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Caso Alpi, il Sisde: «Dietro l’omicidio il traffico d’armi», da L'Unità

L’ipotesi del traffico di armi quale movente dell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin era emersa subito dopo l’omicidio, il20marzo1994, e veniva confermata dal lavoro dei servizi di intelligence italiani in Somalia. Il primo appunto riservato del Sisde (l’allora servizio segreto civile) risale al 7 maggio del 1994. Vi si riferisce la vox populi secondo le quali il duplice omicidio sarebbe stato «conseguenza, fra le altre ipotesi, della missione che i due italiani avrebbero effettuato qualche giorno prima della loro morte a Bosaso, città nella quale avrebbero avuto modo di visitare la motonave “21 ottobre”, sequestrata dai miliziani del Ssdf». «La giornalista – continuava la nota del Sisde – avrebbe inoltre, sul posto, raccolto informazioni riguardanti la vicenda del sequestro della nave e della cattiva gestione dei fondi investiti dal governo italiano ». Secondo il Sisde, a Bosaso, poco prima di morire, Ilaria e Mirovan avrebbero «in particolare documentato una partita d’armi marchiata Cccp». C’è un secondo appunto del Sisde (31 maggio 1994) che segue la stessa pista: «La nave della cooperativa italo-somala “Somalfish” sequestrata, a suo tempo, a Bosaso, avrebbe in precedenza trasportato armi di contrabbando per la fazione Ssdf di quella città». E c’è di nuovo il riferimento all’ultimo servizio andato in onda di Ilaria: «Quanto sopra sarebbe emerso nel corso dell’ultimo servizio effettuato dalla giornalista italiana Ilaria Alpi, in quella zona prima di venire uccisa ».
Da ieri sono consultabili, per via elettronica, i documenti della commissione d’inchiesta istituita nel 2004, a 10 anni dalla morte dei due giornalisti della Rai, per i quali la presidente della Camera Laura Boldrini ha chiesto e ottenuto la desecretazione degli atti. Quello che impressiona è la discrasia, che emerge subito, del legame fra il lavoro di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e la loro morte, rispetto all’andamento dell’inchiesta e, soprattutto, alla trascuratezza con cui furono portati avanti i primi atti d’indagine: non ci fu autopsia, la macchina dove Ilaria e Miran furono trucidati, non fu sequestrata, sparirono block notes e video registrati. In un testo datato 8 giugno 1994, il Sisde torna sulla stessa pista: «Secondo informazioni acquisite in via fiduciaria, nel corso di un servizio giornalistico svolto a Bosaso (Somalia) qualche giorno prima della morte, i due cittadini italiani in oggetto (Ilaria Alpi e Miran Hrovatin,ndr) avrebbero raccolto elementi informativi in merito ad un trasporto di armi di contrabbando effettuato dalla motonave “21 ottobre” della cooperativa italo-somala “Somalfish” per conto della fazione somala Ssdf (Somali salvation democratic front)». Segue l’ipotesi: «L’omicido potrebbe essere stato ordinato dai trafficanti d’armi somali».
Un segno diverso sembrano avere le informative di due anni dopo. In un documento del Sismi della fine del 1996 si riferisce che, secondo ambienti dell’Olp, il mandante dell’omicidio sarebbe stato il generale Aidid, signore della guerra somalo. Il nome del generale torna in un memorandum elaborato dal Sisde nel 2002 per il Copaco: le armi dovevano arrivare a lui e, in seguito, sarebbero state dirottate in Yemen per i reduci afghani. Nel memorandum si parla anche di Giancarlo Marocchino, legato per via della moglie somala al presidente Ali Mahdi. Secondo il Sismi Marocchino sarebbe stato implicato nel traffico d’armi, ma si ipotizza che la «complicità da parte del capo della sicurezza di Marocchino agli esecutori del duplice omicidio» sarebbe avvenuta «all’insaputa dello stesso Marocchino » (29 dicembre del 1994).

L’Unità 24.05.14

L'Unità non si spegne. Bonifazi: «Pd troverà soluzione solida»

Francesco Bonifazi, tesoriere del Partito Democratico, interviene sulla vertenza del nostro giornale: «L’Unità è un prezioso e insostituibile strumento di informazione che va sostenuto e rilanciato. Esprimiamo solidarietà ai giornalisti e ai poligrafici che con grande responsabilità hanno permesso al giornale di continuare a essere presente nelle edicole nonostante gli stipendi bloccati. Il Partito Democratico farà di tutto affinchè si faccia chiarezza sul futuro della testata e dei suoi lavoratori. Ci faremo carico di individuare una soluzione urgente e solida per consentire all’Unità di continuare a svolgere il proprio ruolo nel panorama dell’editoria del Paese».

L’Unità 24.05.14

"La Ue tra europeisti ed eurodelusi", da L'Unità

L’incoerenza avrebbe giocato un brutto tiro a Geert Wilders, il campione olandese del populismo xenofobo e anti-europeo. I sondaggi lo davano in testa ma secondo gli exit poll (nei Paesi Bassi si è votato giovedì – 26 i deputati da eleggere) non sarebbe andato oltre il terzo posto: solo un terzo dei potenziali elettori del Partij vor de Vrijheid (partito per la libertà) sarebbe andato alle urne. Era stato proprio Wilders a dire che lui il parlamento europeo lo vorrebbe sciogliere e tanti giustamente si devono esser chiesti perché andare a votare per qualcosa che si vuole far sparire. Conforta l’idea che gli insulti di Wilders ai «marocchini» di tutte le nazioni e le campagne per bandire le moschee non abbiano sfondato come si temeva. I partiti tradizionali, il liberale Vvd del premier Mark Rutte, i laburisti e i cristiano-democratici sono sulla difensiva e con il vento in poppa parrebbero esse- re solo i liberali di sinistra di D66 e i socialisti, molto critici verso le politi- che di Bruxelles. Ci si chiede quanto Wilders e i suoi potranno contare sulla forza dell’alleanza con Marine Le Pen. Uno studio ha messo in luce, giorni fa, la profondità delle differenze esistenti tra i due astri della nuova destra europea. Nel parlamento uscente hanno quasi sempre votato diversamente.

