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"Donne pesa la crisi ma anche l'assenza di welfare mirato", di Claudio Tucci

L’occupazione femminile continua a perdere terreno. A novembre 2011 è calata dello 0,9% rispetto al mese precedente (ottobre 2011), e dello 0,7% nel confronto con novembre 2010. A differenza di quella maschile che, a livello tendenziale, rimane stabile. Mentre addirittura cresce (+0,4%) nella congiuntura. Il numero di donne senza lavoro aumenta del 6% a livello congiunturale, e del 5,2% su base annua.

E il tasso di disoccupazione femminile tra i 15 e i 24 anni, nel terzo trimestre 2011, schizza nel Mezzogiorno a un pericoloso 39 per cento (9,9 quella complessiva). La fotografia scattata ieri dall’Istat «non stupisce», ha sottolineato Paola Profeta, professoressa di scienze delle finanze alla Bocconi di Milano. La crisi ha invertito la tendenza che andava avanti dal 2000 di una (seppur modesta) crescita dell’occupazione femminile. «Ma da un paio d’anni questo non accade più. E in Europa siamo ormai maglia nera». Nei Paesi Scandinavi, ha ricordato Profeta, «esiste un sistema di stato sociale molto attento alla conciliazione lavoro-famiglia, con asili nido alla portata delle famiglie. In Germania ci sono sgravi fiscali specifici per la cura dei figli. E in Francia – e da qualche anno anche in Spagna – è stato rivisto l’istituto del congedo parentale per dare maggiore responsabilità genitoriale ai padri. Tutti aspetti che in Italia purtroppo faticano a decollare».

Da segnalare anche l’elevata crescita (+6%) tra ottobre 2011 e novembre 2011 delle donne disoccupate: «Potrebbe essere un effetto indiretto della crisi», ha detto Profeta: «Vale a dire un certo numero di donne che, per aiutare il bilancio familiare, esce dallo stato di “Neet” (di chi non lavora e non lo cerca) per entrare nella catalogazione Istat di disoccupato». Il punto, ha spiegato Andrea Ichino, economista all’Alma Mater di Bologna, è che serve «riequilibrare il carico di lavoro all’interno della famiglia. Le donne sono di solito lavoratrici a rischio per le imprese. E la strada degli incentivi alle aziende (per assumere donne) rischia di essere infruttuosa». Meglio quindi, ha rilanciato Ichino, prevedere «una riduzione dell’aliquota fiscale per le donne in sede di loro dichiarazione dei redditi. Ma nel caso in cui all’interno del nucleo familiare il salario e l’occupazione dell’uomo si siano ridotti».

Il Sole 24 Ore 06.01.12

"La rinascita delle biblioteche? 
È farne cuori pulsanti della lettura", di Stefano Parise*

