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"Pd, sì al contratto prevalente. Ma non si tocca l’articolo 18", di Simone Collini

Disboscare la giungla di tipologie contrattuali oggi esistenti dando vita a un contratto d’inserimento che può durare da un minimo di sei mesi a un massimo di tre anni, senza toccare l’articolo 18. È con questa proposta che il Pd andrà al confronto con il governo, quando la discussione sulla riforma del mercato del lavoro entrerà nel vivo. Pier Luigi Bersani segue con attenzione la partita che si è aperta tra ministero del Welfare e parti sociali. Il leader dei Democratici evita di commentare le indiscrezioni giornalistiche su ipotesi governative di riforma che nascono e muoiono nell’arco di ventiquattr’ore e ha chiesto ai dirigenti del suo partito di fare altrettanto. Però ha pianificato una road map ben precisa per rendere chiaro qual è “la” posizione del Pd, che a tempo debito verrà sostenuta in Parlamento. Il primo passo è la convocazione del Forum lavoro, che giovedì si riunisce nella sala Berlinguer di Montecitorio. Il secondo è l’Assemblea nazionale del 20 e 21, che discuterà di mercato del lavoro e non solo, e che si chiuderà con un voto teso a precisare una volta per tutte qual è la linea del Pd: intoccabilità dell’articolo 18 e possibilità di inserire un contratto prevalente d’ingresso, no al modello flexsecurity.
LA POSIZIONE DEL PD
Di fatto, come spiega il responsabile Lavoro del partito Stefano Fassina, «non c’è niente da decidere, visto che il Pd una posizione chiara già l’ha presa all’Assemblea nazionale di Roma del maggio 2010 e poi alla Conferenza sul lavoro di Genova del giugno 2011». In entrambi gli appuntamenti sono approvati dei documenti favorevoli a riunificare il mercato del lavoro oggi diversificato in una miriade di tipologie contrattuali (un recente studio della Cgil ha individuate 46 differenti modalità di assunzione) con un contratto di apprendistato sostanzialmente unico «a garanzie crescenti» e una riduzione degli oneri contributivi per le imprese che stabilizzano.
Si tratta di un’impostazione contenuta in diverse proposte di legge presentate dal Pd, in quella depositata un anno e mezzo fa al Senato a prima firma Paolo Nerozzi (ricalca la riforma ipotizzata dagli economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi ed è sostenuta anche da Franco Marini, oltre che da esponenti di tutte le anime del Pd) e in quelle presentate alla Camera a prima firma Cesare Damiano e Marianna Madia. In esse viene previsto un contratto d’inserimento tendenzialmente unico (sarebbero esclusi settori specifici che hanno reali esigenze di flessibilità come turismo e dell’agricoltura) che può durare da un minimo di sei mesi a un massimo di tre anni. Durante tale periodo, come hanno spiegato nei giorni scorsi su “l’Unità” Damiano e Tiziano Treu, il lavoratore sarebbe licenziabile «ma al termine della prova va agevolata l’assunzione a tempo indeterminato, compresa la tutela dell’articolo 18».
Ichino, che pure ha firmato la proposta di legge Nerozzi e oggi rivela che diede «anche un contributo forse non secondario alla sua stesura tecnica», vede però in questo progetto «due difetti» (riguardanti la soglia dei tre anni e gli ammortizzatori sociali) risolti, scrive su “Europa”, dal suo progetto di flexsecurity. Nella proposta del senatore Pd il quale ora dice che se la soluzione da lui proposta si rivelasse «non politicamente praticabile» sarebbe «un ottimo compromesso» il progetto Boeri-Garibaldi se accompagnato dalla «sperimentazione» della flexsecurity sulla base di accordi aziendali, regionali o provinciali c’è un contratto unico per i neoassunti e un parziale superamento dell’articolo 18 (tra le giuste cause per i licenziamenti rientrerebbero i motivi economici, tecnici ed organizzativi). Il modello riceve consensi nella minoranza del Pd (dai Modem Morando e Tonini a Marino), ma è duramente contrastata dalla segreteria e dalla stragrande maggioranza del partito. Come Bersani vuol far emergere dai prossimi appuntamenti in cui si discuterà la questione.

