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S'insedia l'Osservatorio per l'integrazione. Alunni disabili in crescita

Proiezione di Tuttoscuola: dagli attuali 191 mila il numero complessivo dei disabili a scuola salirà a 195 mila, con circa 97 mila insegnanti di sostegno. Servono “nuovi criteri per la stabilizzazione”. Oggi alle 17 il ministro Francesco Profumo insedia l’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni con disabilità. All’incontro parteciperanno le associazioni più rappresentative delle persone con disabilità. Secondo le previsioni crescerà ancora, nell’anno scolastico 2012-13, il numero degli alunni disabili e quello degli insegnanti di sostegno.

La proiezione è del mensile Tuttoscuola e arriva alla ripresa delle attività scolastiche dopo le vacanze di Natale e alla vigilia delle pre-iscrizioni: entro il 20 febbraio chi dovrà cominciare il prossimo anno le elementari, le medie e le superiori dovrà infatti formalizzare la propria scelta. Dal 12 gennaio sarà possibile fare tutte le pratiche on line sul sito del ministero dell’Istruzione che attiverà un apposito servizio web.

Per il prossimo anno scolastico, dunque, gli inserimenti in scuole statali di ragazzi con disabilità toccheranno, secondo una proiezione di Tuttoscuola, quota 195 mila. Nel 2011-12 sono stati poco più di 191 mila, mentre dieci anni fa, nel 2000-01 erano poco più di 116 mila unità con una popolazione scolastica che complessivamente era sugli stessi livelli attuali. L’incremento nel corso di poco più di un decennio è stato di più del 70%.

A fronte di circa 195 alunni disabili inseriti nelle scuole statali – continua Tuttoscuola – saranno nominati circa 97 mila docenti di sostegno, di cui alcune centinaia per effetto di sentenze del Tar. Il rapporto sarà circa di due alunni disabili per ogni docente di sostegno, ma vi saranno regioni nelle quali il rapporto sarà ben più favorevole (Basilicata 1,50; Campania 1,68; Calabria 1,71; Sicilia 1,75) e altre, al contrario, con rapporto molto al di sopra della media nazionale (Lazio 2,38; Lombardia 2,36; Abruzzo 2,29).

Quanto al sistema generale dei docenti di sostegno, Tuttoscuola ricorda come l’obiettivo contenuto nella Finanziaria 2008 di fissare il criterio del 70% di posti di sostegno stabili (di ruolo) sia naufragato di fatto di fronte alla sentenza della Consulta che, stabilendo il diritto degli alunni al sostegno in caso di necessità, ha di fatto riaperto “la corsa ai posti in deroga” da assegnare a docenti di sostegno a tempo determinato. La situazione attuale è che oggi i posti fissi rappresentano il 64,6% di quelli complessivi, mentre quelli aggiuntivi sforano quota 30% attestandosi al 35,4%. “E’ questa – scrive il mensile – una situazione destinata ad aggravarsi, facendo ritornare il tutto indietro a quattro anni fa”. Per Tuttoscuola “occorrono nuovi criteri per una rinnovata stabilizzazione: esclusa la possibilità di fissare un tetto massimo, potrebbe essere prevista una percentuale determinata di posti stabili da aggiornare annualmente sulla base della popolazione scolastica disabile accertata, secondo criteri predeterminati (storico, media biennio, anno precedente, ecc.)”. Secondo il mensile “è una piccolissima riforma alla quale il nuovo ministro potrebbe pensare, con incidenza di spesa minima: e se dovesse esserci il sì a questa piccola revisione – è la conclusione – si abbia il coraggio di portare all’80-90% la percentuale di posti fissi, anziché mantenerli bloccati ad un 70% che genera anche precarietà”.

