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"Com'è difficile mantenere le promesse", di Stefano Folli

Scrivevamo l’anno scorso, commentando il precedente rapporto del “Governance Poll”, che gli enti locali erano la più sicura palestra dove allevare una nuova classe dirigente. Osservazione in sé abbastanza ovvia, che però va in parte ripensata e forse riformulata alla luce del rapporto di quest’anno.

Sarebbe meglio dire che negli enti locali cresce una nuova possibile dirigenza, in grado forse d’imporsi a livello nazionale, a patto che abbia la capacità di misurarsi con il principio di realtà. Detto in altri termini, è difficile governare una città, una provincia o una regione in tempi di recessione, nella crescente debolezza delle risorse economiche. Un buon sindaco oggi deve essere straordinario per riuscire a mantenere più o meno intatta la sua popolarità.

Non tutti ci riescono. Negli anni della spesa pubblica era assai più facile amministrare un capoluogo o una regione, il che equivale anche a dire che era molto più semplice creare consenso e mantenerlo. Oggi il consenso si forma sulle aspettative, sulla speranza di affidare le chiavi del potere a personaggi percepiti come estranei alla «casta», ossia al circuito di un vecchio “establishment”. Ma una simile figura, quando si riesce a individuarla, incontra rilevanti difficoltà, dopo l’elezione, a mantenere le promesse fatte. Oppure più semplicemente a mostrarsi all’altezza delle attese. Quindi s’innesca il meccanismo della delusione, che rischia di «bruciare» un potenziale leader nazionale.

Ecco allora che il tema degli scorsi anni (la nascita della nuova classe dirigente nelle amministrazioni locali) va adeguato ai tempi di vacche magre in cui siamo costretti a vivere.

Il caso di Matteo Renzi è significativo al riguardo. Il giovane sindaco di Firenze è una figura talentuosa e un ottimo comunicatore. Era stato eletto a Palazzo Vecchio sull’onda di grandi speranze. L’anno scorso il “Governance Poll” lo collocava in cima alla graduatoria, al primo posto. Era già primo cittadino da un anno e mezzo, ma l’onda lunga della popolarità non era stata scalfita dalle asprezze della vita amministrativa. Oggi, passato un anno, Renzi è precipitato quasi a metà classifica.

Cosa è successo? Non risulta che il sindaco abbia commesso grossi errori, anzi è stato un amministratore piuttosto dinamico. E il suo profilo nazionale è persino cresciuto, essendosi egli proposto come «uomo nuovo» del centrosinistra riformista. Eppure è partito il treno della disillusione. Quando la crisi morde, c’è sempre qualche categoria che si sente danneggiata più delle altre: dagli albergatori ai commercianti fino ai cittadini di tutti i ceti che, ad esempio, giudicano sporche le strade o poco curata l’illuminazione. Avere scarsi denari significa aumentare il numero degli scontenti, significa risparmiare oltre misura e non avere strumenti compensativi.

Questo spiega il parziale e forse provvisorio declino di Renzi, peraltro da lui stesso previsto un anno fa. Ma spiega anche il caso Pisapia, il sindaco inatteso che ha bruciato in pochi mesi la magìa della sua elezione in una Milano città complessa e faticosa da governare come mai in passato. È lo stesso paradosso di Firenze, solo più rapidamente consumato. E forse non è un caso che in testa alla classifica ci sia quest’anno il napoletano De Magistris. Nel capoluogo campano la speranza resiste perchè è la sola merce abbondante. Ci si aggrappa ancora al sindaco come all’uomo dei miracoli e gli si concede un lasso temporale che è negato ad altri, a latitudini più settentrionali.

Anche questa contraddizione fra Nord e Sud è una conseguenza della crisi, visto che nel Settentrione più ricco si rischia di essere delusi più in fretta. Fra le eccezioni positive c’è Tosi a Verona e in particolare Piero Fassino a Torino, prova evidente che la vecchia scuola politica a volte aiuta a fronteggiare i momenti difficili. Ma non basta per essere ottimisti. È vero, negli enti locali si prepara ancora il futuro. Ma il problema è che nessuno è in grado di decifrarlo.

Il Sole 24 Ore 16.01.12

"Il merito di un accordo", di Tommaso Di Tanno

Al di là della discussione sull’acquis comunitario, sarebbe opportuno un accordo con la Svizzera sulle attività finanziare lì nascoste da residenti in Italia, sulla falsariga di quelli conclusi da Germania e Gran Bretagna? È vero, si tratterebbe di uno scudo, ma con aliquote di gran lunga superiori rispetto a quelle applicate nel nostro recente passato. E non sarebbe tombale. La ritenuta su interessi e dividenti dei capitali regolarizzati non è europea, ma rispecchia quanto previsto dai singoli paesi. La posizione di chi non aderisce all’accordo.

