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"Carditello, il saccheggio senza fine di un capolavoro del Settecento" di Francesco Erbani

Il proprietario della reggia è un consorzio di bonifica che affoga nei debiti e che vorrebbe vendarla all’asta. Attorno una “danza macabra” di enti pubblici: tribunale, soprintendenza, ministero, Regione Campania. E intanto le infiltrazioni d’acqua cancellano gli affreschi e i ladri passano ogni notte a spogliare l’edificio di marmi, stucchi, pilastri e pavimenti
La reggia di Carditello cade a pezzi. E intorno a questo gioiello dell’architettura settecentesca, a pochi chilometri da Caserta, si allestisce una specie di danza macabra. Non bastano i ladri e i vandali che quasi ogni notte scavalcano il recinto e strappano la corona dello stemma, si avventano sulle aquile alla base dell’obelisco oppure danno fuoco a uno dei grandi platani che svettano davanti alla facciata dell’edificio, nell’arena dove i re Borbone allenavano i cavalli – i migliori nell’Europa del Settecento. Al grottesco e lugubre balletto dei saccheggiatori si aggiungono le istituzioni che dovrebbero occuparsi di questa residenza reale, costruita nel cuore di quella che un tempo era la Campania felix. E che invece scaricano le responsabilità l’una sull’altra. Lasciando che la reggia a marzo prossimo venga venduta all’asta per pochi spiccioli (poco meno di venti milioni, dopo due sedute andate a vuoto).

La reggia è di proprietà di un ente della Regione Campania, il Consorzio di bonifica del Basso Volturno, che affoga nei debiti. E che è costretto a svendere ai creditori (l’ex Banco di Napoli, ora Banca Intesa) il suo patrimonio. E quindi la reggia, finita ora sotto la custodia del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Qualche settimana fa il giudice che cura la vendita ha emesso un decreto con il quale si vieta a chiunque, anche ai giornalisti, di entrare. Pericolo di crollo, dice il provvedimento. Che impedisce ai cronisti di documentare lo strazio di un patrimonio culturale, ma non ha evitato che i saccheggiatori facessero man bassa. Qualche giorno fa si è deciso di istituire una vigilanza anche notturna. Ma la notizia è stata presa come l’ulteriore, tardiva beffa in una storia triste e tragica che va avanti da tempo.

Ai ladri si sommano gli effetti dell’abbandono in cui versa la reggia. Le decorazioni, restaurate appena una decina di anni fa, rischiano di staccarsi inzuppate dall’acqua che cola nelle murature, e sono in pericolo anche i preziosi affreschi di Jakob Philipp Hackert, amico di Goethe e pittore di corte con Ferdinando IV di Borbone, aggrediti dall’umidità e dalle muffe. I ladri sono saliti fin sull’altana, da dove lo sguardo spazia sulla maglia a scacchiera della campagna aversana che, nonostante le discariche abusive e quelle legali, conserva i tratti di un paesaggio rurale fra i più celebrati. Dalle balaustre hanno staccato i pilastrini in marmo, uno dopo l’altro, scartando quelli del piano di sotto che invece sono copie. I pilastrini che si sono rotti durante il trasporto li hanno abbandonati ai piedi del recinto. I pezzi interi li hanno portati via con i camion. Ci sono volute ore, i pilastrini sono pesanti e ingombranti. Ma nessuno ha visto niente. Negli anni scorsi hanno rubato quasi tutti i caminetti, i lastroni in marmo delle scalinate e interi pezzi di pavimento. Non si erano però mai viste tante razzie come negli ultimi giorni. Ora si teme per le cornici delle porte, anch’esse di un marmo che non si trova più in circolazione.

Il Consorzio di bonifica, che in realtà si occupa di irrigazione e regimazione di acque, ha ereditato la reggia, circondata da una tenuta di oltre 2 mila ettari, dall’Opera nazionale combattenti, alla quale finì in dote negli anni Venti del Novecento. Nessuno, né i combattenti né il Consorzio, hanno mai capito che cosa fare di questa meraviglia. La tenevano lì, inscrivendola nei propri bilanci e sperando che qualcuno se l’accollasse. Negli anni Ottanta nei padiglioni laterali di Carditello venne organizzato un Museo della civiltà contadina, tenuto con molta cura. Ma poi anch’esso venne abbandonato, i solai cominciarono ad aprirsi e le tegole si sfracellavano al suolo. I pezzi più belli vennero rubati, altri furono dispersi in varie collezioni. Attualmente ci sono solo brandelli di carretti, di macine e di aratri.

Alla fine degli anni Novanta il Ministero per i Beni culturali investì cinque miliardi di lire per restaurare la parte centrale dell’edificio, la vera e propria residenza reale. Ritornarono a splendere gli stucchi verde chiaro delle volte e ripresero colore gli affreschi di Hackert, molti dei quali raffigurano il paesaggio rurale dell’intorno, attraversato da cavalli e bufale, l’acquedotto carolino e la Reggia di Caserta. Il Consorzio vi installò alcuni uffici e la Reggia, seppure con abiti burocratici, viveva. Poi la crisi: le casse del Consorzio si andavano prosciugando e l’ente agonizzava a causa dei debiti. Fra i creditori c’era l’allora Banco di Napoli, che tramite una sua società, la Sga, avviò la procedura per la vendita all’asta.

La Reggia di Carditello ha iniziato a morire giorno dopo giorno. Vuota, abbandonata, perdeva pezzi. I tetti, sfondati, lasciavano entrare la pioggia che imbeveva le murature. Gli infissi non chiudevano più, l’acqua penetrava nei grandi saloni e stagnava nei solai. La Regione Campania (era Bassolino) avviò dei progetti di restauro e di riuso dell’edificio. Il Consorzio, per iniziativa di un commissario, Alfonso De Nardo, raggiunse un’intesa con la Sga che si sarebbe accontentata di 9 milioni, evitando che la reggia finisse all’asta. Bastava che la Regione, a sua volta debitrice del Consorzio, versasse nelle casse dell’ente quanto dovuto. Ma tutto è rimasto fermo. Nel frattempo è cambiata l’amministrazione regionale. Ora il presidente Stefano Caldoro fa sapere tramite la sua portavoce che lui su Carditello non ha niente da dire. E il consiglio regionale ha appena bocciato un emendamento alla legge finanziaria che stanziava tre milioni in tre anni per pagare il debito del Consorzio e per evitare che la reggia finisse nelle mani di chissà chi.