Sostegno, parziale marcia indietro sulla formazione dei docenti in esubero

Non è ancora la vittoria definitiva, ma è un primo passo che fa ben sperare. L’Ansas, l’Agenzia nazionale dello sviluppo per l’autonomia scolastica, ha infatti revocato il bando, che scadeva il prossimo 11 gennaio, per il reclutamento di tutor da utilizzare nella formazione degli insegnanti all’interno del progetto di “riqualificazione/riconversione professionale dei docenti”. Un’iniziativa che mirava a “specializzare” nel sostegno gli insegnanti in esubero e che aveva causato numerose polemiche da parte delle associazioni delle persone con disabilità e di quelle del mondo della scuola, in particolare a causa dell’inadeguatezza del percorso formativo e del rischio che docenti specializzati nelle problematiche della disabilità siano scavalcati da colleghi con maggiore anzianità ma insufficiente formazione. Il corso di abilitazione è costituito infatti da due ore di formazione in presenza, seguite da 120 ore di formazione on-line.

Il bando, che ora è stato revocato, prevedeva per il tutor alcuni requisiti: una Laurea specialistica (o di vecchio ordinamento), essere docente a tempo determinato o indeterminato in servizio da almeno tre anni nella scuola secondaria di primo o secondo grado”, aver prestato servizio come insegnante di sostegno per almeno tre anni consecutivi, nell’arco degli ultimi 5 anni. I tutor selezionati avrebbero dovuto pendere parte a un corso di formazione dell’Ansas con un seminario residenziale e almeno 10 ore di attività di formazione on line. A regime ad ogni tutor era previsto l’affidamento di non più di due corsi per ogni regione di riferimento, per un compenso di 25 euro l’ora fino ad un massimo di 120 ore online e di 51 euro l’ora fino ad un massimo di 12 ore in presenza.

Ora l’Ansas revoca in autotutela la selezione pubblica per l’individuazione di tutor per la riqualificazione professionale dei docenti in sovrannumero: la revoca riguarda dunque il bando, non il corso di formazione. Ma è un primo passo. L’Anief, che come sindacato aveva criticato il bando, esprime soddisfazione per la decisione e attacca: “Anziché ipotizzare nuovi modelli per la formazione degli insegnanti di sostegno, che, dal 1998, è stata delegata con successo alle università, il Miur farebbe bene ad attivarsi per formare gli insegnanti sui disturbi specifici di apprendimento, ad un anno dall’approvazione della legge n. 170 dell’8 ottobre 2010, e per fare attivare dai direttori scolastici regionali tutti i posti in deroga senza discriminare o penalizzare gli alunni con handicap meno gravi nell’assegnazione delle ore”. Temi che potrebbero già essere posti all’ordine del giorno oggi, nel corso della prima riunione dell’Osservatorio permanente per l’integrazione scolastica programmato per il tardo pomeriggio a Roma. (Redattore Sociale)

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"Il doppio volto della Lega garantista a giorni alterni", di Michele Brambilla

La giornata di ieri ci ha regalato un meraviglioso spaccato di come è intesa nel nostro Paese la questione morale. Dunque: in nome appunto della questione morale, la Lega Nord ha votato a favore dell’arresto del deputato del Pdl Nicola Cosentino, che la Lega stessa aveva fino a pochi mesi fa più volte salvato dall’arresto medesimo in nome della battaglia contro il moralismo giustizialista.

Sempre ieri, nella Lega che votava a favore dell’arresto di Cosentino si discuteva dell’un po’ imbarazzante caso del suo segretario amministrativo Francesco Belsito. Costui è un signore di cui fino all’altro giorno si sapevano solo due cose: che portava le focacce liguri alle riunioni di via Bellerio e che aveva millantato due lauree mai conseguite. Niente di male, nemmeno i falsi titoli di studio, visto che Belsito milita in un partito guidato da un ex finto medico, quindi tutto torna.

Ora però si è scoperto che Belsito ha preso svariati milioni di euro dalle casse del partito e li ha investiti non in Padania, bensì in Tanzania, a Cipro e in Norvegia. Passi per la Norvegia e forse anche per Cipro: ma la Tanzania i militanti proprio non la mandano giù. E così nel partito è scoppiata una rivolta.