L’Unità 07.01.12

"Grillo come Berlusconi", di Michele Prospero

Che agiti i muscoli o eserciti la fantasia, contro le irruzioni dell’agenzia delle entrate si ritrovano unti tutti i populismi d’Italia. Berlusconi, che ha portato lo stile del comico nella politica, e Grillo, che immerge la politica nello spartito del comico, se la prendono con uno Stato di polizia fiscale che avrebbe mostrato il suo gelido volto ai poveri ricchi convenuti tra le nevi di Cortina. La questione del fisco è però seria, persino urticante per un Paese come l’Italia. Anche la nuova destra americana, quella più aggressiva del Tea Party, smuovecon spregiudicatezza il tema della rivolta contro il fisco, lo fa per osteggiare ogni residuale idea di grande politica. Ma in America non si rintracciano quelle odiose pratiche occulte o palesi che rimpinguano l’economia sommersa, nera, illegale. In Italia la guerra al fisco è ben altra cosa. Quando era a Palazzo Chigi, Berlusconi fece scrivere in Gazzetta Ufficiale un bizzarro manifesto ideologico nel quale l’avversione istintuale verso il fisco veniva ricondotta ad un naturale impulso umano che in nome della libertà si ribellava al prelievo effettuato ai danni delle sacre fonti del guadagno privato.
E quante buone maniere sono state utilizzate in questi anni a favore delle gelose tasche dei ricchi, così irascibili se richiamati agli obblighi fiscali: tombali condoni, capitali scudati e regolarizzati con tassazioni irrisorie, definizione bonaria delle controversie, contrazione delle sanzioni, controlli evanescenti, estinzione gratuita dei giudizi pendenti. E quante prediche dei grandi giornali sulla fiducia tradita nel caso in cui lo Stato sull’orlo del fallimento aggiungesse ulteriori modici aggravi ai capitali scudati dei ricchi che da anni scappano dagli imperativi minimali della cittadinanza!
C’è un indubbio nesso tra la gigantesca evasione fiscale (che sottrae alla comunità 240 miliardi annui) e la decrescita dell’economia. Però si preferisce tacere dei guasti dell’economia criminogena. L’ideologia riverita è oggi quella per cui la partecipazione dei ricchi alle spese pubbliche è un becero furto e che gli ottusi conservatori di anacronistici privilegi sono i lavoratori (che per l’85 per cento coprono le entrate di
uno Stato che loro non offre più nulla). Sempre più tasse per il lavoro (per finanziare il sistema previdenziale, gli interessi per il debito pubblico) e secessione dal fisco per i ricchi: questa fuga del capitale dallo Stato è per la destra populista il sacro presidio di ogni libertà.
Peccato che la ricetta non funzioni. Ogni pretesa di recuperare i margini di competitività attraverso una evasione eretta a dogma determina un arresto nella crescita. Il raggiungimento del profitto grazie alle maglie compiacenti di una legislazione civilistica, aziendale e fiscale vantaggiosa abbaglia i calcoli monetari di breve raggio, ma alla lunga non regge. Aveva torto Mandeville nella sua formula per cui i vizi privati si convertono con un certo automatismo magicon in pubbliche virtù. I privati vizi di una estesa fascia della società che ricorre alla evasione contributiva e al lavoro irregolare mettono una secca ipoteca per lo sviluppo. Vengono dissanguate le risorse per le politiche pubbliche, i fondi per la crescita, l’innovazione, la formazione, le tecnologie, la ricerca, la salute, la sicurezza. Il nano capitalismo territoriale è rimasto incantato dal verbo populista che conviveva con profitti illegali, tollerava grandi evasioni e piccoli salari e sentenziava che nessun diritto spettasse
più ai dipendenti. Ha creduto di sopravvivere alterando con destrezza la concorrenza (a scapito degli stessi ceti industriali rispettosi delle regole) ma alla fine deve scontare i guasti di sistema prodotti dalla sua angusta condotta. Con occultamenti,
frodi, false fatturazioni, bilanci fasulli, le imprese corsare, le persone fisiche e giuridiche sleali privano lo stesso capitale di salutari energie per la crescita, per le infrastrutture, per la competitività. Con una evasione vicina al 10 per cento del
Pil, con una economia sommersa pari al 25 per cento del Pil, è da irresponsabili evocare la lotta contro lo Stato di polizia tributaria.Ma ogni senso dello Stato manca al comico ribelle e allo statista che faceva il comico ma poi si avvaleva di condoni per le sue aziende e incassava i proventi delle detassazioni delle plusvalenze di investimenti finanziari. La lotta all’evasione (con l’emersione delle transazioni, con l’intreccio di dati e l’anagrafe dei conti correnti, con la tracciabilità e l’invio telematico degli scambi clienti- fornitori), serve per la redistribuzione della
ricchezza, per ripensare gli ammortizzatori sociali, per ridare competitività al sistema economico.