Germania e Gran Bretagna hanno chiuso di recente un accordo con la Svizzera sulle attività finanziarie detenute (di nascosto) da propri residenti nel territorio svizzero. L’Italia, invece, non pare voler seguire la medesima strada. Il che appare sorprendente considerato che è largamente condivisa l’idea che fette importanti di patrimoni riconducibili a residenti nel nostro paese trovino confortevole alloggio presso i forzieri delle banche svizzere.
La cosa ha fatto rumore così che è stato proprio Piero Giarda, il ministro dei Rapporti col parlamento, a dichiarare alla Camera che non era questa l’intenzione del governo. E che la valutazione derivava non già da una sottovalutazione dei vantaggi in termini di gettito che ne sarebbero potuti derivare ma, piuttosto, dalla considerazione che un esame di conformità all’acquis comunitario da parte della Commissione europea avrebbe potuto facilmente condurre a una sua solenne bocciatura. (1)

I PERCHÉ DEL NO ALL’ACCORDO

Nell’attesa, tuttavia, che questa valutazione venga adeguatamente approfondita da esperti di diritto comunitario, vale la pena cimentarsi col merito degli accordi in questione per verificare se – questioni comunitarie permettendo – valga la pena o meno incamminarsi su questa strada. A parere di Andrea Manzitti parrebbe proprio di no. Le sue obiezioni sono riassumibili come segue:
1. si tratta, nei fatti, di uno “scudo fiscale”. Un condono tombale
2. la Germania (o la Gran Bretagna) non hanno alcun modo per verificare che le banche svizzere coinvolte abbiano detto la verità
3. resta la riservatezza (anonimato) per tutti coloro che aderiscono alla sanatoria
4. chi, possedendo asset (clandestini) in Svizzera alla data del 10 ottobre 2011, li sposta prima del 31 maggio 2013 – ma li fa rientrare dopo questa data – la fa franca (per la Gran Bretagna cambiano le date di riferimento, ma non la sostanza)
5. sui frutti dei capitali regolarizzati si applica una ritenuta del 25 per cento anziché l’euroritenuta del 35 per cento.

MA I VANTAGGI CI SONO

La prima obiezione è perlopiù centrata. Ma non vi è chi non veda che il difetto principale degli scudi italiani stesse nelle scandalose aliquote applicabili (2,5, 4 e 5 per cento) nelle versioni susseguitesi. Per tedeschi e inglesi l’aliquota è, invece, del 34 per cento. Il che rende indigesta la misura a chi abbia a cuore il principio del “mai più condoni”, ma solletica l’appetito di chi ha bisogno di fare cassa. Non mi pare, invece, ci sia un effetto “condono tombale”. Analogamente a quanto è avvenuto in Italia con le cosiddette “dichiarazioni integrative” si eleva la legittimità degli eventuali accertamenti in misura pari agli importi “scudati”.
La seconda obiezione è fondata anch’essa. Ma l’accordo è inserito pur sempre nel contesto di rapporti di collaborazione e di scambio di informazioni derivanti dal già vigente trattato contro le doppie imposizioni (sia per Germania che per Gran Bretagna) che ben potrebbe essere attivato per scoprire le eventuali banche fellone. Del resto, la mano pesante usata di recente dal fisco americano contro le banche svizzere sta a dimostrare che, quando un sistema paese di rilievo vuole stroncare la collaborazione fra banche ed evasori, dei risultati si ottengono anche in assenza di regole scritte di scambio di informazioni.
La terza obiezione è figlia della prima della quale, peraltro, si è già detto.
La quarta obiezione è quella per certi versi più insidiosa. Tanto da legittimare la domanda del perché si è lasciato un buco all’apparenza così facile da utilizzare. La mia lettura è che la Svizzera voglia: (i) invitare i propri depositanti a sceglierla per l’affidabilità del sistema svizzero – anche sotto il profilo della tutela della riservatezza – e non come ricettacolo di guadagni di dubbia provenienza; (ii) lasciare libero chi vuole sottrarsi al prelievo straordinario di andarsene senza aver conseguito alcun beneficio su una piazza rispettabile; (iii) irrigidire le norme in materia di apertura di nuove posizioni finanziarie una volta scaduta la data rilevante. Che il sistema svizzero creda nella fondatezza di questa posizione emerge con chiarezza dall’impegno delle banche svizzere a versare un importo a titolo di acconto dell’imposta straordinaria che esse prevedono di incassare (rispettivamente 2 e 0,5 miliardi di franchi per Germania e Gran Bretagna) che viene ipotizzato come non inferiore alla metà di quanto dovuto.
Le ragioni per le quali il buco in questione è stato accettato dai paesi contraenti paiono, ovviamente, diverse. La prima potrebbe essere la pura e semplice indisponibilità della Svizzera a fare di più. La seconda è che gli asset di ritorno in Svizzera dopo la data rilevante si troverebbero in situazione identica a quella attuale: quindi anonimi solo perché nascosti, non scudati né più scudabili. Cioè privi dei vantaggi potenzialmente garantiti dall’accordo in questione.
La quinta obiezione è un po’ troppo tranchant. Vero è che l’accordo fa strame dell’euroritenuta del 35 per cento. Ma non sempre per concedere un trattamento di maggior favore. Nell’accordo con la Gran Bretagna, anzi, si conferma l’applicazione delle imposte ordinarie inglesi che sono, per gli interessi, del 48 per cento e, per i dividendi, del 40 per cento. Al contrario nel caso tedesco la ritenuta applicabile è, effettivamente, del 25 per cento.
Un osservazione conclusiva sull’acquis comunitario. Entrambi gli accordi in questione sembrano riguardare anche l’Iva (più chiaro nell’articolo 9, paragrafo 10, dell’accordo del Regno Unito. Meno trasparente nell’articolo 7, paragrafo 6, di quello tedesco). Dal momento che la Corte di giustizia ha già avuto modo di bocciare il condono italiano del 2002 proprio per questa ragione pare improbabile l’assunzione di una posizione diversa nel caso in esame.

