frase infelice che è suonata come una mancanza di rispetto. Non era mia intenzione. Ma c’è una cultura che ha difficoltà ad allontanarsi da casa. Sì, ci sono ragazzi pronti ad andare ovunque. Ma altri restano fermi a modelli antichi che non esistono più» è la mezza retromarcia, affidata a un’intervista all’Unità, del ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri. Il capo del Viminale si dice dispiaciuta del fatto che «intorno al lavoro c’è molta ideologia. Alla fine tuteliamo chi è nel recinto e non chi è fuori dal recinto. È un’ingiustizia colossale». A difendere le parole di Fornero («è un’illusione») e della Cancellieri, si schiera il Pdl. «Al di là degli aggettivi usati stanno dicendo cose insieme realistiche e ragionevoli» osserva il capogruppo alla Camera, Fabrizio Cicchitto. Più cauto il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani: «L’articolo 18 è sacrosanto e solo in fondo se ne può parlare ma in testa bisogna parlare di come creare posti di lavoro, servono due o tre misure forti».

Il Messaggero 08.02.12

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“Lo dice l’Ocse: non serve modificare l’articolo 18”, di Giuseppe Caruso

«L’articolo18 non è il punto fondamentale della riforma del lavoro». Miguel Angel Gurria, segretario generale dell’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ndr) non ha dubbi riguardo alla riforma del lavoro che il gioverno Monti vuole portare avanti ed in una intervista spiega: «La riforma parlerà soprattutto di flessibilità ma anche di reti di protezione per chi oggi non ce l’ha, e di reinserimento nel mercato del lavoro». «Sono convinto» ha continuato il segretario dell’Ocse « che l’Italia stia vivendo un momento storico di grande importanza. Consideriamo Monti l’uomo giusto, al posto giusto, nel momento giusto». Un dibattito, quello sull’articolo 18, che ormai ha superato i confini nazionali. L’ulteriore conferma arriva dal Wall Street Journal, il quotidiano economico americano, di proprietà di Rupert Murdoch, che ieri si è schierato in favore di Monti definendo l’articolo 18 come «una reliquia del passato che perversamente, causa ciò che cerca di impedire: la disoccupazione». Tornando all’Italia, oggi è previsto l’incontro tra Confindustria ed i sindacati proprio per parlare di riforma del mondo del lavoro e (inevitabilmente) anche dell’articolo più controverso dello Statuto dei lavoratori. Sull’argomento ieri è intervenuto anche Massimo D’Alema. Il presidente del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della repubblica ndr) ha dichiarato che «il governo deve cercare un’intesa con il sindacato. Sull’articolo 18 comunque non vedo offensive, quindi sono ottimista». Noi dobbiamo sostenere il governo Monti» ha continuato D’Alema «e lo dobbiamo fare, come ha detto bene Bersani, con le nostre idee. Siamo un grande partito che vuole il lavoro e non i licenziamenti. Ci batteremo affinché nella riforma del mercato del lavoro prevalga l’ispirazione giusta e cioè che il governo cerchi l’intesa con i sindacati .Ma sostenere il governo è la scelta giusta: va fatto con il coraggio delle nostre opinioni e rappresentando ciò che noi rappresentiamo. Ora sono in missione in Medio Oriente e spesso sono all’estero. Osservo che l’attuale governo ha restituito prestigio e credibilità all’Italia dopo il disastro di Berlusconi, e questo non è poco».
«NO A SCALPI IN EUROPA» Giorgio Airaudo, segretario nazionale e responsabile del settore auto della Fiom, ha voluto ricordare come «l’articolo 18 o c’è o non c’è, non è possibile spezzettarlo. È uno strumento di deterrenza che serve a tutelare i lavoratori dagli abusi. Non si può toglierlo per problemi economici, non si è mai visto qualcuno che licenzia dicendo “hai un brutto carattere, sei omosessuale o donna”. Se si toglie quel vincolo si toglie l’ articolo 18. Quello è un diritto che o c’è o non c’è, non si può spezzettare ». Il capogruppo Pd in commissione Lavoro, Cesare Damiano, ha invitato il governo a non «cercare scalpi da portare in Europa perché con atti unilaterali in Parlamento si creerebbe una situazione difficilmente gestibile. Non è vero che in Italia non si possa licenziare: con le leggi esistenti e attraverso la contrattazione si sono gestiti imponenti processi di ristrutturazione con le conseguenti diminuzioni dei livelli occupazionali e senza particolari conflitti sociali». «È fondamentale» ha concluso Damiano «trovare un accordo al tavolo di confronto tra governo e parti sociali perché divisioni o atti unilaterali produrrebbero una situazione difficilmente gestibile». Intanto ieri la Lega Nord ha presentato ,come annunciato,una risoluzione che impegna il governo a non toccare l’articolo18 dello Statuto dei lavoratori. Il testo è stato però dichiarato inammissibile perché presentato in Aula sulla relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli incidenti sul lavoro.