L’Unità 07.01.12

"Il Cile cancella dalla sua storia la parola dittatura", di Mimmo Candito

C’è da pensare che chi ha avuto, laggiù in Cile, questa bella pensata, di far grazia alla memoria di Pinochet, tentando di sostituire «dittatura» con una più pudica parola, «regime», non conosca nulla dell’ironia con la quale Manzoni fingeva di raccontare ai suoi 25 lettori che è «cosa evidente, e da verun negata, non essere i nomi se non purissimi accidenti». Sappiamo bene che le parole sono invece pietre, e che la loro scelta, la loro selezione, determinano assai più d’un astratto e inoffensivo «accidente»: creano realtà, conoscenza, identità.

L’ipocrisia è la veste da camera della politica, addobba ciò che non si deve vedere, lo adorna, ne nasconde le brutture e le miserie. Almeno, in pubblico. Quando, nel silenzio ovattato dello Studio Ovale, il consigliere diplomatico comunicò al presidente Roosevelt che in Nicaragua i militari avevano appena fatto un colpo di Stato, e che quella era proprio una brutta storia perché a prendersi il potere era stato un lercio figuro, un trafficone che in pochi anni era passato da sergente a generale, insomma un autentico figlio di puttana, Roosevelt perse la pazienza per quel panegirico troppo malato di etica e di morale, e battendo il pugno sul tavolo che aveva davanti sbottò: «Sarà pure un figlio di puttana, ma si ricordi che è comunque il “nostro” figlio di puttana». Questo, però, nel chiuso della Casa Bianca.

La politica coltiva i suoi «sons of a bitch», a ogni latitudine. E se la spregiudicatezza con la quale per larga parte del secolo passato Washington sollecitò, approvò, e resse, tutte le dittature che s’impiantavano a sud del Rio Bravo, dal cortile di casa del Centro America fin giù ai generali che, dalle parti di Baires, di Santiago, e di Montevideo, torturavano e ammazzavano a man bassa nel nome di Cristo e della Civiltà Occidentale, non molto di diverso, poi, è accaduto dalle nostre parti, dove soltanto di recente ci si è accorti che nel mondo arabo tutti i nostri «alleati», che per decenni avevamo coccolato per i buoni affari che ci consentivano di fare spartendo con noi i proventi d’ogni investimento, in realtà erano autentici «sons of a bitch», chi più chi meno, certamente, ma tutti della stessa categoria.

L’operazione di pulizia d’un passato disonorevole è stata tentata molte volte, in America Latina, sostenuta da trasformazioni politiche che hanno sì mutato le istituzioni ma hanno anche faticato a impiantare una cultura della democrazia. Il processo del cambio si è attenuato tra le ragioni della «memoria» e quelle dell’«olvìdo», tra la conservazione della conoscenza e l’inevitabile tentazione dell’oblio. In Argentina si è andati avanti per anni con un amaro pendolo che oscillava tra leggi di amnistia e riaffermazione del diritto; così in Uruguay, e in Cile. Alla fine le ragioni del diritto hanno saputo affermarsi, pur con qualche titubanza; ma l’operazione che si sta tentando ora a Santiago è diversa: si è passati dal parziale recupero d’approvazione delle leggi economiche di Pinochet – tentando di innestare un nuovo «accidente», la definizione semi-assolutoria di dicta/blanda al posto della dicta/dura – per arrivare ora a proporre, del tutto, la cancellazione della identità politica di quel tristo periodo che va dal ‘73 al ‘90.

