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"Primo in tutto il territorio il Pd ora è partito nazionale", di Ilvo Diamanti

Primo partito in Italia. Alle regionali, ha conquistato il Piemonte e l’Abruzzo. Alle europee, ha quasi doppiato il principale antagonista, ottenendo oltre 5 milioni più del M5s. Anch’esso partito “nazionale”, per distribuzione del voto.
Il PD di Renzi. Un “post-partito” personale. Il PD(R) ha superato la soglia del 40%. Mai raggiunta da un partito di sinistra, neppure nella Prima Repubblica. Fino a ieri, e anche nel 2013, la base elettorale di Centrosinistra era addensata nelle regioni dell’Italia centrale. Nella “zona rossa”, come viene definita ancora oggi. Riflesso della frattura anticomunista che ha segnato il comportamento politico degli italiani. Riproposta, ad arte, da Silvio Berlusconi, per chiudere gli avversari dentro gli antichi steccati. In una condizione di “minoranza”. Ma quell’epoca è finita. E il PD si presenta come un partito nazionale. Il primo in quasi tutte le province italiane. E la sua crescita ha coinvolto non solo le province e le regioni del Centro. Ma, anche e soprattutto, territori ostili alla Sinistra. Come il “mitico” Nordest. Nelle province tradizionalmente più bianche del Veneto (bianco). Treviso, Padova, Verona, infatti, il PD è cresciuto in misura più elevata rispetto alla media nazionale. Perché è riuscito a intercettare il consenso e la fiducia di ceti sociali da sempre lontani e ostili nei confronti della Sinistra. I ceti medi autonomi, i piccoli imprenditori, i liberi professionisti. D’altronde, in un sondaggio di Demetra (per Confartigianato), condotto presso un campione di circa 800 artigiani veneti, nelle settimane precedenti il voto, il 34% degli intervistati annunciava che avrebbe votato per il PD. Un anno fa, un sondaggio condotto sul medesimo campione aveva dato esiti molto diversi. Visto che, allora, il partito più votato dagli artigiani risultava il M5s. Ecco,
questo mutamento dà il segno della svolta a cui abbiamo assistito il 25 maggio. La geografia elettorale del voto di domenica, infatti, mostra come la crescita del PD sia largamente speculare rispetto alle perdite del M5s. In altri termini, buona parte dell’avanzata del PD, rispetto a un anno fa, è avvenuta nelle aree dove il M5s è arretrato maggiormente. Il Nordest, appunto. (Dove ha ripreso fiato la Lega.) Inoltre, molte province “di sinistra”: di Toscana, Umbria e Marche. Alcune province della Sicilia. Il M5s, inoltre, ha perduto dove è cresciuta maggiormente l’astensione. Nel Sud e in Sicilia, anzitutto. Ma anche nel Triveneto (e in particolare, in Friuli-Venezia
Giulia).
Il M5s stesso, comunque, si conferma attore del nuovo bipartitismo italiano. Accanto al PD, che ne costituisce il riferimento dominante. Insieme, i due partiti, oggi, rappresentano quasi i due terzi dei voti (validi). Ma la differenza fra i due, oggi, è che il PD ha quasi il doppio dei voti rispetto al M5s. E ne ha guadagnati oltre due milioni e mezzo, rispetto a un anno fa. Mentre il M5s ne ha perduti quasi tre.
Il risultato del Pd, d’altronde, è stato sicuramente favorito da Grillo e dal M5s. Che hanno concentrato la campagna elettorale “contro” Renzi. In questo modo, hanno trasformato la competizione in un referendum “personale”. Pro o contro Renzi. Pro o contro Grillo. Usando la leva della “sfiducia”, Grillo ha, così, canalizzato verso Renzi la domanda di “fiducia” che, anche se frustrata, è diffusa, nel Paese. Nelle zone e nei settori sociali “produttivi” del Nord. Ma anche nei mondi periferici, battuti dalla crisi
economica. Così, il PD, unico partito rimasto sul territorio, ha potuto avvantaggiarsi della propria presenza organizzata. Ma anche della “fiducia” personale nei confronti di Renzi. Immune dal virus “anticomunista”. Non a caso, un sondaggio di Demos (per il Gazzettino) nello scorso aprile rilevava un grado di fiducia verso Renzi , fra gli elettori del Veneto (già democristiano, poi leghista e infine pentastellato), del 57%. Il più elevato ottenuto da un presidente del consiglio negli ultimi vent’anni. Berlusconi compreso. Berlusconi, appunto. Insieme a FI, appare periferico e quasi marginale. Presente soprattutto in alcune province del Sud. Lontano dalle origini, quando rappresentava la borghesia milanese e lombarda alla conquista di Roma. E se i partiti di Centro-destra, insieme, pesano ancora molto (circa il 30%, come ha osservato Luca Ricolfi), il declino di Berlusconi li rende privi di identità.
Da ciò la differenza e la continuità rispetto alle elezioni dell’anno scorso. Che erano politiche, non va dimenticato. Anche se la campagna elettorale, in queste elezioni europee, è stata giocata, quasi per intero,
su questioni politiche “nazionali”. Dal voto di febbraio di un anno fa erano uscite tre grandi minoranze politiche. Ora, invece, si confrontano una grande maggioranza di governo, il PD di Renzi. E una minoranza di protesta, il M5s. Tutto il resto è sfondo. L’elemento di continuità e di stabilità, invece, è nella discontinuità e nell’instabilità del voto. L’anno scorso, rispetto alle elezioni politiche del 2008, oltre il 40% degli elettori cambiò partito, o meglio, schieramento. Quest’anno non sappiamo ancora di preciso quanti siano i voti “infedeli”. Ma sono un’ampia quota degli elettori. Perché la fedeltà di voto non è più una virtù. E il cambiamento è divenuto regola. Così ogni elezione diventa un’occasione di confronto. Aperto. Dove non è possibile prevedere l’esito. Renzi, per questo, è atteso da un compito duro. Cambiare il Paese per convincere gli elettori. Ora, di certo, ha più forza per provarci.

