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"Quei politici a loro insaputa", di Francesco Merlo

La divinità acceca chi vuol mandare in rovina: a questo fa pensare l´ostinazione con cui i partiti resistono alla riduzione di privilegi e costi della politica che confliggono in modo aperto con la sensibilità del Paese. E invece Fabio Fazio, tra mille comode domande non si è ricordato (oops) di Carlo Malinconico Castrota Scandeberg. Ora dicono che Monti abbia finalmente avviato la procedura di dimissioni del suo nobilissimo sottosegretario all´Editoria ma già questa è un´idea barocca, un espediente doroteo per prendere tempo. Pare che lo abbia convocato stamani, ma avrebbe dovuto mandarlo via subito, ed è una brutta pagina quella intervista celebrativa di ben 40 minuti senza la domanda che qualunque italiano avrebbe fatto: «Cosa aspetta a far dimettere questo sottosegretario che, come nei film di Totò sull´aristocrazia, scroccava il conto dell´albergo sulle amate sponde dell´Argentario, 16mila euro per una settimana, proprio alla famigerata cricca di Stato sui cui appalti esercitava allora potere e parola»?
Farlo dimettere prima che glielo chiedesse l´Italia, di sinistra e di destra, sarebbe stata una prova di eleganza. Meglio: non chiamarlo al governo sarebbe stata una certezza di serietà, tanto più che Malinconico, ex segretario generale della presidenza del Consiglio, ex presidente degli Editori, interrogato dai magistrati si era persino, come Scajola, fatto grullo per farci tutti fessi. Anche lui «non sapeva» che il conto gli era stato offerto. E quando l´ha “scoperto” si è (ohibò) indignato: «Allora ho deciso che non avrei più messo piede in quell´albergo!». Già, cos´altro poteva fare questa ennesima povera vittima della solita ferocissima banda dei saldatori di conti altrui?
A pagare i 16mila euro fu, nientemeno, Francesco Maria de Vito Piscicelli, esponente di un´altra “cavalierissima” famiglia caduta da cavallo. Il conte Ciccio Piscicelli è quello che la notte del 6 aprile 2009 rise beato alla notizia del terremoto dell´Aquila pregustando grandi affari sulla carne dei morti. Più recentemente portò mammà la contessa al ristorante in elicottero sulla spiaggia dell´Argentario (rieccolo), che è un altro luogo eletto dell´Italia all´arraffo, quella dei magici appuntamenti al tramonto, relax e aperitivi all´hotel Pellicano: «Mi raccomando, non è che si distraggono e gli fanno pagare il conto?» chiede allarmato Anemone a Piscicelli. E nel linguaggio “ahum ahum” della cricca, Malinconico diventa “M”, ma è una “eemmee” masticata e mimetica che all´orecchio sospettoso del maresciallo suona invece chiara e rivelatrice. Insomma ottiene, nell´intercettazione, l´effetto contrario: «Va fatta una reservazione… per quel signor Carlo…, con la “M” il cognome, no?». Malinconico, appunto.
«Il signor Carlo M» in un primo momento aveva dichiarato di avere pagato: «Sono stato presentato all´hotel “Il Pellicano” dall´ingegner Balducci che ricopriva carica istituzionale (presidente del Consiglio dei lavori pubblici, ndr). Non conosco invece l´imprenditore Anemone. Ricordo comunque di avere pagato per i miei soggiorni a “Il Pellicano”, pagamenti di cui sono in grado di recuperare le ricevute fiscali». Ma poi con i giudici preferì sfidare l´irrisione e ricorrere al candore pur sapendo bene che i verbali non sono sketch della commedia all´italiana. E va bene che Malinconico è un fine giurista, tecnico del diritto e multiprofessore, ma l´astuzia minchioneggiante come linea di difesa è la stessa adottata da Scajola, beneficiato a sua insaputa.
C´è anche la registrazione di una telefonata di Carlo M. a Balducci: «Pronto». E Balducci con tono accogliente e festoso: «Professore». «Ti chiamavo innanzitutto per il piacere di sentirti e per ringraziarti». «Che, scherzi?». «Perché poi Lillo oggi mi ha detto che… Insomma ti aveva… E tu avevi poi dato… Tutto a posto». «Ci mancherebbe». «Grazie veramente, benissimo». «Ottimo il tutto».