Il Consorzio accusa la Regione. E contro la Regione si scaglia anche la Soprintendente Paola Raffaella David. Che mette Caldoro sul banco degli imputati insieme a Consorzio e Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, cercando di impedire la vendita all’asta e chiedendo l’intervento dell’Avvocatura dello Stato per fermare la procedura. D’altronde, ribattono gli imputati, non è che i Beni culturali abbiano fatto granché. E in effetti a Carditello non si è mai visto nessuno in questi anni, tantomeno ministri o alti dirigenti di quel ministero, quasi che la reggia, fastidioso ingombro, non avesse altro destino che essere abbandonata o soccombere sotto i colpi dei vandali.

da Repubblica/reportage

«Manca ancora una strategia sulla lotta all’evasione fiscale», intervista a Vincenzo Visco di Bianca Di Giovanni

Si poteva fare di più (sulla lotta all’evasione) e meglio (sull’Irpef). Ma soprattutto si doveva fare prima: esattamente 10 anni fa. Purtroppo non è andata così: questa è la pesante responsabilità dei governi Berlusconi. A questo punto, dopo un decennio di malagestione dei conti e di racconti «fiabeschi» sulla realtà, agli italiani va detta la verità: «la manovra Monti è ineludibile. Necessaria, ma insufficiente». La vede così Vincenzo Visco, che descrive questo momento come «la crisi globale che si va dipanando. All’inizio se ne sono limitati gli effetti grazie al coordinamento internazionale delle azioni. Oggi invece ciascuno fa per sé, e la crisi peggiora». Difatti all’Italia non basterà aggiustare i conti: bisognerà anche modificare la politica economica europea. «il punto sta lì: si continua a chiedere di aggiustaee disavanzi, che sono l’effetto della crisi, non la causa. nel frattempo la Germania rischia di suicidarsi, evitando politiche espansive. Perché una cosa è chiara: il surplus tedesco può finire in due modi. O con la recessione, o con le politiche espansive. Scelgano loro». La «Merkel Politik» rischia di trascinare l’Europa nel baratro. «Non è un caso che Stati Uniti, Gran Bretagna, Fondo monetario osservano atterriti come l’Europa sia riuscita a farsi male da sola continua l’ex ministro del Tesoro Quello che si rischia oggi è che anche la Francia entri nell’occhio del ciclone già la prossima settimana. E dopo la Francia resta solo la Germania». Insomma, due livelli che si intersecano: quello nazionale e quello europeo. Gli italiani devono tenere i conti in ordine, i tedeschi e gli altri partner forti devono spendere: così si evita l’avvitamento. Perché «non c’è una formula uguale per tutti i Paesi: ciascuno deve fare quello che davvero serve».
L’intervento di Monti sarà recessivo?
«Tutte le manovre lo sono. Ma la questione è un’altra. Qui bisogna ricostruire la giusta sequenza logica. Nel 2011 abbiamo fatto una manovra dietro l’altra, e il governo Berlusconi non è riuscito a fare quello che c’era da fare. Il da farsi ha a che fare con i problemi strutturali del nostro Paese, e viene da molto lontano. Il debito dagli anni ‘80, la gestione del debito dagli anni 2000. Nel 2001 l’Italia aveva un avanzo primario di 5 punti di Pil e il debito era in calo. In 10 anni il surplus è stato azzerato e il debito ha subito un’inversione, a forza di finanza creativa e di vane promesse sulle tasse. Poi la crisi ha fatto il resto. Oggi Monti si trova a fare quello che andava fatto 10 anni fa. Ma è come rimettere il dentifricio nel tubetto: ci si impiastriccia le mani». Ma questa manovra basterà?
«Molto dipende da quello che accade in Europa, e Monti lo sa benissimo. La Bce ha ridato liquidità alle banche per evitare la stretta creditizia. È possibile che il peggio sia evitato. Ma il problema è un altro. Fermo restando che l’Italia doveva assolutamente fare la manovra, la Germania e gli altri paesi forti devono fare altro: cioè espandere. Altrimenti per l’Europa non c’è altro che recessione».
Se l’Italia ha fatto quello che doveva fare, perché lo spread resta alto?
«Le fluttuazioni dello spread non dipendono da quel che fa un singolo Stato, vedremo se le risorse date alle banche serviranno per acquistare titoli, e se la Bce continuerà con gli acquisti diretti. La mia impressione è che sia maturo un cambio di indirizzo in Europa. Lo dimostrano gli ultimi avvertimenti di Christine Lagarde all’Europa: state attenti che è il mondo a rischiare la depressione. Questo è il contesto in cui l’Italia si ritrova a pagare errori che sono tutti suoi. È inutile che Berlusconi se la prende con l’Europa: sono stati i suoi governi a scassare i conti. E lui cosa ha fatto fin’ora? Come mai non sapeva nemmeno che la Bce non può fare il prestatore di ultima istanza? Oggi sicuramente il ruolo di Francoforte va rafforzato: la Bce deve imporre spread credibili e assicurare che non si modificheranno. Così la speculazione si placherà».
Lei dice che bisognava recuperare 10 anni perduti. Non si poteva fare nulla di diverso nella manovra?
«Certo, qualcosa poteva essere anche diverso. Sulle pensioni si potevano smussare alcuni angoli, si poteva anche fare la patrimoniale sulle grandi fortune, sulle accise si sarebbe potuto aggiornare le aliquote all’inflazione (quindi alzarle, ndr), ma restituire il fiscal drag ai cittadini. Si poteva fare altro sicuramente, ma la sostanza non cambia».
Qual è il capitolo su cui è più critico. «Sono molto perplesso sulla lotta all’evasione, perché non c’è una strategia coerente né ex ante, né ex post. La misura sui conti correnti bancari si poteva fare in modo più semplice ed efficace. All’agenzia delle entrate bastano 4 numeri: saldi iniziale e finale, media dei depositi, media delle transazioni. Invece si è scelto di trasferire tutti i movimenti: un’operazione che richiederà almeno un anno per entrare in funzione, e che non aiuterà nella lotta all’evasione. Noto poi che si fa molta propaganda sul “cervellone” Serpico: è nato 12 anni fa, con il primo governo Prodi. Piuttosto che suonare le fanfare, bisognerebbe chiedersi come mai non ha funzionato finora. L’altra misura che avrei inserito è una detassazione, magari leggera, dell’Irpef. Ma, ripeto, queste osservazioni non mutano la sostanza. La manovra era necessaria, e non c’erano molti margini per l’Italia. D’altronde scontiamo i nostri peccati».
Le misure per la crescita la convincono?
«Anche qui è la stessa storia della finanza pubblica. Se ne parla da 10 anni e non si fa nulla. Tutti sanno che servono le liberalizzazioni, così come serve una macchina pubblica più efficiente. E anche qui mi chiedo: cosa hanno fatto i governi Berlusconi?» Serve davvero anche la riforma del mercato del lavoro?
«È singolare che in questo campo ci si divida su dei simboli. Secondo me bisogna fare una cosa molto semplice: guardare come funziona il mercato del lavoro nel resto del mondo, a prescindere dall’articolo 18. Faccio notare che negli altri Paesi gli ammortizzatori si pagano con la contribuzione. Cioè, pagano anche le aziende. Non è un caso che Sacconi difendesse tanto la cassa integrazione: così le imprese prendono solo soldi pubblici, senza contribuire alle tutele».
Per buona parte della base di sinistra la manovra è iniqua: si colpiscono pensionati a 1.400 euro lordi mensili. «Critiche giuste e sacrosante, ma irrilevanti di fronte alla necessità del contesto. In ogni caso, gran parte delle pensioni sono sotto quella cifra. E poi va ricordato che la spesa per pensioni è cresciuta di 3,1 punti di Pil in 10 anni, mentre quella per l’istruzione è diminuita di 2 punti. Nello stesso periodo la spesa per interessi è scesa di 2 punti, ma, ripeto, i governi Berlusconi si sono mangiati anche quei risparmi. A questo punto bisogna chiedersi: che tipo di società vogliamo? Dobbiamo o no recuperare risorse per la ricerca, l’Università, la scuola?»

