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"L’Europa al voto vista da Auschwitz" di Roberto Della Seta

Oggi mi trovo in Polonia, a Oswiecim: Auschwitz in tedesco. Qui settanta anni fa, il 23 maggio 1944, furono ammazzati perché ebrei un fratello (Giovanni) e tre sorelle (Eva, Gina, Valentina) di mio nonno Angelo Della Seta con le loro famiglie: Jacopo Franco marito di Gina; Enrico Di Capua marito di Eva; Angelo e Elda Di Nola marito e figlia di Valentina; Mario e Renzo Roccas marito e figlio di Elda (Mario e Renzo furono ammazzati alcuni mesi dopo gli altri). Mio nonno non c’era, era morto di malattia quattro anni prima. Non c’era neanche mio padre Piero: per sua (e per mia) fortuna si era allontanato dalla famiglia d’origine e avvicinato a una nuova, quella del Partito comunista clandestino. Anche per questo quando ad aprile 1944 i suoi zii e cugini vennero arrestati dai fascisti a Chianni, vicino a Pisa, dove credevano di stare al sicuro, poi portati nel carcere di Firenze, infine consegnati ai nazisti e deportati nel campo di Fossoli e da qui ad Auschwitz, lui invece si trovava a Roma come la madre Jole e la sorella Giovanna, ben nascosti da qualche parte grazie ad amici, preti, comunisti. Tutti e tre si salvarono dai nazisti, tutti e tre il 4 giugno 1944 – senza sapere che una settimana prima un pezzo della loro famiglia era stato distrutto ad Auschwitz – poterono festeggiare la liberazione della città.
Visitando le baracche ben conservate dello sterminato campo di Auschwitz mi sono venute in mente le parole scritte da Edgar Morin e Mauro Ceruti in un libro recente e bellissimo che s’intitola «La nostra Europa». L’Europa metanazionale – così Morin e Ceruti – è figlia della barbarie, del male assoluto simboleggiato da Auschwitz e anche del rifiuto di quell’altro male profondissimo che fu lo stalinismo. Ma questa Europa che fra errori, parziali fallimenti, viltà, ritorni indietro non ha mai smesso di cercare la via dell’unità, della cittadinanza europea, è figlia soprattutto dell’improbabile: «Le sorti della seconda guerra mondiale – ricordano Morin e Ceruti – vissero un rovesciamento drammatico nell’inverno 1941-1942. In soli due mesi, il probabile della vittoria nazista iniziò a diventare improbabile; l’improbabile della vittoria alleata iniziò a diventare probabile ».
Per Morin e Ceruti, anche l’Europa di domani «sarà figlia dell’improbabile o non sarà». L’improbabile, per l’Europa attuale, è fermare il suo declino, economico ma prima ancora identitario, e aiutare a sconfiggere le nuove barbarie – sociali, ecologiche, umanitarie – che essa stessa ha coltivato dentro e oltre i suoi confini. Può riuscirci, come già settant’anni fa, usando le sue migliori risorse di pensiero e di cultura, le stesse che nei suoi giorni più bui diedero forma al «sogno» federalista di Altiero Spinelli e Ernesto Rossi: scrivono ancora Ceruti e Morin che «l’Europa ha prodotto, con l’umanesimo, l’universalismo, l’ascesa progressiva di una coscienza planetaria, gli antidoti alla stessa barbarie pure da essa diffusa nel mondo. Anche questa è una condizione per superare i rischi, sempre presenti, di nuove barbarie». L’idea di Europa come antidoto alla barbarie: la stessa idea difesa appassionatamente e disperatamente da Alex Langer negli anni tragici della carneficina nella ex-Jugoslavia. Oggi mi trovo ad Auschwitz mentre l’Europa sta per votare, tutta insieme, per eleggere il prossimo Parlamento europeo.
Si voterà a Oswiecim-Auschwitz come a Roma, a Chianni come a Berlino, voteranno i discendenti dei carnefici e quelli delle vittime di Auschwitz. Potranno votare anche alcuni che sopravvissero ai campi di sterminio: come Piero Terracina, che viaggiò verso Auschwitz sullo stesso treno con i miei familiari e che da decenni viaggia per le scuole raccontando cosa fu la Shoah. Voteranno, per la prima volta, le donne e gli uomini della Croazia, divenuta nel 2013 il ventottesimo Paese membro dell’Unione europea; non ancora i serbi, i macedoni, i montenegrini, i bosniaci, i kosovari, gli albanesi, che però pure loro, finalmente, sono parte dell’integrazione europea. Centinaia di milioni di europei, dal circolo polare artico a Lampedusa, voteranno tutti insieme per scegliere deputati che in un’unica assemblea elettiva dovranno rappresentare non il proprio Paese, ma i cittadini europei. L’Europa oggi sembra malmessa: per molti europei non è ancora una «patria» ed è anzi una specie di «matrigna», spesso nelle sue politiche – dal lavoro all’immigrazione – non si vede traccia dei valori di apertura, socialità, sostenibilità che a parole proclama.
E però questa possibilità, questa idea di eleggere tutti insieme un solo Parlamento, a me piacciono. Domenica torno a casa per votare anch’io.

