attualità, politica italiana

"Grillo come Berlusconi", di Michele Prospero

Che agiti i muscoli o eserciti la fantasia, contro le irruzioni dell’agenzia delle entrate si ritrovano unti tutti i populismi d’Italia. Berlusconi, che ha portato lo stile del comico nella politica, e Grillo, che immerge la politica nello spartito del comico, se la prendono con uno Stato di polizia fiscale che avrebbe mostrato il suo gelido volto ai poveri ricchi convenuti tra le nevi di Cortina. La questione del fisco è però seria, persino urticante per un Paese come l’Italia. Anche la nuova destra americana, quella più aggressiva del Tea Party, smuovecon spregiudicatezza il tema della rivolta contro il fisco, lo fa per osteggiare ogni residuale idea di grande politica. Ma in America non si rintracciano quelle odiose pratiche occulte o palesi che rimpinguano l’economia sommersa, nera, illegale. In Italia la guerra al fisco è ben altra cosa. Quando era a Palazzo Chigi, Berlusconi fece scrivere in Gazzetta Ufficiale un bizzarro manifesto ideologico nel quale l’avversione istintuale verso il fisco veniva ricondotta ad un naturale impulso umano che in nome della libertà si ribellava al prelievo effettuato ai danni delle sacre fonti del guadagno privato.
E quante buone maniere sono state utilizzate in questi anni a favore delle gelose tasche dei ricchi, così irascibili se richiamati agli obblighi fiscali: tombali condoni, capitali scudati e regolarizzati con tassazioni irrisorie, definizione bonaria delle controversie, contrazione delle sanzioni, controlli evanescenti, estinzione gratuita dei giudizi pendenti. E quante prediche dei grandi giornali sulla fiducia tradita nel caso in cui lo Stato sull’orlo del fallimento aggiungesse ulteriori modici aggravi ai capitali scudati dei ricchi che da anni scappano dagli imperativi minimali della cittadinanza!
C’è un indubbio nesso tra la gigantesca evasione fiscale (che sottrae alla comunità 240 miliardi annui) e la decrescita dell’economia. Però si preferisce tacere dei guasti dell’economia criminogena. L’ideologia riverita è oggi quella per cui la partecipazione dei ricchi alle spese pubbliche è un becero furto e che gli ottusi conservatori di anacronistici privilegi sono i lavoratori (che per l’85 per cento coprono le entrate di
uno Stato che loro non offre più nulla). Sempre più tasse per il lavoro (per finanziare il sistema previdenziale, gli interessi per il debito pubblico) e secessione dal fisco per i ricchi: questa fuga del capitale dallo Stato è per la destra populista il sacro presidio di ogni libertà.
Peccato che la ricetta non funzioni. Ogni pretesa di recuperare i margini di competitività attraverso una evasione eretta a dogma determina un arresto nella crescita. Il raggiungimento del profitto grazie alle maglie compiacenti di una legislazione civilistica, aziendale e fiscale vantaggiosa abbaglia i calcoli monetari di breve raggio, ma alla lunga non regge. Aveva torto Mandeville nella sua formula per cui i vizi privati si convertono con un certo automatismo magicon in pubbliche virtù. I privati vizi di una estesa fascia della società che ricorre alla evasione contributiva e al lavoro irregolare mettono una secca ipoteca per lo sviluppo. Vengono dissanguate le risorse per le politiche pubbliche, i fondi per la crescita, l’innovazione, la formazione, le tecnologie, la ricerca, la salute, la sicurezza. Il nano capitalismo territoriale è rimasto incantato dal verbo populista che conviveva con profitti illegali, tollerava grandi evasioni e piccoli salari e sentenziava che nessun diritto spettasse
più ai dipendenti. Ha creduto di sopravvivere alterando con destrezza la concorrenza (a scapito degli stessi ceti industriali rispettosi delle regole) ma alla fine deve scontare i guasti di sistema prodotti dalla sua angusta condotta. Con occultamenti,
frodi, false fatturazioni, bilanci fasulli, le imprese corsare, le persone fisiche e giuridiche sleali privano lo stesso capitale di salutari energie per la crescita, per le infrastrutture, per la competitività. Con una evasione vicina al 10 per cento del
Pil, con una economia sommersa pari al 25 per cento del Pil, è da irresponsabili evocare la lotta contro lo Stato di polizia tributaria.Ma ogni senso dello Stato manca al comico ribelle e allo statista che faceva il comico ma poi si avvaleva di condoni per le sue aziende e incassava i proventi delle detassazioni delle plusvalenze di investimenti finanziari. La lotta all’evasione (con l’emersione delle transazioni, con l’intreccio di dati e l’anagrafe dei conti correnti, con la tracciabilità e l’invio telematico degli scambi clienti- fornitori), serve per la redistribuzione della
ricchezza, per ripensare gli ammortizzatori sociali, per ridare competitività al sistema economico.

L’Unità 07.01.12