Tuttavia non è neppure l’investimento all’estero a colpire. Colpisce piuttosto l’atteggiamento dei vertici leghisti. Nello stesso giorno – ripetiamo – in cui la Lega vota per l’arresto di Cosentino, i suoi dirigenti tacciono o fanno spallucce per il caso-Belsito. Intervistato dalla Rai, Roberto Castelli (che è stato ministro della Giustizia) ha risposto testualmente così: «Sono problemi interni al partito, non capisco che cosa ve ne debba fregare a voi». Ora, a parte la sintassi padana, andrebbe sottolineato che i soldi investiti in Tanzania vengono dai rimborsi elettorali (che la Lega ha incassato per 140 milioni solo negli ultimi dieci anni, ringraziando Roma ladrona) e quindi sono denaro pubblico; così come un personaggio pubblico è Belsito, sottosegretario di un ministero fino a due mesi fa.

Al di là dei casi specifici, quel che emerge è il ripetersi di un vecchio vizio: la questione morale viene agitata solo quando e se fa comodo. La Lega delle origini applaudiva le inchieste di Di Pietro perché le spianavano la strada. Poi s’è alleata a Berlusconi e allora guai a dar retta a quei giacobini dei magistrati: era pronta perfino a difendere i parlamentari del Sud accusati di mafia o camorra. Adesso è tornata all’opposizione e vuole riapparire limpida e pura ai propri elettori, così dice di sì all’arresto di Cosentino; però della Tanzania non si capisce bene che cosa ce ne debba fregare a noi.

La grande assente non è solo la coerenza: è anche la buona fede. Non è – sia chiaro – solo la Lega a comportarsi così. Parliamo della Lega perché alla Lega si riferiscono le vicende di ieri: ma sono in molti a prendere posizione sulle inchieste e sugli scandali solo in funzione di un calcolo di parte. Infatti è caduta anche qualsiasi oggettività nella valutazione dei fatti, e ogni cosa è grave o lieve a seconda di quel che conviene: nei giorni scorsi gli stessi che hanno difeso i milionari nullatenenti di Cortina si sono scandalizzati per un cotechino a Palazzo Chigi, per giunta pagato dalla sciura Elsa.

Insomma siamo un Paese di garantisti o giustizialisti a corrente alternata, a seconda di come butta.