La Repubblica 27.05.14

"Il grande spreco di Capitan Beppe", di Michele Serra

Ma davvero Beppe Grillo (tirando in ballo ex post De André e il suo Maggio) crede che gli italiani abbiano votato in massa Pd perché antepongono a tutto “la sicurezza e la disciplina”, perché hanno “paura di cambiare”? Di sicurezza e di disciplina ce n’è molta di più nel suo Movimento, blindatissimo anche nelle sue propaggini internautiche, piuttosto che in quella baraonda raccogliticcia e fratricida che è il Pd .
QUANTO alla paura di cambiare è esattamente quanto può essere imputato a lui per avere dilapidato, poco più di un anno fa, un patrimonio politico formidabile e inedito, nel nome di quel ticchio stravagante (suo e di Casaleggio) secondo il quale «destra e sinistra sono la stessa cosa». Pidielle e Pidimenoelle: vi ricordate? Ora il paradigma grillino va brutalmente aggiornato. Alla luce dei risultati il Pd è, semmai, Pidipiuelle, nonché Pidipiucinquestelle.
Chieda Grillo agli analisti del voto — ammesso che ne conosca qualcuno che non ritenga venduto al nemico — quanti consensi hanno perduto, i Cinque Stelle, tra gli italiani di sinistra delusi che li avevano votati alle politiche. Troverà qualche buon indizio su quanto è costato, al suo movimento, il protervo isolazionismo sul quale si è eretto il traballante tripolarismo che da un lato ha rimesso in gioco (sia pure per poco) Berlusconi, dall’altro ha spianato la strada alla riconferma del detestato Napolitano e a quello sgorbio ancora semi-vigente che sono le “larghe intese”.
Basterebbe vivere in mezzo alla gente (anche a computer spento) e non barricati con la propria tribù, chiudere la bocca e aprire le orecchie, per capire che Renzi ha vinto per le ragioni opposte a quelle agitate da Grillo: ha vinto perché nella disperazione/depressione di una crisi di sistema, economica, politica, culturale, morale, gli si accredita — a torto o a ragione — la forza di cambiare. È un trucco? Un inganno? Lo scopriremo vivendo. Una sostanziosa percentuale degli italiani che ha votato Renzi lo ha fatto nonostante riserve e diffidenze sulla persona (vedi l’esecuzione a freddo di Enrico Letta) e sul suo pragmatismo così poco identitario, così poco seduttivo soprattutto per l’ancora numerosissimo elettorato storico della sinistra. Ma se lo hanno fatto, se cioè hanno sciolto i loro dubbi, è solo per la ragionevole spe-
ranza di vedere ripartire il motore inceppato della politica; per il sollievo innegabile di scoprire finalmente nella pagina politica dei telegiornali, e alla voce “governo”, qualche faccia di figlio/ figlia e non di padre/madre; per la speranza (l’illusione?) che l’energia di Matteo Renzi abbia veramente quegli effetti anticorporativi e “modernizzanti” che (per esempio) fanno sembrare vecchie le proteste dei tassisti, e nuove le app con le quali si prenota una macchina più facilmente e a costi minori. In una parola sola: il cambiamento. La speranza che sia ancora possibile.
È perfino superfluo dire che questa speranza può risultare fallace, o perché malriposta o perché è ormai troppo incrostato il paese, troppo debole la politica, troppo corrotto il rapporto tra società e istituzioni. Ma è del tutto evidente che è stata questa e solo questa — la volontà di cambiare — a spingere gli italiani a votare Renzi rompendo vecchi argini di appartenenza, e scommettendo sui vantaggi del post-ideologico dopo averne ampiamente pagato gli svantaggi, sotto forma di spaesamento e di disillusione.
Si capisce che per Grillo sia troppo doloroso ammettere che, alla voce “cambiamento”, un ex boy scout a capo di un vecchio partito ristrutturato in fretta e furia riscuota il doppio degli applausi di una star dello spettacolo a capo di un dirompente movimento di giovani. Ma è esattamente, precisamente quello che è accaduto. E la realtà, fino a contrordine, è ancora saldamente la sola, incontrastata padrona dei nostri destini.
Ps — Quanto a Berlinguer e De André: non sono monopolio di alcuno, se non di chi li ha amati e ancora li ama. Ogni volta che Grillo li cita, sappia che fa felici anche gli elettori di Renzi, di Tsipras o di altri, compresi gli astenuti e le schede bianche.