REGNO UNITO (73 DEPUTATI)

Anche la Gran Bretagna tenta la strada del populismo esasperato e della xenofobia. Nigel Farage, il leader dell’Ukip è convinto di avere ottenuto più voti di tutti nelle elezioni che si sono tenute giovedì scorso. Ma le prime indicazioni che sono venute dalle contemporanee elezioni amministrative paiono aver pesantemente ridimensionato le sue atte- se. Probabilmente ha fatto meglio dei conservatori del premier David Cameron e dei liberali, ma deve vedersela, però, con i laburisti, che gli exit polls indicano in testa alle amministrative. La campagna dell’Ukip ha avuto toni esasperati, specie sulla questione dell’immigrazione, agitata con lo slogan «We want our country back», ridateci il nostro Paese, riecheggiando il ce- lebre «I want my money back» di Margaret Thatcher. Con la sua aggressività verbale Farage si è trovato in sintonia con Beppe Grillo e fra i due ci sono stati scambi di simpatie. È difficile però che l’idillio abbia sviluppi politici. Farage è un ultra-liberista arrabbiato: troppo per l’ex comico genovese e forse anche per il guru Casaleggio.

AUSTRIA (18 DEPUTATI)

Gli ultimi sondaggi in Austria indicano una situazione di quasi parità tra i po- polari della Övp e i socialdemocratici della Spö. Al terzo posto dovrebbero piazzarsi i sedicenti «liberali» della Fpö, il partito che fu di Jörg Haider i cui deputati dovrebbero aderire al «gruppone» euroscettico guidato da Marine Le Pen e dall’olandese Geert Wilders. La Fpö ha dovuto rinunciare al suo capolista Andreas Mölzer travolto dalle polemiche per aver paragonato l’Unione europea al Terzo Reich e aver pronosticato all’Europa un futuro da «conglomerato di negri».

BELGIO (21 DEPUTATI)

Tutti i partiti belgi sono a favore della Ue, perfino il Vlaams Belang, il movimento secessionista e xenofobo che reclama la separazione delle regioni fiamminghe da quelle francofone e che ha aderito all’alleanza Le Pen-Wilders. La partecipazione elettorale dovrebbe essere molto alta, anche perché nel Paese vige l’obbligo legale al voto. Secondo i sondaggi, dovrebbe avere un buon successo la Nuova Alleanza Fiamminga (N-Va) di Bart De Wever, che reclama una maggiore autonomia delle Fiandre senza sostenere posizioni estremistiche come il Vlaams Belang.

BULGARIA (17 DEPUTATI)

In Bulgaria, che è il più povero tra i 28 paesi della Ue, è forte il consenso verso l’Unione, che è considerata l’unica chance per la crescita economica. Le elezioni europee vengono considerate un test per la popolarità del governo, formato attualmente dai socialisti e dal Movimento per i Diritti e le Libertà (Dps). Ci sono poi un partito di estrema destra, Ataka, che dovrebbe faticare a superare la soglia di sbarramento e una nuova formazione populista, nazionalista e xenofoba, guidata dall’ex giornalista televisivo Nikolaj Barekov accreditano intorno al 7%.

CIPRO (6 DEPUTATI)

Anche a Cipro vige l’obbligo di voto, ma i sondaggi dicono che alle urne si recherà una esigua minoranza: forse non più del 30%. La disaffezione trova spiegazione nelle vicissitudini della grave crisi bancaria attraversata dal Paese nella primavera dell’anno scorso e dall’elevatissimo livello di corruzione. Sarebbero in testa i Conservatori Democratici del premier Nikos Anastasiadis, seguiti dai comunisti del partito Akel e dai centristi.

CROAZIA (11 DEPUTATI)

La Croazia è entrata nell’Unione solo nel luglio dell’anno scorso, ma si registra nell’opinione pubblica un certo scetticismo verso l’Europa, accusata di fare troppa pressione perché Zagabria mantenga gli impegni presi al momento dell’adesione. Socialdemocratici e liberali si presentano in un’unica lista, anche se siederanno in gruppi diversi. I sondaggi li danno intorno al 30%, più o meno quanto ci si aspetta che prenda l’alleanza elettorale dei piccoli partiti di destra. Tra questi la formazione xenofoba del Partito del Diritto, ostile ai serbi. A sinistra ci sono un partito laburista e uno di ecologisti.

DANIMARCA (13 DEPUTATI)

I danesi sono tra i meno euro-entusiasti. Nel 2000 rifiutarono con un referendum l’ingresso nell’euro e nel 2011 l’allora governo conservatore reintrodusse i controlli di frontiera. Il governo di centrosinistra di Helle Thorning-Schmidt ha corretto in parte questo orientamento. Secondo i sondaggi si delineerebbe un testa a testa tra i socialdemocratici e il partito liberale Venstre, ma una spiacevole sorpresa potrebbe venire dal populista e xenofobo Partito popolare danese.

ESTONIA (6 DEPUTATI)

Come le altre Repubbliche dell’area, l’Estonia sta cercando faticosamente di recuperare i ritmi di sviluppo degli anni del «miracolo baltico», molte difficoltà attuali vengono attribuite dalla destra proprio a Bruxelles. L’opinione pubblica, comunque, vede nell’adesione alla Ue una garanzia contro eventuali revanscismi russi. Nei sondaggi, il Partito delle Riforme (liberale) e i socialdemocratici, che formano insieme il governo a Tallin, sono molto vicini.

FINLANDIA (13 DEPUTATI)

La novità politica della Finlandia è il partito dei Veri Finlandesi, formazione di destra che facendo campagna contro la strategia economica della Ue ha avuto una notevole affermazione nelle politiche del 2011 piazzandosi con il 19,1% solo un punto dietro al partito conservatore. Helsinki ha cercato di bloccare le politiche di salvataggio dell’euro e di impedire l’ingresso di Bulgaria e Romania nell’area di Schengen. Secondo i sondaggi, i conservatori, i liberali del Partito del Centro, i socialdemocratici e Veri Finlandesi sarebbero tutti intorno al 20%.

FRANCIA (74 DEPUTATI)

L’entusiasmo per l’Europa nell’opinione pubblica francese è un ricordo dei tempi andati. Molti attribuiscono le crescenti difficoltà economiche alle scelte compiute da Bruxelles e ciò ha dato uno spazio crescente alle posizioni populiste, anti-euro e anti-europee del Front National di Marine Le Pen. Secondo molti osservatori l’estrema destra potrebbe diventare il primo partito di Francia. Un risultato che potrebbe essere favorito dalla bassa partecipazione alle urne – potrebbe essere ad- dirittura inferiore al 40,6% del 2009. Marine Le Pen sta promuovendo con l’olandese Wilders la formazione di un gruppo anti-euro all’europarlamento.