L’Unità 08.02.12

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“Lavoro, si cerca l´accordo tra sindacati e Confindustria”, di Luisa Grion

Il dibattito sull´articolo 18 è un caso internazionale. Interviene l´Ocse, interviene il Wall Street Journal: tutti molto interessati agli incontri che sindacati, parti sociali e governo organizzano – insieme o separatamente – per decidere se modificare o meno la regola dello Statuto dei lavoratori che prevede il reintegro del dipendente licenziato senza giusta causa o giustificato motivo.
La questione sarà messa a fuoco stasera, in un vertice fra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria preceduto da un appuntamento informale fra i leader sindacali Camusso, Bonanni e Angeletti. E se l´incontro di ieri fra le tre sigle non ha affrontato direttamente il punto – ma solo la piattaforma comune per la riforma del lavoro – è chiaro che oggi si arriverà al dunque. Va discussa la proposta della Cisl (allargare la legge 233 sui licenziamenti collettivi anche a quelli individuali in modo da eliminare i possibili ricorsi giudiziari attraverso l´articolo 18); va trovata – se possibile – una linea comune da portare a Palazzo Chigi nell´imminente incontro con il governo (forse fissato per domani stesso).
Resta da decidere se le modifiche all´articolo 18 siano o meno questione di fondamentale importanza nel rilancio del Paese, ma par di capire che il fronte del «no», quello di chi pensa che il gioco non valga la candela, si stia allargando. La pensa così l´Ocse, che dopo aver tessuto le lodi del premier italiano, ha precisato che la norma dello Statuto dei lavoratori non è centrale. «Consideriamo Monti l´uomo giusto, al posto giusto, nel momento giusto» ha detto il segretario generale Miguel Angel Gurria. I mercati gli hanno dato ragione visto che ieri lo spread fra Btp e Bund ha chiuso a 363 punti, il livello minimo da quando si è insediato il nuovo governo. I titoli decennali italiani sono stati poi gli unici in Europa a portare a casa un rendimento in calo (5,95 per cento). Ma tutto questo all´Ocse non sembra così strettamente legato a futuro della norma sui licenziamenti: «Non è il punto fondamentale della riforma del lavoro allo studio» ha specificato Gurria e anche fra gli industriali italiani c´è chi ridimensiona la portata della questione. «Sull´articolo 18 mi auguro che il ministro Fornero e il governo Monti cambino idea» ha detto Carlo De Benedetti, presidente onorario di Cir. «Si spaccia per mobilità quelle che sono solo ideologie. Il gruppo Espresso in tre anni ha mandato a casa 800 persone su 3 mila, con l´articolo 18: non venite a menarla che l´America non investe in Italia perché c´è l´articolo 18, sono fandonie». Di parere opposto è invece il Wall Street Journal che in un editoriale ha affermato che «la più grande minaccia della crescita economica in Italia non è il debito pubblico».
Intanto si alza anche il tono della protesta: la Fiom, le tute blu della Cgil, mettono in conto per sabato 18 febbraio una manifestazione a Roma che tratta la questione Fiat, ma anche la norma dello Statuto dei Lavoratori. Sempre in tema di diritti, 205 donne degli stabilimenti automobilistici hanno scritto una lettera al ministro Fornero per denunciare come il nuovo contratto Fiat contenga «norme gravemente discriminatorie nei confronti di padri e madri». Per il 2102 si stabilisce infatti l´erogazione di un premio di 600 euro lordi per chi ha lavorato almeno 870 ore. Ma dal conteggio, dicono le donne della Fiom «è esclusa ogni assenza-mancata prestazione lavorativa retribuita e non retribuita a qualsiasi titolo, comprese le assenze la cui copertura è per legge e per contratto parificata alla prestazione lavorativa». In sostanza, sostiene il sindacato, in Fiat maternità, congedo obbligatorio o parentale, malattie dei figli e permessi per legge 104 farebbero perdere il diritto al premio. La Fornero oltre che del Lavoro è ministro per le Pari Opportunità: le tute blu chiedono un incontro.