Let it be potrebbe essere la colonna sonora che accompagna la crisi delle biblioteche, l’agonia delle librerie indipendenti, l’incertezza degli editori alle prese con la metamorfosi del libro digitale. Mentre gli addetti ai lavori si prodigano in appelli, denunce, interventi, nel Paese dove un italiano su due non legge nemmeno un libro all’ anno e poco più del 10% della popolazione frequenta una biblioteca, nulla sembra smuovere il disinteresse istituzionale nei confronti del libro e della lettura. E allora vai con i Fab Four, mentre le librerie indipendenti continuano a chiudere i battenti, il mercato del libro perde colpi (0,7%, pari a 7 milioni di euro sfumati) e le biblioteche stentano fra tagli ai bilanci (dal 30% in su), impossibilità di rigenerare gli organici e incapacità degli enti titolari di utilizzare la leva organizzativa per migliorare i servizi.
Sullo sfondo, la rivoluzione lenta dell’e-book, entrato in punta di piedi nel mercato italiano (lo 0,04% nel 2010, che pare diventerà l’1% quest’anno), la diffusione del self publishing, la battaglia campale delle vendite online, l’avanzata di internet a insidiare ogni ruolo di intermediazione informativa, editoriale e commerciale, la nascita di editori «digitali nativi» e di reti bibliotecarie che offrono accesso a una vasta gamma di contenuti in formato elettronico ai propri utenti.
Un quadro di ricchezza e complessità inedite, del quale non dovrebbero occuparsi solo i professionisti del settore perché in gioco non c’è soltanto la sopravvivenza di una filiera produttiva e commerciale ma il modo in cui una nazione favorisce la circolazione delle idee. Invece nulla, si procede in ordine sparso.
IL RUOLO DEGLI EDITORI
Così Stefano Mauri ha recentemente riaffermato (su «Repubblica», 11 dicembre) il ruolo insostituibile degli editori nel garantire la qualità dei libri e un contesto competitivo che garantisca opportunità agli autori e libertà di scelta ai lettori; l’Associazione Italiana Biblioteche ha lanciato un appello pubblico («La notte delle biblioteche», sottoscritto da intellettuali e da oltre 12.000 cittadini) per chiedere che anche nel nostro Paese il sistema delle biblioteche sia considerato una infrastruttura essenziale per l’accesso alla conoscenza e ai prodotti della creatività e dell’ingegno; i librai, che non avevano ancora finito di festeggiare l’entrata in vigore della legge che regola lo sconto sui libri, si sono trovati a doverla difendere dal fuoco amico dei best sellers messi in promozione ancor prima di debuttare in libreria.
Esorcismi buoni per farsi coraggio ma di relativa utilità se non raccordati in un quadro d’insieme che sappia coniugare la necessità di un cambiamento (nei modelli di business per gli editori, negli approcci commerciali per i librai, nelle prospettive e nei contenuti di servizio per i bibliotecari) con la presa di coscienza che la miglior polizza sulla vita per tutti gli attori della filiera del libro, attuali e futuri, è rappresentata dall’ampliamento della base sociale dei lettori.
Attraverso la lettura si assimilano competenze e si elabora conoscenza, si filtra informazione e si formano le opinioni. In Italia, dove il 71 per cento della popolazione non è in grado di comprendere un testo di media difficoltà (De Mauro sul «Corriere della Sera», 28 novembre 2011), questa dovrebbe essere una priorità nazionale, da affrontare con politiche di lungo respiro e investimenti adeguati, che sappiano ridare prestigio a una pratica fra le più svalutate e avvicinare ad essa il maggior numero possibile di italiani, giovani e non.
Non è un problema da affrontare (solo) in chiave tecnologica: quand’anche Internet arrivasse a contenere, come l’Aleph borgesiano, tutti i saperi e tutte le prospettive, se anche riempissimo le scuole di lavagne multimediali e dotassimo ogni studente di un iPad, senza la capacità di fare un uso consapevole e competente dell’informazione resteremmo prigionieri della nostra inadeguatezza al cospetto della complessità che ci circonda (e a dispetto dei molteplici gadget tecnologici di cui tutti ormai siamo dotati).
IMPARARE A LEGGERE
È a questo progetto di alfabetizzazione che le biblioteche possono dare un contributo significativo, come volano per la promozione della lettura e come ambiente esperto di apprendimento anche avanzato, specialistico, per lettori di tutte le età, in una prospettiva di continuità con il lavoro svolto dalla scuola e dall’università. Cittadini competenti e capaci di scegliere sono i migliori clienti possibili per editori e librai interessati a lavorare sulla qualità e sulla pluralità delle proposte.
Ma chi deve raccordare le visioni particolari orientandole in un quadro complessivo? Chi deve coinvolgere tutti i soggetti interessati in una discussione che abbia come unico obiettivo quello di produrre un quadro di riferimento coerente che metta ordine all’attuale babele di competenze per indicare chi, come con quali mezzi consolidare la lettura in Italia?
Le istituzioni finora sono state latitanti o hanno affrontato singoli aspetti del problema. È giunto il momento di aggredire complessivamente il tema della promozione del libro e della lettura con provvedimenti legislativi adeguati. A Matera, durante l’ultimo forum del libro, bibliotecari, editori e librai hanno discusso di una legge di iniziativa popolare per la promozione del libro e della lettura. Lodevole ma insufficiente, perché la definizione di una politica per la lettura richiede un sostegno istituzionale forte. Politica, se ci sei batti un colpo.

