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"Il diritto di fare figli e lavorare", di Mariella Gramaglia

A Bologna nella notte del 31 dicembre, da genitori ambedue italiani del piccolo paese di Monterenzio, è nata Linda, la prima cittadina dell’anno che viene. Poco dopo a Roma si è affacciata al mondo Sofia, di mamma vietnamita e di papà italiano. E ancora, a Torino, Takwa, di genitori tunisini, che sarebbe assurdo che restasse straniera nella nostra terra, come ci ha ricordato ancora una volta Napolitano nel discorso di fine d’anno.

Sono 78.000 ogni anno i bambini nati in Italia da genitori stranieri. Uno su cinque, sul totale di 561.900 neonati stimabile anche per l’anno prossimo, avrà almeno un genitore straniero. Una benedizione del cielo, anche per chi il cielo lo vede poco stellato e vuoto di dei. Le mamme italiane, infatti, sono stanche. Se dipendesse solo da loro il tasso di fecondità sarebbe dell’1,29%, uno dei più bassi del mondo. Le straniere non sono delle fattrici senza posa. Semplicemente si adeguano ai tassi degli altri Paesi sviluppati. Arrivano al 2,13, come in Francia e negli Stati Uniti, e ci permettono per ora di tenere il nostro ricambio demografico un po’ più vicino al pelo dell’acqua.

Eppure le donne italiane non sono particolarmente stravaganti. Quando l’Istat le interroga sui loro desideri di maternità rispondono in grande maggioranza di desiderare almeno due bambini. Insomma vorrebbero che l’Italia, anche da questo punto di vista, fosse un Paese normale. Perché lo sia – dicono i demografi – occorrono politiche non estemporanee, di lungo periodo, che permettano alle giovani donne di cogliere una tendenza che cambia e di fidarsene.

Il nuovo governo parla spesso di patto intergenerazionale per rendere il mercato del lavoro meno ingiusto verso i giovani. Non sarebbe male che il patto non riguardasse un sesso soltanto. Le donne attempate si preparano ad andare in pensione più tardi e ad accettare, anche loro malgrado, i vincoli dei tempi più grigi. Ma le giovani madri possibili, tanto coccolate dalla retorica e tanto dimenticate dalla politica? Quasi la metà, per via dei contratti atipici, non ha diritto all’assegno di maternità. Un quinto esce dal mercato del lavoro dopo la nascita del primo figlio, talvolta perché costrette a dimissioni preventive per aggirare il divieto di licenziamento. Pressoché nessuna può contare su un compagno che si prenda cura di un nuovo essere che è caro anche a lui, perché in Italia non esistono congedi di paternità obbligatori per un tempo significativo.

La ministra del Lavoro e del Welfare Elsa Fornero ha rifiutato di ricevere una delegazione di giovani composta solo di maschi: pensava che testimoniassero di una pessima visione del futuro. Speriamo che rifiuti anche di firmare misure «Cresci Italia» in cui gli unici a non nascere e a non crescere continuino ad essere i nostri bambini.

Per cominciare a cambiare rotta non ci vuole molto: l’assegno di maternità per tutte le madri, indipendentemente dal loro contratto di lavoro (ma rispettando i diritti acquisiti dei contratti di lavoro stabili), il ripristino di una legge del 2007 che impediva le dimissioni in bianco attraverso soluzioni tecniche efficaci, l’estensione fino a dodici settimane, anche in momenti diversi della vita del figlio, del congedo di paternità obbligatorio. Costa? Sì, costa. Ma costa di più essere un Paese di vecchi.

La Stampa 02.01.12