L’Unità 22.05.14

Scorta Biagi, si indaga per «omicidio per omissione», da L'Unità

Claudio Scajola quando ricopriva la carica di ministro dell’Interno sapeva il rischio che il giuslavorista Marco Biagi stava correndo. Sapeva che il professore di Bologna, assassinato il 19 marzo del 2002 da un commando delle Nuove Brigate Rosse, era sotto minaccia ma nonostante questo non gli ri-assegnò la scorta . Sapeva perché era stato informato. Sapeva, ma non fece nulla. Anzi, pubblicamente, anche a distanza di tempo, sostenne sempre di non sapere, di non conoscere, di ignorare. D’altronde una costante di tutta la sua attività politica. Da ieri, anche questa ricostruzione sembra lasciare spazio a un’altra verità. Tanto che la procura di Bologna ha riaperto l’inchiesta archiviata sui comportamenti omissivi di funzionari di Stato nella revoca della scorta a Biagi con l’ipotesi di reato di omicidio per omissione.
L’inchiesta è ripartita dopo che dall’archivio del ministro, in cella con l’ipotesi di accusa di aver aiutato la latitanza di Amedeo Matacena, sono spuntati nuovi documenti. Carte conservate dall’ex segretario di Scajola, Luciano Zocchi. «Ho sempre detto la verità e non da oggi. Ho conservato i documenti a mia tutela e li ho messi a disposizione appena mi sono stati chiesti. Auspico che possano concorrere al pieno accertamento della verità» ha detto ieri. Le carte «le ho tenute per dimostrare la perfetta buona fede del mio operato». In particolare ci sarebbe una lettera di un politico vicino al giuslavorista che fu spedita a Scajola in cui si spiega- va la serietà del pericolo per Biagi, po- chi giorni prima che venisse ucciso. Sul- la lettera ci sarebbe il «visto» dell’ex ministro. «Non sono mai stato sentito» da chi al Viminale fece la relazione sulla scorta a Marco Biagi e invece «avrei potuto parlare di queste cose» ha detto Zocchi che conferma quanto disse ai pm un anno fa dopo il ritrovamento a casa sua di documenti su Biagi. Tra l’altro, l’allora segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone fu messo al corrente della vicenda della mancata scorta a Marco Biagi: «Gli parlai come ad un padre spirituale in modo molto sommario non andai nei dettagli e lui mi disse di agire secondo coscienza».
Le indagini sulla revoca della scorta al giuslavorista sono state riaperte dal pm Antonello Gustapane, lo stesso magistrato che nel 2003 aveva chiesto l’archiviazione dall’accusa di cooperazione colposa in omicidio per gli accusati: l’allora direttore dell’Ucigos, Carlo De Stefano, il suo vice Stefano Berrettoni, il questore Romano Argenio e il prefetto Sergio Iovino. Le Br – fu la conclusione del gip che archiviò l’inchiesta, Gabriella Castore – scelsero di colpire il professor Biagi anche perché gli fu tolta la protezione, per una serie di errori sia a livello centrale che periferico, che però non avevano rilievo penale.
Per questa nuova indagine la Procura avrebbe sentito in merito ai documenti in mano agli inquirenti lo stesso Zocchi e anche la moglie dell’ex ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, all’epoca vicino a Biagi. Nei giorni scorsi è stato sentito un altro testimone, nel massimo riserbo.
In attesa, Scajola ieri ha anche dovuto incassare la rinuncia alla difesa da parte del senatore D’Ascola (del Nuovo Centro Destra) investito dal presunto conflitto di interessi in cui si troverebbe essendo relatore del ddl sui reati dei pubblici ufficiali contro la P.A., autoriciclaggio, voto di scambio e false comunicazioni sociali.