*Presidente AIB

L’Unità 06.01.12

"Roma violenta, il record di Alemanno", di Mariantonietta Colimberti

In un anno 35 omicidi nella Capitale: la nemesi per il sindaco che cavalcava la violenza. «È proprio l’illegalità che è stata permessa dalla sinistra che ha generato questa realtà» disse il 25 maggio 2008 Gianni Alemanno, sindaco da meno di un mese, visitando il Pigneto. Il giorno prima una squadraccia neonazista composta da una ventina di persone aveva fatto irruzione in tre negozi del quartiere gestiti da extracomunitari al grido di «sporchi stranieri» e «bastardi», rompendo vetrine e picchiando con un bastone un ragazzo del Bangladesh.
Qualche tempo prima, per la sua campagna elettorale, Alemanno aveva attinto a piene mani e con grande spregiudicatezza alla drammatica vicenda dell’omicidio Reggiani, avvenuto il 30 ottobre 2007, sindaco Walter Veltroni e Romano Prodi a palazzo Chigi.
Vale la pena di ricordare certi comportamenti di fronte alla nuova tragedia accaduta mercoledì sera al Pigneto, dove un papà e la sua bambina cinesi sono stati uccisi da due rapinatori. Da quel primo episodio di violenza che quasi salutò l’avvento di Alemanno in Campidoglio, infatti, molti altri gravissimi fatti sono accaduti nella capitale, dalle violenze sessuali alle aggressioni a italiani e stranieri, agli scippi, fino agli omicidi – 35 in dodici mesi – in varie zone della città, da quelle considerate “a rischio” come San Basilio a quelle da sempre ritenute le più “sicure”, come Prati, dove il 5 luglio scorso fu assassinato in strada, poco dopo le 9 del mattino, il gioielliere Flavio Simmi, 34 anni.
Il sindaco, che aveva individuato nella sicurezza la priorità assoluta del suo mandato e l’identità della città che avrebbe governato, proprio su questo fronte registra il fallimento più irrimediabile, non certo l’unico.
In tre anni e mezzo di mandato, tre giunte diverse e numerose quanto inosservate ordinanze – antiborsoni, antibivacco, antilavavetri, antitutto, fino a quella ipotizzata e per decenza bloccata contro il “rovistaggio” nei cassonetti – Alemanno ha avuto reazioni oscillanti, con una costante immutata però: quella di rivendicare presunti e invisibili successi, scaricando su altri, persino sulle vittime, realtà e problemi drammatici fin troppo vistosi.
Come nel caso dei turisti olandesi aggrediti al Portuense, tacciati dal sindaco di «imprudenza».
Fino a giugno scorso, quando al rione Monti è stato pestato un ragazzo, Alemanno ha continuato a ripetere che «Roma non è una città violenta, basta guardare il numero dei reati che cala », salvo poi rivolgersi con una certa sicumera all’allora ministro degli interni Roberto Maroni, chiedendo incontri e mezzi per fronteggiare le violenze.
Ieri, dopo l’efferato duplice omicidio del Pigneto, ha tuonato dalla Patagonia: «La pazienza di Roma e dei romani è finita. Ci sono belve criminali che agiscono nella nostra città che devono essere fermate a tutti i costi». Al comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico svoltosi nel pomeriggio con la ministro Cancellieri e i vertici delle forze dell’ordine al suo posto c’era la vicesindaco Belviso: si è deciso che 130 dei 400 uomini in più per la capitale previsti dal terzo patto per Roma sicura verranno immediatamente impiegati. «Lo stato è presente e lo dimostrerà» ha detto la titolare degli interni.
Dunque ci penserà il governo e sarà meglio, visto che fino ad ora tutti gli annunci di Alemanno sono rimasti tali o comunque si sono rivelati completamente inefficaci: ronde di volontari, vigili urbani armati, quartieri illuminati. Nulla di fatto.
L’iniziativa che si è notata di più, anche per la sua totale inutilità, è stata “Petra”, il localizzatore da interni da 299 euro sponsorizzato dal comune di Roma, pubblicizzato con un vademecum distribuito in diecimila copie nella metropolitana la scorsa estate. «A Roma sono tornate la camorra, la ‘ndrangheta e una certa violenza politica, ma non farò come Alemanno» ha detto ieri Veltroni. Ignazio Marino, invece, ha chiesto le dimissioni del sindaco.

da Europa Quotidiano 06.01.12

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“Quasi tutti i crimini commessi da connazionali, anzi da romani”, di Guido Ruotolo