La Repubblica 27.05.14

Renzi: Questo è il momento dell'Italia

“Questo Paese è decisamente migliore di come ce lo raccontiamo”. Così il premier e segretario del Pd Matteo Renzi nell’apertura della conferenza stampa a palazzo Chigi dopo le europee dove ha sottolineato come “gli italiani hanno dimostrato, con una partecipazione significativa, forse la più alta d’Europa, che c’è un’Italia profonda che non si rassegna”. “Il primo segnale, prima ancora del risultato è che l’Italia c’è, è più forte delle paure che la attraversano ed è in grado di incidere con più forza in Europa. Io avverto questa responsabilità innanzitutto”.
“E’ stata una campagna elettorale molto feroce, dico ai a chi sarà eletto di abbassare i toni e alzare le ambizioni. Il risultato di questa notte ci dice che il cambiamento che abbiamo promesso deve arrivare in tempi ancora più veloci”.
Europee
“Grazie dal profondo del cuore a tutti italiani che hanno dimostrato con una partecipazione molto significativa, una delle più alte d’Europa, che questo Paese è decisamente migliore di come ce lo raccontiamo. L’Italia c’è. Confermo, non era un referendum sul governo, non lo considero un voto su di me. E’ un voto di speranza straordinaria di un Paese che ha tutte le condizioni per cambiare e per invitare l’Europa a cambiare. In Europa da una parte le forze che vengono definite populiste in alcuni Paesi hanno ottenuto un risultato straordinario e in altri un risultato significativo. Dall’altra parte c’è un’idea di Europa che ha fallito. Nel mezzo il grande spazio per il cambiamento possibile: riportare l’Europa ad essere il luogo delle famiglie, delle imprese. Questo è il nostro sogno. Questo risultato ci spinge fortissimamente ad avere consapevolezza del nostro compito”.

Riforme
“L’Italia c’è, è determinata e decisa. Questo risultato spinge tutti noi ad avere consapevolezza del nostro compito. Avvertiamo lo straordinario compito cui i cittadini ci hanno chiamato: togliere gli alibi, non c’è più spazio per rinviare le riforme”.

Governo
“Dopo il voto di ieri a Roma nei palazzi della politica nessuno ha più alibi, non si possono più rinviare le riforme: quella della Costituzione, della legge elettorale, del lavoro, del fisco, della giustizia. Il mio invito a tutte le forze che sono in Parlamento è di abbassare i toni e alzare le ambizioni. L’Italia deve puntare in alto, deve riscoprire il piacere di sentirsi importante ai fini del risultato. Per farlo deve innanzitutto cambiare lei. Il messaggio di questa notte ci dice che il cambiamento promesso deve arrivare in tempi ancora più veloci di quelli che abbiamo immaginato. Confermiamo che le regole si scrivono tutti insieme. Non si cacciano esponenti importanti” dal tavolo delle riforme e se gli uomini di buona volontà di 5 stelle portassero il loro contributo sarebbero ascoltati”.

Economia
“Questo è il momento per investire in Italia. Gli investitori stranieri l’avevano capito subito, ma poi c’era stata una battuta d’arresto negli ultimi dieci giorni perché si temeva che l’Italia tornasse indietro, ma l’Italia non torna indietro: va avanti”.

www.partitodemocratico.it

"L’onda anti-euro è stata contenuta", da L'Unità

La valanga europea non c’è stata. C’è stata una valanga francese, che ha provocato e provocherà vittime e danni in patria ma non sconvolge gli equilibri politici del continente. Insomma, l’estrema destra antieuropea non ha sfondato: all’inquietante 25% raccolto dal Front National di Marine Le Pen non fanno riscontro altre avanzate clamorose. Anzi, a parte i sedicenti «liberali» austriaci della Fpö che guadagnano parecchi voti ma falliscono comunque l’obiettivo di scalzare i grandi partiti, i populisti antieuro, nazionalisti, «sovranisti» (per dirla con un neologismo triste segno dei tempi) che rifiutano per principio ogni cosa che sia sopra la nazione – o la regione – in cui chiudono il loro orizzonte culturale, i movimenti apertamente o potenzialmente xenofobi se non razzisti, sono stati contenuti dappertutto ben al di sotto delle previsioni pessimistiche della vigilia.

Ieri sera, nell’attesa ansiosa dei risultati italiani, c’era ancora da capire quanto avrebbero contato gli alleati che madame Le Pen s’era cercata al di qua delle Alpi: leghisti e «fratelli d’Italia». Bisognerà vedere il risultato definitivo dell’Ukip di Nigel Farage in rapporto ai laburisti, ma si può già dire che l’ambizioso progetto di mettere su al Parlamento europeo un gruppone in grado di inceppare l’integrazione e di far regredire l’Europa verso il passato è fallito. E lo si era cominciato a capire già venerdì, quando s’era visto, dagli exit poll, il flop del suo più stretto alleato, l’olandese Geert Wilders, cui si sarebbe aggiunto ieri sera quello, forse ancor più clamoroso, dei secessionisti belgi. Non a caso la pasionaria francese nelle sue prime dichiarazioni si è dedicata soprattutto agli affari di casa, reclamando il voto anticipato in Francia ma lasciando un po’ cadere lo scenario di un’opposizione multinazionale che, dal basso e dall’interno e manovrando proprio sul terreno delle esecrate istituzioni, assesta il colpo decisivo all’euro. D’altronde, proprio qui era la debolezza della proposta di questa destra antieuropea, nella contraddizione di chiamare la «gente» al voto per un parlamento del quale si negava il diritto stesso all’esistenza. Come dire: mandateci in tanti dove non vale proprio la pena di andare. Ci sono pochi dubbi sul fatto che il successo del Front National abbia poco a che fare con quello che i francesi pensano dell’Europa e molto con quello che pensano del governo e del loro presidente. Il che non è certo una consolazione per François Hollande.