Voler abolire per legge la specificità della «dittatura», trasferendola verso l’ambiguità del «regime», è un progetto che mira a cancellare l’identità d’una azione politica basata sulla violenza e sulla soppressione della libertà, per sostituirla con una più generica e anonima struttura nominale dell’esercizio del potere pubblico. Il 40 per cento dei cileni ha meno di 25 anni, ha dunque vissuto ogni giorno della propria vita – fin dall’atto stesso della nascita – in un tempo nel quale la dicta/dura era soltanto passato, storia, talvolta anche cronaca; a conservarne la memoria c’erano quelle lapidi grigie e quei nomi che stanno a pochi passi dal cancello d’ingresso del cimitero di Santiago ma, soprattutto, c’era un vissuto concreto, forte, reale, di larga parte del Paese, quale che fosse la scelta politica che questo avesse fatto.

Oggi questa memoria di carne si è fatta meno forte, il progetto del ministro Beyer vuole cancellarlo; poi, forse, potrebbe venire il tempo per cancellare quei nomi e quelle lapidi grigie che stanno a pochi passi dal cancello del cimitero. Ancora oggi c’è sempre qualcuno che va a pulirle, a toglierli il velo di polvere, a bagnare qualche raro fiore portato senza nome: ma sono vecchi uomini e vecchie donne. Beyer osserva da lontano, e aspetta.