Non c’è più tempo per interrogarsi, per indignarsi sulle ragioni di questa violenza così assurda. Un’offesa per Roma città eterna, che sembra diventata una immensa favelas dove la violenza la fa da padrone. Non solo nelle sue periferie, ma anche nel centro, nel cuore della capitale. A Prati, due morti e sette gambizzazioni nel 2011.
Che impressione soffermarsi su quei dati nudi e crudi della città: 32 omicidi, 37 gambizzazioni, 140 furti di armi. In un anno, Roma sembra sfigurata e addirittura fuori controllo.
E’ vero, i numeri in sé sono ben poca cosa rispetto alla città, ai suoi quasi quattro milioni di abitanti. E però colpiscono lo stesso. La fotografia che ci consegna uno dei vertici delle forze di polizia che ha partecipato all’incontro di ieri al Viminale è allarmante: «Siamo a una soglia sproporzionata di violenza diffusa».
Sparano balordi per una rapina che finisce in omicidio; si sparano tra di loro per una partita di droga da spacciare in territori occupati da altri; sparano per risolvere regolamenti di conti, per futili motivi personali.
Sotto traccia, quello che è accaduto nel 2011 potrebbe in parte anche confermare l’esistenza di un conflitto criminale dovuto a presenze organizzate che sgomitano. Gli omicidi per lo spaccio, in alcuni casi con identiche modalità di intervento – la moto e i due killer con caschi integrali per non farsi riconoscere e stesso calibro utilizzato – potrebbero volere confermare la sensazione che siano maturati all’interno di una logica di guerra di mafia.
E gli investigatori della capitale fanno capire che su 32 omicidi registrati l’anno scorso, almeno cinque potrebbero essere omicidi di criminalità organizzata. Una piccola percentuale comunque, anche perché nella capitale la grande mafia c’è, ed è impegnata nel reinvestimento dei propri capitali, come dimostra la vicenda del Cafè de Paris, lo storico locale della «dolce vita» di via Veneto, sequestrato agli Alvaro di Sinipoli, una potente famiglia di ‘ndrangheta. E, dunque, la mafia ha bisogno di tranquillità, di non dare nell’occhio, di potersi muovere senza controlli.
Eppure spiegare Roma con i numeri soltanto è complicato. Perché i numeri e le percentuali danno atto che l’attività di prevenzione e di repressione delle forze di polizia non è da buttare. Risultati positivi, con le percentuali degli arresti per rapina, per furto, per traffico di stupefacenti, per usura, per estorsione che crescono del dieci, venti, trenta per cento in più rispetto all’anno precedente. Meno esaltanti, invece, sono le percentuali delle denunce, con picchi dell’80% in meno di denunce per usura o del 20% per ricettazione.
Si sono registrati più omicidi rispetto all’anno precedente ma meno dei 50 di media dell’ultimo decennio.
E allora Roma violenta colpisce intanto perché i suoi territori non hanno confini. I balordi o i violenti dilagano dalla periferia al centro. E non risparmiano i bambini. Come purtroppo dimostra Joy, nove mesi, uccisa l’altra sera con il padre, ma in un altro caso di rapina è rimasta ferita anche una bambina di dieci anni.
Le armi che uccidono, poi, non sembrano provenire dai grandi traffici di armi gestiti dalle mafie transnazionali (dei Balcani, per esempio). Piuttosto, essendo pistole o revolver, sembrano essere quelle provenienti dai furti nelle abitazioni. Gli investigatori concordano tutti nel sottolineare la presenza diffusa di armi sul territorio.
Roma città violenta colpisce soprattutto perché la nazionalità di questi criminali è tutta italiana, anzi romana. Il sindaco Gianni Alemanno conquistò il Campidoglio all’indomani dello stupro, della violenza e dell’omicidio di una donna da parte di un rumeno. Rumeni e albanesi erano sul banco degli imputati, in quella stagione. Con la Romania si aprì un braccio di ferro per far rimpatriare i rom, popolo diventato parafulmine delle paure e delle deviazioni razziste. Oggi è come se Roma si sia liberata di quel livore ideologico scoprendoche il nemico è al suo interno.