(1) L’acquis comunitario è l’insieme dei diritti, degli obblighi e degli obiettivi politici e istituzionali che accomunano ogni stato membro dell’Unione Europea. In particolare è composto dai principi e gli obiettivi comuni stabiliti nei trattati comunitari; la normativa comunitaria; dagli atti adottati nell’Unione in materia di giustizia, affari interni, politica estera e sicurezza; dagli accordi internazionali. Ogni nuovo paese che desidera entrare a par parte dell’Unione deve accettarli e integrarli nel proprio ordinamento nazionale.

lavoce.info

Roma – Assemblea Nazionale PD

Nuova fiera di Roma

Venerdì 20 Gennaio
– ore 15.00 accrediti
– ore 16.00 Saluto e introduzione dei lavori della Presidente dell’Assemblea nazionale Rosy Bindi
– Relazione politica del Segretario Nazionale Pier Luigi Bersani “L’impegno del PD per il futuro dell’Italia e dell’Europa”
– dibattito in plenaria: “Il PD per il futuro dell’Europa”

Nota: l’Assemblea valuterà l’opportunità di continuare il dibattito anche nel dopocena.

Sabato 21 gennaio
– ore 09.30 dibattito in plenaria: “Il PD per il futuro dell’Italia”
– ore 12.30 replica del Segretario nazionale Pier Luigi Bersani

"Roma chiese ai tedeschi di insabbiare le indagini sulle Fosse Ardeatine", di Andrea Tarquini

I governi democristiani del dopoguerra chiesero alla Germania di Adenauer di fare di tutto per insabbiare le indagini sul massacro delle Fosse Ardeatine. Roma e Bonn agirono da complici, e l´iniziativa venne da parte italiana. La grave accusa viene lanciata dallo storico tedesco Felix Bohr, già noto per aver documentato in un libro la sistematica adesione e correità della diplomazia tedesca con il Terzo Reich.
Le prove, scrive Bohr su un portale online degli storici (www. clio-online.de) sono tutte nell´archivio dello Auswaertiges Amt, il ministero degli Esteri federale. Un epistolario scioccante, egli commenta. Dopo il processo e la condanna del colonnello delle SS Kappler nel 1948, l´obiettivo comune era «un insabbiamento auspicato dalla parte tedesca come da quella italiana», annotò soddisfatto undici anni più tardi il consigliere d´ambasciata Kurt von Tannstein. Uno dei tanti ex nazisti “sdoganati” nella Germania Ovest di Adenauer sullo sfondo della guerra fredda: si era iscritto alla Nsdap, il partito nazionalsocialista di Hitler, nel 1933, ed era entrato nella carriera diplomatica sotto Joachim von Ribbentrop, il ministro degli Esteri del Reich. L´iniziativa partì dalle autorità italiane, nei tardi anni Cinquanta. «Non appena il primo criminale di guerra tedesco verrà consegnato», avvertì in una missiva un diplomatico italiano secondo la ricostruzione di Bohr, «arriverà una valanga di protesta da ogni paese che richiede l´estradizione di criminali di guerra italiani». In guerra a fianco di Hitler dal 1940 all´8 settembre 1943, come è noto, l´Italia si macchiò di crimini di guerra nell´allora Jugoslavia, in Albania, in Grecia.
Nel 1958, cominciò secondo Bohr l´eliminazione o l´archiviazione di documenti compromettenti negli uffici della giustizia militare. L´anno dopo i giudici cominciarono a indagare sulle Ardeatine. Il procuratore Massimo Tringali, scrive Bohr, visitò l´ambasciata della Repubblica federale per portare formali richieste d´indagine. Secondo l´ambasciatore Manfred Kleiber «fece chiaramente capire che da parte italiana non c´era interesse a riportare in pubblico il problema dell´esecuzione di ostaggi e specie alle Fosse Ardeatine (…) non era ritenuto auspicabile per generali motivi di politica interna (…) per questo egli sarebbe soddisfatto se gli uffici competenti tedeschi, dopo verifiche doverose, saranno nella posizione di confermare alla Procura militare di Roma che nessuno degli indagati è più in vita oppure che risultano non rintracciabili, oppure non identificabili per imprecisa trascrizione del loro nome. Altrimenti, fu detto da parte italiana ai tedeschi, Bonn sarebbe stata libera di dire di non poter fornire le richieste informazioni».
L´ambasciatore Klaiber era stato anche lui membro della Nsdap dal 1934 e diplomatico sotto Hitler. Inviando le richieste italiane, appoggiò di suo pugno la «comprensibile richiesta» italiana di una «replica se possibile negativa». Il messaggio trovò il destinatario giusto a Bonn, al ministero degli Esteri: Hans Gawlik, anch´egli nazista dal 1933, e difensore di molti criminali nazisti al processo di Norimberga. Gawlik si adeguò al consiglio. Risultarono irriperibili responsabili delle Ardeatine come ad esempio Kurt Winden, che allora lavorava come responsabile giuridico della Deutsche Bank. I governi dc italiani, scrive Der Spiegel citando lo storico, si decisero a questa linea per non ravvivare la memoria della Resistenza, guidata soprattutto dal Pci, loro avversario politico.

