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"La debolezza del fattore umano", di Luigi La Spina

Sarà l’inchiesta a chiarire i tanti dubbi che ancora restano sulle cause della tragedia al Giglio e saranno i giudici a valutare le responsabilità. Un’inchiesta comunque difficile, perché dovrà evitare, innanzi tutto, di essere condizionata dalla confusa onda emotiva che, del tutto comprensibilmente, si è scatenata nell’opinione pubblica, non solo italiana. Ma anche perché gli interessi economici coinvolti sono enormi, le convenienze assicurative possono essere fuorvianti, le complicità e, al contrario, le rivalità corporative potrebbero compromettere sia la trasparenza della ricostruzione dei fatti, sia l’attribuzione delle colpe.

Come sempre accade in eventi eccezionali e tragici come quello che è avvenuto nella notte tra venerdì e sabato, si sono mescolati episodi di viltà e di eroismo, dimostrazioni di incompetenza e di grande professionalità, assieme alla testimonianza unanime di una straordinaria solidarietà umana, commossa ed efficiente, di tutti gli abitanti del Giglio.

Ecco perché è giusto sempre ricordare, e in questo caso è ancora più necessario, che processi sommari a singole persone o a intere categorie sono sbagliati, soprattutto perché impediscono di individuare le opportune correzioni, di regole e di metodi, per evitare che simili tragedie non capitino mai più.

Quello che più colpisce nel disastro della «Costa Concordia» è sicuramente il contrasto tra la sofisticazione tecnologica, la grandezza delle strutture, la molteplicità delle apparecchiature di sicurezza della nave e la debolezza del «fattore umano», messo a repentaglio da uno scoglio che, ora, conficcato nel cuore della fiancata, sembra svelare, con l’antica legge della natura, la moderna superbia della scienza, l’arroganza delle abitudini pericolose, le compiacenze e le strafottenze di superuomini che appaiono, di colpo, uomini piccoli, molto piccoli.

Ecco perché, dopo che le ricerche dei possibili superstiti saranno terminate, dopo che sarà escluso il rischio di una catastrofe ambientale, dopo che sarà chiarita la dinamica dei fatti e individuate le colpe specifiche e contingenti dei responsabili, sarà opportuna una riflessione più ampia e approfondita. Lo imporrà, oltre che la coscienza nazionale, la necessità di affrontare le conseguenze su quell’immagine dell’Italia che, nel mondo, è già abbastanza compromessa. Con riflessi sul futuro del nostro turismo, di una cantieristica già in difficoltà, in generale, dell’economia del nostro Paese.

Da una parte, occorre respingere facili e superficiali accuse che, in queste ore, arrivano soprattutto dall’estero, giustificabili nelle reazioni immediate dei turisti di tante nazionalità coinvolti nel dramma dell’evacuazione della nave, ma che possono essere strumentalmente utilizzate per campagne d’opinione sostenute da evidenti interessi concorrenziali. Dall’altra parte, però, è giusto chiedersi se la vicenda non faccia emergere anche i vizi di un certo costume nazionale che, in questi anni, si sono aggravati e incancreniti.

Chi ha vissuto, magari per una vita, nell’ambiente della marina mercantile italiana, conosce benissimo le difficoltà di un settore che, malgrado sia dotato di professionalità ancora eccellenti e pervaso da una profonda sensibilità umana, non può non risentire di alcune gravi malattie italiane. Le testimonianze difficilmente arrivano a superare l’anonimato, perché l’ipocrisia è la regola di un malinteso senso dell’onore di categoria e chi osa sfuggire alle convenienze e alle piccole e grandi complicità rischia l’emarginazione e, in tanti casi, molto peggio.

La crisi della scuola italiana, innanzi tutto, non ha risparmiato gli istituti nautici. Una volta erano il vanto della nostra marineria. Apprezzati da tutto il mondo, fornivano comandanti e ufficiali di grande competenza. Ora, bisogna ammetterlo, non è più così. Meglio, accanto a scuole che mantengono livelli di insegnamento eccellenti, ce ne sono altre in cui la preparazione è molto sommaria e scadente.