Di che parlano? Boh.
Sono telefonate di reticenza e di intesa, il galateo applicato al sotterfugio, l´inciucio educato: c´è un evidente sforzo di non dire quello che stanno dicendo. Fossero scritti, sarebbero pizzini con gli svolazzi. Anzi, visti i quattro quarti di nobiltà, pizzini in carta filigranata con lo stemma e con le cifre, come le mutande di Italo Bocchino all´Argentario.
E forse non parlano del soggiorno del signor Carlo M all´hotel Pellicano, forse Malinconico gli è grato per qualcos´altro. Sicuramente, visto il ruolo che ricopriva, era in conflitto di interessi. E quei 16mila euro, al di là dell´aspetto penale, sono un peccato mortale di stile e di decenza e dunque un campanello, un´orma da seguire con attenzione nella lunga carriera di un potente appartato , un potente “vero” verrebbe da dire, carriera di avvocato dello Stato, autore ricercatissimo di arbitrati borderline e geniali assistenze vincenti come quella che ha permesso all´altro sottosegretario, il suo amico Patroni Griffi (ancora un titolato) di comprare casa al Colosseo a un prezzo di evidente e dunque sospettabile favore. Certo, questa antropologia non esibisce la sgargiante spavalderia dei semivip e dei vip dei Parioli a Cortina. Malinconico è stato per tutta la sua vita professionale un tecnico dell´amministrazione, un professore e un magistrato. Ha esercitato il potere dentro i ministeri e la presidenza del Consiglio in ruoli vitali ma riposti, come richiederebbe la sua stessa antica nobiltà, discendente dagli eroi albanesi.
Non ti aspetti dunque che nell´educazione più raffinata ci sia la stessa Italia all´arraffo che stava dietro gli sguaiati arroganti e i furbetti, a riprova che lo stile sobrio – e lo dico per mettere in guardia me stesso innanzitutto – non è di per sé sinonimo di moralità. Gli annali della polizia sono pieni di delitti eleganti.
Ecco perché Fazio avrebbe dovuto fare la domanda sulle dimissioni necessarie di Malinconico e Monti avrebbe dovuto ammettere l´errore, la leggerezza, la macchia nell´immacolata fedina del governo che pretende di restaurare anche l´etica e il gusto nazionali, vuole aggiustare l´Italia e gli italiani. E meglio ancora bisognava chiedere a Monti come mai non si era accorto di nulla, come mai nessuno gli aveva detto quel che era stato pubblicato dai giornali, e primo fra tutti da Repubblica già nel 2010. Ma forse è adesso che Monti sta leggendo i giornali italiani, e meno male, visto che appena insediato dichiarò di leggere solo quelli stranieri. Ora forse si è abituato e dunque ha capito che la richiesta di dimissioni non è legittimata solo dalla convenienza politica di parte, che comunque è lecita. Forse c´è qualcuno, a destra o all´estrema sinistra, che specula e legittimamente strumentalizza l´idea, purtroppo per tutti noi convincente e vincente, che la colpa in politica è sempre del padrone e mai del cameriere. Ma Monti non può sottrarsi a questa logica della politica proprio ora che con la politica ha cominciato a sporcarsi, “parcondicionandosi” per esempio da Vespa a Fazio, e speriamo che il prossimo non sia “Cortinaincontra”.
Tanto più che Malinconico è stato anche presidente della Fieg che è un sindacato padronale, una corporazione, come quella dei tassisti o dei notai, e nel governo che ha dichiarato guerra alle corporazioni è in pieno conflitto di interessi. È infatti il sottosegretario all´Editoria, vale a dire l´erogatore di sovvenzioni ai giornali. Ed è sottosegretario proprio di Monti, uomo di fiducia del capo del governo.
Monti si liberi stamani stesso, di buon mattino, dell´uomo che più degli altri sottosegretari e più ancora di un ministro ha il diritto di decifrane il codice e il dovere istituzionale di rappresentarlo sempre e dovunque si trovi, anche all´hotel Pellicano all´Argentario, sul dolce e nobile declivio dell´Italia all´arraffo.