La Repubblica 16.01.12

"Tutti a scuola fino a 17 anni?" di Rosamaria Maggio, vice presidente nazionale CIDI

Qualche giorno fa il Ministro Profumo in una intervista rilasciata al quotidiano” Il Mattino” dichiarava: “L’obiettivo è evitare che i ragazzi lascino la scuola in età precoce, un traguardo che si può raggiungere prolungando il percorso dell’obbligo scolastico con le qualifiche professionali. Questo consentirebbe di far entrare i ragazzi nel mondo del lavoro più maturi e più robusti, riducendo così anche l’abbandono scolastico”.
I giornali titolavano “Obbligo scolastico fino a 17 anni”.
Per chi crede nella scuola per tutti, nella scuola del “non uno di meno”, potrebbe
essere quindi arrivato il momento di dire”finalmente”!!!
Ma poiché l’Italia ha una storia difficile in relazione all’innalzamento dell’obbligo
scolastico, qualche domanda sul significato di queste dichiarazioni e soprattutto sulle
modalità di realizzazione di questo obiettivo è giusto porsela.
Non perché non ci si fidi del Ministro Profumo. Le sue dichiarazioni di fiducia nella
scuola pubblica, di rispetto e rivalutazione per il ruolo dei docenti, di inversione di
tendenza, almeno nelle intenzioni, per un maggior investimento nella scuola, sono
dolci melodie per le orecchie di chi per anni è stato bistrattato, offeso, umiliato e
soprattutto non riconosciuto nel suo ruolo di insegnante ed educatore delle
generazioni future.
Siamo però consapevoli che l’idea di obbligo scolastico sia stata in questi anni
sottoposta a molteplici interpretazioni, per così dire, nell’arco delle “forze
parlamentari costituzionali”. L’idea che in fondo ci siano ragazzi che non ce la
potranno mai fare è piuttosto diffusa.
Qualche giorno fa, a un incontro con 350 studenti in un importante liceo classico
della mia città, un giovane di terza liceo chiedeva che senso avesse tenere a scuola
ragazzi che non vogliono studiare.
Si parlava di sviluppo economico e istruzione.
Si parlava di costi e benefici.
Si parlava dell’importanza di investire nella scuola e anche del maggior rendimento in
termini economici di un maggiore investimento nella istruzione.
La risposta che si è cercato di dare allo studente è rappresentata dalle convinzioni che
si esprimono in queste righe, nella speranza che il Ministro le condivida.
La nostra Costituzione prevede l’obbligo di istruzione per almeno 8 anni (art. 34) e
dopo un primo tentativo di innalzamento effettuato dal Ministro Berlinguer e
vanificato dal Ministro Moratti alla quale dobbiamo la perla dell’introduzione, con la
legge 53/2003, del diritto-dovere all’istruzione, abbiamo dovuto attendere il Ministro
Fioroni per l’introduzione dell’obbligo di istruzione fino a 16 anni (L.296/06), del
Regolamento per l’adempimento dell’obbligo, e dell’allegato documento tecnico,
emanati contemporaneamente alla Raccomandazione del Parlamento e del Consglio
Europeo circa l’acquisizione delle competenze chiave di cittadinanza (18.12.06).
Con il Ministro Gelmini (in accordo col Ministro Sacconi), questa sofferta conquista
che ci allineava anche agli orientamenti europei è stata nuovamente scippata, con
l’approvazione della legge di riforma dell’apprendistato che consente di iniziare a
lavorare a 15 anni, assolvendo contemporaneamente all’obbligo scolastico (non si sa
ancora come).
L’apprendistato è da quest’ultima legge considerato equivalente al percorso
scolastico.
Dall’anno scolastico 2011/12 i ragazzi che avranno conseguito la licenza media
potranno stipulare un contratto di apprendistato, perché di un contratto di lavoro si
tratta, e il lavoro come apprendista potrà essere considerato a tutti gli effetti utile per
l’assolvimento dell’obbligo scolastico.
Se volessimo dare uno sguardo a ciò che succede in Europa con riferimento a paesi
simili a noi per dimensioni di sviluppo economico o comunque a paesi con elevati
risultati scolastici in quella fascia d’età (ad es.Finlandia ), vedremo che in Finlandia
appunto l’obbligo scolastico è di 9 anni, copre l’intero livello di istruzione di base (7-
16 anni) ed è organizzato a struttura unica che copre l’istruzione primaria e secondaria
inferiore.
In Francia l’istruzione obbligatoria dura 10 anni, inizia a 6 e finisce a 16 anni e si