GERMANIA (96 DEPUTATI)

La campagna elettorale è stata fiacca e gli unici spunti polemici sono venuti dalla Csu bavarese quando ha cercato di bloccare il libero ingresso nel paese di bulgari e rumeni. C’è comunque un certo interesse per Martin Schulz, il candidato alla presidenza della Com- missione dei Socialisti&democratici, che viene preferito a Jean-Claude Juncker, il candidato dei popolari, dalla maggioranza dei tedeschi, nonostante che la Cdu con il 37% delle intenzioni di voto sopravanzi nettamente la Spd, ferma al 27%. C’è attesa per il risultato che otterrà «Alternative für Deutschland», l’unico partito anti-euro che potrebbe arrivare al 7%. Quest’anno si voterà senza soglia di sbarramento dopo una sentenza della Corte costituzionale: secondo alcuni dovrebbe costituire un precedente per tutta l’Europa.

GRECIA (21 DEPUTATI)

Syriza, di Alexis Tsipras candidato alla presidenza della Commissione, potrebbe diventare il primo partito mettendo in serie difficoltà il governo conservato- re di Antonis Samaras, che rischia elezioni anticipate disastrose per il suo partito Nea Demokratia. Il sentimento popolare dei greci sulla Ue è fortemente condizionato dalle durissime scelte imposte dalla Trojka, ma nessuno dei partiti democratici chiede l’uscita dall’euro e dall’Unione. Syriza chiede profonde correzioni della politica di austerità. Un po’ ridimensionato il pericolo dei neonazisti di Alba Dorata, dati intorno al 7-8%, mentre un certo successo potrebbe avere, a destra, il partito To Potami, che ha fatto della lotta alla corruzione la propria bandiera.

IRLANDA (11 DEPUTATI)

Un tempo gli irlandesi erano tra i più euro-entusiasti perché vedevano nella Ue la possibilità di emanciparsi dalla tutela britannica. La crisi dell’euro e l’austerity imposta dalla Trojka hanno cambiato le cose. Alla fine dell’anno scorso l’Irlanda è uscita ufficialmente dal programma del fondo salva-stati, ma la politica di consolidamento di bilancio continua e incontra molte resistenze, per esempio contro l’imposizione di nuove tasse come quella sull’acqua. Ambedue i partiti al governo, il Fine Gael del premier Enda Kenny e il Labour secondo le previsioni dovrebbero uscire ridimensionati dal voto che si è tenuto ieri. A guadagnarne probabilmente il Sinn Fein di Gerry Adams.

LETTONIA (8 DEPUTATI)

I sondaggi sono dominati dal cosiddetto Centro dell’armonia, formato da socialdemocratici e socialisti. Il Paese, afflitto come le altre repubbliche baltiche da una pesante crisi finanziaria ed economica, è stato sull’orlo della bancarotta ma da qualche tempo registra segnali di ripresa, che fanno sperare in un tasso di crescita intorno al 4%. I lettoni, come gli estoni e i lituani, sono particolarmente interessati all’approfondimento dei legami con l’Unione anche come garanzia della loro indipendenza nei confronti del grande vicino russo. In Lettonia, come in Estonia, i cittadini di etnìa russa sono circa un terzo della popolazione.

LITUANIA (11 DEPUTATI)

A Vilnius le previsioni indicano una vittoria del Lsdp, il partito socialdemocratico, che dovrebbe raggiungere quasi il 38% e dovrebbe aggiudicarsi almeno quattro degli undici eurodeputati che spettano alla Lituania, dove si vota oggi, sabato. Il governo attuale diretto dal socialdemocratico Algirdas Butke- vic è formato, oltre che dal Lsdp, da un partito laburista, dal movimento Ordine e Giustizia e dal partito della minoranza polacca. Esistono un partito della minoranza russa e diverse piccole formazioni nazionaliste e di destra.

LUSSEMBURGO (6 DEPUTATI)

Il Granducato (mezzo milione di abitanti) è il Paese che sull’Unione europea detiene due record. Il primo è quel- lo della soddisfazione: oltre due terzi dei lussemburghesi dichiarano di esse- re informati sulle attività delle istituzioni di Bruxelles e di apprezzare l’integrazione europea. Il secondo è quello della partecipazione elettorale che, favorita anche dall’obbligatorietà legale del voto, si è sempre attestata oltre il 90%. Il partito più importante del Granducato è l’Unione popolare cristiano-sociale dalle cui file è uscito Jaean-Claude Juncker, per anni primo ministro del Lussemburgo, poi presidente dell’Euro- gruppo ed attuale candidato dei popolari alla presidenza della Commissione. Non manca però una formazione euroscettica: con lo slogan «meno Europa più Lussemburgo» un Partito Alternativo Riformista Democratico da-

to intorno al 5%.

MALTA (6 DEPUTATI)

La politica maltese è dominata dal Partito Demokratiku Nazzjonalista, che sotto la guida di Edward Fenech Ada- mi portò l’isola nell’Unioneed è attualmente al governo, e dal partito laburista, che vinse le elezioni europee sia nel 2004 che nel 2009. Un terzo partito, Alternattiva Demokratika, ha po- che chance. I due partiti maggiori hanno una impostazione favorevole alla Ue, pur se chiedono più aiuti e una maggiore attenzione, specie sul tema immigrazione. Le urne a Malta sono aperte oggi, sabato.

POLONIA (51 DEPUTATI)

I polacchi sono tra i sostenitori più entusiasti dell’Unione europea, dall’adesione alla quale il Paese ha avuto moltissimo da guadagnare, e però andranno a votare in pochi, secondo i sondag- gi: non più del 30-35%. La contraddizione si spiega solo con la scarsa fiducia degli elettori nei partiti. I due principali sono la liberale Piattaforma civica (Po) del premier Donald Tusk, che aderisce al Ppe, e il partito ultraconservatore Legge e Giustizia (Pis) di Jaroslaw Kaczynski, ex primo ministro e fratello gemello di Lech, il presidente che morì in un incidente aereo nel 2010. Nella campagna elettorale il Pis, pur non essendo programmaticamente contro l’euro e l’Unione, ha usato toni e argo- menti nazionalistici. Ma il partito di Tusk è risalito nei sondaggi facendo leva sulle inquietudini diffuse dall’atteggiamento russo nella crisi ucraina.

PORTOGALLO (21 DEPUTATI)

Il Portogallo è tra i Paesi che più hanno avuto da guadagnare nell’Unione euro- pea. Il Paese ha conosciuto una rapida crescita ma poi è arrivata la crisi finan- ziaria ed economica e le istituzioni di Bruxelles, la Bce e il Fmi hanno imposto una cura pesantissima, che ha colpito soprattutto giovani e pensionati. A differenza che in altri Paesi, qui la scontentezza verso le politiche d’austerity non ha trovato sfogo a destra, premia piuttosto la sinistra. Si prevede che il governo conservatore, accusato di essersi piegato alla durezza dei diktat, verrà punito e che verranno invece premiati i partiti di sinistra: i comunisti, i Verdi e soprattutto il partito socialista che venne scalzato dai conservatori alle ultime elezioni. Molto dipenderà dalla partecipazione al voto. Le stime attuali indicano una partecipazione intorno al 60%.