La Repubblica 10.01.12

"Lavoro, ci sarà un tavolo unico", di Massimo Franchi

Un pomeriggio passato più ad ascoltare che a proporre. Sondando gli umori e le idee di Cisl e Uil. Senza scoprire le carte. Senza sposare tesi, senza nominare né Ichino, né Boeri, tanto meno contratti unici o prevalenti. Sulla riforma del mercato del lavoro Elsa Fornero procede con molta cautela e rimanda le proposte all’incontro con tutte le parti sociali della prossima settimana. Il tavolo formale dunque ci sarà. E sarà quello decisivo. Anche perché nessun piano del governo è definito, le (troppe) indiscrezioni sono solo ipotesi tecniche. L’unica certezza è questa: l’articolo 18 non sarà sul tavolo della trattativa. Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti escono dal ministero del Lavoro di via Veneto soddisfatti e rassicurati. Sia sul piano del metodo che del merito. E si impegnano entrambi ad incontrare «al più presto Susanna Camusso per mettere a punto una strategia comune». Una strategia che punta sulla riduzione del numero dei contratti e sarà imperniata più sull’incentivazione di ciò che già esiste (contratto di apprendistato) rispetto a nuovi strumenti. Il primo ad incontrare la ministra del Lavoro nel palazzo che Sacconi ha intitolato a Marco Biagi è il segretario generale della Cisl Raffaele Bonanni. Più di due ore di colloquio in cui ha parlato soprattutto lui. Bonanni ha suggerito di puntare a strumenti che non stravolgano il quadro esistente, diversamente la riforma del mercato del lavoro partirebbe in salita. In questo quadro il segretario della Cisl ha proposto di ripartire dall’apprendistato riformato lo scorso luglio con la firma unitaria di tutti i sindacati, compresa la Cgil:un contratto dimassimo3 anni con formazione certificata dei giovani lavoratori. A fianco all’apprendistato, la Cisl spinge per allargare i contratti di inserimento con ulteriori incentivi fiscali. Sul tema degli ammortizzatori sociali invece Bonanni ha proposto di rendere più cogente il legame fra cassa integrazione e formazione: chi la rifiuta perde l’assegno. L’altro tema sottolineato da tutti i sindacati è quello dei lavoratori in mobilità che dopo l’allungamento dell’età pensionabile sono ancora più a rischio. Su questo fronte il segretario generale della Cisl pensa ad una soluzione che prevede contratti part-time con contributi figurativi per donne e ultracinquantenni con l’idea di ridurre l’orario per aumentare l’occupazione. CGIL, CISL E UIL: INCONTRO A BREVE All’uscita Bonanni si è mostrato soddisfatto: «Non abbiamo parlato di nulla in particolare. Comunque di nulla che porta a divisioni e di nessuna cosa che porta “targhe” riconducibili a singoli. Si è parlato di strumenti che già esistono che magari devono essere rafforzati e che in passato grazie alle relazioni sindacali hanno trovato l’accordo di tutti». Bonanni ha poi aggiunto, riferendosi all’articolo 18, come «in questa fase occorra camminare su terreni già sperimentati. Cercare cose che dividono non serve né a noi né al governo ». L’unità sindacale per Bonanni è tornato ad essere un valore imprescindibile tanto da annunciare: «Chiederò a Camusso e Angeletti di vederci al più presto, per fare il punto in vista di un incontro sul lavoro ma anche su ciò che chiediamo, ovvero, un patto globale». In serata poi ha confermato che la ministra Fornero è «disponibile, appena termina le consultazioni, ad un incontro con tutti i soggetti più importanti del lavoro per tentare di dare una direzione ai problemi del lavoro italiano ».È stato poi il turno di Luigi Angeletti. Anche per lui quasi due ore di colloquio con la ministra con un canovaccio sulla falsariga di chi lo ha preceduto. «È stato un incontro positivo, il ministro ha ascoltato le nostre opinioni per rendere migliore il mercato del lavoro e ridurre il livello di precarietà. Abbiamo cercato di spiegare le ragioni per le quali non vediamo la necessità di intervenire sull’articolo 18», ha chiarito il leader della Uil. Intanto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Antonio Catricalà ha annunciato che il governo interverrà sulle liberalizzazioni con un decreto legge e il provvedimento verrà varato entro il 20 di gennaio. Un provvedimento che riguarderà «tutti i settori», anche l’acqua, nonostante il referendum, ma dal quale sarà esclusa la controversa separazione di Snam dall’Eni.Un primo giro di tavolo sulle misure in cantiere potrebbe avvenire già nel prossimo Consiglio dei ministri che potrebbe essere convocato per il fine settimana. ❖