da L’Unità 22.05.14

Da Nord a Sud, l’Italia che ho visto", di Fabrizia Bagozzi

Il viaggio nel paese dei candidati dem Alessandra Moretti, Alessia Mosca, Silvia Costa, David Sassoli. In affanno, a tratti anche sfiancata dalla crisi, ma meno rabbiosa e – magari anche solo per necessità – un po’ più disposta a dar credito alla politica, se davvero nuova. Se davvero in grado di saper rompere vecchi schemi.
È questa l’immagine che restituiscono dell’Italia i candidati democratici alle elezioni europee che da Nord a Sud stanno battendo il territorio palmo a palmo: dai mercati ai convegni, dai confronti con le categorie produttive agli incontri pubblici con i cittadini.
La richiesta di fondo, quella più insistente, rimane ancora e ovunque il lavoro, la possibilità di svolgerlo e di crearlo senza rimanere intrappolati in pastoie burocratiche senza fine. «Questa mattina, in Friuli, ho incontrato un produttore di vino – spiega a Europa Alessandra Moretti, capolista nel Nord Est – mi ha spiegato che dalla vigna alla bottiglia l’Italia impone 17 controlli, la Francia tre. Una cosa che si commenta da sé: gli imprenditori vanno messi in condizione di poter lavorare ed essere competitivi».
Una giornata, quella di Moretti, che in queste settimane di campagna elettorale ha partecipato a 130 iniziative in cento comuni, cominciata ad Aquileia e finita a Venezia passando per Monfalcone, Pordenone e Trieste. Un territorio difficile, in parte attraversato da pulsioni scissioniste e antieuropee, cavalcate e insieme deluse dalla Lega che se ne fa portavoce. «In realtà il disagio cresce quando si sente l’Europa lontana e infatti ci viene chiesto che sia più vicina ai cittadini e meno alle banche. Dopodichè è sempre più chiaro a tutti che uscire dall’euro avrebbe conseguenze devastanti a partire dai mutui per arrivare ai risparmi». Qui imprenditori e sindacati vogliono che i fondi europei siano usati meglio per fare da volano agli investimenti produttivi. E nel Nord Est delle piccole e medie imprese e degli artigiani alla politica si chiede meno burocrazia, un fisco più equo e al passo con gli altri paesi dell’Unione, accesso al credito. Con uno sguardo disincantato ma attento: «C’è la percezione che si è fatta spazio una generazione nuova che ha rotto col passato e sta fra la gente calandosi nei problemi e cercando soluzioni concrete, come del resto fanno i sindaci e gli amministratori locali».
Una sensazione che condivide anche Alessia Mosca, capolista nel Nord Ovest e anche lei con più di duecento incontri totalizzati e le province della circoscrizione visitate una per una: «Ho visto una maggiore disponibilità a distinguere fra buona e cattiva politica e fra chi vuole costruire risposte e chi demolire e basta», a dispetto dell’Expogate «da cui non percepisco un’ondata anticasta. Qui l’Expo è tuttora vissuta come una grande opportunità di lavoro e di sviluppo». Sull’Europa, nota Mosca, «c’è più curiosità di quanto si possa immaginare. Anche perché questo è un territorio che ne coglie le opportunità, c’è una rete di imprese orientate all’export che sanno quanto sia importante stare dentro una dimensione internazionale e aperta». E che chiede anche un «rapporto diverso con BruxelIes», in cui il nostro paese conti di più «proprio perché ormai le norme europee incidono molto su quelle nazionali».
Meno semplice parlare di Unione europea al Centro, sottolinea Silvia Costa, candidata in questa circoscrizione. Anche se «l’atteggiamento cambia quando riesci a far capire quanto determinante sia ormai Bruxelles per tanti aspetti della nostra vita», incluso il lavoro e le poltiche di contrasto all’impoverimento «che ormai caratterizza la società italiana».
Spiega David Sassoli, al secondo posto al Centro, che «rispetto alle risposte che la politica propone c’è sempre una certa distanza, un atteggiamento guardingo da parte delle persone. Dopodiché esiste anche la consapevolezza che dalla politica dipendono scelte importanti». Affidarsi dunque è in qualche modo inevitabile, «sapendo per esperienza che l’indignazione fine a se stessa non porta molto lontano anche se ciò non vuol dire che non ci sia». Nell’attraversare Marche, Umbria, Lazio e Toscana, «il distretto della grande qualità italiana», Sassoli non ha visto rassegnazione, piuttosto «molta gente che non rinuncia a rimboccarsi le maniche ma che ha bisogno di essere aiutata a correre». Con luci e ombre in ordine sparso.
Le ombre sono più o meno sempre le stesse, le luci a volte sorprendono, come «la riapertura dei cantieri navali di Marina di Carrara». Un lavoro comune di amministrazioni locali, imprese, politica che hanno scommesso su un progetto difficile ma fondamentale per rimettere in moto economia e lavoro. Un’Italia che non si rassegna, appunto.

