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"Strage anti-semita a Bruxelles: tre morti", da l'Unità

Tre morti, un ferito gravissimo. Il Belgio è sotto shock per l’attentato al museo ebraico di Bruxelles, proprio alla vigilia del voto europeo. Chiaro il movente anti-semita, confermano gli inquirenti. In un’intervista a l’Unità Amos Luzzato dice: «Sangue versato contro l’Europa». Non era mai accaduto. Dalla fine della seconda guerra mondiale non era mai accaduto un attacco antisemita così grave come la sparatoria di ieri al museo ebraico di Bruxelles, in cui hanno perso la vita tre persone e una quarta è rimasta gravemente ferita. Il Belgio andrà alle urne sotto choc oggi, giorno di voto per le elezioni europee, nazionali e locali. Secondo le prime ricostruzioni alle 15.48 di ieri un Audi scura si è fermata in doppia fila davanti al museo ebraico della capitale belga, vicino alla sinagoga, e dalla macchina è sceso un uomo con una sacca. La sparatoria sarebbe avvenuta davanti e anche all’interno del museo, secondo alcuni testimoni. Una serie di colpi, in pochi secondi. Poi l’uomo è risalito in macchina ed è fuggito, qualcuno è riuscito a segnare il numero di targa. Per due donne e un uomo rimasti a terra la corsa in ospedale è stata inutile, gravissima una quarta persona. Secondo testimoni l’assassino sarebbe stato aiutato da un secondo uomo che guidava la macchina. La polizia avrebbe fermato un sospetto e dà la caccia ad una seconda persona.
L’elegante quartiere Sablon, dove è avvenuta la sparatoria, era affollato per la Bruxelles Jazz Marathon che è stata immediatamente sospesa. Il ministro degli esteri belga, Didier Reynders, che si trovava nei paraggi è stato il primo a commentare su Twitter: «Sono scioccato dalla notizia dei morti al museo ebraico. Un pensiero alle vittime che ho visto sul posto e alle loro famiglie». Più tardi la ministra dell’Interno Joëlle Milque
ha spiegato alla stampa che «un uomo è entrato nel museo e ha sparato in fretta. Tutto porta a credere che si tratti di un attentato antisemita». Anche per il sindaco di Bruxelles, Yvan Mayeur, la sparatoria al museo ebraico di Bruxelles «è probabilmente un atto terroristico». Il premier, il socialista di origini italiane Elio Di Rupo su Twitter si dice «molto scioccato». Matteo Renzi gli esprime la solidarietà del governo italiano, l’attentato dice è «una ferita aperta per noi europei, un monito a tenere alta la guardia».
L’episodio ricorda gli attentati antisemiti avvenuti nelle cittadine francesi di Tolosa e Montauban nel 2012, in cui
hanno perso la vita tre militari e quattro civili di religione ebraica. Per il presi- dente della Lega belga contro l’antisemitismo (Lbca), Joel Rubinfeld, la verità è che oramai «c’è stata una liberalizzazione del verbo antisemita e questo è l’inevitabile risultato di un clima che di- stilla l’odio». Per Philippe Mankiewicz, ex presidente di un’altra associazione ebraica belga (Ccojb), «non è solo la comunità ebraica ad essere colpita, ma tutta la democrazia belga».
FEBBRE EUROPEA
A novembre dell’anno scorso l’Agenzia europea per i diritti fondamentali aveva pubblicato un sondaggio condotto tra le comunità ebraiche di otto Paesi d’Euro- pa. L’88% degli intervistati in Belgio ha affermato che negli ultimi anni l’antisemitismo è aumentato nel Paese. Delle percentuali più alte sono state riscontra- te solo tra le comunità ebraiche di Francia e Ungheria. Il 77% degli ebrei belgi ha detto di ritenere l’antisemitismo «un problema grave» e dal 2008 il 10% è stato vittima di violenze fisiche o di minacce antisemite.
Segnali preoccupanti, tanto più quando in Paesi come Francia e Ungheria i sondaggi delle europee prevedono una vittoria dell’estrema destra. Sia il Front National francese che il partito Jobbik ungherese sono apertamente antisemiti. L’anno scorso ha fatto scalpore il caso di un europarlamentare dello Jobbik, Csanad Szegedi, che si è scoperto di origini ebraiche, si è convertito all’ebraismo e per questo ha lasciato il partito.
Nonostante il clima pesante oggi i cittadini del Belgio devono votare anche per rinnovare il parlamento nazionale e le assemblee regionali. Le ultime elezioni nazionali risalgono al 2010 e hanno visto il trionfo del partito indipendentista fiammingo N-Va guidato da Bart De Wever. Ne è seguita la più lunga crisi politica del Paese con un estenuante negoziato di 541 giorni per formare una coalizione di governo senza la N-Va.