La Repubblica 08.02.12

“Pagare di più i contratti a tempo. Fornero incalza le aziende”, di Giusy Franzese

Il lavoro flessibile costerà di più. Mentre continuano le polemiche per le frasi pronunciate l’altro giorno dalle ministre Fornero e Cancellieri sul posto fisso, il negoziato sulla riforma del lavoro va avanti a ritmi serrati. Agli incontri tecnici tra Cgil, Cisl e Uil, ieri si è aggiunto quello tra il ministro del Welfare e Rete Imprese (l’associazione che raggruppa le varie associazioni datoriali). Ed è proprio durante questa riunione che la Fornero, nonostante la contrarietà delle aziende, ha ribadito l’intenzione del governo di far costare di più i contratti a tempo determinato. Oggi nuova girandola di vertici tra le parti sociali, prima con riunioni separate e poi in serata tra i leader di Cgil, Cisl, Uil, Ugl e Confindustria.
Il nodo da sciogliere resta quello di sempre: come e se modificare le norme sui licenziamenti individuali e in particolare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Sul tavolo negli ultimi giorni si è aggiunta la proposta-apertura della Cisl: estendere le procedure e le conseguenti tutele (mobilità per due anni) previste dalla legge 223 che regola i licenziamenti collettivi per crisi aziendali e giustificazioni economiche, anche ai licenziamenti individuali. Di fronte a motivazioni economiche, quindi, le aziende (si parla sempre di quelle che hanno più di 15 dipendenti) potrebbero sciogliere un rapporto di lavoro senza temere eventuali sentenze di reintegro. «Non è la soppressione dell’articolo 18» ha spiegato ieri il leader Cisl, Raffaele Bonanni. «Un conto è la vicenda economica ed un conto è la discriminazione e l’abuso nei confronti di persone. Quindi noi diciamo no alla soppressione dell’articolo 18; siamo d’accordo a rivedere i tempi del giudizio ed alcuni aspetti che riguardano il giudizio» ha poi concluso.
La Cgil per ora non cambia idea: «L’articolo 18 non è il tema di cui parlare. Il problema è il lavoro e non i licenziamenti» ribadisce Susanna Camusso, negli studi televisivi di Matrix. La trattativa comunque va avanti: «Quando c’è un confronto in corso, l’obiettivo di tutti è provare a fare un’intesa» spiega la leader di Cgil. Una frase per niente ovvia, visti gli argomenti in campo e «la continuità di esternazioni da parte del governo sul posto fisso» che la Camusso definisce «fuori luogo». Tra l’altro, secondo la leader Cgil, si straparla attorno «a una cosa di vent’anni fa. Il tema – rimarca – non è mai stato il posto fisso, il tema è il lavoro tutelato come risposta a due generazioni che non sanno cosa è il lavoro stabile». Sulle posizioni della Cgil si schiera, a sorpresa, anche un’industriale di peso. «La mobilità in uscita c’è già. Spero che il ministro Fornero e il governo Monti cambino idea sull’articolo 18» dice l’editore Carlo De Benedetti.
Che le battute sul posto fisso non aiutino la trattativa ma creino solo grande can can, pare stia diventando una consapevolezza anche del governo. «Ho usato una frase infelice che è suonata come una mancanza di rispetto. Non era mia intenzione. Ma c’è una cultura che ha difficoltà ad allontanarsi da casa. Sì, ci sono ragazzi pronti ad andare ovunque. Ma altri restano fermi a modelli antichi che non esistono più» è la mezza retromarcia, affidata a un’intervista all’Unità, del ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri. Il capo del Viminale si dice dispiaciuta del fatto che «intorno al lavoro c’è molta ideologia. Alla fine tuteliamo chi è nel recinto e non chi è fuori dal recinto. È un’ingiustizia colossale». A difendere le parole di Fornero («è un’illusione») e della Cancellieri, si schiera il Pdl. «Al di là degli aggettivi usati stanno dicendo cose insieme realistiche e ragionevoli» osserva il capogruppo alla Camera, Fabrizio Cicchitto. Più cauto il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani: «L’articolo 18 è sacrosanto e solo in fondo se ne può parlare ma in testa bisogna parlare di come creare posti di lavoro, servono due o tre misure forti».