Sull’altra grande posta in gioco del voto europeo, la sfida tra centrosinistra e centrodestra, ieri mentre le urne erano ancora aperte in Italia e affluivano a pezzi e bocconi exit poll di dubbia liceità secondo le norme elettorali in vigore da noi (lo spezzettamento del voto è un effetto collaterale dell’incompiutezza democratica dell’Unione), era ancora del tutto aperta. Da calcoli un po’ azzardati risultava che i popolari avrebbero ottenuto 211 seggi, 64 in meno di quelli che avevano, e i socialisti 193 (meno 1). E comunque mancavano nel conto i risultati dell’Italia. Nel primo c’era da attendersi un inevitabile riequilibrio a favore del centrosinistra e anche nel secondo, non si sa davvero in base a quali calcoli, si accreditava una notevole ripresa dei socialisti sui popolari di Mariano Rajoy. È certo comunque che il sostanziale equilibrio tra i due grandi partiti che dominano il parlamento europeo, pur se appare comunque probabile una crescita del Pse e un calo del Ppe rispetto all’assemblea uscente, condizionerà fortemente le scelte dei prossimi mesi per l’assetto ai vertici dell’Unione. Il candidato alla presidenza della Commissione dei socialisti Martin Schulz e quello dei popolari Jean-Claude Juncker entreranno in un gioco complicato, in cui decisivo sarà il ruolo del parlamento così come ha voluto il Trattato di Lisbona che gli ha conferito il potere di indicare il massimo responsabile dell’esecutivo dell’Unione obbedendo all’indicazione del voto popolare, ma da cui non si asterranno certamente i governi nazionali, cui spetta comunque la titolarità della nomina: segno evidente della incompiutezza democratica in cui vive ancora il progetto europeo.

Da diversi giorni su ciò che si prepara per le settimane e i mesi che verranno fino al rinnovo della Commissione e di tutti gli organismi dirigenti dell’Unione, a novembre, girano voci e illazioni. Una dice che, in caso di sostanziale parità tra i due schieramenti, il Consiglio europeo, cioè i governi, potrebbe tirare uori dalla manica un terzo nome: né Schulz né Juncker, ma una figura su cui mediare un grande accordo tra i paesi più importanti. L’ipotesi appare molto azzardata: la scelta di un terzo nome sarebbe uno schiaffo clamoroso al parlamento appena eletto, una travalicazione che renderebbe ancora più acuto il distacco tra «quelli di Bruxelles» e i cittadini e che non farebbe bene neppure alla popolarità casalinga dei vari governi. Appare ben più realistica un’altra voce che ha corso in queste ore e che i primi risultati di ieri sera inevitabilmente rafforzavano. Schulz e Juncker verrebbero ambedue cooptati ai vertici istituzionali dell’Unione ma in ruoli diversi: presidente della Commissione uno, presidente del Consiglio (posto che si renderà vacante anch’esso a novembre, quando se ne andrà Herman Van Rompuy) l’altro. All’esponente della terza grande componente politica, quella liberaldemocratica, andrebbe la presidenza del parlamento e il candidato naturale sarebbe il belga Guy Verhostadt.