La Stampa 11.01.12

"La zona grigia", di Claudio Tito

L´Italia si era quasi abituata ad assistere a indecorosi teatrini in cui la difesa d´ufficio di questo o quel ministro, di questo o quel sottosegretario coinvolto in penosi affari giudiziari si trasformava in offesa alla magistratura e al buon senso dei cittadini. Se il cambio di passo di Mario Monti è sembrato subito marcato rispetto al suo predecessore sul terreno dell´azione di governo e – per così dire – dei costumi politici, in una certa misura anche la soluzione imposta per risolvere la grana Malinconico ha confermato la novità.
Il presidente del Consiglio ha chiesto e di fatto preteso nel giro di pochissimi giorni le dimissioni di un membro del governo implicato in una vicenda dai profili decisamente oscuri. Una scelta che costituisce una cesura rispetto al recente passato. Un orientamento che attesta una piccola rivoluzione nei comportamenti politici e istituzionali. Monti si è reso conto che un uomo su cui pende il sospetto – anche in assenza di un formale carico giudiziario – di aver ricevuto regalie da chi concorre nell´aggiudicazione di appalti pubblici, non può rimanere alla presidenza del Consiglio. Lo ha fatto rapidamente consapevole del fatto che la sua “squadra” si è presentata in Parlamento e al Paese sotto le insegne della sobrietà e della trasparenza. Evidentemente il presidente del Consiglio si è accorto che quell´ombra era così pesante da penalizzare l´intera attività del suo governo. L´avrebbe resa meno legittimata davanti alla composita e multiforme maggioranza. Soprattutto sarebbe stato meno credibile davanti ad un´opinione pubblica che reclama un´inversione di marcia negli usi e nei costumi della politica. Aver separato il suo destino da quello del sottosegretario Malinconico, rappresenta anche un modo per garantire una navigazione meno turbolenta ad una scialuppa già impegnata nelle tempesta della crisi economica europea. L´esecutivo “tecnico” quindi ha compiuto una scelta pienamente “politica” per superare la prima, vera grana.
Eppure un interrogativo resta. Come mai la vicenda che sta avvolgendo in questi giorni Carlo Malinconico non è stata valutata nella sua gravità già in occasione della nascita del governo? Monti ha giurato il 16 novembre scorso, quando le telefonate di due imprenditori come Balducci e Piscicelli erano note da tempo. Repubblica le aveva ampiamente pubblicate il 12 febbraio 2010. E tutti – sicuramente anche il Professore – erano a conoscenza delle inchieste che avevano toccato via via ex ministri come Scajola e Lunardi, o sottosegretari come Bertolaso. Quell´area grigia che ha avvolto una parte di appalti pubblici era stata denunciata con dovizia di particolari. Palazzo Chigi ha informato la sua azione alla sobrietà e alla trasparenza. Principi sacrosanti che con ogni probabilità cambieranno le abitudini e gli atteggiamenti della “politica” nel prossimo futuro. Ma la sobrietà e la trasparenza sono anche un vincolo. «Per avere piena conoscenza degli affari di Stato – ammoniva Norberto Bobbio – è necessario che il potere agisca in pubblico». Esiste un obbligo della trasparenza che non può essere ignorato. E nel caso di Malinconico quell´obbligo poteva essere facilmente adempiuto. Anche quando ricopriva ruoli di vertice alla Fieg. Per lo stesso motivo, gli uomini di Palazzo Chigi mantengano rapidamente una delle promesse fatte al momento dell´insediamento: rendano pubblici i redditi e soprattutto le situazioni patrimoniali di ogni membro del governo.
Il presidente del Consiglio, dunque, ha agito correttamente separando la sorte del sottosegretario dalla sua, ma ora deve riflettere sul rischio che il mancato controllo effettuato meno di due mesi fa possa rivelarsi più ampio. Esistono altri “casi Malinconico” nell´esecutivo? Esiste una zona opaca che potenzialmente può avviluppare la sua squadra? Esiste ancora la possibilità per qualcuno di godere di quello stesso sistema di garanzie che ha accompagnato per alcuni anni l´assegnazione di appalti pubblici? Quesiti che la nuova classe dirigente di questo Paese deve porsi. Per allontanare ogni sospetto e per ribadire una nota distintiva della sua opera in questi due mesi: la sostanziale discontinuità di forme, modi e contenuti. Per evitare che qualcuno possa ancora dire che «il fascismo era una democrazia minore» senza subire una generale e immediata contestazione. Per impedire che ogni stortura e patologia del sistema venga nuovamente metabolizzata e derubricata a chiassoso folclore. Perché, come avvertiva solo pochi anni fa l´allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, «in Italia vogliamo una democrazia più trasparente».

La Repubblica 11.01.12

Fitch minaccia di declassare l'Italia. Fassina: il Paese non ha bisogno di altre manovre

Come Monti ha ricordato, abbiamo un avanzo primario di gran lunga superiore a quello di qualunque altro paese europeo, Germania inclusa. Il problema dell’Italia e dell’Area Euro è lo sviluppo. C’è una “significativa possibilità” che Fitch abbassi il rating dell’Italia, attualmente pari ad A+, una volta completata la revisione avviata nel dicembre scorso.

Lo ha affermato David Riley, capo della divisione rating sovrani dell’agenzia internazionale di classificazione.

“Una cosa che aiuterebbe l’Italia, ma che è al di fuori del nostro controllo immediato, è un’assicurazione sulla crisi di liquidità, il che significa di base che serve un ‘muro di protezione'”, ha spiegato Riley incontrando la stampa a un evento di Fitch a Londra. “In questo momento non lo abbiamo e questo è motivo di seria preoccupazione per quanto riguarda l’Italia – ha proseguito Riley -. E’ una delle ragioni per le quali abbiamo messo l’Italia sotto osservazione con implicazioni negative ed è una delle ragioni per le quali c’è una significativa possibilità che, una volta conclusa la revisione, il rating dell’Italia cali”.