Il reclutamento e la selezione del personale, sia quello di macchina, sia quello addetto alla navigazione e ai servizi, risente della difficoltà di trovare, oggi, disponibilità a un lavoro che costringe a lunghi e faticosi orari, a prolungate assenze da casa, con conseguenze magari pesanti sugli equilibri personali e familiari. Proprio per questo, gli avanzamenti di carriera, i passaggi da funzioni esecutive a ruoli di grande responsabilità spesso non seguono criteri di rigida selezione meritocratica, ma seguono considerazioni di «buonismo» o si piegano a spinte sindacali e corporative all’insegna di promozioni generalizzate.

Accanto agli specifici problemi delle navi da crociera e dei traghetti italiani, ci sono, poi, i più tipici vizi nazionali ad aggravare i rischi. Quelle compiacenze, un po’ infantili e un po’ «bullistiche», su rotte deviate per salutare vecchi amici e plurime fidanzate o per impressionare gli ospiti con passaggi suggestivi davanti alle coste o alle isole. Imprudenze che solo la ritualità del percorso e l’eccessiva sicurezza dei comandanti fanno ritenere innocue, ma la cui responsabilità non dovrebbe ricadere solo su chi li compie, ma anche su chi le tollera e, magari, le incoraggia.

Anche la tragedia del Giglio, insomma, conferma, purtroppo a un prezzo ancora una volta tragico e insopportabile, l’assoluta necessità di un cambio di mentalità nel nostro Paese. Un’Italia dove il rigore negli studi, lo scrupolo nel lavoro, il merito delle carriere, la serietà dell’impegno e, persino, il pignolo rispetto delle regole non siano più dileggiati come residui del passato, ma ritenuti strumenti essenziali per affrontare le durezze della competizione economica del futuro.

La Stampa 16.01.12

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“Nuove regole per quei colossi”, di SALVATORE SETTIS

E la nave non va. Templi del consumismo, le super-navi entrate in scena negli ultimi anni somigliano più a uno dei colossali alberghi di Las Vegas che a una nave. Come a Las Vegas, navi con migliaia di posti-letto vengono spacciate per lusso “esclusivo”, ma sono macchine per vacanze, che macinano i piaceri standardizzati di una finta opulenza.