L’Unità 26.05.14

Il premier commosso: “Un risultato storico", di Goffredo De Marchis

«Siamo il primo partito socialista d’Europa. Se vogliono fermare il populismo dovranno ascoltarci anche a Bruxelles». Col 41 per cento e Grillo dietro di 20 punti «è un risultato storico». All’una e 42 il suo tweet certifica la vittoria: «Commosso e determinato adesso al lavoro per un’Italia che cambi l’Europa. Grazie #unoxuno. @pdnetwork #senzapaura».
Sembrano tutti ubriachi al Nazareno. Hanno un sorriso stampato sulla faccia. Sono tantissimi, tutta la nuova generazione, attraversando le correnti. Fermano l’immagine, nella grande sala della direzione, in una foto che resterà rinnovando definitivamente l’album di famiglia della sinistra. C’è il nucleo storico renziano. Orfini e Stumpo, Fassina e Speranza. Le giovani donne del nuovo Pd. Restano a casa D’Alema, Bersani, Bindi, Veltroni, che oggi vede polverizzato l’ottimo risultato del 2008. Ma non scorre champagne nella stanza del segretario. Solo acqua. Con l’eccezione del portavoce di Renzi, Filippo Sensi, che stappa una bottiglia grande di Coca Zero, il suo doping, e offre nei bicchieri di plastica.
QUANDO sugli schermi tv scorrono le prime proiezioni e c’è il “4” davanti alla doppia cifra del Partito democratico, Renzi è ancora nella sede del governo. Adesso è il momento di correre al Nazareno, di festeggiare con gli altri. «Mi sono tolto anche un peso. Si capisce meglio quello che è successo con il governo Letta. Perché abbiamo dovuto accelerare, perché non potevamo rimanere fermi», dice. Il Pd sarebbe arrivato secondo, spiegano i suoi fedelissimi. Il 30 per cento sarebbe diventato una chimera, il 40 un pronostico impossibile. Invece le riforme, gli 80 euro, gli annunci e la promessa di cambiare l’Italia hanno scosso l’elettorato, la sinistra, i fuoriusciti del centrodestra che non hanno più avuto bisogno di transitare dai 5stelle per trovare una nuova casa. La lunga giornata, trascorsa quasi tutta a Pontassieve, può alla fine trasfigurarsi in una celebrazione. Con l’avvertenza di Renzi: «Servono ancora umiltà e lavoro», si raccomanda. Ma il consenso al governo e quello personale è arrivato in maniera sorprendente per tutti. «Non penso affatto a elezioni anticipate. Il 2018 è il nostro obiettivo».
Facendo un passo indietro, si va nel cuore della Toscana. Poche ore prima che tutto accadesse. Dietro il muretto di cinta dell’abitazione del premier. Tappeto elastico, rete da pallavolo ribassata, mini porta da calcetto, due palloni di cuoio. Questo sul prato. Un tavolo da ping pong nella parte lastricata. È la parte esterna della villetta di Pontassieve, una delle prime che si incontrano salendo verso la collina, verso il classico paesaggio toscano: il verde intenso, i cipressi, il bosco in cima. Tutti possono dare una sbirciata, non c’è bisogno di arrampicarsi. Basta mettersi in alto sulla strada, non ci sono barriere. All’una il premier rientra a casa con la sua auto. La moglie Agnese ha in mano un dolce gelato comprato in pasticceria. Al capo scorta Renzi dice: «Ci vediamo alle otto e torniamo a Roma. Sto qui tutto il pomeriggio». Il paese ripiomba così nella quiete domenicale. Fuori dalla villa rimane un auto civetta dei Carabinieri. Gli agenti della sicurezza vanno a mangiare al ristorante. Il cancello
automatico si chiude. La vicina di fronte, quando le telecamere finalmente mollano l’osso, esce in giardino a curare le sue magnifiche rose, al massimo della fioritura.
Dura appena un paio d’ore il trambusto discreto che accompagna il voto del premier, il suo piccolo giro in centro, la messa alla parrocchia di San Giovanni Gualberto, dalla parte opposta della villetta del premier, nella zona bassa del paese. Alle 11 e 10 Renzi si presenta alla scuola materna ed elementare Edmondo De Amicis. Lo aspettano una sessantina di persone, famiglie al completo con i nonni, i bambini sulle loro bici che non vedono l’ora di fare qualche impennata in santa pace. «Hai votato Grillo?», chiede un piccolo col casco alla nonna. «Ma che sei matto. Ho votato Renzi. Come ti viene in mente Grillo?». Dalle scale scende una coppia di anziani che ha appena deposto la scheda. Lui, politologo, prevede: «Tra un anno torniamo qui per votare di nuovo». Arriva Renzi. Jeans e camicia bianca. Stessa tenuta per la moglie. Dalla sua canottiera bianca ricamata spuntano lunghe braccia già abbronzate. I tre bambini seguono i genitori senza fare storie. Una perfetta first family , in una provincia paradisiaca, a 30 chilometri da Firenze ma protetta da una rete di comunità vera.
Renzi appare tranquillissimo, anche se si gioca molto in questo voto. Quasi tutto. La legittimazione, le riforme, la stabilità del governo, il peso in Europa del Pd mentre dappertutto i socialisti arrancano o tengono a fatica. Le spalle contratte mostrano però la tensione dell’attesa. Annuncia che non farà dichiarazioni ufficiali. «Non mi fido degli exit poll, si dicono un sacco di bischerate commentando quei dati. Anche a Guerini ho detto di stare attento ai commenti. Sapremo qualcosa di attendibile alle due di notte». Il premier perciò usa l’arma della prudenza. Dissimula una serenità assoluta, che si sposa con l’ambiente di Pontassieve. Dà cazzotti piuttosto forti sul petto agli amici come forma di saluto, stringe le mani ai vecchietti, si mette in fila al seggio accanto alla candidata sindaco del Pd Monica Marini, una non renziana. S’informa, scruta i movimenti dei rappresentanti di seggio, vede il candidato 5 stelle Simone Gori e si fa confermare che sia proprio lui dalla Marini. Il figlio di mezzo ha un’informazione importante: «È il papà di un mio amichetto ». «Quale?», chiede subito il padre. Qui alla scuola ci sono tutti i principali concorrenti delle comunali. Marini, Gori che ha una “mosca” brizzolata, Alessandro Borgheresi (Forza Italia). Renzi parla con tutti, si informa, alla fine entra e vota sotto i flash dei fotografi. Ma la sua partita è più grande di Pontassieve. E nella notte arriva una vittoria dalle dimensioni davvero storiche. Una clamorosa prima volta della sinistra italiana.