Fitch, che è controllata dalla francese Fimalac (Financière Marc de Lacharrière) non prevede invece di abbassare il rating di Parigi, che gode della tripla A, nel corso del 2012. Lo ha affermato un portavoce dell’istituto.

Il Pd: assolutamente no a un’altra manovra. Fassina, responsabile economico del Partito Democratico, interpellato dal quotidiano online Affaritaliani.it, commenta la minaccia di Fitch di downgradare il rating dell’Italia. “Non serve assolutamente un’altra manovra. Come Monti ha ricordato, abbiamo un avanzo primario di gran lunga superiore a quello di qualunque altro paese europeo, Germania inclusa. Il problema dell’Italia e dell’Area Euro è lo sviluppo e, nell’immediato, servono strumenti di garanzia della liquidità per i debiti sovrani.

Ancora una volta si conferma che i problemi dell’Eurozona sono a Bruxelles e a Francoforte e non in Italia o in altri ‘paesi periferici’

‘Non serve assolutamente un’altra manovra. Come Monti ha ricordato, abbiamo un avanzo primario di gran lunga superiore a quello di qualunque altro paese europeo, Germania inclusa.
Il problema dell’Italia e dell’Area Euro e’ lo sviluppo e, nell’immediato, servono strumenti di garanzia della liquidità per i debiti sovrani. Ancora una volta si conferma che i problemi dell’Eurozona sono a Bruxelles e a Francoforte e non in Italia o in altri ‘paesi periferici”.

da Affari Italiani

PRIN: bene i tempi del bando ma necessarie modifiche

Marco Meloni: “Finalmente tempi rapidi, ma c’è qualche profilo critico: la decisione di introdurre, a monte della selezione nazionale, una preselezione a livello di ateneo, unitamente alla definizione di criteri quantitativi per la loro presentazione, rischia di non corrispondere agli obiettivi di promuovere il merito dei proponenti e la validità dei progetti”. Lo scorso 27 dicembre il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ha pubblicato il nuovo bando per i progetti di ricerca di interesse nazionale (PRIN). Riteniamo molto positivo il fatto che uno dei primi atti del nuovo Ministro, ad appena un mese e mezzo dalla sua nomina, sia stata la pubblicazione di un provvedimento che negli anni precedenti è stato sistematicamente oggetto di incredibili ritardi (si pensi che quello appena pubblicato si riferisce al biennio 2010-2011!). Assieme al bando FIRB, pubblicato contestualmente, il nuovo PRIN costituisce un’autentica boccata d’ossigeno per il settore della ricerca scientifica, che da tempo vive in uno stato di drammatica sofferenza a causa delle scelte politiche di disinvestimento strutturale degli anni passati.
Accanto all’apprezzamento per questo positivo approccio, riteniamo che il merito del provvedimento mostri qualche profilo critico: in particolare, la decisione di introdurre, a monte della selezione nazionale, una preselezione a livello di ateneo, unitamente alla definizione di criteri quantitativi per la loro presentazione, rischia di non corrispondere agli obiettivi di promuovere il merito dei proponenti e la validità dei progetti.
Infatti, nell’attuale contesto, e con un così breve termine per la presentazione dei progetti, tali scelte possono anzitutto sembrare fondate principalmente sulla necessità di fare dei finanziamenti PRIN un’integrazione delle risorse ordinarie destinate a ciascun ateneo (obiettivo che, qualora perseguito, dovrebbe essere quantomeno affermato in modo più esplicito). Inoltre, il meccanismo individuato finirà inevitabilmente per premiare o penalizzare le idee in base non al loro valore intrinseco, bensì alla sede di appartenenza del proponente, e costituirà un forte incentivo alla formazione di cordate fittizie nelle quali chi è consapevole di avere poche chance di superare la propria preselezione locale si aggregherà in base a criteri meramente opportunistici ad altri gruppi forti negli atenei di appartenenza. Esiste effettivamente il rischio che, considerati i tempi stretti lasciati a disposizione degli atenei per organizzare la fase preselettiva, finiscano per affermarsi metodi e criteri legati più a rapporti di potere accademico locale che al reale valore scientifico, e che tutto ciò finisca per penalizzare i ricercatori più giovani e le idee più creative.
Anche con riferimento alla proiezione delle priorità di ricerca verso gli obiettivi di Horizon 2020, rivolta al condivisibile obiettivo di rafforzare la partecipazione italiana ad importanti progetti europei (che tradizionalmente vedono i nostri contributi economici superare di gran lunga i finanziamenti raccolti), crediamo sia necessario introdurre dei correttivi, così da assicurare che siano tenute nella dovuta considerazione la ricerca di base e quella in campo umanistico e sociale, come affermato di recente dallo stesso ministro Profumo.
A nostro avviso, mentre non si può che concordare con gli obiettivi enunciati dal ministro (responsabilizzare gli Atenei, favorire il gioco di squadra e “l’allenamento” per competere in Europa), le modalità individuate non consentono un loro efficace conseguimento. D’altro canto, le valutazioni della comunità scientifica e delle più diverse rappresentanze del mondo universitario e della ricerca convergono nella direzione di richiedere un significativo ripensamento del bando in questione. Si tratta di valutazioni che il Partito democratico si sente di condividere, e che ci inducono a chiedere che esse siano considerate un utile apporto in tale direzione. Siamo fiduciosi circa il fatto che il nuovo e positivo approccio mostrato dal ministro Profumo possa estendersi anche in questa capacità di dialogo e positiva cooperazione con gli attori del sistema della ricerca e in una sempre più fattiva e armonica cooperazione con le forze politiche e parlamentari.