La Stampa 07.01.12

"Perchè investire nel capitale umano", di Chiara Saraceno

Sostegno all´occupazione giovanile e femminile, riforma del mercato del lavoro e misure per la crescita – i tre pilastri della cosiddetta fase due promessa dal governo – vanno pensati insieme, come elementi complementari tra loro. Anche chi non condivide la lezione di Keynes ricordata su questo giornale da Paul Krugman – secondo cui in periodi di recessione l´austerità rischia di schiacciare ogni possibilità di ripresa – non può che essere d´accordo sul fatto che proprio quando le risorse sono scarse vanno spese nel modo più efficace e coordinato possibile. Non ci si può permettere di sprecare nulla.
In questa prospettiva, sembrerebbe opportuno che gli incentivi previsti per l´occupazione giovanile e femminile non venissero destinati genericamente alle aziende che assumono, appunto, giovani di ambo i sessi e donne di ogni età, ma venissero favorite le aziende (incluse quelle di terzo settore) che investono nella produzione di beni collettivi, in primis nella manutenzione e messa in sicurezza dell´ambiente e dei beni culturali e nei servizi alla persona, ma anche nella innovazione tecnologica che migliora la qualità della vita. In questo modo l´investimento a favore dell´occupazione avrebbe effetti positivi anche ad altri livelli. La messa in sicurezza dell´ambiente è, infatti, ormai un´emergenza che ci costa enormemente non solo in termini di vite umane e di disastri ambientali, ma anche in termini economici. Quanto ai servizi alla persona, vanno concepiti non solo o tanto come una spesa, ma come una forma di investimento sociale. Facilitano l´occupazione delle donne con responsabilità familiari (e quindi sostengono l´occupazione femminile anche per questa via).
Nel caso dei servizi per la prima infanzia riducono anche le disuguaglianze tra bambini nelle opportunità di sviluppo delle capacità. Nel caso dei servizi per persone con difficoltà gravi, riducono i rischi di perdita di capacità e possono mettere in moto viceversa meccanismi di recupero e arricchimento delle stesse. In generale, i servizi alla persona sono uno strumento di quella coesione sociale che è un prerequisito dello sviluppo sostenibile. Si dice che lo stato non può farsi carico di tutte queste iniziative pur necessarie aumentando la spesa pubblica. Ma, proprio per questo, perché le risorse sono scarse, nel momento in cui ne distribuisce ai privati, alle aziende, è opportuno che ponga delle priorità sul loro utilizzo.
Un analogo ragionamento si potrebbe fare per quanto riguarda la riforma degli ammortizzatori sociali, che è un pezzo della riforma del mercato del lavoro. C´è ormai un accordo abbastanza generalizzato sul fatto che occorre arrivare ad ammortizzatori sociali di tipo universalistico, in particolare per quanto riguarda la perdita del lavoro. C´è anche accordo sul fatto che occorre provvedere un ponte per coloro che hanno perso, o lasciato, il lavoro, ma hanno visto allontanarsi la possibilità di prendere la pensione a seguito della riforma appena approvata. Forse questa è finalmente la congiuntura favorevole alla introduzione di quella indennità generalizzata di disoccupazione per tutti coloro che perdono il lavoro, a prescindere dal tipo di contratto e di impresa, che esiste in tutti i Paesi europei e su cui in Italia si discute e avanzano proposte da anni. Bene. Tuttavia ci si può chiedere perché, se si trovano le risorse per gli ammortizzatori, una parte non possa essere usata invece per creare o mantenere posti di lavoro sempre nel settore della produzione di beni collettivi. Inoltre, perché non pensare anche di dare l´opportunità di incrementare l´indennità di disoccupazione svolgendo, con una piccola integrazione, lavori (effettivamente) socialmente utili? So bene che la storia passata dei lavori socialmente utili è piena di sprechi quando non veri e propri imbrogli. E so anche che una proposta del genere può venire accusata di social dumping, nella misura in cui un comune o una regione potrebbe avvalersi di lavoro a basso costo invece di assumere. Tuttavia, in un periodo in cui la domanda di lavoro è poca, i bilanci magri, il patto di stabilità ferreo, ma il lavoro da fare molto, combinare, per chi può e vuole, un´indennità decente di disoccupazione con un´attività lavorativa a tempo parziale e determinato aiuterebbe da un lato a mantenere il capitale umano dei giovani e a valorizzare e non sprecare quello delle persone in età matura, dall´altro a mantenere la qualità della vita nelle comunità locali. Certo, occorre che ci sia un attento monitoraggio, per evitare abusi e imbrogli da una parte e dall´altra.