da Europa Quotidiano 22.05.14

"La malattia populista e la cura dei partiti", di Piero Ignazi

L’urlo, l’invettiva, il dileggio, non sono nuovi nella politica italiana. I lazzi e le volgarità di Beppe Grillo affondano le loro radici in un lontano passato, costellato di dannunziane insolenze verso l’avversario, come il “Cagoia” affibbiato dal Vate al capo del governo Francesco Saverio Nitti, o di quarantottesche denigrazioni popolate di trinariciuti e servi sciocchi. Le espressioni grevi e tonitruanti del leader grillino risuonano però anche d’altro, al di là dello scadimento nel cabarettismo da angiporto: portano a galla una storia antica di rabbia e di esclusione. È con questo filo rosso della nostra cultura politica che dobbiamo fare i conti. Grillo è il sintomo di una malattia, di un malessere profondo che è esploso ora, dopo aver scoppiettato qua e là per molti anni. In fondo, se risaliamo ai primi decenni della repubblica, le lotte sindacali e politiche della sinistra esprimevano anche la protesta per un senso atavico di esclusione, una condizione che larghi strati della popolazione sentivano come incombente e ineluttabile. Poi la stagione dei movimenti, a sinistra (‘68 e autunno caldo) e a destra (maggioranza silenziosa), ha dato sfogo alle frustrazioni generate da una società e un sistema politico bloccati. E in seguito è esplosa anche la violenza politica. La società pacificata degli anni Ottanta ci ha illuso. Sembrava che la politica si fosse incanalata lungo i sentieri della tolleranza e del pragmatismo. Addio alle ideologie e all’impegno totalizzante, via libera al Macondo, alla febbre del sabato sera e, per finire, alla Milano da bere. Una stagione di abbagli. Dopo vent’anni di illusionismi berlusconiani, di saghe celtiche e di “rivoluzioni liberali” alle vongole, la grande crisi ha riproposto le antiche diffidenze anti-sistemiche. Con una carica di disperazione e aggressività enormemente accresciuta. Un quarto degli italiani che d’improvviso vota una improbabile lista di neofiti della politica, guidata da un trascinante show-man, attesta quanto fosse — e sia — profondo il malessere nel nostro paese.
Ora, è normale e fisiologico che i nuovi movimenti abbaino alla luna e si popolino di acchiappanuvole. Non è però questo il metro per valutare oggi il M5S. È molto più rilevante individuare il grado di irriducibilità della protesta che esprime. Quanto è spessa e dura la rabbia che i grillini canalizzano nelle istituzioni? E soprattutto, quali rischi esistono che questo sentimento non sfugga di mano e non prenda altre strade, ben più pericolose e violente? Sono queste le domande fondamentali da porsi di fronte al perdurare del fenomeno cinque-stelle. In altre parole, visto che il M5S non si sgonfia, contrariamente a quanto molti sprovveduti avevano pronosticato di fronte agli insuccessi alle varie competizioni amministrative (per i distratti, ricordiamo che Forza Italia alle prime competizioni locali non raggiunse nemmeno
il 10%…), quale impatto sistemico può avere un movimento di protesta di tali dimensioni?
Finora i grillini hanno preferito autoghettizzarsi, ritirarsi sdegnosi sulla montagna rifiutando ogni contatto, considerato di per se stesso inquinante e corruttore: Bersani docet. Questo perché la logica totalizzante — o noi, o loro — non prevede intese di alcun genere con “gli altri”. I guru genovesi vogliono tutto il banco. Anzi, ce l’hanno già, visto che Grillo dichiara nel salotto di Vespa (che si è ricordato, per una volta di essere un giornalista) di avere in tasca già il 96% dei consensi. A questo infantile delirio di onnipotenza va contrapposta la razionalità della politica. Anzi, la sua “normalità”. Non certo per avviare trattative con i parlamentari pentastellati, ma per evitare che il popolo grillino venga rinchiuso dai suoi leader in un recinto. Il malessere di una così larga parte dell’opinione pubblica che va riportata nella politica, non lasciata incancrenire nel ghetto di una opposizione assoluta. Gli elettori grillini costituiscono un magma indistinto, e oscillano tra l’iconoclastia nei confronti del “sistema”, come predicano i loro rappresentanti, e il semplice desiderio-bisogno di una politica concreta, fattiva e pulita. La loro disaffezione verso tutto quello che fin qui ha offerto la politica è comprensibile; e questo sentimento ha trovato sfogo nel grido furioso e distruttivo di Grillo. Spetta ai partiti democratici, e in primis al Pd, riportare questo elettorato ad avere fiducia nella politica. Anche perché, nella nostra storia nazionale, la fuga dalla politica ha preso scorciatoie pericolose.