conclude dopo il primo anno di liceo o istruzione tecnologica o professionale.
Nei Paesi Bassi inizia a 5 anni e si conclude a 17 anni coprendo i primi due anni di
istruzione secondaria superiore.
Mediamente in Europa l’istruzione obbligatoria si conclude a 16 anni e in nessun
caso abbiamo equipollenza tra apprendistato e scuola.*
Le dichiarazioni del Ministro in verità ci preoccupano, perché, lungi dal rimuovere
questa grave anomalia nel sistema dell’obbligo, proponendo di indirizzare gli studenti
fino a 17 anni anche verso la formazione professionale regionale, opera una ulteriore
equiparazione tra istruzione (ancorché professionale) e formazione professionale
regionale.
E’ vero che l’art.117 della Costituzione, nella riforma del titolo V, prevede che la
formazione professionale sia di competenza regionale, e che molte Regioni hanno
legiferato in materia creando un sistema di formazione professionale virtuoso. In
alcune leggi regionali viene delineato un buon sistema di formazione professionale
per preparare i ragazzi e dotarli alla fine di un percorso triennale o quadriennale di
qualifiche o di una specializzazione, ma la Costituzione nulla dice a proposito del
momento in cui la Formazione professionale possa diventare una delle opzioni utili al
percorso di istruzione e/o formazione.
La soluzione verso la quale si starebbe orientando il Ministro quindi non è vietata
dalla Costituzione.
Ma noi crediamo che le norme debbano essere considerate all’interno di un sistema
complessivo sia nazionale che europeo e quindi non possiamo ignorare che le
indicazioni europee vadano verso un innalzamento dell’obbligo a 18 anni, che la
stessa Costituzione negli artt. 3 e 2 metta in evidenza che la Repubblica da un lato
rimuove gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
dall’altro riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo quale è il diritto
all’istruzione.
Contemporaneamente non possiamo sottovalutare la complessità di questo mondo
globalizzato, che porta ciascuno di noi a dover aumentare le proprie competenze, a
modificarle sempre di più, sempre che siamo in grado, perché dotati degli strumenti
culturali necessari, di modificarle.
Un bravissimo insegnante della formazione professionale emiliano che ora non c’è
più diceva che oggigiorno anche per smontare una batteria un meccanico ha
necessità di competenze informatiche. E parliamo di una formazione professionale di
livello e tradizione come quella emiliana.
Ma non possiamo ignorare che il territorio nazionale soffre di grandi sperequazioni
culturali, che diverse Regioni non si sono dotate di una legge regionale in materia (ad
es. la Sardegna), che spesso quelle stesse Regioni sono prive di un sistema di
formazione professionale di livello (ad es. la Sardegna).
Da insegnante non ho nessun pregiudizio nei confronti della formazione
professionale regionale. Ho però l’idea di una formazione professionale alta, alla
quale il ragazzo possa accedere dopo aver assolto all’obbligo di istruzione nella
scuola, perché solo nella scuola si possono acquisire quelle competenze chiave oggi
indispensabili per l’esercizio dei diritti di cittadinanza, per un apprendimento lungo
tutto l’arco della vita.

"La debolezza del fattore umano", di Luigi La Spina

Sarà l’inchiesta a chiarire i tanti dubbi che ancora restano sulle cause della tragedia al Giglio e saranno i giudici a valutare le responsabilità. Un’inchiesta comunque difficile, perché dovrà evitare, innanzi tutto, di essere condizionata dalla confusa onda emotiva che, del tutto comprensibilmente, si è scatenata nell’opinione pubblica, non solo italiana. Ma anche perché gli interessi economici coinvolti sono enormi, le convenienze assicurative possono essere fuorvianti, le complicità e, al contrario, le rivalità corporative potrebbero compromettere sia la trasparenza della ricostruzione dei fatti, sia l’attribuzione delle colpe.

Come sempre accade in eventi eccezionali e tragici come quello che è avvenuto nella notte tra venerdì e sabato, si sono mescolati episodi di viltà e di eroismo, dimostrazioni di incompetenza e di grande professionalità, assieme alla testimonianza unanime di una straordinaria solidarietà umana, commossa ed efficiente, di tutti gli abitanti del Giglio.