La Repubblica 07.01.12

"Quelle regioni troppo speciali", di Gian Antonio Stella

Cosa c’entrano con l’autonomia 7 consigli circoscrizionali in una cittadina di 38.595 anime come Rovereto se sono stati aboliti in tutti i capoluoghi sotto i 250 mila abitanti? Cosa c’entrano con l’autonomia certe buste paga della Regione siciliana dove i presidenti di una commissione possono arrivare a 17.476 netti al mese, più di quanto prende Obama?
A decenni di distanza dall’istituzione, chi prima, chi dopo, delle Regioni a statuto speciale, non ce n’è una che non rivendichi la sacralità della sua autonomia. Questa perché è sul confine, quella perché è in montagna, quella perché è un’isola… Al punto che Raffaele Lombardo si è avventurato a spiegare che la Sicilia ha diritto a esser risarcita per i saccheggi subiti a partire da Ulisse, che se la prese con «Polifemo, un povero pecoraio siciliano che badava al gregge e vendeva formaggio». Polifemo che lui vorrebbe vendicare con un grande partito territoriale per «far ballare la samba a ogni governo».
Sia chiaro: l’autogoverno è una cosa seria. Che ha dato qua e là risultati buoni o addirittura ottimi. E non ha torto Luis Durnwalder, se uno studio del Sole 24 ore dice che le cinque Regioni autonome spendono (sanità esclusa) 2.591 euro per abitante contro i 790 euro della media di quelle a statuto ordinario, a rispondere che «non si possono contare le pere con le mele». È vero: le Regioni a statuto speciale devono farsi carico di molte più competenze delle altre. E spesso costosissime.
Uno studio della Cgia di Mestre segnala tuttavia squilibri eccessivi. I dipendenti pubblici ogni mille abitanti sono 55,9 nelle Regioni ordinarie e 76,2, ad esempio, in Val d’Aosta. La spesa pubblica per investimenti è nel resto della penisola di 518 euro pro capite e in Alto Adige di 2.023. Quella per l’istruzione è di 934 euro per ogni italiano medio nei territori delle aree «normali», 1.520 in Trentino. Non c’è tabella che non evidenzi distanze siderali fra queste due Italie. È giusto che i soldi spesi dalla Sardegna a sostegno dell’agricoltura rispetto alla Campania, come dice uno studio ancora del Sole, siano superiori del 1.607%?
Numeri pesanti. Che da anni spingono una fetta della politica e della società, come si è scritto, a guardare certi lussi delle Regioni speciali con gli occhi della fiammiferaia incantata dal piatto fumante dell’oca arrostita. E a invocare brutalmente l’abolizione tout court di tutte le autonomie. Compresa quella, blindatissima da accordi internazionali, dell’Alto Adige.
Forzature. Ma in tempi magri come questi chi governa le realtà privilegiate non può rispondere, come il presidente altoatesino, che lo statuto d’autonomia è lì e «ora Roma non può metterlo in discussione solo perché è in difficoltà». Tanto più sapendo, come ha letto sulla Südtiroler Tageszeitung, che i cugini di Innsbruck sono trattati con assai minore generosità. E che se lui prende 26.708 euro lordi al mese il suo omologo tirolese ne incassa 16.300.
Sarebbe un delitto se, in cammino verso il federalismo, l’Italia mettesse in discussione le autonomie esistenti. Ma chi quelle autonomie le ha deve usarle sobriamente. E non offendere il resto del Paese spendendo 226.272 euro in gettoni di presenza per i 12 consigli circoscrizionali di Trento, pagando il sindaco di Merano proporzionalmente 77 volte più di quello di Roma o dando a un deputato regionale siciliano un minimo di 14.808 euro netti al mese.