La Repubblica 22.05.14

"L'edilizia scolastica punta sui fondi immobiliari", di Massimo Frontera

Via libera ai fondi immobiliari nell’edilizia scolastica. Il ministero dell’Istruzione ha infatti approvato la graduatoria degli enti locali che si sono candidati a fare da apripista e che si sono aggiudicati 36,8 milioni di aiuti statali come base per costruire un fondo immobiliare. I 27 Comuni inclusi nella graduatoria hanno chiesto contributi per 57 interventi, di cui 38 riguardano nuove scuole e il resto ristrutturazioni. Il contributo produrrà 186 milioni di investimenti. «Accompagneremo tutti i Comuni in questo percorso – spiega Roberto Reggi, sottosegretario del ministero dell’istruzione con delega all’edilizia scolastica e convinto sostenitore dello strumento del fondo immobiliare -. Non è detto che ogni Comune debba fare il suo fondo; incoraggeremo le forme di aggregazione più opportune che sono offerte dallo strumento del fondo». Il modello c’è già. «È il progetto di fondo immobiliare che ha messo a punto il comune di Bologna – riferisce Reggi -. Bologna ha studiato l’operazione nei dettagli e ha anche già sottoscritto un accordo con Inarcassa, potenziale sottoscrittore del fondo. Proporremo questo modello». «Enti locali – spiega Reggi – daranno in concessione il bene-scuola al Fondo ottenendo gli stanziamenti per gli interventi. Gli investitori avranno il loro ritorno grazie all’affitto che gli Enti pagheranno per un tempo determinato». Il capoluogo emiliano ha nel cassetto da tempo il bando per selezionare la società di gestione risparmio che realizzerà gli interventi in dieci scuole, di cui sei nuove e quattro ristrutturate, per 50 milioni di investimento (di cui cinque di contributo).
Dopo Bologna c’è Firenze, che con i cinque milioni del Miur realizzerà cinque scuole per un investimento di 26,5 milioni. Dopo Bologna e Firenze i valori in gioco diventano molto più piccoli. Il comune di Zeccone (Pavia) e quello di San Rocco al Porto (Lodi), per esempio, hanno entrambi ottenuto un finanziamento di 500mila euro per progetti intorno a 2 milioni di euro. Ma la lista offre anche casi più microscopici, come il comune goriziano di Savogna d’Isonzo, che ha chiesto e ottenuto 36mila euro circa per un intervento di nuova costruzione che costa 147mila euro. Dopo l’ok alla graduatoria, i 27 enti saranno chiamati a sottoscrivere con il Miur e il ministero dell’Economia un protocollo d’intesa, entro un termine che non è stato ancora indicato. La firma del protocollo costituirà l’atto con il quale l’ente si vincola formalmente «all’osservanza degli impegni».
Il bando è stato lanciato nell’aprile 2013, subito prima dell’insediamento dell’esecutivo Letta. Poi è sceso il silenzio, durato per tutta la gestione del ministro Maria Chiara Carrozza. Finalmente, dopo una attenta e approfondita valutazione della Corte dei conti, è arrivato l’ok. La graduatoria sbloccata oggi è il risultato di una selezione severa: le 435 richieste iniziali si sono ridotte a 162 dopo la prima scrematura. I fondi disponibili – 38 milioni iniziali poi scesi a 36,8 – sono andati appunto ai primi 27 enti in graduatoria in ordine di arrivo cronologico.