Ecco perché è giusto sempre ricordare, e in questo caso è ancora più necessario, che processi sommari a singole persone o a intere categorie sono sbagliati, soprattutto perché impediscono di individuare le opportune correzioni, di regole e di metodi, per evitare che simili tragedie non capitino mai più.

Quello che più colpisce nel disastro della «Costa Concordia» è sicuramente il contrasto tra la sofisticazione tecnologica, la grandezza delle strutture, la molteplicità delle apparecchiature di sicurezza della nave e la debolezza del «fattore umano», messo a repentaglio da uno scoglio che, ora, conficcato nel cuore della fiancata, sembra svelare, con l’antica legge della natura, la moderna superbia della scienza, l’arroganza delle abitudini pericolose, le compiacenze e le strafottenze di superuomini che appaiono, di colpo, uomini piccoli, molto piccoli.

Ecco perché, dopo che le ricerche dei possibili superstiti saranno terminate, dopo che sarà escluso il rischio di una catastrofe ambientale, dopo che sarà chiarita la dinamica dei fatti e individuate le colpe specifiche e contingenti dei responsabili, sarà opportuna una riflessione più ampia e approfondita. Lo imporrà, oltre che la coscienza nazionale, la necessità di affrontare le conseguenze su quell’immagine dell’Italia che, nel mondo, è già abbastanza compromessa. Con riflessi sul futuro del nostro turismo, di una cantieristica già in difficoltà, in generale, dell’economia del nostro Paese.

Da una parte, occorre respingere facili e superficiali accuse che, in queste ore, arrivano soprattutto dall’estero, giustificabili nelle reazioni immediate dei turisti di tante nazionalità coinvolti nel dramma dell’evacuazione della nave, ma che possono essere strumentalmente utilizzate per campagne d’opinione sostenute da evidenti interessi concorrenziali. Dall’altra parte, però, è giusto chiedersi se la vicenda non faccia emergere anche i vizi di un certo costume nazionale che, in questi anni, si sono aggravati e incancreniti.

Chi ha vissuto, magari per una vita, nell’ambiente della marina mercantile italiana, conosce benissimo le difficoltà di un settore che, malgrado sia dotato di professionalità ancora eccellenti e pervaso da una profonda sensibilità umana, non può non risentire di alcune gravi malattie italiane. Le testimonianze difficilmente arrivano a superare l’anonimato, perché l’ipocrisia è la regola di un malinteso senso dell’onore di categoria e chi osa sfuggire alle convenienze e alle piccole e grandi complicità rischia l’emarginazione e, in tanti casi, molto peggio.

La crisi della scuola italiana, innanzi tutto, non ha risparmiato gli istituti nautici. Una volta erano il vanto della nostra marineria. Apprezzati da tutto il mondo, fornivano comandanti e ufficiali di grande competenza. Ora, bisogna ammetterlo, non è più così. Meglio, accanto a scuole che mantengono livelli di insegnamento eccellenti, ce ne sono altre in cui la preparazione è molto sommaria e scadente.

Il reclutamento e la selezione del personale, sia quello di macchina, sia quello addetto alla navigazione e ai servizi, risente della difficoltà di trovare, oggi, disponibilità a un lavoro che costringe a lunghi e faticosi orari, a prolungate assenze da casa, con conseguenze magari pesanti sugli equilibri personali e familiari. Proprio per questo, gli avanzamenti di carriera, i passaggi da funzioni esecutive a ruoli di grande responsabilità spesso non seguono criteri di rigida selezione meritocratica, ma seguono considerazioni di «buonismo» o si piegano a spinte sindacali e corporative all’insegna di promozioni generalizzate.

Accanto agli specifici problemi delle navi da crociera e dei traghetti italiani, ci sono, poi, i più tipici vizi nazionali ad aggravare i rischi. Quelle compiacenze, un po’ infantili e un po’ «bullistiche», su rotte deviate per salutare vecchi amici e plurime fidanzate o per impressionare gli ospiti con passaggi suggestivi davanti alle coste o alle isole. Imprudenze che solo la ritualità del percorso e l’eccessiva sicurezza dei comandanti fanno ritenere innocue, ma la cui responsabilità non dovrebbe ricadere solo su chi li compie, ma anche su chi le tollera e, magari, le incoraggia.

Anche la tragedia del Giglio, insomma, conferma, purtroppo a un prezzo ancora una volta tragico e insopportabile, l’assoluta necessità di un cambio di mentalità nel nostro Paese. Un’Italia dove il rigore negli studi, lo scrupolo nel lavoro, il merito delle carriere, la serietà dell’impegno e, persino, il pignolo rispetto delle regole non siano più dileggiati come residui del passato, ma ritenuti strumenti essenziali per affrontare le durezze della competizione economica del futuro.