REPUBBLICA CECA (21 DEPUTATI)

L’aria a Praga è cambiata l’anno scorso, quando se ne è andato, dopo anni, il presidente della Repubblica Vaclav Klaus, che considerava l’Unione europea come un Moloch burocratico e Bruxelles poco meno che una capitale nemica. Travolto dal malaffare il suo partito, l’Ods, è crollato a meno del 10%. Ossigeno per gli altri partiti che credo- no nella Ue e nei vantaggi, non solo economici, che essa offre. Una vera e propria destra populista non esiste a Praga e dintorni, anche se i suoi argomenti riecheggiano in certi toni usati dal partito del miliardario Andrej Babis, che si batte contro la corruzione e soprattutto contro gli sprechi nell’utilizzo dei fondi Ue. Il partito di Babis potrebbe ottenere intorno al 25% dei voti. Nella Repubblica ceca si è votato ieri, venerdì, e si vota anche oggi.

ROMANIA (32 DEPUTATI)

La Romania è nell’Unione da sette anni ma non se ne vedono ancora molti benefici. Anche per questo la campagna elettorale è stata centrata soprattutto sui temi nazionali: la lotta contro corruzione e disoccupazione e la necessità di mettere mano alle riforme istituzionali. La politica rumena vive con grande disagio gli ostacoli che molti Paesi stanno opponendo alla libera circolazione in tutta l’Unione dei cittadini rumeni e bulgari e lamenta il fatto che Bucarest è trattata tuttora come una Cenerentola nella distribuzione dei fondi europei. I sondaggi dicono che il partito socialdemocratico del premier Victor Ponta è saldamente in testa con il 40%, seguito dai nazional-popolari con il 15%. Non si sa se avrà i voti per avere deputati il partito dell’estrema destra della Grossa Romania.

SLOVACCHIA (13 DEPUTATI)

La Slovacchia, dove le urne saranno aperte oggi, è il Paese in cui nelle ultime elezioni europee hanno votato meno aventi diritto: 17% nel 2004 e 19,6% nel 2009. Si spera che stavolta si registri una partecipazione meno misera. Anche perché il sentimento medio nell’opinione pubblica slovacca non è affatto ostile all’Europa. Tutt’altro. Il Paese ha tratto grandi benefici dall’appartenenza all’Unione e anche dall’entrata nell’euro, che pure all’epoca era apparsa un po’ avventurosa. Soltanto negli ultimi tempi si sono levate critiche a Bruxelles per quanto riguarda l’aumento delle tasse e la disoccupazione. Ciò non toglie che tra i partiti ci sia una quasi unanimità a favore dell’Unione e che il partito più decisamente europeista, il socialdemocratico Smer sia saldamente in testa nei sondaggi.

SLOVENIA (8 DEPUTATI)

La Slovenia ha un triste primato negativo: è l’unico Paese tra i 28 che oggi è più povero di quando, dieci anni fa, è entrato nell’Unione. Di fronte alla recessione, il governo combatte per risalire la china senza ricorrere all’aiuto dei fondi salva-stati, ma l’anno scorso il sistema bancario è stato a un passo dal crac. Nonostante questo, non ci sono movimenti di destra che cavalchino i sentimenti antieuropei. Il rischio è, sostiene qualche osservatore, che la delusione verso l’Europa si manifesti piuttosto nell’astensione al voto.

SPAGNA (54 DEPUTATI)

È insieme con la Germania il grande Paese dell’Unione in cui non sono pre- senti e attivi forti movimenti contro l’euro e l’Europa. Ha subìto pesantissime conseguenze per la crisi finanziaria e il sistema bancario è stato a un passo dal collasso. Gli effetti economici della crisi sono spaventosi, soprattutto per quanto riguarda la disoccupazione, che ha toccato livelli sconosciuti agli altri Paesi. La critica alle classi dirigenti spagnole, che prima si sono cullate nel- la falsa ricchezza del boom edilizio e poi non hanno saputo reagire in tempo ai primi segnali di crisi, è dura ma non ha terremotato il quadro politico. I due grandi partiti, il popolare e il socialista, che qualche anno fa raccoglievano più dell’80% dei voti, sono calati, ma si divi- dono ancora i due terzi dell’elettorato, pur se hanno lasciato spazio alla sinistra e, soprattutto, ai partiti regionalisti nei Paesi Baschi e in Catalogna. L’aspirazione di Barcellona a organizzare per novembre un referendum sull’indipendenza catalana ha avuto largo spazio in campagna elettorale.

SVEZIA (20 DEPUTATI)

Dentro l’Europa ma anche un po’ fuori: senza l’euro e con la ferma intenzione di mantenere le proprie specificità in materia di standard sulla qualità del- la vita e di servizi sociali. Il «modello Svezia» ha fatto sempre un po’ storia a sé, ma nonostante tutto la maggioranza degli svedesi è sempre stata favorevole all’appartenenza all’Unione e continua ad esserlo, sia pure di poco. La spiacevole novità è la comparsa di un partito intenzionato a farla finita tanto con il «modello», del quale si vorrebbero salvare solo gli aspetti meno sociali e solidali, quanto con l’appartenenza all’Europa. Gli Sverigedemokraterna, i (sedicenti) democratici svedesi sono un partito populista, antitasse e soprattutto xenofobo. La loro forza è calcolabile tra il 5 e il 10%, ma ci sono osservatori secondo i quali, con la trasformazione in partito in doppiopetto, potrebbero sfondare. In ogni caso dovrebbero erodere consensi tanto ai conservatori che ai socialdemocratici.

UNGHERIA (21 DEPUTATI)

Al ministero dell’Interno di Budapest sono tanto sicuri che saranno pochi gli ungheresi che andranno a votare da aver fatto stampare solo 5 milioni di schede elettorali per gli 8 milioni di elettori. D’altronde, il governo di Viktòr Orban non ha mai brillato per zelo democratico. Con il suo partito Fidesz, vincitore delle elezioni nazionali, Orban ha compiuto diversi passi verso la creazione di un regime autoritario, con la stampa sotto controllo, la magistratura messa al guinzaglio e la finanza piegata agli interessi delle cricche di potere. Tutto senza che da Bruxelles venisse un’obiezione (se non quando si è toccata l’autonomia della Banca centra- le) e neppure dal Ppe di cui Fidesz è autorevole componente. Il partito di Orban vincerà le europee e resterà da vedere se i socialisti e i Verdi riusciranno a ripetere il miracolo di restare in gara come fecero alle elezioni nazionali. Ma soprattutto si dovrà vedere quanto si prenderà Jobbik, il partito di estrema destra tanto impresentabile che neppure Le Pen e Wilders vogliono averci a che fare. Quello che vuole cacciare ebrei, omosessuali e rom e con il suo 15% è, come dice il suo leader Gabor Vona, «il partito radicalnazionalista che ha più successo nella Ue».