L’Unità 10.01.12

"La risorsa straniera", di Tito Boeri

A quanto pare la riforma dell´immigrazione non farà parte della fase 2 del governo. Eppure sarebbe una riforma in grado di aumentare il potenziale di crescita della nostra economia e capace di tagliare sprechi di denaro pubblico. Il momento politico, con la Lega all´opposizione, sembra propizio per interventi mirati, pragmatici, che taglino molta burocrazia inutile migliorando l´utilizzo di capitale umano già presente nel nostro Paese. e attraendo cervelli e manodopera qualificata. Il fatto stesso di trattare di immigrazione nell´ambito di un pacchetto per la crescita segnerebbe una svolta importante per il Paese. Sarebbe il segnale di un cambiamento di prospettiva, un rovesciamento dell´atteggiamento politico e culturale sin qui prevalente, che ha visto nell´immigrazione solo gli sbarchi di clandestini a Lampedusa e i danni legati alla criminalità. L´immigrazione, se ben gestita, può aiutarci a tornare a crescere e contribuire a farci superare la crisi del debito.
Il governo Monti si è sin qui occupato di immigrazione solo con riferimento alla tassa introdotta nell´ottobre scorso da Tremonti a carico degli immigrati che chiedono il rinnovo del loro permesso di soggiorno. Si tratta di un contributo elevato in rapporto a quanto richiesto in altri Paesi per pratiche di questo tipo, che si aggiunge ai costi già sostenuti dagli immigrati per ottenere il permesso in formato elettronico, all´imposta di bollo e a quanto versato a Poste italiane per inoltrare la richiesta. In totale si arriva a 272 euro nel caso dei permessi per i soggiornanti di lungo periodo, quando il reddito medio mensile degli immigrati in attesa di regolarizzare il permesso di soggiorno e che trovano lavoro in Italia è di circa 700 euro. Hanno fatto bene perciò i ministri Cancellieri e Riccardi a rivedere la norma, introducendo una serie di esenzioni per gli immigrati con basso reddito.
È giusto chiedere agli immigrati di contribuire ai costi amministrativi legati alla regolarizzazione della loro posizione e a un percorso di formazione e integrazione che li porti all´acquisizione della cittadinanza italiana. Ma la norma prevede che solo il 15 per cento delle somme riscosse col contributo sia destinata a coprire le spese amministrative per il rinnovo del permesso. Tutto il resto del gettito serve a finanziare (per il 50%) le spese di espulsione degli immigrati irregolari, le spese per la sicurezza e l´ordine pubblico (20%) e gli esami che serviranno per decidere sulla revoca del permesso di soggiorno e l´espulsione dello straniero nell´ambito del cosiddetto “accordo di integrazione” (15%). In altre parole, la legge chiede all´immigrato che vuole regolarizzare la propria posizione di coprire i costi legati a norme volte solo a rendere più difficile la permanenza degli immigrati nel nostro Paese.