E forse è il caso di rivedere politiche sociali e culturali, di formazione e di prevenzione. Sostenere che il problema sia il controllo del territorio è vero solo in parte. L’altra sera, poco prima della tragedia di Torpignattara, una gazzella dei carabinieri ha sventato una rapina in un negozio di detersivi e cosmetici a Tor Sapienza, arrestando i due rapinatori.

La Stampa 06.01.12

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"Il prezzo della vita", di Giancarlo De Cataldo

Gli assassini della piccola Joy e del suo giovane padre non hanno ancora un volto e un nome. Non sappiamo niente di loro: a parte che, per procurarsi al mercato nero il “ferro”, la pistola, non dovranno aver investito più di cinquecento euro, munizioni comprese. E che il bottino preventivato della rapina – la pista al momento più accreditata dagli inquirenti – poteva ammontare, al massimo, a cinquemila euro. La sproporzione fra azione e contesto sta diventando una drammatica costante nella Roma degli ultimi mesi. Si ammazza per un debito di gioco di poche centinaia di euro, per la spartizione controversa dei proventi di un colpo miserabile, per una consegna di “roba” non andata a buon fine; si gambizza per uno sguardo obliquo, per un´occhiata tagliente, per il presunto “sgarro” a un´altrettanto presunta leadership borgatara. Difficile non interpretare l´aumento della violenza come versione “dalla strada” di quello stesso inasprirsi dei rapporti sociali, collettivi, individuali che si coglie in ben diversi ambienti e situazioni: dalla finanza, alla politica, al mondo del lavoro. In altri termini, la crisi. Che accresce l´insicurezza di ciascuno di noi, alimenta la grande paura per un futuro incerto e imprevedibile, spinge all´egoismo e alla disperata ricerca della scorciatoia del “tutto e subito”. Quando il gioco si fa duro, la strada reagisce con la durezza che le è propria. E Roma, città che non ha mai conosciuto, a differenza delle terre storicamente mafiose, se non durante la breve parentesi della Banda della Magliana, un dominio criminale organizzato, è, di questa crisi, il termometro più sensibile.
Non foss´altro perché Roma è metropoli ma resta, a tutti gli effetti, aggregato di piccole realtà locali, aperta, dunque, alla convivenza fra le strutturate “famiglie” mafiose d´alto bordo versate nel riciclaggio e i “canazzi di bancata”, schizzati e ingovernabili, che ambiscono a entrare nel gioco grosso o, più modestamente, a “svoltare” la serata. Situazione nota da tempo agli addetti ai lavori, e denunciata in più occasioni: ora la crisi l´ha fatta precipitare, svelandola anche agli occhi dei più scettici e increduli. Il problema che tutti ci angoscia è: come porre rimedio a questo stato di cose? Nelle ore immediatamente successive al duplice omicidio di Tor Pignattara, numerose “volanti” sono state spedite in strada, e – non c´è da dubitarlo – l´attività degli inquirenti è stata frenetica. Un´attenta gestione delle politiche di prevenzione e di repressione è sicuramente indispensabile per garantire la sicurezza di tutti i cittadini. Per attuarla occorrono mezzi, uomini, risorse: per intenderci, è impossibile pattugliare le strade più turbolente se manca la benzina. E anche le direttive che vengono impartite hanno la loro importanza: un conto è dislocare preziose unità in inutili servizi di scorta, o fare statistica con retate di spinellari, taccheggiatori badanti clandestine, un altro concentrare le operazioni sui quartieri a rischio, sulle “paranze” già individuate, sui livelli medio-alti del traffico di droga. Ma la repressione, anche la più intelligente, non basta, da sola. In questi ultimi anni Roma è cambiata. È come se nel suo cuore antico fosse stato scavato un tunnel fatto di indifferenza, cinismo, aggressività, strafottenza. Un tunnel lastricato con il cemento della cocaina che qui scorre a fiumi, e dei falsi miti che si trascina appresso. Roma ha bisogno di un esame di coscienza, di una profonda disintossicazione. Di uscire dal tunnel. Di tornare a occupare, democraticamente, la strada. Di riaccendere la luce che in questi anni si è spenta. Le “volanti” lavorano meglio se le strade sono illuminate, e piene di gente che ha qualcosa da dirsi, e sa dirselo con il cuore.