L’Unità 24.05.14

La morale del caso Pomezia «Chi ha meno riceve meno», di Valeria Fedeli e Raffaele Ranucci

Siamo stati tra i primi a commentare e stigmatizzare la scelta del doppio menu sulla base del reddito voluto dal Sindaco di Pomezia per le bambine e i bambini che frequentano le scuole. Quel sindaco è del Movimento 5 Stelle, ma avremmo criticato con la stessa forza una scelta così discriminatoria qualsiasi fosse stato il colore politico di quell’amministrazione. Certo però colpisce particolarmente, ed è particolarmente emblematico, che quella scelta venga proprio da un esponente grillino. Il merito di quella scelta segna una differenza nel modo di intendere la responsabilità da parte di chi governa e di praticare l’uguaglianza, che dovrebbe essere il valore cui tutta la classe politica e dirigente si ispira. Non è la prima volta che assistiamo a scelte palesemente inique e discriminatorie, ma desta preoccupazione e allarma che il protagonista di queste scelte sia proprio quel Movimento che pretende di esprimere un nuovo modello di politica. Perché quello che emerge è un modello retrogrado, egoista, superficiale. Pensare che in una scuola si possano servire menu diversi a seconda di quanto la famiglia ha potuto pagare, significa minare alle fondamenta i valori di uguaglianza che la scuola deve non solo insegnare, ma proteggere lasciando che le nostre bambine e i nostri bambini conservino più a lungo possibile l’innocenza che li porta a vedere il mondo popolato di persone pur con infinite differenze certo, ma trattate con pari rispetto e dignità, uguali. Ma come si può immaginare che ad un certo punto, mentre per tutta la giornata tutte e tutti fanno le stesse cose, a qualcuno viene servito il dolce e a qualcun altro no? Non è evidente, e stridente con ogni naturale senso di solidarietà umana, che si tratterebbe di un momento di clamorosa e sconvolgente ingiustizia? E se anche fosse vero che l’idea viene da alcuni genitori, come il sindaco di Pomezia ha dichiarato, come si può non capire e non spiegare che è un’idea sbagliata?

Chi è disposto a pagare 40 centesimi in più ha anche il dolce, chi non può permetterselo deve farne a meno. Fin da piccoli chi ha meno riceve meno. Esattamente l’opposto di quanto prescrive la Costituzione: si rinuncia a rimuovere gli ostacoli alle disuguaglianze, come indica l’art. 3, e anzi un ostacolo di reddito diventa una discriminazione quotidiana. Così fallisce la scuola e fallisce quell’Istituzione che non aiuta la scuola ad essere spazio dove si impara a crescere, a socializzare, a conoscere, relazionarsi, rispettarsi. Inseguendo un’idea manageriale e senza radici ideali della gestione del governo, si finisce per considerare la scuola solo una spesa. E se non a tutti spetta il dessert, questa diventa una metafora della vita: per qualcuno la vita è meno dolce e meglio farlo capire da subito.
Quello che sembra non vedere il sindaco grillino è quanto la sua scelta sia diseducativa e quanto colpisca il senso civico di bambine e bambini che saranno cittadi- ne e cittadini di domani. Come sembravano non capire sindaco e altri membri della giunta del Comune di Mira, in provincia di Venezia, sindaco e giunta del M5s, quanto fosse discriminatoria, sbagliata e di cattivo esempio la sfiducia verso l’assessora all’Ambiente e allo sport, Roberta Agnoletto, cacciata perché incinta lo scorso anno. Non è un’Italia nuova questa. E non è polemica politica, non è contrapposizione ideologica. È guardare alle scelte di merito, sapendo che le scelte di merito esprimono sempre valori e quando compiute da chi ha cariche di governo incidono concretamente sulla vita di persone e comunità. E guardando al merito si vede che chi urla contro il sistema, poi, quando si trova con responsabilità elettive o di governo, si limita alla presenza protestataria, come in Parlamento, o compie scelte prive di quel senso civico e di quel rinnovamento etico che tanto viene evocato.

Senso civico che nel caso delle mense di Pomezia hanno mostrato quelle imprese che hanno rinunciato a partecipare alla gara. Senso civico e di uguaglianza che ci auguriamo possa portare il Comune di Pomezia a rivedere le sue scelte e indire un nuovo bando per una mensa che sia uguale per tutte le bambine e tutti i bambini.

L’Unità 24.05.14

L’ultimo affondo di Renzi “Saremo noi a salvare l’Italia il governo andrà avanti se vinco o perdo non cambia”, di Francesco Bei