Il nostro Paese sta già chiedendo un contributo fiscale molto rilevante agli immigrati, anche senza contare questo ennesimo balzello lasciatoci in eredità da Giulio Tremonti. La pressione fiscale ha da noi raggiunto quasi il 50 per cento, portando via metà del reddito generato da tutti coloro che operano in Italia, immigrati compresi. Potrebbero decidere di andare a lavorare altrove, privando di assistenza molti anziani non più autosufficienti e impedendo così ai loro famigliari di lavorare. Dovremmo, a fronte di tutto questo, impegnarci a favorire la progressione sociale e professionale degli immigrati che vogliono lavorare legalmente da noi. Non è solo una questione di equità. Ci servirà per tornare a crescere, utilizzando meglio il capitale umano che è già da noi e incentivando l´arrivo di immigrazione più qualificata.
Oggi questa progressione è bloccata dagli ostacoli imposti dalla legge Bossi-Fini all´immigrato che vuole cambiare lavoro per aumentare il proprio reddito, dalla difficoltà di ottenere il riconoscimento dei titoli di studio e dei titoli professionali acquisiti all´estero e dall´impossibilità di accedere ai concorsi pubblici. Sono tutte norme che servono unicamente a proteggere i lavoratori italiani maggiormente istruiti dalla concorrenza degli immigrati. Queste norme impediscono, ad esempio, ai medici che vengono dall´estero di operare nel nostro Paese, nonostante l´invecchiamento della popolazione ci ponga di fronte a una crescente carenza di personale medico in molte specialità. Impediscono la progressione anche degli immigrati di seconda generazione, quelli su cui tipicamente si cementa l´integrazione delle minoranze nei Paesi di accoglienza.
Per incentivare i figli degli immigrati a integrarsi e a investire in istruzione, bisognerebbe invece premiarli concedendo loro il permesso di soggiorno di lungo periodo o addirittura la cittadinanza in caso di merito scolastico. Per attrarre talenti da noi bisognerebbe garantire a chi si iscrive a un dottorato in Italia di avere un visto per tutta la durata del proprio corso di studi invece di dover passare lunghe giornate in questura per farsi rinnovare un visto che spesso arriva quando è già scaduto. E poi, al termine del percorso di studio, bisognerebbe offrire agli stranieri che hanno avuto il dottorato in Italia un permesso di soggiorno che permetta loro di cercare (o di crearsi) un lavoro all´altezza delle proprie competenze. Il principio deve essere quello di coinvolgere le scuole e le università nella valutazione e nella selezione degli immigrati. Hanno tutti gli incentivi a scegliere bene i propri studenti. E sono in grado di compiere queste valutazioni molto meglio della burocrazia creata dalla Lega per i continui rinnovi dei permessi di soggiorno, per fornire corsi di educazione civica (di un giorno!) agli immigrati e per valutarne i progressi nell´apprendere la lingua e la cultura italiana.