La Repubblica 06.01.12

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«Paghiamo gli errori di una destra in cerca di capri espiatori», di Jolanda Bufalini

Il presidente della Provincia: «Il sindaco sbagliò a usare una tragedia nella polemica politica. Così ha segnato uno spartiacque negativo per la città». Il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti è appena uscito dal vertice al Viminale convocato dopo l’efferato delitto di Tor Pignattara, con il ministro Annamaria Cancellieri e il capo della polizia Manganelli. Alemanno non c’è, è in viaggio di ritorno dalla Patagonia. Lo sostituisce la vicesindaco Belviso. Nicola Zingaretti nega la necessità di adottare misure straordinarie: «Non si può cambiare strategia ogni 15 giorni. Bisogna solo attuare, ognuno per la sua parte, ciò che si è deciso» ma, soprattutto, considera un errore politico la logica dei «capri espiatori» portata avanti dal governo di centrodestra: «La sicurezza si conquista sconfiggendo la paura e facendo vivere le città».
Presidente, in questi anni le priorità in tema di sicurezza a Roma sono stati i clandestini, le lucciole, i rom. I fatti efferati di Tor Pignattara indicano altre priorità?
«Io ho un ruolo istituzionale e non faccio opposizione, ma proprio nello svolgimento di questo ruolo ho denunciato un approccio alla sicurezza come è stato con l’ex ministro dell’Interno Maroni ridicolo quando si fonda sulle ronde. Le ronde più che garantire i cittadini alimentano la voglia di farsi giustizia da sé, per fortuna i cittadini si sono mostrati migliori di chi li ha governati».
L’impressione è che in questo caso ci troviamo di fronte a dei balordi, ma ci sono stati 35 omicidi in pochi mesi. A cosa si deve la recrudescenza di fatti di sangue a Roma?
«Non è ancora chiaro quale sia stata la dinamica dei fatti a Tor Pignattara. Roma fronteggia due problemi diversi. Il primo (che non mi pare riguardi questo caso) è che Roma è diventata teatro di interventi della criminalità organizzata, che investe denaro proveniente da attività criminose di mafie e camorra. Il secondo problema ha a che vedere con la frammentazione, la perdita di valori che rende il terreno propizio al radicamento delle bande criminali. Paghiamo questo doppio effetto».
I tagli lineari non hanno colpito soltanto la benzina per le volanti, hanno tolto mezzi ai servizi con cui gli enti locali intervengono nelle situazioni di disagio sociale.
«Non ha certo aiutato la scomparsa in un triennio di 14 miliardi di trasferimenti agli enti locali, si è colpita una rete civile e sociale già fragile. In questa situazione il commissariato è come un castello isolato. Né possiamo sottovalutare la tensione sociale: negli ultimi anni a Roma è raddoppiata la disoccupazione ed è molto aumentato il ricorso alla cassa integrazione. La miscela di impoverimento e di crescita delle bande criminali è esplosiva».
Cosa bisogna fare?
«Bisogna capire che non tutta la spesa pubblica è un costo, ciò che serve a creare un tessuto vivibile dà anche più sicurezza. Roma paga anni di crisi che hanno avuto un effetto devastante dal punto di vista del degrado. Periferia non è solo una nozione urbanistica, servono più sport, più cultura, più aggregazione e socialità, anche un parco giochi aiuta a dare maggiore sicurezza».
Ci vuole una maggiore presenza delle forze dell’ordine per il controllo del territorio?
«Sicuramente ed è positivo che il nuovo piano per la sicurezza abbia confermato l’invio di 400 uomini in più. Ma c’è anche una battaglia valoriale da fare, per sconfiggere la paura delle differenze che viene scaricata su capri espiatori. Noi stiamo pagando un prezzo alto per questo sbaglio»
Lei ha dichiarato che è stato un errore catapultare il tema della sicurezza nell’agone politico. Si riferisce alla campagna elettorale di Alemanno di tre anni fa?
«Immettere una tragedia violenta nel confronto politico è stato uno spartiacque che ha prodotto una ferita nella civiltà politica e nel tessuto urbano di Roma».
Tolleranza zero?
«L’errore politico della destra è stato quest’idea gladatoria della sicurezza è stato quest’idea gladatoria della sicurezza, è stato dare priorità al problema dei “vu cumprà”, mentre c’erano le bande criminali che si organizzavano. Puntare tutto sul controllo militare del territorio, come ha fatto Maroni, si è rivelato inefficacie, tanto più che poi mancano i soldi per i commissariati. Anche l’utilizzo dell’esercito non ha dato frutti, perché ci sarà sempre un angolo di città che rimane scoperto. Il patto firmato a dicembre con il ministro Cancellieri ha avuto un’evoluzione positiva da questo punto di vista. Ma, soprattutto, accanto alla volante ci vuole la vita e la socialità. Come presidente della Provincia, che però è al confronto del Campidoglio una piccola istituzione, ho contrapposto alla tolleranza zero di Alemanno “Prevenzione mille”, che ha significato finanziare 101 associazioni laiche e religiose la cui attività si rivela di straordinaria importanza per la vivibilità». Ma la situazione di crisi economica è tuttora grave, incide sulla sicurezza?
I tagli al welfare comportano dei rischi perché hanno prodotto e producono solitudine e la solitudine è brodo di coltura sia per la paura che per la delinquenza».
Cosa avete deciso nel vertice al Viminale
«Non c’è stata nessuna misura speciale se non l’attuazione del patto per Roma sicura siglato alcuni giorni fa, del resto sarebbe sbagliato cambiare strategia a pochi giorni di distanza dalla firma del Patto».