L’Unità 02.01.12

"Non c'è crescita senza istruzione", di Patrizio Bianchi

Dopo i decreti «Salva Italia», ora è il momento degli interventi «Cresci Italia». Tuttavia è legittimo domandarsi se l’intero apparato produttivo italiano sia oggi effettivamente in grado di sostenere quell’accelerazione necessaria per tirarci fuori dal pantano in cui ormai da oltre quindici anni siamo finiti. È infatti dalla metà degli anni novanta che il nostro Paese presenta tassi di crescita annuali inferiori a quelli di ogni altro Paese avanzato. L’enfasi sulla finanza e sulla macroeconomia, che oggi tengono banco nel dibattito quotidiano, rischia di confondere la semplice verità dei fatti: se non ripartono produzione e lavoro non c’è crescita. Ma nel mondo d’oggi la crescita è legata alla capacità di essere competitivi, non solo sui prezzi,ma anche sulla qualità dei prodotti e questa è direttamente connessa con le competenze e le conoscenze delle persone. Ed è qui che il nostro sistema produttivo presenta oggi il suo deficit più significativo. I dati che abbiamo di fronte sono chiari: nonostante una significativa crescita delle esportazioni, il paese nel suo insieme non cresce, il che significa che gli esportatori sono troppo pochi per trascinarsi dietro tutto il paese. Secondo la Banca d’Italia le imprese leader, in grado di crescere anche in epoca di crisi, sono l’otto per cento del totale delle 65 mila imprese con più di 20 addetti. Nell’insieme occupano quasi un milione di addetti e quindi non si tratta di singole eccellenze,ma di un gruppo di circa 5000 imprese di medie dimensioni, sempre più concentrate nell’area della meccanica, che trascinano una consistente area di subfornitura e che sostengono le nostre esportazioni, mantenendo l’Italia nella posizione di secondo Paese manifatturiero d’Europa dietro la Germania superstar. Si tratta di imprese molto focalizzate su prodotti specifici, in cui si uniscono conoscenze molto approfondite dei paesi e dei consumatori a cui si rivolgono e competenze molto avanzate nelle tecnologie a questi dedicate. Perché allora questa apparentemente semplice ricetta non si applica a tutto il sistema industriale italiano? Dove è il vincolo all’ampliamento dell’area delle imprese virtuose? Diverse ricerche ci dicono che il principale vincolo oggi è dato proprio dallo scadente stato delle nostre risorse umane. Dopo anni di precarizzazione del lavoro e di tagli sconsiderati alla scuola ne cogliamo i risultati. L’European Innovation Scoreboard 2011 lo strumento con cui l’Ue misura la capacità innovativa dei singoli paesi ci colloca soltanto fra gli innovatori moderati, fra Croazia e Portogallo, mentre l’Ocse ci assegna l’ultimo posto fra i Paesi sviluppati per spesa pubblica in educazione sulla spesa pubblica totale, rilevando come in Italia vi sia il tasso di scolarizzazione più basso fra i Paesi avanzati, con un modesto 54% della popolazione avente un titolo di scuola secondaria contro un 85% della Germania. «Nella globalizzazione di fine Novecento, tuttavia – scrive la Banca d’Italia nella recente ricerca sui 150 anni dell’Unità – un basso livello di scolarizzazione è di ostacolo non solo all’adozione delle tecniche tipiche dell’epoca ma probabilmente anche alla comprensione di culture diverse dalla propria e, in generale, alla trasformazione sociale, oltre che economica, del Paese. È di ostacolo alla formazione di quell’intangibile capitale sociale di fiducia e appartenenza che agevola la coesione delle collettività». Fra gli interventi urgenti allora ci deve essere una forte azione sulla scuola ed in particolare sulla scuola professionale e tecnica, uscita massacrata dalla Riforma Gelmini. Bisogna, non solo innalzare la scolarità, ma anche legare questa a percorsi di formazione strettamente connessi a quel bisogno di competenze specifiche e visione critica che oggi sono la chiave vincente di quella parte della nostra industria che nonostante tutto continua a crescere. Su questo fronte esistono oggi nel Paese diverse esperienze,ma è tempo di ricondurle a sistema, sia per valorizzare l’ istruzione e formazione professionale che l’ istruzione tecnica superiore. A questo proposito in Emilia Romagnaè stato ridisegnato in modo integrato l’intero sistema di istruzione e formazione professionale (l.r. 5 del 28 giugno 2011), cui è stata aggiunta un’azione di sostegno all’apprendistato, rivolta a premiare l’innalzamento delle qualifiche e delle competenze. Si è così dato un senso di marcia sia alle imprese, che alle stesse scuole, sulla via che lega qualità e competitività delle produzioni a stabilità e qualità delle risorse umane impiegate. Su questa strada è ora che il governo dia chiari segni di movimento.