Il Messaggero 08.02.12

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“Lo dice l’Ocse: non serve modificare l’articolo 18”, di Giuseppe Caruso

«L’articolo18 non è il punto fondamentale della riforma del lavoro». Miguel Angel Gurria, segretario generale dell’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ndr) non ha dubbi riguardo alla riforma del lavoro che il gioverno Monti vuole portare avanti ed in una intervista spiega: «La riforma parlerà soprattutto di flessibilità ma anche di reti di protezione per chi oggi non ce l’ha, e di reinserimento nel mercato del lavoro». «Sono convinto» ha continuato il segretario dell’Ocse « che l’Italia stia vivendo un momento storico di grande importanza. Consideriamo Monti l’uomo giusto, al posto giusto, nel momento giusto». Un dibattito, quello sull’articolo 18, che ormai ha superato i confini nazionali. L’ulteriore conferma arriva dal Wall Street Journal, il quotidiano economico americano, di proprietà di Rupert Murdoch, che ieri si è schierato in favore di Monti definendo l’articolo 18 come «una reliquia del passato che perversamente, causa ciò che cerca di impedire: la disoccupazione». Tornando all’Italia, oggi è previsto l’incontro tra Confindustria ed i sindacati proprio per parlare di riforma del mondo del lavoro e (inevitabilmente) anche dell’articolo più controverso dello Statuto dei lavoratori. Sull’argomento ieri è intervenuto anche Massimo D’Alema. Il presidente del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della repubblica ndr) ha dichiarato che «il governo deve cercare un’intesa con il sindacato. Sull’articolo 18 comunque non vedo offensive, quindi sono ottimista». Noi dobbiamo sostenere il governo Monti» ha continuato D’Alema «e lo dobbiamo fare, come ha detto bene Bersani, con le nostre idee. Siamo un grande partito che vuole il lavoro e non i licenziamenti. Ci batteremo affinché nella riforma del mercato del lavoro prevalga l’ispirazione giusta e cioè che il governo cerchi l’intesa con i sindacati .Ma sostenere il governo è la scelta giusta: va fatto con il coraggio delle nostre opinioni e rappresentando ciò che noi rappresentiamo. Ora sono in missione in Medio Oriente e spesso sono all’estero. Osservo che l’attuale governo ha restituito prestigio e credibilità all’Italia dopo il disastro di Berlusconi, e questo non è poco».
«NO A SCALPI IN EUROPA» Giorgio Airaudo, segretario nazionale e responsabile del settore auto della Fiom, ha voluto ricordare come «l’articolo 18 o c’è o non c’è, non è possibile spezzettarlo. È uno strumento di deterrenza che serve a tutelare i lavoratori dagli abusi. Non si può toglierlo per problemi economici, non si è mai visto qualcuno che licenzia dicendo “hai un brutto carattere, sei omosessuale o donna”. Se si toglie quel vincolo si toglie l’ articolo 18. Quello è un diritto che o c’è o non c’è, non si può spezzettare ». Il capogruppo Pd in commissione Lavoro, Cesare Damiano, ha invitato il governo a non «cercare scalpi da portare in Europa perché con atti unilaterali in Parlamento si creerebbe una situazione difficilmente gestibile. Non è vero che in Italia non si possa licenziare: con le leggi esistenti e attraverso la contrattazione si sono gestiti imponenti processi di ristrutturazione con le conseguenti diminuzioni dei livelli occupazionali e senza particolari conflitti sociali». «È fondamentale» ha concluso Damiano «trovare un accordo al tavolo di confronto tra governo e parti sociali perché divisioni o atti unilaterali produrrebbero una situazione difficilmente gestibile». Intanto ieri la Lega Nord ha presentato ,come annunciato,una risoluzione che impegna il governo a non toccare l’articolo18 dello Statuto dei lavoratori. Il testo è stato però dichiarato inammissibile perché presentato in Aula sulla relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sugli incidenti sul lavoro.