L’Unità 25.05.14

"Il sentiero (obbligato) del cambiamento", di Roberto Napoletano

Non possiamo perdere la scommessa di un mondo migliore, bisogna evitare le (troppe) storture italiane e europee, combattere il malaffare in casa, diradare la nebbia che avvolge tutto e tutti e impedisce nei fatti di cambiare davvero. Guai, però, a buttare il bambino (l’euro) con l’acqua sporca. Guai a pensare per un solo momento a fughe nazionaliste che ci farebbero ritrovare con obbligazioni in euro e una lira supersvalutata per pagarle, materie prime (molto) più care e ulteriore caduta del Pil che annullerebbero i benefici per l’export, tassi in rialzo, insolvenze sui bond, probabili default a catena di imprese, banche e enti locali fortemente indebitati sui mercati internazionali, per non parlare dei problemi che avrebbe il Tesoro della Repubblica italiana. Si è persa ancora una volta l’occasione di parlare di Europa e si è lasciata la scena a una bruttissima campagna elettorale giocata tutta sul terreno degli insulti e dell’interesse di bottega per ragioni vere o presunte di supremazia di politica interna. Man mano che si è andato affievolendo il progetto europeo, si è parallelamente indebolita la consapevolezza che la collaborazione tra i popoli non è né ovvia né scontata e va, invece, faticosamente costruita con visione politica, lungimiranza e solidarietà. Non è di poco conto prendere atto che la crisi non è solo dei Paesi periferici, ma è strutturale e riguarda quasi tutti i Paesi europei con la sola eccezione della Germania. Bisogna chiedersi se è ancora un modello al quale tutti gli altri si debbono ispirare o se essa stessa debba condividere qualcosa di diverso.
Il dubbio di molti è che la Germania si sia appropriata di qualcosa che non le appartiene e l’impegno concreto deve essere quello di non arrivare al paradosso che venda a tutti ma non compri da nessuno. È bene che realizzi un surplus consistente e che anche gli altri Paesi ne accumulino vendendo di più all’estero, fuori dall’Europa, ma che cosa dobbiamo fare per spendere in casa questi surplus e fare crescere la domanda interna? Perché rinunciare a spendere questa ricchezza in Europa? La Cina e gli Stati Uniti hanno messo soldi nel sistema, hanno fatto una politica nel campo dell’energia, la Russia si muove a 360 gradi, e noi dove siamo? Che cosa facciamo? Questo è il punto.
Bisogna andare a votare perché l’Europa faccia una vera azione anti-crisi, si doti delle armi monetarie “non convenzionali” giuste e metta al centro della sua azione di politica industriale la manifattura e l’innovazione, possa pesare (davvero) su quadranti geo-politici delicati come quelli di Ucraina, Siria e Libia, completi il suo disegno politico, faccia finalmente gli Stati Uniti d’Europa e cambi concretamente la politica europea. Questa deve essere la politica estera italiana e su questa politica vanno costruite le alleanze giuste con Francia, Belgio, Spagna per fare in modo che l’Europa torni ad essere amica dei suoi cittadini, attui investimenti (seri) in infrastrutture e in ricerca, si svegli dal lungo letargo determinato da una malattia ormai chiara a tutti che è l’eccesso di austerità e di rigore, non il senso (opportuno) della disciplina di bilancio e la virtù dei conti.