La Repubblica 10.01.12

"Buon anno nuovo", di Marina Boscaino

È stato un anno strano questo appena passato. Denso di avvenimenti, caratterizzato da stati d’animo molto differenti. Con un epilogo che lascia in bocca un sapore amaro: quel «sacrifici» che ha fatto piangere il ministro Fornero si traduce immediatamente in un annuncio di precarietà, di minore benessere per tanti, di malessere incipiente per moltissimi, i più deboli. Fiaccati già da 3 anni di crisi alle spalle. La scuola è passata attraverso la verifica dei danni della “riforma” delle superiori, con il suo carico di incompiutezza e di pseudo-pedagogia subordinata alla logica del taglio: senza criterio, senza progetto, con l’unico obbligo di fare cassa, il più possibile. Il Consiglio di Stato ha dato ragione al Tar del Lazio, che aveva dichiarato illegittime le circolari sugli organici (e dunque i tagli di docenti, personale tecnico e amministrativo) per l’anno scolastico 2010-11. Ma nulla è cambiato. E l’incertezza dei diritti (di lavoratori e studenti) ha continuato a farla da padrone.
Ha continuato ad allargarsi il divario tra scuola del Nord e scuola del Sud. I test Invalsi sono stati sostanzialmente rifiutati dalla scuola secondaria, perché surrettiziamente imposti e non frutto di una comune e ragionata riflessione; soprattutto, perché la logica implicita è sembrata quella di valutare – insieme agli apprendimenti degli studenti – l’operato dei docenti, senza criteri condivisi e trasparenti.
L’ex premier, alla sua maniera, ha dimostrato la consueta considerazione per gli insegnanti: comunisti e manipolatori di coscienze. I suoi sodali (si pensi, per tutti, al Brunetta esegeta e volgarizzatore della poetica del “fannullonismo”) non sono stati da meno. Le scuole non sono state rese né più sicure, né più accoglienti. Si è dato avvio al famigerato concorso per la dirigenza scolastica, che tante polemiche ha scatenato, grazie al dilettantismo con cui il Formez (recidivo, nel concorso per l’insegnamento all’estero) lo ha gestito.
Oggi il nuovo ministro ci sta proponendo nuovi concorsi, cultura della valutazione, incremento delle strutture tecnologiche e degli studi scientifici e matematici. Per il momento stiamo ad aspettare. Soprattutto le garanzie di fondi disponibili per la sicurezza degli edifici.
Passeggiando per Torino in via Montebello, nei pressi dell’università, è possibile leggere su un muro: «Ma quale Gelmini! La scuola è una merda». Si tratta, dunque, di un triste messaggio bipartisan, al quale occorre forse prestare una certa attenzione. È davvero così? Il sospetto è che in alcuni casi lo sia. L’augurio (e il sogno) per il 2012 è tentare di lasciarci alle spalle le recriminazioni su un passato che ormai è scaduto definitivamente. E cercare di costruire un patto per il futuro, le condizioni per cui la percezione dei nostri studenti sia differente. Il proposito è quello di poter andare serenamente e pubblicamente a cancellare quella scritta.

Treni Carpi, Ghizzoni: “Non è un servizio da paese civile”

Oggi soppressi 4 convogli: “Così non si può andare avanti: occorrono soluzioni radicali”. Ennesima mattinata infernale per i pendolari carpigiani ancora una volta alle prese con pesanti disservizi sulla linea ferroviaria Carpi-Modena. Ecco il commento della deputata del Pd Manuela Ghizzoni: «Così non si può andare avanti, tutto ciò ha superato da tempo la soglia della tollerabilità. Nei giorni scorsi si era paventato il rischio dell’annullamento della validità dell’abbonamento integrato gomma-rotaia. Dopo che è stata scongiurata l’interruzione dell’integrazione tariffaria Atcm –Trenitalia, grazie all’intervento congiunto e tempestivo delle autorità locali e della Regione Emilia-Romagna, con la conferma della validità degli abbonamenti del mese di gennaio, sarà ora necessario continuare a vigilare perché anche gli abbonamenti che scadono dopo gennaio non perdano di validità. Adesso ci ritroviamo alla ripresa delle attività lavorative e scolastiche con i problemi e i disservizi di sempre non più sopportabili. Questa mattina i vari pendolari raccontavano di treni abbandonati senza che fosse possibile sapere cosa stesse succedendo e che ritardi ci sarebbero stati. Questo non è un servizio adeguato a un paese civile. E’ pertanto necessario attuare radicali scelte organizzative, non più procrastinabili, come ad esempio la cosiddetta “rottura di carico” a Mantova per cadenzare un servizio più sicuro e più vicino alle esigenze degli utenti»

"La Tobin Tax è possibile", di Nicola Cacace

La crescita del peso della finanza nell´economia mondiale è di dimensioni clamorose. Venti anni fa esso era pari all´economia reale, oggi è stimato da sei a otto volte il Pil mondiale che è di 85 trilioni di dollari. Questo aumento anomalo, favorito dalle politiche di deregulation di Reagan e Thatcher, si è diffuso in tutto il mondo. I derivati – chiamati così perché il loro valore deriva da grandezze di vario tipo, come tassi di interesse, tassi di cambio, valori monetari, etc. sono stati tra i fattori principali della crisi finanziaria del 2008, che ha poi innescato la più grave crisi economica occidentale dal 1929. Tutti oggi invocano una regolamentazione internazionale delle attività finanziarie, ma tutti sanno che l´obiettivo è difficile, visto che neanche nell´Unione europea una governance più politica a difesa dell´euro è facile da realizzare.