L’Unità 06.01.12

"La destra di classe difende gli evasori", di Gad Lerner

Bentornata la politica, grazie agli ispettori dell´Agenzia delle Entrate. Un inequivocabile segno di classe contraddistingue le proteste della destra italiana contro il blitz antievasori di Cortina d´Ampezzo. Confermandoci quel che Karl Marx scriveva già nel 1859 nella sua celeberrima prefazione a «Per la critica dell´economia politica»: la coscienza dell´uomo è determinata dal suo essere sociale. Non c´è populismo che tenga, al dunque la nostra sensibilità è condizionata dal censo. E stavolta una malintesa vocazione a rappresentare gli interessi del proprio elettorato (ma ne siete sicuri, o ve lo figurate peggiore di quello che è?) precipita i malcapitati dirigenti del Pdl sulla soglia dell´autolesionismo.
Da Paniz alla Santanchè, dal leghista Fugatti a Galan, è tutto un inorridire per l´«attentato alla libertà» perpetrato da «uno Stato di polizia fiscale», con tanto di solidarietà per i poveri commercianti ingiustamente accusati di disonestà e molestati a Capodanno nell´esercizio del loro lavoro. Fino al capogruppo Cicchitto che si scaglia direttamente contro il direttore dell´Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, accusato di «confezione ideologica del controllo fiscale» o, peggio, di «operazione politica e mediatica di carattere propagandistico». Davvero? Propaganda contro chi? In favore di chi?
Tocca infine alla Gelmini, fino a ieri responsabile dell´educazione dei nostri figli, manifestare sul piano culturale il proprio sdegno: «L´idea che la ricchezza sia male, un fondamento ideologico della sinistra radicale, non credo possa essere condivisa da un esecutivo che fonda la sua maggioranza sul Pdl». Che gli ottanta ispettori entrati in azione a Cortina siano in realtà dei militanti vendoliani travestiti? Perché mai la loro azione risulterebbe incompatibile col programma di un governo che pure ha assunto la lotta all´evasione fiscale fra le sue priorità?
Siamo al dunque, perché l´incattivirsi di una crisi che impoverisce i ceti popolari e brucia posti di lavoro, ripropone con brutalità le differenze di classe. La prolungata, falsa rappresentazione di uno stile di vita omologato nel consumo di massa – l´illusione della fine delle classi sociali – non regge più quando lo Stato, per non fallire, è costretto a mettersi in caccia della ricchezza nascosta.
Certo, chi ha protetto finora la ricchezza nascosta, addirittura esaltandola come risorsa, fatica a riconoscerla per quello che è: una vera e propria piaga nazionale. Per questo la destra italiana – antiborghese piuttosto che liberale – agita le acque. Incapace com´è di distinguere la ricchezza generata col talento imprenditoriale dalla ricchezza accumulata con l´illegalità e le rendite di posizione, addebita ai funzionari dello Stato un profilo ideologico esistente solo nella sua propaganda: la demonizzazione del benessere, l´incitazione all´odio di classe. Ma dove vivono?
Temo per loro che ormai non attacchi più. Il vittimismo dei furbi abbindolava i poveracci quando s´illudevano di poterli emulare, e quindi li ammiravano. Ma ora che le ricette anticrisi incidono profondamente sul reddito e sul risparmio dei cittadini, torna a contare in politica quella nozione di giustizia sociale fino a ieri oltraggiata – talvolta perfino a sinistra – con l´ambigua raccomandazione a non lasciarsi tentare dalla cosiddetta “invidia sociale”. Alla fine pure la destra dovrà prenderne atto: i commercianti che moltiplicano gli incassi solo in presenza dell´ispettore e i proprietari di auto di lusso col reddito minimo, nell´Italia del 2012 hanno perduto l´egemonia culturale insieme alla reputazione. Una destra liberale dovrebbe difendere gli interessi della borghesia orgogliosa del reddito e del patrimonio conseguito grazie alla sua capacità di fare impresa, e quindi dichiarato. Crede forse, Cicchitto, che i molti benestanti proprietari di auto di lusso ispezionati a Cortina, e risultati in regola col fisco, facciano il tifo per i disonesti contro gli ispettori?
Purtroppo una destra che ha lucrato sull´indulgenza per gli evasori, registra con ritardo questo diffuso bisogno di giustizia sociale che pure le spetterebbe declinare a tutela delle esigenze imprenditoriali, come avviene negli altri paesi occidentali. Rischia di pesare su taluni suoi esponenti perfino un´asincronia culturale che rende faticoso adeguare lo stile di vita nel tempo della crisi: il lusso ostentato fino a ieri come dimostrazione del proprio potere, diviene un handicap. Stupisce che non l´abbiano percepito tre politici navigati come Schifani, Casini e Rutelli volati a svernare in un costoso resort delle Maldive dopo aver votato i sacrifici, come se niente fosse, senza intuirne la sconvenienza. Un altro punto a favore dei tecnici che reggono il governo, benestanti anch´essi, ma addestrati per cultura alla sobrietà.
L´Italia dei tartassati si dividerà inevitabilmente nel conflitto sociale che accompagna le riforme del fisco, della previdenza e del mercato del lavoro. La sinistra certo faticherà a recuperare un rapporto con le classi subalterne nella bufera della crisi. Ma la destra che agita lo spauracchio di un´Equitalia bolscevica quando finalmente si perseguono i disonesti, è messa peggio. Bentornata la politica, e niente paura: contro gli evasori potrà essere interclassista.

La Repubblica 06.01.12

I parlamentari del Pd: “I tagli agli stipendi? Facciamoli”

“Ma la busta paga degli eletti non è che un aspetto di quello che deve essere cambiato”. I parlamentari modenesi Barbolini, Bastico, Ghizzoni e Miglioli intervengono con una nota comune nel dibattito sui tagli agli emolumenti degli eletti di Camera e Senato: in un momento in cui sono chiesti grandi sacrifici è giusto che tutti se ne facciano carico, ma non possiamo fermarci qui. E’ il momento delle riforme e della modernizzazione delle regole. Occuparsi di politica oggi, nell’immaginario collettivo, equivale ad essersi accaparrati una posizione di potere e privilegio e nient’altro. Non ci viene più chiesto cosa facciamo per rispondere al mandato consegnatoci dai cittadini, ma solo quanto guadagniamo per questo. La commissione Giovannini ha avuto il merito di riportare la discussione su dati reali e comparabili con altre nazioni. Il lordo dei parlamentari italiani è superiore a quello dei loro colleghi europei, il netto no. Ma questa non deve e non può essere una giustificazione. Non intendiamo rifugiarci dietro a una facile spiegazione meccanicistica dei computi delle buste paga, anche se basterebbe ricordare il contributo sostanzioso (e sacrosanto) che i parlamentari Pd versano al partito sia a livello nazionale che locale per marcare una prima differenza di sostanza. In epoca di difficoltà economiche, quando i sacrifici sono chiesti a tutti, noi per primi, come rappresentanti eletti dai cittadini, dobbiamo e vogliamo dare il buon esempio. Ci sono organismi interni al Parlamento deputati a stabilire le indennità percepite dagli eletti: che lavorino in fretta e che facciano i tagli opportuni per riparametrare le buste paga dei parlamentari a quelle dei loro colleghi europei. Il nodo più discusso è quello dei rimborsi forfettari? Si può e si deve gestire anche questa tranche dei nostri emolumenti nel modo più trasparente possibile in modo che sia chiaro a quale scopo viene erogato, ovvero per permetterci di svolgere al meglio il nostro incarico. Detto questo, però, non possiamo nasconderci che lo stipendio mensile dei parlamentari non è che un aspetto (anche se molto “spendibile” da un punto di vista mediatico) di quello che deve essere cambiato nel nostro paese: crediamo che i cittadini si aspettino (e si meritino) di più. A cominciare dal cambiamento di quella legge elettorale i cui stessi genitori hanno definito “una porcata” e che ha racchiuso nelle stanze delle segreterie dei partiti la scelta di chi deve rappresentarli in Parlamento. E’ cominciata un’era difficile, ma di possibili reali cambiamenti. Il tema delle grandi riforme costituzionali e istituzionali, e della modernizzazione delle regole per promuovere equità e crescita, deve essere quello che guida l’opera della politica.