Il fastidio che c’è in giro per l’Europa non è molto diverso dal nostro e noi siamo meno diversi di quanto pensiamo di essere rispetto agli altri. Il rischio vero è quello di un voto di protesta non contro l’Europa, ma contro una contingenza molto sfavorevole determinata dalle conseguenze di una crisi finanziaria globale e da una (forte) amnesia politica. Il rischio (vero) che si arrivi a dire che non c’è più nulla da fare sulla base di una condizione di fragilità politica e di uno stato d’animo diffuso mentre si deve, invece, ripartire proprio da qui per cambiare con uno spirito costruttivo, un’idea condivisa di medio termine, un principio comune di solidarietà.
Purtroppo, il voto di oggi non è solo per l’Europa, è un peccato che non sia così, è stato caricato di una forte valenza di politica interna, si cercherà di identificare il perimetro reale della protesta, quanti votano e quanti si astengono. La verità è che c’è una forte sfiducia non tanto o non solo (come appare a prima vista) nella casta, ma nella capacità della politica italiana di costruire un percorso riconoscibile nel quale si possano risolvere almeno i problemi degli ultimi dieci anni. Non si può oscillare tra una politica-spettacolo con vecchi e nuovi primi attori e una politica che cede alla tentazione “elettorale” di calcare lo stesso palcoscenico piuttosto che individuare e perseguire un cammino faticoso ma credibile nell’azione di governo. Non abbiamo bisogno di slogan, ma di una consapevolezza e di una capacità operativa all’altezza della delicatezza del momento. Anche il presidente del Consiglio si deve rendere conto che la burocrazia è il male del secolo non solo per le colpe e i vizi degli alti burocrati ma perché è male organizzata, ingessata da decine di migliaia di norme che rischiano di infilare sotto lo stesso cono d’ombra ladri incalliti e gentiluomini che hanno deciso di servire lo Stato. Altrimenti, il risultato è che prevale il conservatorismo: io non firmo niente e le conseguenze le pagano le imprese, i lavoratori che perdono l’impiego e i cittadini in generale. Bisogna rendersi conto che è il politico la burocrazia, il primo burocrate è il politico che è responsabile insieme con uno, un altro e un altro ancora, e tutto ciò produce la “non responsabilità” sulla base di un rimpallo di slogan, decisioni dettate dalla pancia e non dalla testa.
Il caso italiano
e l’esempio spagnolo
Non solo c’è un problema di crisi in Europa, ma di che fare in Italia, di una combinazione esplosiva tra instabilità politica, debito pubblico e, soprattutto, bassa crescita che va scongiurata assolutamente. Mentre la fitta nebbia della polemica politica avvolge tutto e tutti, come già detto, in attesa di capire se chi dice di volere uscire dall’euro fa sul serio o no, la gente se ne va, i capitali se ne vanno subito. Questo clima terribile oggi ci ha portato la volatilità, domani potrebbe riservarci sorprese più amare. L’esempio della Spagna è sotto gli occhi di tutti. Non si è fatta problemi a chiedere aiuto: oggi le banche grazie ai fondi europei hanno ripreso a erogare mutui, grazie ai soldi tedeschi la Volkswagen ha investito lì, la riforma del mercato del lavoro che punta sugli accordi aziendali ha fatto breccia in un Paese dove la flessibilità in uscita è già da tempo una realtà. Soprattutto, emerge una stabilità politica che dà la sensazione di sapere dove andare e argina la diffusione di un sentimento anti-europeo. L’Italia ha bisogno di fare in casa cose che deve fare da (troppo) tempo per essere credibile in uno schieramento che chieda (a ragione) un’Europa diversa. Ha bisogno di una politica che sappia fare riforme istituzionali vere non pasticciate (bene l’uscita dal bicameralismo perfetto) e riforme economiche (un segnale incompleto ma positivo sul mercato del lavoro è stato dato) altrettanto incisive. Questa politica la meritano il talento sprecato dei nostri giovani e quella parte sana del ceto artigiano e dell’impresa che innova e vive di mercato e che nulla ha da spartire con un’impresa (ahinoi diffusa) che scova privilegi e rendite nella spesa pubblica improduttiva, alimenta un circolo vizioso di corruzione e degrado che tanto male fa al nostro Paese e alla sua attrattività di investimenti esteri. O siamo capaci di fare cose serie e dimostriamo, nei fatti, una visione adulta del mercato e una capacità politica alla voce fare o siamo condannati alla marginalità e al declino.
Se la gente non ha il lavoro pensa che tutto è sbagliato (anche ciò che è giusto). Se facciamo solo chiacchiere la gente che non ha un lavoro rischia di diventare la maggioranza e, allora, sono problemi seri. Ricordo l’incontro con Toni Servillo, nel mio Viaggio in Italia, al Piccolo di Milano di un po’ di tempo fa, e una frase che mi torna nella mente: «Viviamo tempi brutti dove si dubita sempre di tutti». Non posso credere che questo sia il destino dell’Italia. Non posso credere che le parti sane della politica e della società civile, del mondo della produzione, del sindacato, della finanza e del ceto professionale, non abbiano la forza di girare pagina e di farlo pragmaticamente. Ognuno faccia ovviamente nell’urna la sua scelta, ma ci vada e sappia che il sentiero del cambiamento, in Italia e in Europa, è obbligato. L’alternativa sono l’aumento della povertà e delle diseguaglianze, l’ulteriore diffusione della corruzione e della criminalità organizzata. Dio ce ne scampi.