Vendono illusioni, spacciando per altamente personalizzato il più banale e commercializzato turismo di massa. Dare l´illusione del lusso tenendo bassi i costi: di qui la corsa al personale non specializzato, che all´occasione, si scopre, non solo non sa calare una scialuppa in mare ma nemmeno balbettare qualche parola d´inglese (così, pare, sulla Costa Concordia, affondata a pochi metri dal porto dell´isola del Giglio).
Il rito salutista del viaggio per mare miete vittime, solo qualche volta (per fortuna) in senso letterale come al Giglio. Altre volte, vittime sono i clienti, ma anche il paesaggio e l´ambiente. Come per contrappasso, queste navi “da crociera” fanno di tutto per somigliare a una città, anzi a una neo-città addensata in un grattacielo, con dentro shopping center e ristoranti, discoteche e cinema, negozi, palestre, teatri, casinò, piste di pattinaggio su ghiaccio, percorsi jogging, campi sportivi. Nulla, insomma, di più innaturale. Forse per questo il momento di gloria di queste navi-monstre è quando possono esibire il più vicino possibile a una città di terra la loro pomposa arroganza di città-artificio. Non c´è da stupirsi che il capitano della Concordia volesse avvicinarsi il più possibile all´abitato del Giglio: è quello che accade, più volte al giorno, con identiche navi che entrano nel bacino di San Marco sfidando con la loro mole pacchiana la millenaria basilica, i cavalli di bronzo strappati dai dogi a Bisanzio, il Palazzo Ducale. Anzi, allineandosi su campi e calli, e dando ai passeggeri l´insulso piacere di guardare Venezia dall´alto in basso. E le chiamano navi, così s´intitola un pamphlet di Silvio Testa della serie bemenerita “Occhi aperti su Venezia”.
Alte fino a 60 metri e oltre, molto di più dei nobili palazzi del Canal Grande, le navi penetrano nel cuore di Venezia per osservarne la bellezza, ma la oscurano e la offendono, alterandone la percezione anche per chi di noi è a terra, o in gondola, o su un vaporetto di linea. Per esempio, la Voyager of the seas è alta 63 metri, lunga 311, larga 47, con 47 ponti; la Costa Favolosa, di poco più piccola, gareggia apertamente con Las Vegas proponendo repliche del palazzo imperiale di Pechino, del Circo Massimo di Roma, di Versailles. Intanto si alterano secolari equilibri portando la profondità delle bocche di porto da 9 a 17 metri (Malamocco), da 7 a 12 metri (Lido). Viene allora il sospetto che le dighe mobili alle bocche di porto (MoSe) servano a incrementare questa stolta escalation anziché a salvare la città dall´acqua alta. Un gruppo di Facebook Fuori le maxinavi dal bacino di San Marco raccoglie crescenti adesioni ma non smuove le autorità; invano Massimo Cacciari, da sindaco, aveva provato almeno ad escludere le navi più grandi. Invano lo Spiegel denunciò il problema in un duro articolo di Fiona Ehlers (21 febbraio 2011), premiato dall´Istituto Veneto. Invano Italia Nostra, in un appello poi accolto dall´Unesco, ha protestato contro queste degenerazioni che annientano la forma caratteristica della città e la sua vita civile. Paolo Costa, ex sindaco e ora presidente dell´autorità portuale, propugna invece il senso unico a San Marco per incrementare il traffico delle super-navi. Un milione e mezzo di turisti l´anno, dopo aver gettato su Venezia un distratto sguardo dall´alto, scendono e si aggirano comprando qualcosa sulle bancarelle, pagando una qualche tassa d´accesso. Di fronte a tanto beneficio, pazienza se Venezia muore. Il denaro prima di tutto, in luogo di tutto.
E la nave (una di queste navi) non va, a Venezia. Lo hanno gridato ieri i manifestanti alle Zattere, accogliendo la Magnifica con striscioni come Big Ship You Kill Venice, e urlando «Sei troppo grande per questa città». All´orribile impatto visivo si unisce infatti un significativo incremento della torbidità delle acque, ma anche il rischio di collisioni e di sversamento di idrocarburi nel cuore della città, un rischio che cresce col numero delle mega-navi che vi sono ammesse (2000 transiti nel 2011).
Nessuno ha calcolato gli effetti della pressione di migliaia di tonnellate d´acqua sulle fragili rive di Venezia. Nessuno ha offerto dati sull´inquinamento da polveri sottili (500 tonnellate scaricate dalle navi a Venezia nel 2010); o sulla presenza in laguna di benzopirene, altamente tossico. Nessuno sa dire se l´incidenza di malattie tumorali che potrebbe avere questa causa sta crescendo in questi anni, anche se il Registro dei tumori segnala a Venezia un «eccesso significativo di neoplasia del polmone» ( i dati nell´opuscolo di Silvio Testa). Il terribile incidente del Giglio sta attirando molta attenzione, ma a Venezia un simile incidente fu sfiorato il 23 giugno 2011, quando la nave tedesca Mona Lisa, lunga “solo” 200 metri, per un errore di manovra si incagliò a pochi metri dalla Riva degli Schiavoni. Dobbiamo aspettare qualcos´altro, perché le autorità del porto e del Comune pongano fine alla chiassosa sarabanda di navi “magnifiche” e “favolose”, ma nocive alla più preziosa e fragile città del mondo?

La Repubblica 16.01.12