«Noi salveremo l’Italia. Lo faremo anche per chi ci fischia e nonostante loro. Non lasceremo il Paese a chi lo vuole distruggere». Matteo Renzi torna a Firenze, lì dove tutto è cominciato. Dove, come dice il candidato sindaco Dario Nardella, «cinque anni fa un manipolo di giovani è partito credendo che si potesse cambiare l’Italia». I dubbi sulla piazza, che all’inizio stentava a riempirsi, vengono spazzati via alle dieci di sera quando, dal palco montato di fronte alla Loggia dei Lanzi (dove lo voleva sempre Enrico Berlinguer), il premier può finalmente abbracciare con lo sguardo una distesa di volti e di bandiere. È allora, in un momento di silenzio, che un anziano riesce a prevalere sulla folla e urla con quanta voce ha in corpo: «Matteo, ‘un ci ferma più nessuno!». Renzi ride.
Vista da qui certo è un’Italia diversa. I fischi e le proteste certo ci sono, come quelli dei movimenti per la casa, ma arrivano molto attutiti. Grillo sembra un fantasma lontano. Se non fosse per uno striscione che lo evoca: «Noi da Berlinguer, voi oltre Hitler». Qui a Firenze «Matteo» viaggia tranquillo e non sarà un caso che abbia scelto di chiudere il suo tour #europacambiaverso proprio in questa piazza: «Quando torni dopo un lungo viaggio a casa tua — ammette con la voce un po’ incrinata — è un’emozione che non ha paragoni con niente».
Il comizio finale segue i binari consueti di questi giorni, senza sparate dell’ultim’ora. Si batte molto sulla «speranza » contro «l’odio», sulla volontà di cambiare l’Europa iniziando a cambiare l’Italia. E sugli ormai “mitici” ottanta euro, che fin dal mattino, in una conferenza stampa a palazzo Chigi, il premier aveva promesso di estendere anche alla platea che oggi non ne beneficia. «Gli 80 euro non sono un’elemosina — aveva spiegato illustrando quanto fatto in questi ottanta giorni al governo con le immancabili slide — ma è giustizia sociale. Considerateli come un inizio di riduzione delle tasse. Il prossimo step sarà l’allargamento della fascia a cui destinare il bonus, ai pensionati e alle partite Iva». Lo slogan è bell’e pronto: «Giù le tasse se vogliamo portar su l’Italia». Sembra molto berlusconiano e forse lo è.
D’altronde, a Prato, Renzi lo dice esplicitamente: «Bisogna andare a prendere uno per uno il voto di quelli di
destra. Non è una parolaccia». E per farlo è inevitabile forse la presa di distanza e la polemica con la Cgil. In piazza della Signoria non c’è una sola bandiera dei sindacati, non ci sono pensionati organizzati, chi è venuto ad ascoltare il segretario sembra piuttosto una folla di persone “normali”, che ha smesso di fare lo struscio serale, ha rinunciato all’aperitivo o al cinema, e si è fermato qui. «Quando fanno il loro lavoro i sindacati fanno bene, è quando fanno politica che fanno confusione, che sono un problema ». Applausi. Signori con il giubbino di renna e signore con lo scialle firmato agitano bandierine tricolore opportunamente distribuite dai ragazzi dell’organizzazione, tutti in maglietta gialla. I giovani, a differenza delle manifestazioni sindacali, ci sono anche loro e numerosi. La musica che li intrattiene dal palco prima dell’arrivo del leader non ha nulla a che fare con il vecchio Fossati, amato da Bersani, e nemmeno con il Jovanotti di Veltroni. Anzi, non c’è proprio nessuno che canti in italiano, siamo in piena compilation post-ideologica: “Guns ‘n’ Roses”, “Pearl Jam”, “The Cure”.
Renzi valuta con un po’ di apprensione le voci di una forte avanzata grillina anche nella sua città. Dal microfono spera che «gli italiani facciano come i fiorentini, che hanno sempre da brontolare, facciano come Gino Bartali che diceva ‘è tutto sbagliato, è tutto da rifare, ma prendeva la bicicletta e andava a salvare gli ebrei». Poi, sceso dal palco, si lascia andare con i suoi a una considerazione più politica: «Le Europee dimostreranno che l’area di governo, noi e l’Ncd, va oltre il 40 per cento. Allora nessuno potrà più contestarci».
Il fedele sottosegretario Luca Lotti, che si aggira come una trottola sotto e dietro il palco, mostra a qualche giornalista l’ultimo sondaggio conservato nella memoria dello smartphone. «Siamo tranquilli», dice con un sorriso. L’altro dioscuro renziano, Nardella, che ha battuto in lungo e in largo ogni piazza fiorentina, è sicuro: «Negli ultimi giorni mi sembra che ci sia un rinnovato entusiasmo verso il Pd. Non c’è quel clima che notai alle politiche dello scorso anno». A piazza della Signoria, in segno di pace, si fa vedere anche Gianni Cuperlo. Renzi non se lo fa sfuggire e lancia un segnale anche ai militanti più di sinistra tentati dall’astensione: «Ho capito che il Pd è casa mia quando Bersani non mi ha cacciato con un tweet dopo la mia sconfitta alle primarie. E vorrei salutare Gianni Cuperlo che stasera è qui con noi». Nei giorni scorsi a un esponente della minoranza aveva confidato: «Se oggi fatichiamo a contenere Grillo, immagina cosa sarebbe successo se a palazzo Chigi ci fosse ancora Enrico Letta».
A piazza della Signoria, di fronte al palco “berlingueriano”, c’è un tondo per terra che raffigura il punto dove bruciarono un altro eretico, Fra’ Girolamo Savonarola. La data è la stessa: 23 maggio 1498. Renzi, incrociando le dita, ci scherza sù: «Non vorrei portasse male».

La Repubblica 24.05.14

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Renzi: all’Italia serve una svolta fiscale, di Emilia Patta

Gli 80 euro in busta paga a chi guadagna meno di 1.500 euro netti al mese, il decreto Poletti che ha permesso proprio in questi giorni di salvare posti di lavoro alla Electrolux, lo sblocco di 3,5 miliardi per l’edilizia scolastica, la riforma delle Province targata Delrio che ha fatto sì che domani non si voterà per rinnovare i consigli provinciali di tutta Italia, il tetto agli stipendi dei superdirigenti della pubblica amministrazione, la declassificazione di tutti gli atti riguardanti le stragi di Stato, la riduzione e la vendita delle auto blu. Ed «è solo l’inizio», promette Matteo Renzi. Che nell’ultimo faticoso giorno della campagna elettorale per le europee – conclusosi in serata in Toscana, prima a piazza Duomo a Prato con il candidato sindaco Matteo Biffoni e poi nella “sua” Firenze con Dario Nardella – decide di convocare una conferenza stampa a Palazzo Chigi per illustrare quanto fatto nei primi 80 giorni del suo governo. «Sono solo 80 giorni che siamo al governo, e ogni riferimento agli 80 è volutamente causale – dice il premier in conferenza stampa, e nelle piazze toscane ripeterà gli stessi concetti –. L’Italia si salverà solo con una netta riduzione delle tasse, gli 80 euro non sono mance elettorali: io la chiamo giustizia sociale. È solo l’inizio di una riduzione fiscale che sarà allargata a pensionati e partite Iva. Giù le tasse, se vogliamo salvare l’Italia».
Forse, ammette Renzi, si è mancato di comunicazione sulle riforme messe in campo dal governo in una campagna elettorale dominata dagli «insulti». C’è ancora tanta strada da fare ma il «tour de force» ha consegnato i primi risultati. È 80 il numero magico di Renzi: 80 euro, 80 giorni di governo. Ma certo 80 giorni sono pochi, impossibile fare miracoli in così poco tempo. E infatti il premier fa sapere che, qualunque sia il risultato delle urne, la maggioranza non cambierà dopo il 25 maggio: i provvedimenti impostati e le riforme hanno bisogno di tempo per essere realizzati, come era stato preannunciato al momento della fiducia. Entro giovedì prossimo arriverà, annuncia Renzi, il progetto di delega fiscale (e qui va segnalata la forte preoccupazione degli imprenditori sui tempi e le priorità dell’attuazione della delega, come ha ricordato martedì scorso il direttore generale di Confindustria Marcella Panucci). Poi si imprimerà «il più possibile» un’accelerazione al Ddl delega sul lavoro. Quanto alle riforme costituzionali e alla legge elettorale, il risultato del voto non inciderà sul progetto: «Andiamo avanti comunque, io non mollerò di un millimetro», sottolinea Renzi, che ha legato proprio alle riforme più che alla percentuale che il Pd riuscirà a raggiungere il suo futuro politico.
Le cose già fatte, le riforme messe in campo che richiedono tempo. «Qui si continua a lavorare in modo deciso e determinato. Si sono gettate le basi per un grande cambiamento», dice Renzi nella sede istituzionale di Palazzo Chigi. Poi però c’è la piazza, la paura di Grillo e della rabbia della gente. I sondaggi sono buoni, rassicuranti, dicono dallo staff del premier. Eppure dopo lo choc dell’anno scorso nulla è dato per scontato. «Qualcuno ha preso in mano le armi della legalità – scandisce Renzi nel giorno dell’anniversario della morte di Giovanni Falcone –. Noi non accettiamo lezioni da chi va in Sicilia a dire che la mafia non esiste. Noi abbiamo i nostri martiri». Rabbia contro speranza: «Non lasceremo il Paese a chi lo vuole distruggere». Infine l’appello a convincere ad uno ad uno gli indecisi. «Viva Firenze, viva l’Italia, viva l’Europa» conclude Renzi con un inedito balzo dal palco per unirsi alla folla. Oggi silenzio, poi il verdetto delle urne per quella che per il giovane premier è – al di là delle dichiarazioni ufficiali – la battaglia della vita.