Per porre un freno ai danni che questa finanza sregolata produce sull´economia reale, l´americano Tobin, premio Nobel per l´economia nel 1981, propose una tassa sulle transazioni finanziarie, per colpire le speculazioni di Borsa.

La proposta, lodata da molti, appoggiata dalla sinistra politica e liberal europea, sinora non ha trovato alcuna applicazione concreta, con la motivazione principale che una proposta del genere deve avere una applicazione mondiale, per evitare la fuga delle transazioni finanziarie verso i Paesi “tax free”. È la stessa motivazione di rifiuto manifestata ancora ieri dal capo del governo britannico David Cameron, davanti alle proposte sempre più pressanti da parte di Commissione europea, Parlamento europeo, Francia e partiti socialisti e liberali, di introdurre una “piccola” tassa – si parla di millesimi di euro – che avrebbe almeno due risultati positivi, reperire alcune decine di miliardi di euro e porre un freno alle speculazioni finanziarie, come quelle che in questi giorni stanno affossando l´euro.

Oggi sulla Tobin tax in Europa c´è un´ampia convergenza politica, anche il governo Monti si è detto favorevole, a differenza del precedente governo Berlusconi.

La motivazione “o tutti o nessuno” è semplicemente ridicola. La storia del progresso mondiale è stata fatta sempre dai movimenti d´avanguardia.

Se avessimo aspettato accordi mondiali saremmo ancora al lavoro degli schiavi, alla giornata lavorativa di 14 ore, a nessun diritto di maternità, ferie e pensioni. Sarebbe bene ricordare a Cameron che se il Parlamento dove egli siede, non avesse per primo al mondo vietato il lavoro dei minori nelle miniere, questa forma di sfruttamento, purtroppo ancora presente in molti paesi, sarebbe tuttora una pratica lecita. Lo stesso vale per la Tobin tax, tutti dicono che la misura è necessaria e utile, aspettare una sua introduzione interamente mondiale, world wide , equivale a bocciarla.

L’Unità 09.01.12

"Donne e giovani, nuove idee sul lavoro", di Rita Querzè

Il peggio del peggio? Essere donna, ventenne e abitare al Sud. Trovare lavoro in queste condizioni è un’impresa da far tremare i polsi. Perché nel Mezzogiorno, dove la disoccupazione giovanile era a due cifre già prima della crisi, oggi gli under 30 si trovano a spasso nelle piazze, non certo in fabbriche e uffici. Se poi sei una donna, c’è anche la penalizzazione dovuta al «magari prima o poi resterà incinta». E allora la via d’uscita non è nemmeno più il contratto a termine. C’è il nero, se va bene.
Certo, le proposte per dare una sterzata al mercato del lavoro e rimetterlo sulla carreggiata giusta ci sono. Anche se molto diverse tra loro. E dagli effetti difficili da prevedere in un contesto in velocissima evoluzione.

Novembre da dimenticare
Ma consideriamo prima la situazione con cui abbiamo a che fare. Prendiamo i giovani, e in particolare i ragazzi tra i 15 e i 24 anni: il 30,1 per cento è disoccupato. Un dato che in valore assoluto è un’enormità da qualunque parte lo si prenda. Primo punto di vista: il confronto con la disoccupazione media degli italiani. Qui siamo a quota 8,6 per cento. Quella giovanile è quasi quattro volte tanto. La strada del paragone internazionale non aiuta. Perché si scopre che pochissimi stanno peggio di noi se si fa eccezione per, nell’ordine, Irlanda, Grecia a Spagna (le ultime due con tassi di disoccupazione under 25 che superano il 40 per cento).
Gli ultimi dati Istat relativi al mese di novembre hanno registrato un ulteriore peggioramento dell’occupazione giovanile 15-24 anni. Più 0,9 per cento rispetto a ottobre, più 1,8 per cento se il parametro è il novembre di un anno fa. Piove sul bagnato.
Anche quando si parla di lavoro al femminile il rischio piagnisteo è dietro l’angolo. Con un’attenuante. Nella fase iniziale della crisi le donne non se la sono cavata così male. Anzi, a perdere posti sembravano soprattutto gli uomini, in particolare i cinquantenni, mentre le signore mantenevano le posizioni. Ora la diga rosa non tiene più e anche le italiane fanno i conti con il double dip, la doppia recessione. A novembre la disoccupazione femminile ha raggiunto quota 9,9 per cento (contro il 7,6 per cento di quella maschile). Le italiane senza lavoro sono aumentate dello 0,5 per cento rispetto a un anno fa.