Il Sole 24 Ore 25.05.14

"La vera posta in gioco", di Paolo Guerrieri

Si è parlato ben poco d’Europa in questa campagna elettorale. Eppure l’esito del voto di oggi potrebbe risultare sotto molti aspetti decisivo per il futuro dell’Europa e della sua economia in particolare. Innanzi tutto perché si voterà una sorta di referendum. Un referendum pro o contro l’Unione europea, per la presentazione di un variegato insieme di liste apertamente antieuropeiste. E, poi, perché si dovrà scegliere quale Europa costruire nei prossimi anni. Dal voto può uscire una chiara indicazione a sostegno di quelle forze progressiste – come il Partito socialista europeo e il Partito democratico in Italia – che propongono per l’Europa, dopo gli anni del rigore fine a se stesso, una decisa svolta verso politiche economiche di rilancio della crescita e dell’occupazione.

Una prima sfida decisiva in queste elezioni deriva dal ritorno della minaccia del nazionalismo e del populismo per il futuro dell’Europa. Profondamente eterogenei, i movimenti e partiti di protesta – da noi il Movimento 5 Stelle – hanno un unico punto in comune ed è il sentimento antieuropeo. Una sorta di profonda avversione nei confronti non solo delle istituzioni europee ma dei principali diritti e valori fondanti l’Europa. In prima fila la guerra contro l’euro, a cui sono attribuite, in modo confuso e strumentale, tutte le cause della drammatica crisi in corso.

Certo, la maldestra gestione della crisi da parte dei governi nazionali, in larga parte conservatori, che non va dimenticato hanno dominato le scelte del Consiglio europeo in questi anni, ha fortemente contribuito alla crescita del populismo. Ma è altrettanto evidente che un successo elettorale dei partiti dell’antieuropeismo – incluso il movimento di Grillo nel nostro paese – rappresenterebbe un fattore di destabilizzazione in tutta Europa. Pressoché certa sarebbe l’esplosione di nuove virulente crisi finanziarie, dal momento che la crisi dell’euro non è finita. Il brusco aumento degli spread e la caduta delle Borse europee in quest’ultima settimana ne hanno offerto un’ulteriore allarmante conferma. Se poi si arrivasse a quella che viene contrabbandata come la panacea degli attuali mali delle economie europee ovvero la confusa uscita di uno o più paesi dall’euro, ci troveremmo a fronteggiare in realtà la madre di tutte le crisi finanziarie, una vera e propria tragedia economica.

La seconda sfida altrettanto importante nelle elezioni di oggi riguarda quale Europa vogliamo costruire. Per molte economie dell’area euro – inclusa la nostra – a una maggiore stabilità finanziaria si associa in questa fase una fragile ripresa con la prospettiva di un prolungato ristagno, che renderebbe oltremodo difficile ridurre i livelli record della disoccupazione, soprattutto giovanile. In questo caso i cittadini elettori dovranno scegliere tra le diverse proposte dei partiti tradizionali europei, e in particolare delle due più grandi famiglie politiche, quella dei socialisti e democratici (S&D), di cui fa parte il Partito democratico, guidata da Martin Schulz e l’altra del partito popolare europeo (Ppe), guidato da Jean-Claude Junker che raggruppa i partiti conservatori, da noi Forza Italia, Nuovo Centrodestra e Udc. Junker propone per il Ppe una sostanziale continuità con le politiche economiche di austerità e riforme strutturali fin qui adottate. Nel ritenere che in fondo abbiano ben funzionato, auspica solo marginali correzioni di rotta, in termini di un maggiore coordinamento e flessibilità nella loro applicazione. Molto diversa è la ricetta economica del socialista Martin Schulz. Nel ribadire come essenziale la dimensione di uno spazio economico unificato e una moneta unica per l’Europa, essa propone una vera e propria svolta nella strategia di politica economica europea, fuori dall’austerità e in direzione di politiche di rilancio della crescita e dell’occupazione.