La Repubblica 26.05.14

"Stavolta lo Tsunami si chiama PD", di Massimo Giannini

Dunque non tutto è perduto, in questa Italia stremata e fino a ieri sospesa tra il sogno autarchico della “decrescita felice” di Grillo e l’incubo tecnocratico dei commissari della Troika europea. C’è ancora una grande speranza, per smitizzare il primo e scongiurare il secondo. E quella speranza si chiama Pd. Il Pd di Matteo Renzi che, se i risultati della notte saranno confermati, ha conquistato le europee con un plebiscito senza precedenti nella storia repubblicana (se non quello della Dc di De Gasperi negli Anni ’50). Lui stesso aveva caricato questo test di significati politici, trasformando il voto per il Parlamento di Strasburgo in un referendum sulla sua premiership nel governo e sulla sua leadership nel partito, e inseguendo Grillo sul terreno scivoloso di una sfida a due, micidiale e potenzialmente esiziale. Ebbene, in un’Europa dove sfondano tutte le estreme euro-fobiche, e dove i popoli puniscono tutti i governi in carica (ad eccezione della solita Merkel), Renzi questa sfida l’ha stravinta e Grillo, addirittura doppiato dal Pd, l’ha strapersa.
INSIEME alle europee, ha vinto il referendum su se stesso, consolidando il suo governo e riportando il suo Partito democratico non solo oltre la soglia a cui l’aveva lasciato Walter Veltroni nel 2008, ma addirittura oltre quella in cui Enrtico Berlinguer aveva portato il Pci nel 1976, cioè ben oltre il 34,4%. Un successo clamoroso, se solo si considera che il Pd alle politiche del 2013 era crollato al 25,4%, perdendo per strada ben 3,4 milioni di elettori rispetto al 2008. Ora, in queste europee che sanciscono la fine di Berlusconi, franato intorno a un misero 16%, non solo li ha recuperati tutti, ma ne aggiunti altrettanti, tutti nuovi di zecca.
Renzi può ora festeggiare quello che nessun leader della sinistra italiana ha mai ottenuto, e cioè una “vocazione maggioritaria” forse finalmente compiuta. L’acrobata sul filo ha rischiato tutto, com’è nella natura della sua vocazione al comando, ispirata alternativamente al “tutto e subito” e al “tutto o niente”. Ha vacillato più volte, nel vuoto delle slide proiettate a Palazzo Chigi e nell’abisso di scandali bipartisan come l’Expo. Tuttavia, ancora una volta, non solo non è caduto, ma alla fine è arrivato indenne dall’altra parte. Ha venduto “tanta roba”, in queste settimane, talvolta eccedendo in qualche televendita. Ma la scommessa “obamiana” sul “Paese migliore”, sull’Italia che ce la può fare perché crede nel cambiamento e non si rassegna alla paura e al declino, è risultata vincente. Anche a costo di qualche forzatura tribunizia nei comizi elettorali, o di qualche copertura precaria nei conti pubblici.
La “mancia” degli 80 euro di bonus Irpef ha sicuramente pagato, non solo nella busta dei lavoratori ma anche nell’urna della classe media, sulla quale il premier ha puntato tutte le sue carte nella “fase uno” dell’azione di governo, nonostante i velenosi e pericolosi conflitti con la Cgil. Ma ha pagato anche la percezione di una “rottura culturale”, che va oltre gli apparati da rottamare e gli impegni inevasi del cronoprogramma. L’affermazione del Pd al Nord dimostra che il partito della sinistra riformista è finalmente in grado di rompere i confini geografici della dorsale rossa ex-comunista (che minacciavano di ridurlo a una sorta di Lega degli Appennini), e di tornare a parlare anche al resto della società italiana. Dimostra che vasti settori della borghesia produttiva, del ceto imprenditoriale e del lavoro autonomo si stanno riconciliando con una sinistra ancora informe e in cammino, ma comunque moderna perché già post-ideologica e post-fordista. Capace, su temi come il Welfare e il lavoro, di uscire dalla ridotta di quella che Policy Network definisce “la socialdemocrazia difensiva”. E capace, su questioni come la crescita e il Fiscal compact, di condizionare l’agenda europea in vista del semestre di presidenza italiana e della formazione della nuova Commissione Ue.
Grillo, per contro, sembra aver totalmente sbagliato i suoi
pronostici. “Noi non vinciamo, stravinciamo”, aveva detto a Piazza San Giovanni venerdì scorso. Non solo non c’è stato il “sorpasso”. Ma Grillo sembra scivolare al di sotto della soglia del 26% raggiunta nel 2013, perdendo per strada quasi 2 milioni di elettori. Se è così, questa è una disfatta per il capocomico, che aveva smerciato queste elezioni come l’assalto al cielo, preannunciando la cacciata di Napolitano e la caduta di Renzi. Alle politiche del 2013, quando M5S fece il botto, conquistando 8,5 milioni di voti pari al 25,6% e diventando il primo partito alla Camera e l’unico di respiro nazionale (in testa in 50 su 109 province), parlammo di “tsunami”. Ebbene, oggi il vero tsunami è quello del Pd. L’onda grillina rifluisce, e resta “anomala”. Non sfonda gli argini della “democrazia dei partiti”. Grillo e Casaleggio restano i catalizzatori di un voto di contestazione, cioè protestatario, che non diventa un voto d’opinione, e dunque identitario. Il grande imbonitore ha tentato un “salto” strategico, moltiplicando i comizi in tutte le piazze della Penisola, e invadendo tutti i talk-show televisivi compreso il salotto democristiano di Vespa.
“L’insurrezione” è fallita. Se questi risultati saranno confermati, M5S resta la seconda forza politica del Paese. Si riafferma come il “bidone aspira-tutto” che vogliono i suoi padri fondatori. Ma il “tutti a casa” permanente, il “Parlamento di zombie” e la suggestione dei “processi del popolo” restano un virus che attecchisce solo sulla parte più arrabbiata del corpo sociale. Lo “sfondamento al centro” non ha funzionato, ed è un bene per l’Italia che sia così. Ma ora resta, e semmai diventa ancora più inquietante, l’anomalia di un blocco grillino che esprime un’alterità ancora più irriducibile rispetto al “sistema”, e che appare sempre meno spendibile per qualunque sbocco alla governabilità, se non quello di un assurdo ed utopico “100% dei consensi”. E questo non è certo un bene per l’Italia.
Ora che ha ottenuto quello che voleva, Renzi non ha davvero più alibi. Il successo alle europee, se sarà confermato, è per lui un battesimo politico, che finalmente lo purifica dal peccato originale di non aver conquistato il governo attraverso la via maestra del suffragio popolare, ma grazie alla porta di servizio della “manovra di palazzo”. Il premier ha ora la legittimazione che cercava. Gli italiani gli hanno concesso la fiducia che chiedeva. Le elezioni anticipate, e ventilate ad ottobre, si allontanano e si perdono in un orizzonte più sfocato. La legislatura riprende fiato. Se questo è il senso del voto del 25 maggio, Renzi ha una chance formidabile. In Europa, per “cambiare verso” alle politiche del rigore con un Pd che diventa il primo partito nella famiglia del Pse. In Italia, per fare davvero le “riforme strutturali” di cui parla continuamente da 80 giorni, ma che gli italiani, a questo punto, vogliono finalmente toccare con
mano.

La Repubblica 26.05.14

Parole e parolacce il catalogo è questo", di Massimo Adinolfi

L’unico ordine al quale è possibile ricondurre la politica italiana è quello alfabetico. Siccome le grandi ideologie sono morte, le tradizioni politiche scomparse, gli scenari geo-politici assenti, in questa squinternata campagna per le europee, meglio, molto meglio procedere secondo l’aureo principio con cui si compilano elenchi, albi, registri.