Il Sole 24 ore 24.05.14

"Il nuovo inizio per un’Europa utile", di Mario Deaglio

In queste ore milioni di elettori italiani si domandano quali vantaggi ci possa portare l’Europa e se sia il caso di andare a votare per il rinnovo del Parlamento europeo. Si tratta di un interrogativo sbagliato: prima di essere una questione di vantaggi, l’Europa è una questione di identità, l’economia viene dopo.
Dobbiamo esprimere il nostro voto principalmente perché i nostri valori sono più vicini a quelli degli altri europei che a quelli dei russi, degli americani, degli arabi, degli africani e degli asiatici e perché nel mondo globalizzato l’Italia è troppo piccola e troppo debole per stare da sola.

Unicamente dopo questa premessa ha senso considerare i vantaggi economici. Non esiste una dimostrazione semplice delle ragioni per le quali non solo «Europa è bello (o comunque necessario)», nel senso che i valori europei fanno parte del nostro Dna, ma anche «Europa conviene». La storia non si fa con i «se», è difficile pensare a come saremmo oggi senza l’Europa. Veniamo da mezzo secolo di integrazione, con l’Europa ci arrabbiamo (qualche volta a ragione), ma l’Europa è diventata una dimensione della nostra realtà quotidiana. In ogni caso è ragionevole pensare che senza i meccanismi comunitari (dazi doganali uguali all’esterno, libero movimento di persone, merci, capitali all’interno) gli scambi tra Paesi membri sarebbero ridotti e capitale e lavoro sarebbero impiegati in maniera meno produttiva dell’attuale. Avremmo forse maggiore occupazione ma quasi sicuramente minore produzione, dovremmo lavorare di più per stare peggio.

Lo mostrano abbastanza chiaramente due esempi molto distanti tra loro. Primo esempio: in agricoltura saremmo sicuramente più vicini all’obbiettivo di «mangiare ciò che siamo capaci di produrre e produrre ciò che mangiamo», come promette uno slogan elettorale, con il risultato che le nostre mense sarebbero più povere e i prezzi dei cibi più alti. Solo l’unità consente oggi all’Europa azioni incisive a livello mondiale in favore di un futuro alimentare sostenibile in cui ci sia spazio per i prodotti locali. Secondo esempio: avremmo ancora le compagnie aeree «di bandiera» che ci costerebbero moltissimo – come dimostra la crisi dell’Alitalia – i mercati aerei sarebbero privi di concorrenza, con voli ridotti e biglietti aerei molto più cari.

Il confronto tra Europa e non-Europa è bruciante se guardiamo alla vita di tutti i giorni. Lasciamo da parte il fastidio dei controlli dei passaporti e la necessità di cambiare moneta quando si passa una frontiera; con il diploma di un Paese non si potrebbe esercitare la propria professione negli altri Paesi europei, i contributi pensionistici versati all’estero andrebbero probabilmente perduti, non ci sarebbe il programma Erasmus per gli studenti universitari. Le imprese, largamente confinate al mercato interno, avrebbero minori volumi di vendita e quindi i costi di produzione e i prezzi sarebbero più alti. Da ultimo, si dice spesso, purtroppo con ragione, che l’Italia non è un paese per giovani: se fossimo fuori dall’Europa, continuerebbero sempre a comandare le teste grigie.

Molti sostengono che, se l’Europa è una buona cosa, l’euro è una gabbia nella quale avremmo fatto meglio a non entrare e dalla quale occorrerebbe uscire. E si addita l’esempio di Gran Bretagna e Svezia, due economie dai buoni risultati, entrambe dentro l’Europa ma fuori dall’euro. E’ vero che Gran Bretagna e Svezia vanno bene ma non dovremmo dimenticare che gli inglesi sopportarono la durissima «cura Thatcher» nei primi Anni Ottanta, con lo sciopero dei minatori durato un anno e la più recente «cura Cameron», che non è stata certo uno scherzo. Gli svedesi, dal canto loro, nei primi Anni Novanta, sperimentarono la caduta dei redditi e il fallimento di tutte le grandi banche. Svedesi e inglesi ridussero entrambi la spesa pubblica introducendo efficaci riforme nel suo funzionamento, che è quanto sta cercando di fare l’Italia.

Ugualmente non dovremmo dimenticare, e invece rimuoviamo volentieri dalla memoria, che ogni mese seguivamo con trepidazione i dati della bilancia commerciale: se erano negativi – il che succedeva spesso – il cambio della lira scendeva e contribuiva a un’inflazione sovente a due cifre che si portava via il valore dei risparmi. L’euro è stato un gigantesco ombrello che ci ha tolto da questa condizione di emergenza quasi quotidiana. Se non ne abbiamo approfittato rimodernando le industrie, se non abbiamo nemmeno utilizzato i fondi europei ai quali avevamo diritto, se ci siamo cullati nell’illusione che la simpatia nei confronti degli italiani potesse sostituire le esportazioni delle industrie italiane, la colpa è nostra e non dell’ombrello. I più accaniti oppositori dell’Europa, i quali sostengono in maniera truculenta che ne abbiamo abbastanza dell’euro, hanno rimediato alla carenza di argomenti con la violenza verbale, e non solo, ricorrendo a tecniche di chiara reminiscenza fascista.