Il Corriere della Sera 07.01.12

"L´assedio alla merkel", di Andrea Bonanni

Mario Monti si presenta all´incasso. È cominciata ieri a Parigi la tournée europea del capo del governo italiano il cui obiettivo è quello di trasformare in aiuto e solidarietà il credito politico che ha accumulato con la manovra di risanamento dei conti pubblici italiani: uno sforzo «che non ha eguali nel resto dell´Unione europea». Monti ha due valide ragioni a sostegno delle sue richieste. La prima è che effettivamente lo sforzo compiuto dal Paese è di gran lunga superiore a quello degli altri partner europei e che i conti pubblici italiani risanati non giustificano in termini razionali una così pesante penalizzazione del nostro debito pubblico. La seconda è che, proprio per questi motivi, l´Italia oggi sta pagando il prezzo di una sfiducia dei mercati che non riguarda tanto le nostre capacità intrinseche di risanare il bilancio, quanto la tenuta complessiva dell´euro e la disponibilità della Germania a difendere la moneta unica.
È chiaro che chi scommette contro la valuta europea lo fa prendendo di mira gli anelli più deboli dell´Unione monetaria. Ma, se fino a ottobre gli alti tassi italiani riflettevano l´inazione e la scarsa credibilità del governo Berlusconi, dopo il varo della manovra di dicembre essi rispecchiano soprattutto le esitazioni e le ambiguità della Germania. Quello che Monti sta andando a spiegare in Europa è che i contribuenti italiani non possono pagare, oltre che per i propri errori passati, anche per i dubbi della cancelliera Merkel e per le sue preoccupazioni elettorali.
Ma in politica, e soprattutto nella politica europea, avere ragione non basta. Occorre anche saperla imporre ai partner. E l´unico vero interlocutore di Monti, oggi, è la cancelliera tedesca. Proprio per questo la strada che da Roma porterà il presidente del Consiglio mercoledì a Berlino passa per Bruxelles e per Parigi. Se vuole riuscire a strappare la Merkel dalle sue amletiche esitazioni, il Professore ha bisogno che le istituzioni comunitarie e soprattutto Sarkozy cambino il tono e il volume del loro discorso europeo.
Due anni di timide resistenze alle pressioni tedesche e di ancor più timidi messaggi lanciati alla Germania ci hanno condotti sull´orlo dell´abisso. Ora è tempo di mettere le timidezze da parte e di esigere con fermezza che i tedeschi riempiano la loro parte del “patto di Bruxelles”: quando, all´ultimo vertice, la Merkel ottenne di iscrivere in un nuovo trattato le regole del rigore di bilancio in cambio di una promessa ad accettare meccanismi di solidarietà che mettano il debito europeo al riparo dagli attacchi speculativi.
È ancora presto per dire se Monti sia riuscito nel suo proposito. La «totale identità di vedute» tra Italia e Francia, di cui ha parlato ieri Sarkozy proprio nel momento in cui l´Italia reclama pubblicamente a gran voce misure di consolidamento della moneta unica, lasciano sperare che il presidente francese, avendo finalmente trovato nell´italiano un alleato di peso e prestigio, metterà da parte le cautele degli ultimi due anni. Il vertice tripartito di Roma, il 20 gennaio, potrebbe dunque diventare il punto di svolta che consenta all´Europa di accoppiare al rigore di bilancio anche quegli strumenti di difesa della moneta, dagli eurobond al rafforzamento del Fondo ad un diverso ruolo della Bce, che finora la Germania ha ostinatamente negato.
Ma il compito di Monti, già di per sé non facile, è reso ancora più arduo da un secondo obiettivo europeo che il presidente del Consiglio non può certo trascurare. Nel negoziato che è ripreso ieri a Bruxelles sul testo definitivo del nuovo Trattato sull´unione di bilancio, l´Italia è infatti impegnata a cercare di ammorbidire le condizioni sul ritmo di riduzione del debito e a ritagliare uno spazio di manovra che permetta ai governi misure per stimolare la crescita.
Su entrambi questi fronti, le richieste italiane si scontrano con l´indisponibilità della Germania. Berlino, proprio grazie ai bassissimi tassi di interesse che la crisi dell´euro le garantisce sia sul debito pubblico sia sul finanziamento delle imprese, non ha troppa difficoltà né a ridurre il debito né a stimolare la crescita economica. L´Italia ha invece un bisogno vitale di evitare condizioni capestro sul risanamento e di trovare in Europa quel sostegno alla crescita che i conti nazionali non permettono.
Il governo Berlusconi aveva risolto il problema da par suo, ottenendo una ambigua formula sulla considerazione di «fattori rilevanti» nella riduzione del debito che aveva venduto in patria come la garanzia che non saremmo stati costretti a manovre troppo drastiche. Una ennesima operazione di immagine che si è rivelata priva di sostanza: il nuovo Trattato, infatti, per ora non prevede gli sconti che erano stati promessi dal precedente governo.
Monti quindi si trova nella difficile condizione di dover convincere la Merkel a fare concessioni sui termini del Trattato, e allo stesso tempo di esigere dalla Germania che dia il via libera ad un sistema di garanzie congiunte sul debito europeo. In termini negoziali, non è certo una posizione di forza. Ma il presidente del Consiglio sa che l´Italia non è in grado di sopravvivere né ad un Trattato capestro, né ad un prolungarsi dell´instabilità dell´euro. Nella partita che si giocherà da qui a marzo deve vincere su entrambi i fronti, pena il tracollo del Paese. Una ipotesi, quella del collasso italiano, che, fortunatamente, fa paura ai nostri partner almeno quanto fa paura al Professore. E questa, in fondo, è forse l´unica vera arma che ha a disposizione per cambiare il corso della storia.