Ora c’è chi vorrebbe ridimensionare questo confronto elettorale tra progressisti e conservatori in Europa sostenendo che il più o meno scontato successo delle liste antieuropeiste renderà alla fine necessaria la formazione di uno schieramento ‘bipartisan’ imperniato su socialisti e popolari, così da riconsegnare le chiavi delle scelte nella mani dei governi nazionali e impedire qualsiasi vero cambiamento nelle scelte di politica economica. Ma non è affatto scontato un esito del genere. Molto dipenderà proprio dagli elettori e dal voto di oggi. In primo luogo perché potranno bocciare il referendum populista contro l’Europa e ridurre così fortemente nel Parlamento europeo lo spazio dei vari ‘Grillo’ anti-europei. E, poi, perché votando le forze progressiste potranno contribuire alla formazione di una Commissione europea rinnovata e guidata da un esponente di punta del partito socialista europeo come Martin Schulz. Dopo i due disastrosi mandati di un rappresentante del Ppe come Manuel Barroso e una Commissione e un Consiglio dominati dai governi conservatori, un rinnovato equilibrio nelle istituzioni europee rappresenterebbe un segnale di cambiamento politico importante e, soprattutto, potrebbe favorire una svolta delle politiche economiche nella direzione auspicata. Per la nostra economia – è scontato aggiungere – sarebbe un “assist” fondamentale. Altro che elezioni di “secondo ordine”, dunque, quelle europee di oggi, vista la posta in gioco così elevata.

L’Unità 25.05.14

"Europeisti se vogliamo contare", di Gianfranco Pasquino

Agli italiani le elezioni per il Parlamento europeo sembrano interessare molto poco. I dirigenti dei partiti e i loro candidati, fra un insulto e un’offesa, hanno fatto poco per informare gli elettori su quanto utile per l’Italia è l’Unione Europea e su quanto importante è mandare al Parlamento europeo chi crede nell’Unione e chi ha le competenze per fare un buon lavoro. Agli Europei, invece, in particolare alla cancelliera Merkel, come andranno le elezioni in Italia interessa, eccome. Infatti, molti europei, quelli che contano in politica e in economia, desiderano che in Italia ci sia un governo stabile, magari capace di riforme, e affidabile negli impegni che prende. Preferiscono che chi va nel Parlamento europeo intenda non soltanto, com’è giusto, proteggere e promuovere gli interessi italiani, ma che lo faccia convincendo il governo italiano che bisogna adempiere alle direttive europee per avere il potere di chiedere cambiamenti nelle politiche economiche e sociali. I partiti italiani hanno molte poste in gioco in queste elezioni, non tutte particolarmente significative a livello europeo. Matteo Renzi ha la necessità di potenziare la sua leadership sia del Pd sia del governo con un risultato che lo legittimi. Queste sono le prime elezioni che chiamano in causa tutto l’elettorato e Renzi ha due speranze. La prima è che il voto per il Partito Democratico superi il 30 per cento. La seconda è che il vantaggio del Pd sul Movimento Cinque Stelle sia di almeno cinque punti percentuali. Grillo ha già annunciato il suo proprio successo (s)misurato sul sorpasso del Pd che porterebbe, secondo lui, alla crisi di governo e anche alla defenestrazione del presidente della Repubblica. Tuttavia, la sua scelta di andare nel salotto di Vespa segnala che non sentiva il successo già acquisito e percepisce qualche difficoltà da superare con la teletrasmissione della sua tracotanza. Mai decollata, la campagna di Berlusconi è stata tutta sulla difensiva: parare i danni. Il più grosso, oramai molto probabile, dei danni, consiste nel non superare il 20 per cento di voti. Trovarsi sotto il 18 per cento potrebbe accelerare il ricambio familiare, dinastico della leadership con la chiamata in campo della figlia Marina. L’insuccesso renderebbe difficile un accordo da posizioni di forza con l’ex-delfino Alfano. Dal canto suo, il leader del Nuovo centrodestra è impegnatissimo a spingere il suo partito, che si misura anche lui per la prima volta in elezioni a livello nazionale, oltre il 4 per cento, fino al 6-8. Qui subentrano gli europei, ovvero i popolari europei che hanno dimostrato di volere tenere lontano Berlusconi i cui voti, però, servono al loro candidato alla carica di presidente della Commissione. I popolari si augurano che i molti voti persi da Berlusconi vadano sulle liste di Alfano. Per gli altri concorrenti, l’obiettivo è semplicemente superare la soglia del 4 per cento e mandare qualche candidato al Parlamento Europeo. La Lega è persino “scesa” nel Meridione a cercare i voti, una volta snobbati, degli anti-Euro. Scelta Europea spera controcorrente che un elettorato di sentimenti europeisti declinanti premi la sua coerenza. Fratelli d’Italia vorrebbe portare a Bruxelles il suoi spirito nazionalista. La lista Tsipras, troppo occasionale e poco competitiva, ha l’ambizioso scopo di cambiare verso all’Europa. La verità, che vale per tutti, è che l’Unione Europea cambierà gradualmente direzione economica e politica soltanto quando i tre grandi gruppi nel Parlamento Europeo, al momento, Popolari, Socialisti, Liberal-Democratici, raggiungeranno un accordo complessivo per fare una serie di piccole, graduali, ma significative riforme sia sulla distribuzione del potere fra le istituzioni: Consiglio, Commissione, Parlamento, sia sull’equilibrio fra politiche di austerità e politiche di crescita. Chi si chiama fuori non votando o scegliendo candidati e partiti euroscettici e populisti non conterà per niente. Gli eletti dei partiti che pensano che l’Unione Europea è il luogo del nostro destino, non soltanto per stare insieme, ma per cambiare, avranno un grande lavoro da fare.