L’Unità 02.01.12

"Scuola, obbligo di trasparenza tutte le informazioni in rete" di Salvo Intravaia e Federica Carvero

Parte la scuola “open”, la svolta voluta dal ministro Profumo per garantire alle famiglie trasparenza. Dal 12 gennaio basterà collegarsi al sito del Miur per avere tutte le informazioni sugli istituti di ogni ordine e grado: dai corsi attivati alle dotazioni informatiche, dalle statistiche alle performance. Per i genitori sarà anche possibile iscrivere online i propri ragazzi.
«Andiamo verso la misurazione di tutto. Va bene, è meglio di niente, ma è triste». È una riflessione amara quella di Paola Mastrocola, 56 anni, scrittrice e insegnante torinese, a proposito del piano trasparenza sulla scuola avviato dal ministro Francesco Profumo.
Mettere in rete caratteristiche e performance può aiutare nell´orientamento?
«Si tratta certo di un contributo importante. Ma divento triste a pensare che di questo passo finiremo per scegliere tutte le cose della vita grazie a misurazioni e statistiche».
Invece?
«Invece le cose importanti sono altre. Per esempio potrò scoprire grazie a una tabella quanti insegnanti ci sono, ma mai quanti sono gli insegnanti bravi. D´altra parte, però, da tempo la scuola ha preso questo indirizzo, da quando una decina di anni fa sono stati introdotti termini spaventosi come “offerta formativa”. Già solo il nome fa pensare a un supermercato. E in effetti i Pof, i piani dell´offerta formativa che le scuole devono redigere, sembrano i dépliant degli alberghi che cercano di farsi pubblicità elogiando questo o quel servizio per la clientela».
Una volta la scelta della scuola si basava anche sul passaparola tra conoscenti e sulle esperienze degli ex alunni. È un metodo che non vale più?
«Tutt´altro, è utilissimo perché tutti sanno benissimo quali sezioni in una scuola funzionano e quali no, quali insegnanti valgono e quali no. Vox populi, vox dei. Il problema è che si tratta di un giudizio personale e soggettivo, che dipende molto dalla visione del mondo di ciascuno: c´è chi apprezzerebbe un insegnante che porta i ragazzi in gita quattro volte l´anno e chi lo troverebbe deleterio».
Cosa suggerisce, allora, a chi deve scegliere in che scuola andare?
«Dico di affidarsi maggiormente al caso. Si può guardare che ci siano due palestre o la lavagna multimediale, che si organizzino corsi di lingua e quant´altro. Ma il fatto che un istituto sulla carta sia più promettente di altri non deve essere un modo per affidare alla scuola ogni responsabilità sulla formazione degli studenti. Dobbiamo ricordare che lo studio e l´impegno sono individuali, questo è compito di ogni singolo ragazzo. Anche se non si capita nella classe migliore, quello che conta per studiare sono sempre i libri».

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Il ministro Francesco Profumo lancia “Scuola in chiaro”: una mezza rivoluzione per il sistema scolastico italiano. Fra qualche giorno, basterà collegarsi da casa al sito del ministero dell´Istruzione (www. istruzione. it) per ottenere tutte le informazioni necessarie per scegliere con cura la scuola statale o paritaria dove iscrivere i propri figli ed effettuare l´iscrizione online. Viale Trastevere ha illustrato le modalità del progetto, al via dal 12 gennaio, con due diverse note dello scorso 30 dicembre. «La prossima scadenza dell´avvio delle iscrizioni – scrive Profumo – ripropone il problema della ricerca e della diffusione delle informazioni relative a ciascuna istituzione scolastica. La ricerca in internet, infatti, non sempre consente di ottenere tutti gli elementi di informazione sulle scuole e, anche quando si ottengono, essi si presentano in forma frammentaria e disomogenea». Il servizio metterà a disposizione dei genitori «in una forma organica le informazioni relative a tutte le scuole italiane di ogni ordine e grado». Una “trasparenza” a 360 gradi, impensabile fino a qualche mese fa, che consentirà alle famiglie di effettuare raffronti e scegliere evitando brutte “sorprese”.

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Dallo psicologo di classe al bar interno per la ricreazione

Basterà un clic da casa e le famiglie italiane saranno in condizioni di conoscere in tempo reale se l´istituto prescelto è dotato di bar o se gli studenti saranno costretti ad uscire dalla scuola all´ora della ricreazione per poter mangiare qualcosa. Potranno anche scoprire se l´istituto è dotato di un´infermeria attrezzata e se in sede è presente il medico scolastico, lo psicologo o il servizio di counseling. E ancora: se all´interno della struttura scolastica è presente una mensa, se le famiglie possono fruire del servizio accoglienza e del post-scuola. Se pagelle e certificati si possono ottenere on-line, se con un semplice sms la scuola comunica le assenze degli studenti e se l´istituto è facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici.