Dell’Aringa: «Servizi più efficaci»
«Noi economisti di solito sosteniamo che ritardando la pensione per le fasce d’età più alte, come è avvenuto negli ultimi anni, aumentano le opportunità di lavoro complessive e quindi i giovani non vengono penalizzati. Bene: questa volta le cose stanno andando diversamente», ammette Carlo Dell’Aringa, docente di Economia politica alla Cattolica di Milano (a novembre a un passo dal diventare ministro del Lavoro per il governo Monti). In altre parole: la coperta è corta. Se la si sposta sugli ultracinquantenni, i giovani e le donne restano scoperti con più facilità.
È il caso allora di proporre (sempre che esistano le risorse) incentivi fiscali per chi assume rosa o under 30? «Non direi — risponde il professore —. Presto ci sarà una nuova categoria in difficoltà. Quella dei cinquanta-sessantenni che restano senza lavoro. I nodi di molte crisi iniziate due, tre anni fa stanno arrivando al pettine. Non vorrei che le categorie da agevolare fiscalmente diventassero troppe. Meglio sarebbe puntare su servizi per il lavoro più efficaci in modo da far coincidere meglio domanda e offerta e sfruttare ogni minima opportunità che si crea sul mercato del lavoro. Inoltre si potrebbero creare unità territoriali per affrontare le crisi aziendali più pesanti. Coinvolgendo tutti gli attori locali, dal mondo del credito al sistema delle Camere di commercio».
Tiraboschi: «Nuovo apprendistato»
«Non vorrei che i giovani e le donne diventassero la scusa per passare un colpo di spugna sul nostro diritto del lavoro», si inserisce nel discorso Michele Tiraboschi, direttore del centro Marco Biagi e, fino a pochi mesi fa, collaboratore dell’ex ministro del Welfare, Maurizio Sacconi. Che fa, strizza l’occhio ai difensori dell’articolo 18? «No — risponde il professore —, solo la soluzione per i problemi di giovani e donne ce l’abbiamo già in tasca. Si chiama apprendistato così come è stato riformato a settembre. Nei Paesi europei che hanno puntato su questo contratto la disoccupazione giovanile è sotto controllo».
Il nuovo apprendistato, però, entrerà in vigore solo il prossimo 25 aprile. «Ecco, questo mi preoccupa — riflette Tiraboschi —. Perché la riforma non resti sulla carta servono regolamenti e intese applicative con le parti sociali». Come dire, il nuovo governo non spazzi via quanto fatto dal precedente. E le donne? «Non credo che gli sgravi fiscali per chi assume rosa servano a qualcosa. Meglio piuttosto incentivare la contrattazione collettiva ad adottare misure che favoriscano la conciliazione».
Garibaldi: «Salario minimo»
Tra gli economisti più in sintonia con il centrosinistra, Tito Boeri e Pietro Garibaldi che, con il senatore Pd Paolo Nerozzi, hanno proposto il Contratto unico di inserimento. «Il Cui sarebbe un aiuto importante — va al punto Garibaldi —. Si semplificherebbe la giungla di formule con cui abbiamo a che fare. E poi si favorirebbe, dopo tre anni, la stabilizzazione di molti giovani e donne. Secondo Garibaldi, però, non è solo un problema di formule contrattuali. «È anche necessario definire un salario minimo. E per le donne proponiamo un costo fiscale di vantaggio. In sostanza, le detrazioni fiscali per il coniuge a carico andrebbero girate alle imprese che assumono quello dei due (quasi sempre la moglie) che non lavora».

Il Corriere della Sera 09.01.12