La Gazzetta di Modena 25.05.14

"Un voto per ricucire l’Europa", di Mario Calabresi

Con il fiato sospeso aspettiamo tutti il grande botto, l’infrangersi dell’onda populista sulle coste della Sicilia o della Normandia, come sulle scogliere di Dover. Chi con preoccupazione, chi invece con speranza nella convinzione che si debba azzerare tutto per poter ricostruire. Ma non sarà questa la rottura dell’Europa storica, non perché il voto sarà ininfluente, ma semplicemente perché c’è già stata. Quello che accadrà questa sera sarà solo la registrazione dei danni di un terremoto che non è cominciato questa mattina ma almeno cinque anni fa. Un terremoto di cui ognuno già conosce gli effetti: li ha osservati a casa sua, nel suo quartiere, tra gli amici e i parenti.

Non abbiamo forse già visto spegnersi le luci di negozi che ci erano cari, di aziende e di uffici in cui lavoravamo?

Non abbiamo già visto spegnersi sogni e speranze?

Oggi si certificano rabbia, stanchezza e frustrazione. Le motivazioni sono reali e si chiamano disoccupazione, mancanza di prospettive, tagli lineari, corruzione e burocrazia. È tutto terribilmente comprensibile e la rabbia non se ne andrà se non verrà compresa, affrontata e risolta. Esiste solo una strada: lavoro e riforme.

Ma non può essere una strada di demolizione, non abbiamo bisogno di altre macerie, ma di ricostruire e per farlo ci vogliono competenze, attenzione e pazienza. Mi spaventa – questo sì e molto – sentir dire che la nostra salvezza è rappresentata da cittadini senza esperienza e alle prime armi. Sarebbe come sostenere, di fronte alle macerie delle nostre case crollate per il terremoto, che non vogliamo più architetti e ingegneri a progettare quelle nuove, perché anche loro sono colpevoli del disastro. E invece di cercare di capire se ci sono professionisti migliori degli altri, affidare progettazione e costruzione al panettiere dell’angolo, noto per la sua onestà, o al cartolaio di cui conosciamo la simpatia.

Il Parlamento europeo che esce dalle urne questa sera ha bisogno di persone competenti, capaci di fare la differenza nella preparazione delle leggi, di portarci un po’ di benessere, di difendere i nostri interessi, di far contare la nostra voce non solo di farla sentire perché capace di urlare di più. Quasi ognuno di noi, se deve scegliere un avvocato, preferisce quello che conosce meglio le leggi e si fa ascoltare dalla corte a quello che si fa notare solo perché grida di più.