La Stampa 16.01.12

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“Nuove regole per quei colossi”, di SALVATORE SETTIS

E la nave non va. Templi del consumismo, le super-navi entrate in scena negli ultimi anni somigliano più a uno dei colossali alberghi di Las Vegas che a una nave. Come a Las Vegas, navi con migliaia di posti-letto vengono spacciate per lusso “esclusivo”, ma sono macchine per vacanze, che macinano i piaceri standardizzati di una finta opulenza.

Vendono illusioni, spacciando per altamente personalizzato il più banale e commercializzato turismo di massa. Dare l´illusione del lusso tenendo bassi i costi: di qui la corsa al personale non specializzato, che all´occasione, si scopre, non solo non sa calare una scialuppa in mare ma nemmeno balbettare qualche parola d´inglese (così, pare, sulla Costa Concordia, affondata a pochi metri dal porto dell´isola del Giglio).
Il rito salutista del viaggio per mare miete vittime, solo qualche volta (per fortuna) in senso letterale come al Giglio. Altre volte, vittime sono i clienti, ma anche il paesaggio e l´ambiente. Come per contrappasso, queste navi “da crociera” fanno di tutto per somigliare a una città, anzi a una neo-città addensata in un grattacielo, con dentro shopping center e ristoranti, discoteche e cinema, negozi, palestre, teatri, casinò, piste di pattinaggio su ghiaccio, percorsi jogging, campi sportivi. Nulla, insomma, di più innaturale. Forse per questo il momento di gloria di queste navi-monstre è quando possono esibire il più vicino possibile a una città di terra la loro pomposa arroganza di città-artificio. Non c´è da stupirsi che il capitano della Concordia volesse avvicinarsi il più possibile all´abitato del Giglio: è quello che accade, più volte al giorno, con identiche navi che entrano nel bacino di San Marco sfidando con la loro mole pacchiana la millenaria basilica, i cavalli di bronzo strappati dai dogi a Bisanzio, il Palazzo Ducale. Anzi, allineandosi su campi e calli, e dando ai passeggeri l´insulso piacere di guardare Venezia dall´alto in basso. E le chiamano navi, così s´intitola un pamphlet di Silvio Testa della serie bemenerita “Occhi aperti su Venezia”.
Alte fino a 60 metri e oltre, molto di più dei nobili palazzi del Canal Grande, le navi penetrano nel cuore di Venezia per osservarne la bellezza, ma la oscurano e la offendono, alterandone la percezione anche per chi di noi è a terra, o in gondola, o su un vaporetto di linea. Per esempio, la Voyager of the seas è alta 63 metri, lunga 311, larga 47, con 47 ponti; la Costa Favolosa, di poco più piccola, gareggia apertamente con Las Vegas proponendo repliche del palazzo imperiale di Pechino, del Circo Massimo di Roma, di Versailles. Intanto si alterano secolari equilibri portando la profondità delle bocche di porto da 9 a 17 metri (Malamocco), da 7 a 12 metri (Lido). Viene allora il sospetto che le dighe mobili alle bocche di porto (MoSe) servano a incrementare questa stolta escalation anziché a salvare la città dall´acqua alta. Un gruppo di Facebook Fuori le maxinavi dal bacino di San Marco raccoglie crescenti adesioni ma non smuove le autorità; invano Massimo Cacciari, da sindaco, aveva provato almeno ad escludere le navi più grandi. Invano lo Spiegel denunciò il problema in un duro articolo di Fiona Ehlers (21 febbraio 2011), premiato dall´Istituto Veneto. Invano Italia Nostra, in un appello poi accolto dall´Unesco, ha protestato contro queste degenerazioni che annientano la forma caratteristica della città e la sua vita civile. Paolo Costa, ex sindaco e ora presidente dell´autorità portuale, propugna invece il senso unico a San Marco per incrementare il traffico delle super-navi. Un milione e mezzo di turisti l´anno, dopo aver gettato su Venezia un distratto sguardo dall´alto, scendono e si aggirano comprando qualcosa sulle bancarelle, pagando una qualche tassa d´accesso. Di fronte a tanto beneficio, pazienza se Venezia muore. Il denaro prima di tutto, in luogo di tutto.
E la nave (una di queste navi) non va, a Venezia. Lo hanno gridato ieri i manifestanti alle Zattere, accogliendo la Magnifica con striscioni come Big Ship You Kill Venice, e urlando «Sei troppo grande per questa città». All´orribile impatto visivo si unisce infatti un significativo incremento della torbidità delle acque, ma anche il rischio di collisioni e di sversamento di idrocarburi nel cuore della città, un rischio che cresce col numero delle mega-navi che vi sono ammesse (2000 transiti nel 2011).
Nessuno ha calcolato gli effetti della pressione di migliaia di tonnellate d´acqua sulle fragili rive di Venezia. Nessuno ha offerto dati sull´inquinamento da polveri sottili (500 tonnellate scaricate dalle navi a Venezia nel 2010); o sulla presenza in laguna di benzopirene, altamente tossico. Nessuno sa dire se l´incidenza di malattie tumorali che potrebbe avere questa causa sta crescendo in questi anni, anche se il Registro dei tumori segnala a Venezia un «eccesso significativo di neoplasia del polmone» ( i dati nell´opuscolo di Silvio Testa). Il terribile incidente del Giglio sta attirando molta attenzione, ma a Venezia un simile incidente fu sfiorato il 23 giugno 2011, quando la nave tedesca Mona Lisa, lunga “solo” 200 metri, per un errore di manovra si incagliò a pochi metri dalla Riva degli Schiavoni. Dobbiamo aspettare qualcos´altro, perché le autorità del porto e del Comune pongano fine alla chiassosa sarabanda di navi “magnifiche” e “favolose”, ma nocive alla più preziosa e fragile città del mondo?