Astensione. È data in aumento. Di molto. L’Istituto Cattaneo ha ipotizzato cifre mai raggiunte finora nel nostro Paese. La base di legittimazione delle istituzioni europee sarà probabilmente molto più ristretta che nel passato. Certo, ci sono quelli che dicono che nei Paesi democraticamente maturi una fascia larga di astensionismo è del tutto fisiologica. Ma il voto di oggi rischia di esprimere ben altro: disaffezione e sfiducia, o forse addirittura una forma di defezione dalla politica come l’abbiamo finora conosciuta.

Berlinguer. Ormai lo tirano in ballo tutti. E non solo per via del trentennale della morte. C’entra sicuramente la nostalgia, ma anche una buona dose di spregiudicatezza. Il Berlinguer che finisce nei comizi di Grillo, come in qualche disinvolta pagina di giornale, non ha quasi più nulla del dirigente comunista: è soltanto una brava persona. La questione morale suggella così definitivamente l’incapacità di porre questioni politiche. E persino un Casaleggio può intestarsi un pezzo di quella edulco- rata eredità: non era meglio quando con Berlusconi il comunismo funzionava almeno da spauracchio?

Capilista. Renzi l’ha pensata giusta: tutte donne capilista nelle cinque circoscrizioni europee. Se e quando la polvere della campagna elettorale si poserà, bisognerà riconoscere che è stato un passo deciso verso il pieno riconoscimento della presenza femminile nella società e nella politica italiana. In attesa che venga il tempo in cui non farà più notizia.

Dentiere. Le promesse di Berlusconi, dal nuovo miracolo italiano degli esordi fino alla malinconica dentiera del 2014. Dal milione di posti di lavoro soprattutto per i giovani alle protesi dentarie soprattutto per i vecchi. Sono passati vent’anni dalla famosa discesa in campo del ’94, e si
vede. Dopodiché sotto la lettera «D» ci andava benissimo anche il cagnolino Dudù, balzato agli onori delle cronache anche per prendere il voto degli animalisti. Ma la voce in questo elenco non sarebbe riuscita meno patetica.

Expo. E qui sono dolori. Tanto più che sarebbe quasi doveroso proseguire con la «F» di Frigerio e la «G» di Greganti. Difficile dire quanto pesino sul voto simili vicende, che infanga- no la politica e producono l’impressione che nulla cambi, che nulla serva, che in fondo sono sempre gli stessi e si fanno gli affari loro. Scegliendo Cantone, Renzi ha reagito subito, e bene, e un discrimine è stato tracciato: Grillo butterebbe tutto a mare, il governo prova faticosamente a distingue- re, a separare il grano dal loglio. Ma non c’è dubbio che sempre più la credibilità di un’intera classe dirigente si gioca su vicende come questa.

Firenze. Con Renzi il Pd è tornato finalmente in piazza. Non c’è stata solo la piazza San Giovanni di Grillo, come lo scorso anno, e la mossa abbastanza suicida di lasciare campo libero ai Cinque Stelle; ci sono stati i tanti comizi e piazze piene in giro per il Paese: a Napoli, nell’Emilia, in Piemonte, per finire a piazza della Signoria, nella città del premier. Ed è stato finalmente uno spettacolo bello, colorato, emozionante.

Genny ’a Carogna. Grillo le cavalca tutte. Ogni occasione è buona per gettare discredito e lucrare sulle difficoltà del Paese. Così quando si è trattato di spiegare che lo Stato ormai non c’è più, Grillo ha usato l’immagine della trattativa svoltasi sulla pista dell’Olimpico fra le forze dell’ordine e il capo ultrà. Quando poi si è trattato di lisciare il pelo ai napoletani feriti nell’onore non ci ha pensato due volte e Genny è passato rapidamente dall’infamia alla lode.

Hitler. Siamo di sicuro l’unico Paese al mondo dove un leader politico può mettere insieme nei suoi discorsi un capo comunista come Berlinguer e Adolf Hitler. E dichiararsi peggiore di quest’ultimo, sia pure per paradosso, per spirito di provocazione, per una boutade o per qualunque altro motivo. Il sospetto che anche il discorso pubblico debba correre dentro qualche argine e non tracimare dappertutto non sembra più nutrirlo nessuno. Chissà cosa scriverà il prossimo che proverà a stendere un discorso sopra i costumi degli italiani.

Insulti. Anzi lo sappiamo: scriverà che di costumatezza politica non ce n’è più, e che dal Vaffa Day in poi persino il Senatùr può essere considerato un campione di bon ton. Per non scompari- re del tutto dalla scena, Berlusconi ci ha messo del suo: Grillo è un assassino, ha detto. E ha aggiunto: si faceva pagare in nero. E mai come questa volta ci si è ricordati del bue che dice cornuto l’asino (vedi alla voce «Sacra Famiglia»).

Lisbona. Prendiamoci una pausa, in questo lungo elenco di piccoli orrori. Queste sono elezioni europee. E le elezioni europee sono regolate dal Trattato di Lisbona. Ormai tutti se lo dimenticano, a caccia del significato politico del voto e delle ripercussioni sulla scena politica nazionale. Salvo poi ricordarsene quando ci si scopre lontani dall’Europa, e in balìa di decisioni prese altrove.

Merkel. Prese per esempio da Angela Merkel, al suo terzo mandato di Cancelliera. Il suo volto è sempre più il volto dell’Europa. Lo sanno i greci, lo sanno gli spagnoli, lo sanno anche italiani e francesi (a proposito: Hollande? Non pervenuto). Lo sanno per lo più a loro spese, non riuscendo ad imporre cambiamenti nelle politiche di austerity fortissimamente volute dalla Merkel. Nella campagna elettorale quasi tutti han detto che ci vuole un’altra Europa, ma come si faccia a convincere chi comanda a Berlino nessuno lo sa.