La Repubblica 07.01.12

"Lo scontrino, questo sconosciuto…", di Bianca Di Giovanni

Lo scontrino, questo sconosciuto L’«operazione Cortina» della Guardia di finanza – benemerita – nasconde tuttavia una realtà disarmante: negli ultimi anni l’Agenzia delle entrate ha ridotto i controlli su scontrini e ricevute e livelli minimi. Nel 2010 c’è stato un calo del 700% rispetto all’anno precedente, mentre rispetto al biennio 2006-7 il calo è addirittura del 2.000%. A riportarlo è un intervento di Villiam Rossi su www.fiscoequo.it, che cita la relazione al rendiconto dello Stato 2010 della Corte dei Conti.

FISCOTrend negativo
Oggi l’aria sembra cambiata, ma fino a ieri (cioè fino alla caduta del governo Berlusconi) la direzione era di tutt’altra natura. Nel 2008 i controlli sono a quota 66.785 (da oltre 84.091 del 2007, anno di maggiore densità di interventi), per poi scendere ancora a 34.776 nel 2009 fino a toccare il fondo nel 2010 con 4.788 controlli. «Il trend negativo non muta di molto se si considerano gli accessi per il controllo della veridicità dei dati utilizzati per l’applicazione degli studi di settore – scrive Rossi – passati da 112.187 del 2006 ai 29.699 del 2009 e ai 41.577 del 2010».

L’attività di monitoraggio effettuata durante il governo prodi poteva contare anche su una normativa molto stringente: che prevedeva la chiusura temporanea degli esercizi dopo tre infrazioni. L’allora opposizione gridò allo stato di polizia, al «Visco Drakula», così come oggi Fabrizio Cicchitto avanza le sue critiche al direttore Attilio Befera per il suo intervento sui Vip in vacanza sulle Dolomiti. Il risultato è stato che ancora oggi l’evasione resta una montagna difficile da scalare, che secondo tutti i rapporti nazionali e internazionali resta al livello record di 300 miliardi l’anno di imponibile, e di circa 150 miliardi di somme evase.

Nuovo corso
«Il nuovo governo sta ora cercando di rimediare, almeno in parte, all’opera di demolizione attuata nel triennio passato – continua Rossi – con la fissazione di una nuova soglia di mille euro per i pagamenti in contante e con l’obbligo di comunicazione delle movimentazioni finanziarie all’Anagrafe dei rapporti da parte dei gestori. Molte cose restano ancora da fare, prima fra tutte il ripristino degli elenchi telematici clienti e fornitori, magari abolendo l’inefficace obbligo di trasmissione delle fatture di importo superiore a tremila euro, frettolosamente introdotto nel 2010 per tentare di arginare l’evasione ormai dilagante».

Non è un caso che l’Iva sia tra le imposte più evase. Non solo perché evadendo l’Iva, poi si può abbassare anche l’imponibile Irpef. ma anche perché è molto difficile «pizzicare» gli evasori di questo prelievo, proprio per la natura in qualche modo internazionale della sua applicazione. Nel dicembre scorso la Corte dei conti europea ha acceso i riflettori su un caso specifico, che si ritiene ad alto rischio evasione. Tecnicamente si chiama regime doganale 42. Viene applicato quando le merci importate da paesi terzi in uno Stato membro dell’Ue vengono poi trasportate in un altro Stato membro. In tali casi, l’Iva è dovuta in quest’ultimo, lo Stato membro di destinazione.

L’esame della Ue
Ma la Corte ha segnalato il rischio che le merci importate possano restare nello Stato membro di importazione senza che venga pagata l’imposta. Le merci importate potrebbero anche essere consumate nello Stato membro di destinazione senza che l’Iva venga riscossa in tale Stato. La Corte ha esortato gli Stati ad aumentare i controlli, rivelando rilevanti perdite nei bilanci pubblici causate da questo meccanismo. Su un campione di sette Stati (Belgio, Danimarca, Spagna, Francia, Austria, Slovenia e Svezia) che hanno svolto i controlli, si è valutata un’evasione di 2 miliardi e 200 milioni per il 2009. Tali perdite rappresentano il 29 % dell’Iva applicabile alla base imponibile di tutte le importazioni di questo tipo nei sette Stati.

L’Unità 06.01.12