La Repubblica 16.01.12

"Scuola, i tecnici sanno fare le nozze con i fichi secchi", di Mario Pirani

La caciara, abituale di questi tempi, nel mondo scolastico quest´anno stranamente si tace. Un silenzio sotteso alla sensazione che l´intervento inedito di un governo tecnico abbia introdotto un uso parco della protesta e una percezione più concreta dell´agire. O addirittura indotto al convincimento – in realtà errato – che un governo, chiamato al proscenio per evitare il fallimento finanziario ed economico del Paese, di nient´altro debba occuparsi. Per cui si è persino smarrita la percezione che sono all´opera e chiamati a renderne conto ministri addetti al funzionamento della Giustizia, della Pubblica istruzione, della Difesa, dell´Ambiente, degli affari Interni ed Esteri e via via degli altri settori della amministrazione statale. Una assenza mass mediatica nel suo assieme, di cui vorremmo, quanto meno, segnalare l´assurdo. A cominciare, appunto, dalla scuola dove tre personaggi, di orientamenti culturali diversi, noti fra gli educatori ma non fuori dalla loro cerchia, il ministro Francesco Profumo, già rettore del Politecnico di Torino e i sottosegretari, Elena Ugolini, preside di Cl, esperta nei metodi di valutazione scolastica, e Marco Rossi Doria, docente elementare, molto conosciuto soprattutto a Napoli e nell´entroterra campano per aver promosso e diffuso nell´ultimo trentennio il movimento dei “maestri di strada” per aiutare gli insegnanti e i ragazzi soprattutto nei quartieri di maggior disagio, questi tre esperti che mai avrebbero immaginato di entrare al governo, stanno dando prova di saper congiungere le loro diverse esperienze per un difficile recupero di un apparato scolastico profondamente dissestato.
La prima notizia è che dopo tre anni di tagli per un ammontare di 8 miliardi, con sospensione degli scatti e delle anzianità, quest´anno, almeno finora, neppure un euro è stato sottratto al bilancio educativo, una “non notizia” che indica una felice inversione di tendenza. A questa svolta si è accompagnata nelle parole sobrie del ministro e dei suoi collaboratori una evoluzione lessicale: al vocabolo “spesa” si è sostituito volutamente quello di “investimento” e così sono state eliminate tutte quelle definizioni sprezzanti, auto distruttive, irrispettose per ristabilire, con piemontese puntiglio, un linguaggio che valorizzi “la funzione civile degli insegnanti”. Fare una buona politica con pochi mezzi è l´imperativo di questi tecnici al governo: così questo ministro piemontese ha voluto ripartire con un gesto meridionalista, investendo il primo miliardo degli aiuti europei di cui si rischiava la perdita, per sovvenzionare i bisogni più urgenti delle scuole pugliesi, calabresi, campane e sicule. Si è messa in piedi una azione regionalistica, definita, però, centralmente in accordo col ministro per lo Sviluppo, Barca. È stato così concordato di destinare un primo miliardo alle scuole, senza distribuzioni a pioggia ma puntando in quattro direzioni specifiche: a) edilizia scolastica, messa a regime e restauro di edifici non completati; b) investimenti integrati in nuove tecnologie informatiche, accompagnati da corsi formativi in merito sia per insegnanti che per studenti, così che le innovazioni siano utilizzate a pieno; c) iniziative contro la dispersione scolastica; d) interventi di recupero e aiuto nelle zone di più accentuata povertà sociale con speciale attenzione all´analfabetismo digitale.
Colpisce la concreta minuzia di queste indicazioni di lavoro che legano strettamente, senza astruserie pedagogiche, l´opera del ministero alla vita del più sperduto istituto elementare. Una riflessione che ci è tornata ascoltando da uno dei sottosegretari l´elenco, in apparenza semplicistico ma decisivo, del “controllo delle competenze irrinunciabili”: saper leggere e comprendere una frase, saperla scrivere, apprendere i fondamenti elementari della matematica e i primi rudimenti di una seconda lingua. Un ritorno storico ai contenuti primi dell´insegnamento, privo finalmente di orpelli ideologici.

La Repubblica 16.01.12