Abbiamo bisogno di ricucire l’Europa, il suo tessuto sociale, di farne uno spazio in cui la voce dei cittadini conta. Ma abbiamo anche bisogno di ricordare che cos’è l’Europa, quanto faccia la differenza – anche in positivo – nelle nostre vite. È ridicola la semplificazione che riconduce tutti i mali e i problemi all’Unione e le possibilità di salvezza alla prospettiva di rinchiuderci nei nostri Stati nazionali. Con un minimo di obiettività, ne basta poca, ci possiamo rendere conto che i problemi di noi italiani ce li siamo fabbricati in casa, non li abbiamo importati dall’estero e che molto del cambiamento è invece figlio degli stimoli di uno spazio comune europeo. Come ha ricordato su queste pagine pochi giorni fa Vladimiro Zagrebelsky, lo sono molti degli avanzamenti sociali a cui stiamo assistendo – dalla semplificazione del divorzio, alla parificazione dei figli, fino ai diritti delle coppie che necessitano di assistenza per procreare -, così come la sicurezza alimentare, dei giocattoli o della salute in un Paese che è avvelenato da troppe Terre dei fuochi.

Ricordo perfettamente la sensazione che ho provato quando ho preso in mano la mia prima banconota da venti euro, una sensazione di forza, di appartenere a qualcosa di più grande. Mi dava ebbrezza l’idea di poter pagare una birra a Berlino, una fetta di torta a Vienna, la stanza di un pescatore in un isola greca o un libro a Parigi con la stessa moneta con cui compravo il giornale sotto casa in Italia. E la fine delle frontiere, la possibilità di viaggiare senza permessi, visti, senza passaporto, di lavorare e studiare fuori dai confini, di essere più liberi. È stato un sogno, che oggi è quasi svanito, anche perché – come accade sempre – diamo per scontato tutto ciò che abbiamo conquistato.

La generazione più giovane, quella che più è attratta dal vento del populismo, è la più europea che ci sia mai stata: i ragazzi di Monaco oggi sono uguali a quelli di Manchester e di Torino, ascoltano la stessa musica, prendono gli stessi aerei, si vestono nello stesso modo, comunicano in maniera identica e hanno gli stessi problemi e le stesse speranze.

È per loro che bisogna ricucire il tessuto sociale europeo: non meritano altre macerie, scenari di rotture apocalittiche in nome della catarsi, ma uno spazio di pace e libertà in cui costruirsi il futuro.

Non restate a casa oggi, non comportatevi come quei turisti che si tengono a distanza dai disastri, che non fanno niente per dare una mano, ma che sono pronti a scattare una foto ricordo della sciagura.

La Stampa 25.05.14

"L’amaca", di Michele Serra

Un grazie di cuore al Fatto Quotidiano. Non perché abbia intervistato Licio Gelli (ci era riuscito anche Piero Pelù); ma perché, intervistandolo, è riuscito a farmi decidere per chi votare, levandomi da una incertezza che durava da settimane. Il Venerabile (epiteto che ha il pregio di rendere perfettamente ridicola la massoneria mondiale nel suo complesso) è stato uno deiprotagonisti di spicco di quel livello occulto e violento del potere italiano che per più di mezzo secolo ha mestato il mestabile, depistato il depistabile, insanguinato l’insanguinabile con un solo obiettivo strategico, da ottenere con qualunque mezzo: tenere la sinistra lontana dal potere. E ancora oggi, decrepito e sostanzialmente impunito come molti dei suoi compari, lo rivendica, vantando l’ininterrotto rapporto con i servizi segreti nei quali fu introdotto — lo dice lui — da Mussolini in persona. Bene: questo campione di democrazia, che tra le altre cose si augura che “un tributo di sangue” (ancora?) porti a una “rivoluzione” in Italia, parla con spregio e ostilità di Matteo Renzi. È il tassello che mi mancava per decidere di votare Pd. Un ringraziamento sincero, dunque, al Fatto Quotidiano: stavo quasi per dimenticarmi da che storia veniamo.