Il SOle 24 Ore 22.05.14

"Il prezzo della non-Unione. Quanto ci costa restare divisi", da L'Unità

A forza di gridare ci sono quasi riusciti: gli euroscettici hanno convinto una parte della popolazione del Continente che l’Unione europea è costosa e opprimente. Gli economisti però da trent’anni sfornano rapporti per cercare di calcolare il «costo della non-Europa» e sulla Ue sono arrivati a conclusioni molto diverse: divisi saremmo molto più poveri. L’ultimo rapporto di questo tipo, che è una rassegna degli studi più recenti ed è stato pubblicato a marzo dal Parlamento europeo, stima che se non si attuassero le misure di integrazione economica in diversi settori, a partire dal mercato unico digitale e dal mercato unico dei consumatori, nel periodo 2014-2019 si perderebbero 800 miliardi di euro, pari all’80% del bilancio complessivo dell’Ue nel periodo 2014-2020.
Si tratta di una stima per difetto, perché è difficile quantificare in cifre il costo politico, sociale, culturale e quindi economico che si pagherebbe a vivere isolati nel proprio bozzolo nazionale in un mondo globalizzato. Però la cifra fa giustizia delle tante accuse rivolte ai cosiddetti euroburocrati, incolpati di essere troppi e troppo pagati, e di passa- re il tempo ad occuparsi della misura corretta dei cetrioli. La verità è che i funzionari delle istituzioni europee sono circa 55mila, quanto l’amministrazione di una città come Parigi, con la differenza che devono amministrare più di 500 milioni di cittadini. Il loro costo rappresenta meno del 6% del totale di bilancio europeo annuo, 142 miliardi di euro nel 2014. A sua volta il bilancio della Ue rappresenta appena l’1% del Prodotto interno lordo dei Paesi europei, che hanno una spesa pubblica media pari al 46% del Pil.

Gli stipendi dei funzionari sono il vero costo della Ue, visto che il resto del bilancio torna agli Stati membri sotto forma di fondi comunitari. Vale la pena di pagarlo? Stando alle cifre dell’ultimo rapporto sui costi della non-Europa mantenere 50mila funzionari a Bruxelles ci costerà ogni anno circa 8,5 miliardi di euro, ma ci frutterà più 133 miliardi.

Il concetto di «costo della non-Euro- pa» nasce all’inizio degli anni Ottanta quando il francese Michel Albert e l’inglese James Ball scrissero un rapporto per il Parlamento europeo cercando di calcolare quanti soldi si sarebbero risparmiati abbattendo alcune delle barriere che separavano i mercati nazionali. È stato però un economista italiano della Commissione europea, Paolo Cecchini, a scrivere il rapporto più conosciuto e citato: il Rapporto Checchini, pubblicato nel 1988. Nello studio si calcolava che il completamento del mercato unico avrebbe portato una crescita del Pil europeo fra il 4,5% e il 6,5%.

La storia poi ha dimostrato che Cecchini non sbagliava e oggi diversi studi britannici indicano che ad arricchirsi con il mercato unico sono stati anche i Paesi più tradizionalmente euroscettici come la Gran Bretagna, dove oggi i conservatori discutono di un ipotetico referendum per uscire dalla Ue. È stato sempre un italiano, l’ex premier Mario Monti, a scrivere nel 2010 un rapporto su incarico della Commissione Ue per descrivere tutti i passi che mancano alla realizzazione di un vero mercato unico. L’anno scorso poi l’Istituto Affari Internazionali e il Centro Studi sul Federalismo hanno pubblicato uno rapporto intitolato «I costi della non-Europa della difesa» in cui si stima che mantenere 28 forze armate separate, con tanti inutili raddoppi e sovrapposizioni di armamenti, ci costa 120 miliardi di euro l’anno in più, senza parlare dei risultati in termini di efficacia. Delle cifre molto più alte di quel- le dei controversi aerei F-35, ma che raramente vengono citate nei dibattiti sull’Europa. Quest’anno sono stati i giovani federalisti Eliana Capretti e Samuele Pii ad aver pubblicato in rete lo studio «I costi della nonEuropa», in cui passano in rassegna gli sprechi attuali e i risparmi che si otterrebbero dalla messa in comune ad esempio dei laboratori di ricerca, delle spese doganali, delle ambasciate e dei sistemi informatici.