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Dai laboratori di informatica ai campi di basket e calcetto

Con l´operazione del ministero mamme e papà potranno conosce quanti plessi ha la scuola individuata e quanti laboratori di informatica, multimediali e linguistici potranno utilizzare i propri figli. Se l´istituto è dotato di palestra coperta, di campo di basket o di calcetto. E ancora: quante Lim (lavagne interattive multimediali) sono presenti in istituto, se le classi sono risicate o spaziose e se l´edificio scolastico è nato per ospitare una scuola o per altre destinazioni. Saranno le scuole ad aggiornare le informazioni. «La completezza dei dati – precisa il ministro -dipenderà quindi anche da ogni istituzione scolastica che potrà contribuire ad un´operazione di trasparenza e diffusione delle informazioni che rappresenta uno degli elementi qualificanti dell´autonomia scolastica».

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Non solo tutti gli idiomi ma anche i corsi di vela

Dal prossimo 4 gennaio le singole scuole inseriranno nella piattaforma nata per agevolare la scelta di genitori e alunni, anche le informazioni relative all´offerta formativa e all´organizzazione scolastica di ogni singolo istituto.
Sarà per esempio possibile avere informazioni sulla scansione in trimestri o quadrimestri dell´anno scolastico, sulle eventuali materie aggiuntive, sul tempo pieno e prolungato. Ma anche sulle tante attività pomeridiane organizzate dalle scuole: cori di voci bianche, laboratori teatrali, di pittura o di danza. Oltre alla possibilità di partecipare ad un corso di vela o di sci alpino. Informazioni anche sugli idiomi che eventualmente si potrebbero parlare nella scuola: come albanese, friulano, occitano.

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I dati su alunni e prof e il numero dei bocciati

«L´Amministrazione – spiegano i tecnici del ministero dell´Istruzione – cura la predisposizione, in forma grafica e tabellare, dei dati riguardanti la singola istituzione scolastica».
In genere sono un tipo di informazioni già presenti nel cervellone ministeriale, ma che il governo Berlusconi dava col contagocce: “Si tratta di informazioni generali sulla scuola, alunni, esiti scolastici, personale scolastico e altro ancora».
Dal 12 gennaio mamme e papà potranno dunque sapere in anticipo se in una scuola si boccia “troppo” o se la selezione è insistente. E ancora: quanti alunni e insegnanti popolano l´istituto individuato e, forse, anche il livello della dispersione scolastica. Una modalità che farà tremare i polsi a più di un preside.

da La Repubblica 02.01.12

"Oggi più che mai è il lavoro la vera priorità", di Guglielmo Epifani

Il Paese a cui si è rivolto il discorso del Presidente della Repubblica è attraversato da preoccupazioni e inquietudini grandi, come poche volte è capitato nel passato. Si avverte l’insidia di una crisi economica e finanziaria solo in parte ascrivibile alle responsabilità nazionali.
Una crisi su cui ora gravano il peso delle manovre di aggiustamento dei conti pubblici; la crescita dell’inflazione e la caduta dei redditi da lavoro e pensione; la lunghezza di un ciclo senza crescita economica e le previsioni di una ulteriore caduta dell’occupazione e dei consumi per l’anno che si apre.
Innanzitutto grava sull’Italia il rischio di perdere altri 150mila posti di lavoro, o forse anche di più, in tutti i settori dell’industria e dei servizi. Per questo il presidente, senza nascondere la gravita del momento, ha esortato il Paese ad avere fiducia rassicurando che i sacrifici serviranno a fare uscire dalla crisi di oggi sia l’Italia che l’Europa. E parole non diverse hanno usato la cancelliera tedesca e il presidente della Repubblica francese, il quale ha messo la questione sociale al centro del suo discorso di fine anno.
Il punto però che continua a restare aperto soprattutto in Europa, a differenza della situazione americana, è come evitare che le politiche di restrizione della domanda, degli investimenti e dei consumi che sono necessarie ma sono anche causa della recessione in corso, non determinino un aggravamento delle condizioni dell’occupazione, del lavoro e delle prospettive comuni. E visto che non si riesce a fare assumere a livello europeo quelle decisioni che sarebbero necessarie già da tempo a partire dagli Eurobond per gli investimenti diventa necessario affrontare il tema di come sia possibile, Paese per Paese, sostenere una politica anticlica nei tempi più brevi.
Il governo Monti è chiamato a questa sfida e solo in questa prospettiva le condizioni dell’equità e della coesione sociale possono essere ricomposte. Ancora una volta cioè il tema non è quello dell’accettare o meno i sacrifici, ma se i sacrifici e il rigore nella loro qualità sociale ed economica determinano o meno la possibilità di ottenere risultati concreti, che consentano anche al nostro Paese e anche nel tempo della globalizzazione dei mercati di riprendere la strada dello sviluppo e di una crescita fondata su una buona e stabile occupazione.
Qualche commentatore ha voluto leggere nel discorso del presidente Napolitano una isposta a osservazioni e critiche che i sindacati confederali hanno avanzato ad alcune misure prese dal governo in materia previdenziale, di equità sociale e fiscale e di metodo di confronto. Conoscendo il presidente questo rilievo non è fondato mentre è stato evidente il richiamo a una comune e condivisa responsabilità sociale. D’altra parte il sindacato italiano non si è mai sottratto a questo dovere anche quando ha dovuto accettare una politica dei due tempi o i sacrifici spesso sono stati a senso unico, se è vero come è vero che l’Italia è oggi tra i Paesi europei più diseguali per distribuzione della ricchezza. Il punto di oggi è però un altro: non si esce da questa crisi se non si cambia la qualità del nostro sistema produttivo, se non si torna ad investire e ad innovare, se non si offre lavoro di qualità e ben remunerato: se, insomma, non si troverà anche da noi quello che tanti giovani trovano in giro per l’Europa o per il mondo. Troppi luoghi comuni sbagliati continuano ad essere riproposti nel dibattito italiano dall’articolo 18 alle cause circa il deficit di produttività del sistema e troppe scelte di questi giorni sono improntate a continuità che andrebbero rimosse, come nel caso dell’aumento dei pedaggi autostradali o delle accise sui carburanti; per non parlare del fatto che ancora una volta invece di ridurre il carico fiscale sul lavoro lo si sia fatto solo a vantaggio dell’impresa, per quanto con modalità corrette. Questo è il respiro che deve avere una politica per la crescita e la buona occupazione. Questa la prospettiva che si deve dare a chi perde il lavoro in questi mesi o non lo trova se non in forma precaria. Questa la svolta di cui c’è bisogno se vogliamo lasciarci alle spalle un decennio di declino e di arretramento anche morale e culturale.