No-euro Tour. Per questo la Lega ha sposato senz’altro la bandiera della lotta contro la moneta unica, risollevandosi dal baratro in cui era sprofondata. Con sparate di dubbio gusto, come la piazzata sotto l’abitazione di Prodi, a Bologna, Prodi «co-responsabile di morti e feriti». Intanto, i sentimenti antieuropei crescono e si coalizzano contro la moneta. Grillo non la dice chiara nemmeno su questa, mentre il Pd e tutta la maggioranza resta convintamente a difesa dell’euro. Quanto a Berlusconi, ha chiesto scu- sa per le offese alla Merkel («unfuckable ass», in traduzione inglese) ma non si è fatto mancare una gaffe tremenda, affermando che per i tedeschi i lager non sarebbero mai esistiti. Prendere le misure al Cavaliere in campagna elettorale è una faccenda complicata assai.

Ottanta. Come i giorni dell’ancor breve durata del governo Renzi, e gli euro messi nelle buste paga di maggio. Propaganda o no, Renzi ha cercato di dare una prova tangibile dell’impegno finora profuso, e l’ha chiamato giustizia sociale. Un primo segnale, un’inversione di tendenza. Per tutti gli altri si è invece tratta solo di una mancia, le coperture non ci sono, le tasse aumentano, è un provvedimento una tantum. Vedremo.

Paola Bacchiddu. La foto postata dalla responsabile comunicazione della lista Tsipras, con il lato B in evidenza, ha fatto parlare di sé. Di sé più che della lista, ma tant’è: il duello Renzi-Grillo ha finito con l’oscurare ogni altra proposta politica, e in campagna elettorale a provocazione ci può stare. Resta però il dato di una lista costruita intorno a una serie di testimonial prestigiosi, che non riesce a farsi largo nel consenso popolare. Se dovesse andar male, c’è da temere che ne verrà fuori l’ennesimo dibattito sul ruolo degli intellettuali in politica, e su una tendenza all’ottimato democratico che suona come una contraddizione non piccola.

Quorum. È il problema di tutti gli altri: della lista Tsipras, ma anche di Scelta Europea del fu Monti della nuova Lega antieuropeista di Salvini, della rinata destra di Fratelli d’Italia, a guida Meloni, e del Nuovo Centrodestra di Alfano. Quest’ultimo risultato può essere decisivo: non dovesse arrivare al 4%, un contraccolpo sul governo ci potrebbe essere. In ogni caso, sarà ancor più evi- dente che a destra il dopo Berlusconi fatica maledettamente a nascere.

Riforme. Renzi ha detto: ricominciamo lunedì, riprendiamo il filo delle riforme istituzionali, rimettiamo in cammino la riforma del lavoro, e insomma riapriamo i dossier accantonati nel vivo della campagna elettorale. È il terre- no più difficile per il governo. Renzi ci ha messo la faccia, ma è difficile fare previsioni.

Sacra Famiglia. Non quella di Betlemme, ma quella di Cesano Boscone, dove ha sede la Fondazione che ospita i venerdì di Silvio Berlusconi. Detta così, somiglia ai mercoledì di Pericoli e Pirella, o al lunedì del Processo di Biscardi, e invece si tratta della condanna definitiva inflitta per frode fiscale all’ex-Cavaliere. E un giorno si potrà raccontare ai nipotini di quella volta in cui la campagna elettorale la fece, seriamente, uno che passava i venerdì ai servizi sociali.

Tribunale del popolo. Ovvero: i processi popolari di Beppe Grillo. Su un refrain che un tempo intonava un altro comico, della compagna di Arbore. Quello che ripeteva sempre: «in galera!». Poi Grillo dice che è cattivo, ma senza violenza, che si tratta solo di uno sputo mediatico, che la sua è una rabbia sana, e va bene. Ma l’immaginario che evoca di sicuro sano non è.

Unione Europea. Seconda e ultima pausa di riflessione in questo elenco. Siamo cittadini europei, siamo membri dell’Unione, e votiamo per questo. Per la prima volta, anche se il processo di revisione costituzionale si è interrotto, un’innovazione profonda è in corso. Eleggiamo i nostri parlamentari, e indichiamo insieme il nostro candidato alla presidenza della Commissione (per i socialisti e democratici europei, il tedesco Martin Schultz). Che se poi si riuscisse a ripartire con il metodo comunitario e a ridurre il ricorso al metodo intergovernativo dell’accordo fra capi di Stato e primi ministri, l’Europa prenderebbe senz’altro un aspetto più democratico e meno arcigno.

Vespa. Eh, sì, un vincitore c’è già, ed è Bruno Vespa. La sua intervista a Grillo ha fatto il pieno, e lui è ancora lì che si frega le mani. Il web sta cambiando la politica italiana, ma per il momento la televisione può risultare ancora decisiva. Anche Renzi e Berlusconi hanno peraltro cercato di occupare lo schermo il più possibile. Anche Floris, Mentana e tutti gli altri si sono presi i loro spazi, ma il più formidabile è stato il colpo messo a segno da Vespa.

Zzz. Eh, no. Questa brutta campagna elettorale non ha avuto affatto toni soporiferi. Può darsi sia un merito. Il fatto è che per tenerci svegli si usa un clima sempre più sovraeccitato. Lo diceva già Benjamin all’inizio del secolo scorso: l’esperienza si impoverisce, e perché qualcosa arrivi ci vogliono sempre nuovi choc. Sulle prime magari funziona; alla lunga, però, stanca. In ogni caso, la notizia è che, finalmente, è finita.

L’Unità 25.05.14