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Cosentino. La Giunta della Camera dice sì all'arresto

Con 11 voti contro 10, la Giunta ha espresso il suo parere sul coordinatore del Pdl in Campania. Castagnetti: “Decisione presa con senso di responsabilità”. La Giunta per le Autorizzazioni a procedere della Camera ha votato a favore della richiesta di arresto per il deputato del Pdl, Nicola Cosentino, accusato dai magistrati napoletani di essere il referente politico del clan dei Casalesi.

Sono stati 11 i deputati hanno votato contro la relazione di Maurizio Paniz che proponeva il no all’arresto di Nicola Cosentino, mentre in 10 hanno votato sì. Una volta “sconfitta” la linea di Paniz, è stato nominato un nuovo relatore di maggioranza: Marilena Samperi, capogruppo del Pd in Giunta.

Il radicale Maurizio Turco ha votato insieme al Pdl contro l’arresto di Nicola Cosentino e dunque a favore della relazione di Paniz. Decisivi i voti favorevoli dei due deputati leghisti Luca Paolini e Livio Follegot.

“Sono soddisfatto perché la decisione è stata presa con senso di responsabilità e con grande serenità”. Il presidente della Giunta per le Autorizzazioni della Camera, Pierluigi Castagnetti ha commentato così la decisione finale.

“La maggioranza della Giunta – ha aggiunto Castagnetti – ha ravvisato come non ci sia stato fumus persecutionis” contro il coordinatore del Pdl in Campania.