L’Unità 02.01.12

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“Lavoro, 300 mila posti in bilico”, di Marco Ventimiglia

Archiviato un 2011 drammatico per l’occupazione, è appena partito un anno che potrebbe essere persino peggio, con le conseguenze della recessione in corso che sono ancora tutte da verificare. E così, a riprova dell’eccezionalità del momento, già nel giorno di festa si è cominciato a far di conto, cercando di inquadrare il vastissimo fronte delle vertenze fin qui avviate, con i principali leader sindacali che hanno subito fatto sentire la loro voce. E purtroppo l’impressionante numero di tavoli aperti al ministero dello Sviluppo economico appare come una prima conferma delle fosche previsioni formulate a metà dicembre da Confindustria. Il Centro studi di Viale dell’Astronomia, a fronte di una contrazione del pil dell’1,6% nel 2012 (cui dovrebbe seguire una mini ripresa dello 0,6% nell’anno successivo), ha infatti quantificato in 219mila le persone che perderanno il posto di lavoro nel biennio 2012-2013, il che porterebbe il conto totale dei nuovi disoccupati a 800mila da quando, era la metà del 2008, è iniziata la crisi globale tuttora in atto.
I SETTORI IN BILICO Quanto avvenuto negli ultimi mesi al ministero avvalora, come detto, le stime confindustriali. Sono circa 230 i tavoli aperti per cercare una soluzione alle molteplici crisi aziendali in corso. Un’emergenza che vede coinvolti 300mila dipendenti, con rischi occupazionali più immediati per 40mila persone. Quest’ultime lavorano per lo più nelle aziende che hanno in atto le trattative più serrate, circa un centinaio, mentre i settori più colpiti sono quello dei trasporti, del tessile, delle telecomunicazioni, senza naturalmente dimenticare l’auto che viene monitorata da vicino poiché la situazione è preoccupante non soltanto in Italia. Ad aggravare la situazione, poi, c’è il deterioramento del quadro economico generale che trasforma la perdita del posto in un dramma senza rimedio. Il mercato del lavoro non dà alcun segno di ripresa, ed a pesare sulle aziende italiane è il sempre più difficile accesso al credito, il cronico ritardo nei pagamenti da parte della pubblica amministrazione, nonché la crescente difficoltà a rimanere competitivi di fronte alla concorrenza internazionale. Il panorama delle vertenze appare quanto mai composito, a riprova dell’importanza e della globalità della crisi. Al centro dell’attenzione ci sono inevitabilmente i grandi gruppi come Fincantieri, l’ormai ex fabbrica Fiat di Termini Imerese e un altro pezzo del Lingotto, lo stabilimento Irisbus. E fra i tavoli che ripartiranno al ministero già in questi primi giorni di gennaio, ci sono quello dell’Omsa di Faenza, con 239 donne che rischiano la disoccupazione a marzo, e quelli per Agile ed Eutelia, due aziende in amministrazione straordinaria con un grave problema occupazionale da gestire visto che soltanto per la prima si parla di 1.350 dipendenti in bilico. E preoccupazione c’è anche per la Lucchini di Piombino, con 3mila dipendenti nel settore siderurgico, mentre un altro comparto in crisi è quello della chimica, con il polo di Terni fra quelli in difficoltà.
L’EMERGENZA MERIDIONE L’attenzione della cronaca si è concentrata negli ultimi giorni sulla clamorosa protesta dei tre dipendenti diWagonsLits, da quasi un mese sulla torre faro della Stazione centrale di Milano per protestare contro i 539 licenziamenti. E un altro settore molto difficile è quello delle telecomunicazioni. «Alcatel – sottolineano al ministero – ha annunciato un nuovo taglio di organico pesante, Nokia-Siemens ha ridotto tutte le attività produttive e di ricerca, Italtel è in difficoltà». Naturalmente un altro aspetto da tener presente è quello geografico. Al dicastero dello Sviluppo economico si evidenzia «il cronicizzarsi di situazioni di crisi nel Sud, alcune delle quali molto compromesse ». Fra queste, l’ex polo elettronico di Caserta piuttosto che il settore ferroviario con le vertenze di Firema e Ansaldo Breda.❖

L’Unità 02.01.12

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Lavoro, allarme dei sindacati “Si rischiano tensioni sociali dal governo subito un piano”, di Luisa Grion