La Repubblica 24.03.14

"Le incognite europee", di Andrea Bonanni

Ogni elezione ha le sue incognite. Quella di domani ne ha addirittura trenta: ventotto incognite nazionali, e due grandi incognite europee. In ogni Paese il responso degli elettori sarà letto alla luce degli equilibri locali. In Italia ci si chiede se Grillo diventerà il primo partito superando il Pd.
IN FRANCIA si guarda con timore all’annunciato trionfo dell’ultra destra di Marine Le Pen. In Olanda i primi exit poll sembrano smentire la vittoria annunciata del populista Geert Wilders. In Gran Bretagna si aspetta di capire se lo Ukip, il partito che vuole l’uscita dall’Ue, diventerà la seconda o la terza forza politica. In ciascuno dei ventotto Paesi dell’Unione il voto delle europee potrebbe avere serie ripercussioni di politica interna pur non esercitando effetti diretti sui parlamenti nazionali.
Alla fine però tutti questi interrogativi rischiano di mettere in secondo piano la vera posta in gioco alle elezioni di domani, che è il colore politico dell’Europa e delle sue istituzioni. E qui le incognite sono due: quanto spazio prenderanno in Parlamento i movimenti anti-europei, ma, soprattutto, chi vincerà la corsa testa a testa tra progressisti e conservatori.
Ipnotizzati dal mantra euro-scettico sull’«Europa dei burocrati», siamo spesso indotti a sottovalutare quanto in questi anni di crisi economica la natura profondamente politica dell’Europa abbia condizionato e diretto la gestione dell’emergenza. Gli Stati Uniti sono stati guidati fuori dalla crisi dall’amministrazione democratica di Barack Obama, e nessuno si sogna di ipotizzare che, se ci fosse stato ancora il repubblicano Bush alla Casa Bianca, le cose sarebbero andate allo stesso modo. La gestione della crisi europea è stata invece appannaggio quasi esclusivo dei conservatori. Ma questo dato di fatto profondamente politico viene in genere sottovalutato.
L’Europa ha tre istituzioni di carattere politico: il Consiglio, composto dai rappresentanti dei governi nazionali; la Commissione, composta da politici nominati dai governi nazionali e a cui il Parlamento vota la fiducia; il Parlamento, composto dai rappresentanti eletti dal popolo. Negli ultimi anni, tutte e tre le istituzioni sono state egemonizzate dai conservatori. Nel Parlamento uscente i democristiani del Ppe erano di gran lunga il partito di maggioranza relativa, con 274 deputati contro i 196 dei socialisti e democratici. Nella Commissione 21 commissari su 28 sono esponenti di partiti del centro-destra: popolari o liberali.
Conservatore è il presidente Barroso, come lo è il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy, come lo è l’importantissimo commissario agli affari economici, Olli Rehn (liberale).
Tra i governi nazionali, fino a poco fa, i conservatori la facevano da padroni con una preponderanza simile a quella esistente tra i commissari.
Dalla Merkel a Sarkozy, da Berlusconi a Cameron al polacco Tusk, praticamente tutti i grandi tenori del Consiglio europeo (anche quelli stonati, come Berlusconi) erano espressione del Ppe. Gli unici socialisti presenti nel 2008, lo spagnolo Zapatero, il greco Papandreou e il britannico Gordon Brown sono stati subito spazzati via dalla crisi. L’egemonia che Angela Merkel ha saputo dimostrare sull’Europa in questi anni è certo dovuta al peso economico della Germania, ma non sarebbe stata così totale e incondizionata se si fosse trovata a fare i conti con una maggioranza di primi ministri socialisti, o una Commissione progressista, o un Parlamento europeo prevalentemente di sinistra.
Dopodomani questi equilibri potrebbero cambiare. Se l’annunciata onda di piena dei populisti e degli euroscettici potrà essere interessante da un punto di vista socio-politico per illustrare il malessere europeo, essa avrà comunque scarso impatto sulla governance dell’Unione perché gli anti-euro saranno comunque minoranza, e per di più una minoranza divisa in tre o quattro gruppi politici. A contare veramente sarà invece l’esito del testa a testa tra i conservatori del Ppe, guidati da Jean-Claude Juncker, e i socialisti e democratici (S&D) guidati da Martin Schulz.
Oggi i sondaggi danno un leggerissimo vantaggio al Ppe che perderebbe una sessantina di seggi arrivando a quota 217, mentre S&D dovrebbe guadagnare fino ad arrivare a 201 deputati. Ma tutti gli esperti concordano sul fatto che il testa a testa è talmente serrato da non consentire di prevedere con certezza chi sarà il vincitore. È vero che, con ogni probabilità, dopo il voto socialisti e popolari daranno vita ad una grande coalizione per formare una maggioranza che possa imporre ai governi il presidente della Commissione. Ma nelle grandi coalizioni il peso relativo dei partiti è ancora più importante.
Se i conservatori dovessero prevalere in modo netto, si può star certi che non cambierà nulla, nonostante le sparate di Grillo e Berlusconi. Una vittoria socialista riaprirebbe i giochi, a cominciare dalla nomina del presidente della Commissione. E questa è la vera posta in palio nel voto di domani.

La Repubblica 24.05.14