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"I “senza speranza” in Europa sono 8 milioni: uno su tre è italiano", di Rosaria Talarico

L’esercito degli sfiduciati italiani è il più numeroso d’Europa. Nel nostro Paese il numero di «scoraggiati» (come l’Istat definisce coloro i quali non hanno un lavoro né lo cercano più) è pari alla metà europea. A dirlo è un nuovo rapporto Eurostat. Nell’ Europa a 27 ammontano a 8 milioni 250 mila coloro che non cercano un impiego, ma sono disponibili a lavorare (3,5% della forza lavoro). E l’Italia è il Paese con il più alto numero: ne conta ben 2,7 milioni (l’11,1% della forza lavoro). Vuol dire che è italiana quasi una persona su tre senza più speranza di trovare impiego. Se poi si restringe lo sguardo ai soli paesi dell’area euro, il numero di chi è disponibile a lavorare ma non cerca più è di 5,5 milioni e uno su due è italiano.
Tra i Paesi con le percentuali più alte di «senza speranza» ci sono Bulgaria (8,3%) e Lettonia (8,0%). Mentre Stati come Belgio (0,7%), Francia (1,1%) e Germania (1,3%) vantano le quote minime, che evidenziano come, nonostante la crisi, in questi Paesi il mercato del lavoro è ancora in grado di dare speranza a chi è senza occupazione. Prova a dare una spiegazione tecnica l’economista Irene Tinagli: «In molti paesi europei esistono sussidi alla disoccupazione che prevedono che si abbia un ruolo attivo nella ricerca del lavoro e obbligano ad essere iscritti nelle liste. Quindi è fisiologico che le quote siano più basse. In Italia non è così ed anche per questo abbiamo più sfiduciati e meno disoccupati, a differenza della Spagna ad esempio».
Bruno Manghi, sociologo ed ex sindacalista della Cisl, invita invece a considerare come questo sia un effetto della crisi che «morde dove c’è operosità. È scontato che la quota di scoraggiati sia a Catanzaro, meno che sia a Varese o Novara. L’aggressività della crisi si vede proprio dal fatto che tocca i posti dove un tempo le imprese si contendevano i lavoratori». Manghi invita anche a usare cautela verso «queste fotografie statistiche che sono valide in un dato momento. Quel che non sappiamo è la cronicizzazione. Se chi è scoraggiato resta in questa situazione più di un anno siamo di fronte a un problema sociale molto grave, se invece c’è una rotazione è diverso. Quel che conta nella disoccupazione è la lunga durata». Per Manghi, però, «la condizione materiale tra noi e l’Europa non è così dissimile. In paesi virtuosi come la Germania c’è un numero straordinario di part-time a basso reddito (400 euro al mese) che fa emergere una quota che da noi va invece verso il sommerso. È quella la differenza sostanziale, l’arrangiarsi non regolare». Sulla stessa linea l’economista Stefano Zamagni: «L’economia sommersa in Italia vale 270 miliardi l’anno, una cifra enorme. Oltre questo problema, bisogna pensare a cambiare il modello di organizzazione delle imprese. Il taylorismo è finito. Oggi non basta più un capo che pensa, ma devono farlo tutti. E ciò è possibile solo se i lavoratori sono trattati come persone e non come merci. Bisogna recuperare la lezione dell’economista inglese Alfred Marshall: «L’impresa deve essere un luogo di formazione del carattere umano».
Per quanto riguarda gli scoraggiati la spiegazione di Zamagni è da economista puro: «Cercare lavoro comporta delle spese, il cosiddetto costo di transazione, che razionalmente si decide di non sostenere più nel momento in cui la probabilità di avere un lavoro è molto bassa».

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La differenza col nostro paese è data anche dai sussidi a chi si iscrive nelle liste di disoccupati
11,3%” Solo in Italia La percentuale degli italiani che hanno rinunciato a trovarlo
2,7 Milioni di rassegnati Il totale delle persone che in Italia hanno perso la speranza di lavorare
“1,3% Così in Germania Nel paese più virtuoso solo l’1,3 per cento ha smesso di cercare lavoro
3,5% La media nella Ue a 27 La percentuale rispetto al totale della forza lavoro in Europa”
1,1% Gli arresi in Francia Buon risultato anche per la Francia dove solo l’1,1% non lo cerca più
8,3% La percentuale della Bulgaria Coloro che hanno rinunciato a cercare lavoro,meno che in Italia
In Germania è molto alto il part-time che da noi si traduce spesso in lavoro sommerso

La Stampa 10.01.12