In pericolo 30-40 mila posti. Bagnasco: serve coesione
Bisogna far ripartire l´economia e varare un piano che riaccenda l´occupazione perché – senza interventi immediati – la carenza di lavoro e la scarsità di reddito, nei prossimi mesi, potranno far esplodere la tensione sociale. Per i sindacati è questa la prima emergenza del Paese, il punto numero uno che il governo deve mettere in agenda per il nuovo anno. Lo hanno detto ieri i tre leader di Cgil, Cisl e Uil e lo dicono anche i numeri.
Sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico ci sono infatti 230 casi di crisi aziendali in attesa di soluzione: interessano, compreso l´indotto, 300 mila lavoratori e mettono in pericolo, nel breve periodo, 30-40 mila posti. La cifra totale «non coincide assolutamente con il numero dei posti di lavoro a rischio» tiene a precisare il ministero, ma certo il quadro di partenza è complesso. Le vertenze aperte riguardano infatti una bella fetta dell´industria italiana: da Fincantieri a Irisbus, dalla Lucchini di Piombino alla veneziana Pansac, dall´Ansaldo Breda agli stabilimenti Fiat (situazione monitorata, ma sulla quale non c´è un vero e proprio tavolo). C´è tutto il polo chimico, il polo tessile del beneventano e in generale le aziende che hanno pochi sbocchi sul mercato internazionale.
Un quadro ampio e critico che ha fatto scattare l´allarme dei sindacati. Susanna Camusso, leader della Cgil, lancia un messaggio chiaro: «Nei prossimi mesi – avverte – c´è il rischio di tensioni sociali crescenti: la recessione avrà un impatto duro su occupazione e redditi». Bisogna contrastarla «con un piano per il lavoro» perché «il rischio che cresca il conflitto man mano che cresce la diseguaglianza è reale». La Cgil, dunque, sul tema ha una visione diversa da quella espressa da Palazzo Chigi (il premier Monti, nell´ultima conferenza stampa, si era detto sicuro «che il Paese ci capisce e non ci saranno grandi tensioni sociali»). La Camusso, invece, apprezza il richiamo all´unità e alla coesione fatto dal presidente della Repubblica Napolitano nel messaggio di fine anno, ma chiede al governo «più coraggio». «Il mercato non basta, serve strategia e politica. Il professor Monti è disponibile a condividere strategie e politiche? Se lo è noi faremo la nostra parte».
Una linea, quella del piano condiviso, sulla quale è d´accordo anche la Cisl di Raffaele Bonanni . Il fatto che nei prossimi mesi possano aumentare o meno le tensioni «dipenderà solo dal comportamento del governo – precisa il leader sindacale – noi volgiamo una concertazione vera su tutti i temi economici e sociali». Ma «la necessaria rapidità delle decisioni non può divenire un alibi per evitare il confronto con il sindacato. Non accetteremo pacchetti preconfezionati o ispirati da altri». «Le regole calate dall´alto – avverte anche il leader della Uil Luigi Angeletti – fanno poca strada. E l´aumento della disoccupazione non è un antidoto alla pace sociale, anzi è benzina sul fuoco: questo è il problema sul quale concentrarsi».
Ma non è solo il sindacato a preoccuparsi del clima dei prossimi mesi, sul tema è ritornato ieri anche il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei. «Dobbiamo creare più coesione ed essere tutti più positivi – ha detto – A forza di seminare vento si raccoglie tempesta. Si tratta della tempesta della sfiducia, del tutti contro tutti, dell´avvilimento, della litigiosità esasperata e inconcludente, della rabbia sorda, ma che potrebbe scoppiare. Il clima di sospetto degli uni contro gli altri non conduce da nessuna parte».

La Repubblica 02.01.12

"Il diritto di fare figli e lavorare", di Mariella Gramaglia

A Bologna nella notte del 31 dicembre, da genitori ambedue italiani del piccolo paese di Monterenzio, è nata Linda, la prima cittadina dell’anno che viene. Poco dopo a Roma si è affacciata al mondo Sofia, di mamma vietnamita e di papà italiano. E ancora, a Torino, Takwa, di genitori tunisini, che sarebbe assurdo che restasse straniera nella nostra terra, come ci ha ricordato ancora una volta Napolitano nel discorso di fine d’anno.

Sono 78.000 ogni anno i bambini nati in Italia da genitori stranieri. Uno su cinque, sul totale di 561.900 neonati stimabile anche per l’anno prossimo, avrà almeno un genitore straniero. Una benedizione del cielo, anche per chi il cielo lo vede poco stellato e vuoto di dei. Le mamme italiane, infatti, sono stanche. Se dipendesse solo da loro il tasso di fecondità sarebbe dell’1,29%, uno dei più bassi del mondo. Le straniere non sono delle fattrici senza posa. Semplicemente si adeguano ai tassi degli altri Paesi sviluppati. Arrivano al 2,13, come in Francia e negli Stati Uniti, e ci permettono per ora di tenere il nostro ricambio demografico un po’ più vicino al pelo dell’acqua.

Eppure le donne italiane non sono particolarmente stravaganti. Quando l’Istat le interroga sui loro desideri di maternità rispondono in grande maggioranza di desiderare almeno due bambini. Insomma vorrebbero che l’Italia, anche da questo punto di vista, fosse un Paese normale. Perché lo sia – dicono i demografi – occorrono politiche non estemporanee, di lungo periodo, che permettano alle giovani donne di cogliere una tendenza che cambia e di fidarsene.

Il nuovo governo parla spesso di patto intergenerazionale per rendere il mercato del lavoro meno ingiusto verso i giovani. Non sarebbe male che il patto non riguardasse un sesso soltanto. Le donne attempate si preparano ad andare in pensione più tardi e ad accettare, anche loro malgrado, i vincoli dei tempi più grigi. Ma le giovani madri possibili, tanto coccolate dalla retorica e tanto dimenticate dalla politica? Quasi la metà, per via dei contratti atipici, non ha diritto all’assegno di maternità. Un quinto esce dal mercato del lavoro dopo la nascita del primo figlio, talvolta perché costrette a dimissioni preventive per aggirare il divieto di licenziamento. Pressoché nessuna può contare su un compagno che si prenda cura di un nuovo essere che è caro anche a lui, perché in Italia non esistono congedi di paternità obbligatori per un tempo significativo.

La ministra del Lavoro e del Welfare Elsa Fornero ha rifiutato di ricevere una delegazione di giovani composta solo di maschi: pensava che testimoniassero di una pessima visione del futuro. Speriamo che rifiuti anche di firmare misure «Cresci Italia» in cui gli unici a non nascere e a non crescere continuino ad essere i nostri bambini.

Per cominciare a cambiare rotta non ci vuole molto: l’assegno di maternità per tutte le madri, indipendentemente dal loro contratto di lavoro (ma rispettando i diritti acquisiti dei contratti di lavoro stabili), il ripristino di una legge del 2007 che impediva le dimissioni in bianco attraverso soluzioni tecniche efficaci, l’estensione fino a dodici settimane, anche in momenti diversi della vita del figlio, del congedo di paternità obbligatorio. Costa? Sì, costa. Ma costa di più essere un Paese di vecchi.