L’Unità 08.02.12

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“Lavoro, si cerca l´accordo tra sindacati e Confindustria”, di Luisa Grion

Il dibattito sull´articolo 18 è un caso internazionale. Interviene l´Ocse, interviene il Wall Street Journal: tutti molto interessati agli incontri che sindacati, parti sociali e governo organizzano – insieme o separatamente – per decidere se modificare o meno la regola dello Statuto dei lavoratori che prevede il reintegro del dipendente licenziato senza giusta causa o giustificato motivo.
La questione sarà messa a fuoco stasera, in un vertice fra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria preceduto da un appuntamento informale fra i leader sindacali Camusso, Bonanni e Angeletti. E se l´incontro di ieri fra le tre sigle non ha affrontato direttamente il punto – ma solo la piattaforma comune per la riforma del lavoro – è chiaro che oggi si arriverà al dunque. Va discussa la proposta della Cisl (allargare la legge 233 sui licenziamenti collettivi anche a quelli individuali in modo da eliminare i possibili ricorsi giudiziari attraverso l´articolo 18); va trovata – se possibile – una linea comune da portare a Palazzo Chigi nell´imminente incontro con il governo (forse fissato per domani stesso).
Resta da decidere se le modifiche all´articolo 18 siano o meno questione di fondamentale importanza nel rilancio del Paese, ma par di capire che il fronte del «no», quello di chi pensa che il gioco non valga la candela, si stia allargando. La pensa così l´Ocse, che dopo aver tessuto le lodi del premier italiano, ha precisato che la norma dello Statuto dei lavoratori non è centrale. «Consideriamo Monti l´uomo giusto, al posto giusto, nel momento giusto» ha detto il segretario generale Miguel Angel Gurria. I mercati gli hanno dato ragione visto che ieri lo spread fra Btp e Bund ha chiuso a 363 punti, il livello minimo da quando si è insediato il nuovo governo. I titoli decennali italiani sono stati poi gli unici in Europa a portare a casa un rendimento in calo (5,95 per cento). Ma tutto questo all´Ocse non sembra così strettamente legato a futuro della norma sui licenziamenti: «Non è il punto fondamentale della riforma del lavoro allo studio» ha specificato Gurria e anche fra gli industriali italiani c´è chi ridimensiona la portata della questione. «Sull´articolo 18 mi auguro che il ministro Fornero e il governo Monti cambino idea» ha detto Carlo De Benedetti, presidente onorario di Cir. «Si spaccia per mobilità quelle che sono solo ideologie. Il gruppo Espresso in tre anni ha mandato a casa 800 persone su 3 mila, con l´articolo 18: non venite a menarla che l´America non investe in Italia perché c´è l´articolo 18, sono fandonie». Di parere opposto è invece il Wall Street Journal che in un editoriale ha affermato che «la più grande minaccia della crescita economica in Italia non è il debito pubblico».
Intanto si alza anche il tono della protesta: la Fiom, le tute blu della Cgil, mettono in conto per sabato 18 febbraio una manifestazione a Roma che tratta la questione Fiat, ma anche la norma dello Statuto dei Lavoratori. Sempre in tema di diritti, 205 donne degli stabilimenti automobilistici hanno scritto una lettera al ministro Fornero per denunciare come il nuovo contratto Fiat contenga «norme gravemente discriminatorie nei confronti di padri e madri». Per il 2102 si stabilisce infatti l´erogazione di un premio di 600 euro lordi per chi ha lavorato almeno 870 ore. Ma dal conteggio, dicono le donne della Fiom «è esclusa ogni assenza-mancata prestazione lavorativa retribuita e non retribuita a qualsiasi titolo, comprese le assenze la cui copertura è per legge e per contratto parificata alla prestazione lavorativa». In sostanza, sostiene il sindacato, in Fiat maternità, congedo obbligatorio o parentale, malattie dei figli e permessi per legge 104 farebbero perdere il diritto al premio. La Fornero oltre che del Lavoro è ministro per le Pari Opportunità: le tute blu chiedono un incontro.