Certo, l’Europa non va bene così com’è, occorrono cambiamenti profondissimi di cui tutti sono ormai consapevoli. Per questo le attuali elezioni europee sono molto diverse da tutte quelle che le hanno precedute: non si tratta di un semplice rinnovo del Parlamento di Strasburgo bensì dell’inizio di un rinnovamento radicale che rivisiti i motivi di fondo e le basi ideali oltre che economiche dell’Europa, ne modifichi le regole, riduca i poteri della burocrazia di Bruxelles. In queste condizioni, il non votare, o votare contro l’Europa e contro l’euro significa buttar via il bambino insieme all’acqua sporca.

La Stampa 24.05.14

“Biagi è in pericolo, dategli la scorta” l’allarme il giorno prima del delitto, di Carlo Bonini

Marco Biagi morì due volte. Del piombo brigatista, alle 20.15 del 19 marzo 2002. E quindi, come ora documentano gli atti e le testimonianze acquisite dalla Procura di Bologna, nelle tre settimane che seguirono, della sapiente opera di “cover up”
della cosiddetta “Relazione Sorge”. Il documento di 57 cartelle commissionato da Claudio Scajola al suo allora capo di gabinetto doveva infatti elidere (come del resto fece) agli occhi dell’opinione pubblica e del Parlamento, ogni circostanza di fatto in grado di documentare la piena consapevolezza dell’allora ministro dell’Interno Claudio Scajola, del suo gabinetto e del vertice del Dipartimento di Pubblica sicurezza del rischio che il giuslavorista correva. Doveva tagliare ogni possibile nesso causale tra il cinismo di chi decise di non raccogliere il grido disperato di “un rompicoglioni” e la sua terribile fine. Per poter così agevolmente scaricare le responsabilità “amministrative” e politiche di quella morte sull’asserita ignavia degli uffici periferici di Polizia di Bologna, Milano e Roma. Quelli che, tra il settembre e l’ottobre del 2001, avevano proceduto alla revoca della scorta.
La Relazione Sorge evitò accuratamente di raccogliere le testimonianze di Luciano Zocchi, ex capo della segreteria di Scajola, Giuseppe Pecoraro (oggi prefetto di Roma e all’epoca capo della segreteria del Dipartimento di Pubblica Sicurezza) e Giuseppe Procaccini (in quei giorni vicecapo del Dipartimento con funzioni di coordinamento amministrativo). Tre testimoni decisivi che, sentiti ora a verbale dal pm Antonello Gustapane, consentono di ricostruire anche un ennesimo, raggelante dettaglio, della catena di eventi che segnò la fine del giuslavorista. Il 18 marzo, ventiquattro ore prima che in via Valdonica, a Bologna, facessero fuoco le pistole brigatiste, l’ultimo terrorizzato grido di allarme per la vita del giuslavorista venne inutilmente depositato nella segreteria del Dipartimento di Pubblica sicurezza.
A ricostruire la sequenza con la Procura di Bologna è il prefetto Giuseppe Pecoraro. È il 18 marzo 2002, appunto, un lunedì. Una data cruciale e di cui il prefetto si dice oggi ragionevolmente certo («È passato molto tempo. Ma sicuramente il 16 e il 17 marzo non ero a Roma e lo stesso il 19. Dunque, era il 18»). Zocchi entra nel suo ufficio di allora capo della segreteria del Dipartimento. «È visibilmente agitato. Direi pure spaventato. Come lo poteva essere un non addetto ai lavori», racconta a verbale. E il motivo, per quanto ha raccontato a verbale lo stesso Zocchi (al pm di Roma Laura Filippi nel luglio del 2013 e quindi al pm di Bologna Antonello Gustapane) è che appena tre giorni prima quanto sta per riferire a Pecoraro sui rischi che corre Marco Biagi, non ha trovato l’ascolto di Scajola. O, meglio, ha trovato la sua irritazione. Dopo aver infatti recapitato al ministro attraverso la sua segretaria Fabiana Santini, due appunti che raccolgono l’allarme di Enrica Giorgetti (moglie di Maurizio Sacconi) e del direttore generale di Confindustria Stefano Parisi, la sera del 15 Zocchi riceve una telefonata da Scajola che gli chiede conto di come faccia a conoscere Parisi.
Pecoraro, dunque, sembra essere la sua ultima spiaggia. An-
che perché a consigliargli di bussare alla sua porta è stato Giuseppe Procaccini, da cui Zocchi è salito quello stesso 15 marzo. («Hai fatto bene a girare quegli appunti al ministro», gli dice. «Vanne a parlare con Pecoraro»). E tuttavia, di quello che accade a questo punto tra i due non c’è un solo dettaglio che collima. Zocchi (che per altro ricorda di aver incontrato Pecoraro il 15 e non il 18), racconta ai pm: «Pecoraro mi disse: “Biagi? Si fa le telefonate da solo”. Non me lo posso dimenticare mai perché me lo sono ricordato il giorno in cui è morto».
Pecoraro la ricostruisce all’opposto: «Non sapevo neanche chi fosse Biagi. Ero arrivato al Dipartimento a gennaio del 2002 e non avevo seguito tutta la vicenda della revoca della scorta. Mi ci volle insomma un po’ per inquadrare la cosa. Zocchi non mi fece vedere nessun appunto e mi parlò genericamente di un allarme raccolto in ambienti confindustriali». Quanto alle considerazioni su Biagi («Si fa le telefonate da solo… «), «Zocchi ricorda male». «Confonde — dice Pecoraro — Perché accade che dopo la morte di Biagi, tornando a parlarne con lui gli dissi che dai tabulati di Biagi non risultavano le telefonate di minaccia che aveva denunciato. Non dissi affatto che si faceva le telefonate da solo». È un fatto che quel colloquio — ancora a dire del prefetto — ha un unico esito. «Telefonai al capo dell’Ucigos Carlo De Stefano chiedendo di attivare una nuova procedura informativa su Biagi».
Ebbene, De Stefano, il 18 marzo 2002, era negli Stati Uniti in delegazione con Scajola e il capo della Polizia De Gennaro e di quella telefonata non conserva alcuna traccia nella sua memoria. Né il 18, né nei giorni precedenti. Dunque? Arrivò davvero quella segnalazione?
La Procura di Bologna cercherà di venire a capo di chi in questa storia ricorda bene e chi ricorda male. Un fatto è certo: nel marzo del 2002, chi decise di non provare neppure a ricostruirla questa storia furono la relazione del prefetto Sorge (scomparso due anni fa) e chi la commissionò: Claudio Scajola.

La Repubblica 24.05.14