La Stampa 02.01.12

"Discorso alla nazione", di Massimo Giannini

“Il discorso del re” non è stato solo un magnifico film di questo terribile 2011. È stato anche il messaggio di Capodanno a reti unificate di Giorgio Napolitano, che almeno sul piano simbolico è ormai al tutti gli effetti il vero “sovrano democratico” di questa incompiuta e inconcludente Repubblica parlamentare. Al contrario degli ultimi due anni, stavolta il capo dello Stato non si e limitato a un breve e colloquiale augurio dedicato alle famiglie italiane sedute a tavola per il solito cenone. “Re Giorgio”, come ormai lo ha ribattezzato il New York Times, ha tenuto un vero e proprio “discorso alla nazione”. Ad alto impatto etico, politico e persino psicologico.
Colpiscono i toni. A differenza del capodanno 2010, nelle parole del presidente della Repubblica si è percepito un piglio e un orgoglio del tutto inusuali, ma assolutamente coerenti con la fase. Napolitano sente l´esigenza di scuotere il Paese dalla sua inebetita frustrazione. Di strigliare la politica nella sua stupefacente auto-sospensione. Di stimolare il governo nella sua complicata missione. Di svegliare l´Europa dalla sua masochistica indecisione.
Convincono i contenuti. L´orizzonte è davvero oscurato da «interrogativi angosciosi», che riguardano l´economia e l´occupazione, la vita delle persone e il futuro dei giovani. Anche Napolitano, come Monti, parla il linguaggio abrasivo della verità. L´emergenza «resta grave», nonostante tutti gli sforzi fatti in questi ultimi mesi e nonostante la manovra pesante appena varata dal governo. Sono tanti i mali di questo declino italiano. È faticoso «recuperare la credibilità» perduta: i titoli di stato restano sotto attacco, il debito pubblico resta un «macigno pesante», il diritto al lavoro resta un miraggio, il modello sociale europeo sembra minacciato, insieme al sistema dei diritti che ha finora garantito. Evasione e corruzione minano le fondamenta della convivenza civile.
Ma soprattutto si allarga l´area del disagio e della disuguaglianza sociale. L´emergenza occupazionale si fa più acuta, fino a mettere a repentaglio «il futuro dei nostri figli». Serviranno altri sacrifici, per restituire alle nuove generazioni tutto ciò che gli è stato tolto. Serviranno anche tagli alla spesa pubblica, che in molti capitolo è cresciuta troppo. Serviranno nuovi equilibri nelle risorse del Welfare, troppo generoso con chi è già tutelato e troppo avaro con chi non lo è affatto. Napolitano non nasconde un solo dei tanti risvolti della drammatica crisi italiana. Ma la forza del suo messaggio sta nell´appello ad agire e a reagire, che il capo dello Stato rivolge a cittadini e classi dirigenti.
C´è il rischio che il Paese sia attraversato da pericolose tensioni e da rischiosi conflitti sociali. Cgil, Cisl e Uil lo dicono senza tentennamenti. Per questo il messaggio del presidente della Repubblica va raccolto senza esitazioni. Il ricordo delle durissime esperienze maturate nel Pci dentro le fabbriche della sua Napoli è quanto mai puntuale. L´evocazione del tragico ´77, con un Paese insanguinato dal terrorismo e sfibrato dall´inflazione a due cifre, è quanto mai attuale. Serve uno spirito da nuova «solidarietà nazionale», che va trovato qui ed ora. E questo ci riguarda tutti. Governati e governanti. Elettori ed eletti.
Nella sua pur evidente anomalia, l´Italia non vive in una “democrazia sospesa”. Siamo nello Stato di diritto formale e sostanziale, e non nello “stato d´eccezione” di Carl Schmitt. Il governo legittimo del Paese esercita le sue funzioni su mandato espresso del Parlamento. Ma i partiti, mentre il governo governa, hanno il dovere di rifondare se stessi, con l´unica stella polare del bene comune e dell´interesse generale. Se non fanno questo, se non si concentrano senza logiche di bottega sulle grandi riforme istituzionali che il capo dello Stato giustamente continua a invocare, l´onda dell´Anti-politica finirà per travolgere tutto e tutti. E allora non ci sarà più nulla da fare, e più nulla da chiedere o da rivendicare in Europa, dove i nostri sforzi non saranno mai più presi sul serio.
Ma nell´anno che e appena iniziato, Napolitano allunga di nuovo il suo sguardo su Mario Monti. Il suo governo è sempre di più il “governo del Presidente”, che non ha subordinate né alternative. Deve durare, e su questo Napolitano ha pienamente ragione. Ma deve soprattutto operare. E deve fare di più per dimostrare che una nuova Italia e ancora possibile. Il suo governo “di impegno nazionale” ha di fronte la sfida del risanamento, ma anche e soprattutto quella della crescita economica e della giustizi sociale. La sua missione, per quanto nobile e necessaria, non può ridursi a una pura e semplice “penitenza tecnocratica”. Solo se saprà ricominciare a produrre ricchezza e lavoro l´Italia «può farcela», come dice il capo dello Stato, perché ci sarà qualcosa da redistribuire, e dunque ci saranno più equità e più coesione. L´orizzonte non e troppo lungo, ma nemmeno troppo breve. Di qui alla scadenza naturale della legislatura c´è un tempo sufficiente per impostare le riforme strutturali e le rivoluzioni culturali di cui questo Paese ha bisogno. A Monti è richiesto uno scatto d´orgoglio nazionale ed eccezionale.
E´ questa la condizione che può far si che i sacrifici di oggi non diventino «inutili». Tocca al premier generare nella società italiana la «nuova forza motivante» di cui parla Napolitano. Ma per farcela, il Professore deve dare in fretta il colpo d´ala, nel Paese e in Parlamento. Come disse Aldo Moro ai tempi dell´apertura a sinistra della Dc, non deve «avere paura di avere coraggio». C´è ancora un anno e mezzo, prima del voto del 2013: se i partiti saranno cosi irresponsabili da sprecarla, il governo non deve permetterselo. Nel grande freddo di questa ennesima transizione italiana, il vuoto lasciato dai palazzi del potere può essere colmato di buona politica. Sotto la neve, il pane.

La Repubblica 02.01.12