La Repubblica 08.02.12

"Lo spettro di Malthus si aggira per l´Italia", di Barbara Spinelli

C´È una parte di verità, in quel che Mario Monti ha detto – a RepubblicaTv – sul modo in cui è stata interpretata la sua idea del lavoro fisso («Diciamo la verità, che monotonia un posto fisso per tutta la vita!»). Citato fuori dal contesto, quel che ha aggiunto subito dopo è finito in un buco nero: «È più bello cambiare e accettare nuove sfide, purché in condizioni accettabili. Questo vuol dire che bisogna tutelare un po´ meno chi oggi è ipertutelato, e tutelare un po´ più chi oggi è quasi schiavo nel mercato del lavoro o proprio non riesce a entrarci».

Resta tuttavia l´inadeguatezza del vocabolario, e non può stupire il disagio profondo che esso suscita in chi nulla sa del lavoro sicuro, durevole, e vive un´esistenza arrabattata, esposta alle durezze del mercato, difficilmente conciliabile col proposito di far figli, guardata con sistematica diffidenza da banche che non fanno credito se non a redditi solidi, e costanti. Non meno malessere suscitano gli argomenti con cui il Premier ha tentato di spiegare il suo punto di vista: per troppo tempo, «i governi politici hanno avuto troppo cuore», accogliendo le più varie rivendicazioni sociali e accumulando debiti pubblici rovinosi per tutti. Ripetuto tre volte, anche il vocabolo cuore – «esuberante», contaminato da «buonismo sociale» – è apparso moralmente pernicioso.
Sono tutte frasi che feriscono perché citate fuori contesto? Direi il contrario, anche se il Premier ne sembra persuaso (ieri ha chiesto ai ministri di evitare ogni dichiarazione equivocabile, specie sull´articolo 18). In effetti quel che mortifica è precisamente il contesto in cui le frasi vengono dette: è il Primo ministro a parlare – disinvoltamente, quasi fosse in un salotto o in famiglia anziché nella pubblica agorà – fuori contesto. Il contesto è una società che da almeno vent´anni ha interiorizzato la fine del posto fisso. Non c´è giovane (e meno giovane, visto che il precariato colpisce ormai più generazioni) che non sappia perfettamente come stanno le cose. Quel che reclama, nelle condizioni attuali, potremmo riassumerlo così: “Parlateci di queste ‘condizioni accettabili´, saltando il preambolo pedagogico di cui non abbiamo più bisogno! Diteci come e quando saranno tutelati i lavori non fissi”. Se Monti o il ministro Cancellieri si concentrassero solo sulle tutele, senza pontificare su cosa sia il vivere autentico (monotono o affetto da tedio, due stati d´animo che non concernono lo Stato) sarebbero ascoltati con più interesse. Se il governo ci dicesse qualcosa sulla manutenzione disastrosa delle infrastrutture (o sui centralini Acea sordi alle chiamate) e sull´impreparazione a fronteggiare emergenze come la neve, sarebbe più d´aiuto. Milioni di cittadini hanno messo le parole di Monti nell´unico contesto che conta (il loro vissuto), e si sono sentiti trattati come minorenni. Una cosa è criticare il familismo degli italiani (i bamboccioni), altra è vituperare il loro rapporto col mondo esterno (il lavoro).
È come se Monti, più o meno consapevolmente, “si sbagliasse d´epoca”, e non sempre sapesse le persone cui si rivolge. Come se con una politica sentimentale (e un lessico farcito di intimismi: cuore, vita monotona, tedio, bontà) riempisse il vuoto di misure tangibili, che diano a precari e disoccupati se non il posto di lavoro, almeno quello di cittadini adulti. La dura legge del contrappasso conosce queste peripezie fatali: dopo anni di retorica affettiva (il partito dell´amore), si è passati all´algida offensiva contro i cuori esuberanti, contro la psiche inadatta al mutamento. L´impronta è radicalmente diversa (oggi governano persone perbene) ma in ambedue i casi c´è un ingrediente che manca: la lingua della politica, la prudenza che la contraddistingue, la conoscenza della persona umana che presuppone, i rimedi concreti che predispone nel momento in cui disquisisce di virtù e psiche.