"La precarietà ha ridotto l'occupazione", di Ronny Marzocchi

Nel nostro Paese la questione giovanile è un problema di antica data che è stato appesantito negli ultimi decenni dall’espansione indiscriminata del precariato e che ha subito un drammatico peggioramento con l’arrivo della crisi economica. Da anni i media raccontano di “bamboccioni” che rimangono con i genitori e ritardano le loro scelte di vita, di ragazzi usciti dalla famiglia di origine che sono dovuti rientrare a casa perché non ce l’hanno fatta, di giovani di talento che lasciano il paese incapaci di trovare un lavoro. Gli allarmanti dati che l’Istat ha diffuso sulla disoccupazione giovanile, quindi, non stupiscono. Le riforme del mercato del lavoro introdotte negli ultimi anni con l’idea di favorire l’occupazione dei giovani e degli altri gruppi svantaggiati si sono trasformate in un boomerang non appena il motore dell’economia ha cominciato a perdere colpi. Le analisi empiriche sull’impatto della recessione hanno mostrato come i grandi perdenti della crisi siano proprio i giovani: il dato del 2011 si va a sommare agli 854 mila posti di lavoro già persi nel biennio 2009-10. Come ha evidenziato l’Istat, il contributo dato dai giovani under-30 alla caduta dell’occupazione totale è stato pari al 58%: si tratta dell’incidenza più elevata fra i principali Paesi europei. Ad essere particolarmente colpiti sono stati soprattutto i lavoratori atipici: il 63% della caduta dell’occupazione totale ha infatti interessato i lavoratori dipendenti a termine e i collaboratori. La deregolamentazione del mercato del lavoro non solo ha fallito l’obiettivo di favorire l’inserimento nel mercato del lavoro delle nuove generazioni, ma ha scaricato anche sulle loro spalle l’intero onere della flessibilità, non essendo stata realizzata nessuna riforma del sistema di assicurazione contro la disoccupazione. Basti pensare che, ad oggi, il sostegno al reddito assicurato dal sistema degli ammortizzatori sociali raggiunge solo una quota assai modesta dei lavoratori atipici, e con importi quasi simbolici per non dire offensivi della dignità della persona. A preoccupare non è però solo la situazione contingente, ma anche le conseguenze che questa potrà avere in futuro. Lunghi e persistenti periodi di disoccupazione e instabilità lavorativa nella fase iniziale della vita professionale rischiano di produrre effetti negativi sui livelli salariali futuri e sulle prospettive occupazionali. L’erosione del capitale umano durante la disoccupazione e il fatto che i continui cambi di lavoro possano essere interpretati dai potenziali datori di lavoro come un segnale negativo delle capacità del giovane, portano infatti a retribuzioni permanentemente più basse. Questi effetti negativi, inoltre, investono anche altre dimensioni, come la possibilità di formarsi una famiglia e fare dei figli, condizione necessaria per la sostenibilità del welfare nel lungo periodo. Tutto questo dovrebbe sollecitare il governo ad approvare al più presto misure volte a far fronte a questi gravi problemi. Invece tutto il dibattito continua ad essere concentrato su come ridurre le tutele ai lavoratori con contratto a tempo indeterminato. Pare che il problema del nostro Paese sia che – nonostante Fincantieri, Irisbus, Osma, Treni Notte e altre decine di aziende – non si licenzi abbastanza facilmente. La disoccupazione giovanile è una questione di rilevanza nazionale e tentare di ricondurla all’ormai abusata contrapposizione fra precari e garantiti è l’ennesimo schiaffo dato ad una generazione che già paga sulla propria pelle un decennio di scelte sbagliate.

L’Unità 06.01.12