Quel che manca, Ulrich Beck lo spiega a chiare lettere quando parla del «dramma pedagogico» che i politici dovrebbero imparare a mettere in scena, affinché la crisi non sia vissuta come rovina ma come trasformazione, nuovo inizio (Disuguaglianza senza confini, Laterza 2011). Il governante che ricorda la scomparsa del lavoro fisso fotografa l´esistente. Somiglia un po´ a quel monarca assoluto del Piccolo Principe, assai gentile e fiero d´esser re, che ordina al sole d´alzarsi o tramontare quando sta per arrivare l´alba o avvicinarsi il tramonto. Afflitto da monotonia non è il lavoro fisso, ma il discorso sulla fine del lavoro fisso. È il dopo che interessa, e il dopo resta nell´ombra. È il che fare, e del che fare poco sappiamo.
Ci sono gaffe che inquietano, perché non sempre sono veramente tali. La gaffe per definizione vien commessa per goffaggine, distrazione: imbarazza, tuttalpiù. Se le parole di Monti provocano collera è perché si inseriscono in una collana di disattenzioni, e allora ecco che c´è del metodo, nella gaffe. Altrimenti non è chiaro come mai il viceministro Martone se l´è presa con gli studenti che finiscono tardi l´università, chiamandoli sfigati (l´aggettivo evoca sgradevolezza): e non perché costretti a più lavori per mantenersi, non perché privi delle raccomandazioni di cui ha goduto il giovane e apparentemente non geniale viceministro.
Dietro le quinte della gaffe sembra quindi nascondersi dell´altro: una sorta di sfasamento storico, una vecchia dottrina che riaffiora, sullo Stato e le sue funzioni in tempi di crisi. Non manca a tale dottrina la veduta lunga, anzi. Ma c´è in essa un che di torbido: chi sta male, chi anela non al posto fisso ma a un´attività stabile, qualche colpa deve averla. Deve essere uno sfigato, un disgraziato (solo nella lingua italiana il disgraziato è un fallito). È una convinzione antica, che ritroviamo nei saggi del demografo-economista Malthus. Il mondo era invivibile, perché sovrappopolato e assillato da troppe rivendicazioni? Ascoltiamo quel che nel 1798 Malthus scriveva a proposito del buonismo sociale, dell´utilità di scaricare la povertà sulle spalle dei poveri perché l´istinto riproduttivo s´attenuasse: «Ciascun uomo si sottometterà con aggraziata pazienza a mali che immagina provengano dalle leggi generali della natura; ma se la vanità e l´errata benevolenza di governi e classi alte si sforzano – intervenendo di continuo negli affanni delle classi basse – di persuadere queste ultime che ogni bene è loro conferito da governanti e ricchi benefattori, è molto naturale che esse che attribuiranno ogni male alle stesse fonti. In queste circostanze, non ci si può ragionevolmente aspettare alcuna pazienza. Sicché, per evitare mali ancora maggiori, saremo fondati a reprimere con la forza l´impazienza, qualora s´esprimesse con atti criminosi».
Malthus bussa alle porte d´Europa, lo vediamo in questi giorni in Grecia. Lo si vide anche in passato: quando alla Germania fu imposta un´austerità punitiva, nel primo dopoguerra. Qui è la vera monotonia che incombe: una storia che si ripete, un cambiamento senza cambiamento, proprio quando urge spezzare la monotonia con discorsi nuovi. Con discorsi sulla fragilità dei deboli, fonte del declino demografico europeo. Sui magistrati chiamati a combattere la corruzione senza esser penalmente perseguibili. Sull´Europa da edificare perché la trasformazione sia preparata senza castigare i perdenti come negli anni ´20-30. Sull´«ondata mondiale di rinazionalizzazioni», che secondo Beck dilaga. Non per ultimo, sulla politica degli immigrati, che faccia di loro i nostri futuri concittadini. In un ottimo articolo su Italianieuropei, Beda Romano racconta come la Germania sia forte perché esattamente su questo ha scommesso: introducendo il diritto del suolo fin dal 2000, e «trasformando lo Stato in un progetto politico più che etnico o religioso»
In tanti modi si può rompere la monotonia. Purché si rompa la monotonia autentica, e si scongiuri il cambiamento senza cambiamento.

La Repubblica 08.02.12