Quello del mercato digitale, in particolare, è il caso più emblematico perché è il motore della crescita in ogni parte del mondo e per sua natura non conosce confini. Quando però si vanno a guardare le quote di acquisti online transfrontalieri in Europa si scopre che i cittadini della Ue hanno tutti pro- dotti del mondo a portata di mouse, ma poi comprano quasi sempre da negozi nazionali. Le barriere sono costituite dalla giungla di regole, legislazioni e tassazioni differenti che frammentano l’Europa in 28 mercati digitali diversi. Secondo il rapporto del Parla- mento europeo abbattere queste barriere porterebbe ad una crescita del Pil del 4%, pari a 520 miliardi di euro. An- che se vista la complessità del lavoro la Ue dovrebbe realisticamente riuscire ad ottenere in questo modo 260 miliardi di euro entro il 2019. Per quella data poi altri 235 miliardi di euro potrebbero essere ricavati dalla realizzazione del mercato unico dei consumatori, cioè dall’armonizzazione di regole, controlli e protezioni che permettono di vendere ed acquistare beni in tutta Europa.

L’Unità 22.05.14

"Dal bavaglio ai tribunali del popolo", di Stefano Menichini

La minaccia di Grillo ai giornalisti si fa dettagliata, ma chi per vent’anni ha riempito le piazze contro Berlusconi tace o minimizza. Forse oggi a Roma Renzi potrebbe dire qualcosa in merito. Non so che cosa di Beppe Grillo penserebbero oggi Indro Montanelli, che di Marco Travaglio è stato maestro, o Enzo Biagi, al cui ultimo programma si ispira la testata del Fatto. Di una cosa però sono certo: questi due grandi del giornalismo italiano si ribellerebbero all’ultima minaccia rivolta alla stampa da un capo partito che dichiara di puntare alla presa del potere totale.
Del preannuncio dell’istituzione di tribunali popolari per processare i giornalisti “avversari” (con molti dettagli sulla procedura adottata) possiamo decidere di ridere. A patto però di liquidare come pagliacciate anche tutte le altre cose che Grillo e Casaleggio vanno dicendo in questi giorni.
Oppure possiamo decidere di non ridere, memori dell’errore compiuto nel ’94 quando le sparate di Berlusconi ci sembravano così eccessive da non dover essere prese sul serio.
Per vent’anni la sinistra, i sindacati e le associazioni hanno riempito le piazze contro il pericolo che Berlusconi rappresentava per la libera informazione. Su quest’onda (e sull’oggettiva caduta di credibilità del nostro mestiere) hanno surfato alla grande Travaglio e i suoi colleghi. Neanche esisterebbe, il Fatto, senza questo clima di mobilitazione permanente.
Eppure sia ben chiaro: Berlusconi ne ha dette e fatte di tutti i colori, ma non s’è mai azzardato di allestire processi staliniani e carceri del popolo. Dov’è allora l’indignazione dei sindacati, oggi tanto solleciti ad allarmarsi perché Renzi vuole ridurre gli sprechi della Rai? Perché gli intransigenti del Fatto si scoprono giustificazionisti su ogni eccesso grillino? E gli accaniti intellò della società civile, riparati dietro Tsipras dopo essere stati rimbalzati dal M5S, hanno perso la voce, così alta e squillante in altre occasioni?
Stasera piazza del Popolo a Roma si riempirà per la più grande delle manifestazioni elettorali del Pd. Non sarebbe male se tra gli impegni assunti per riportare l’Italia al livello delle più forti democrazie europee ci fosse anche, di nuovo, la dura rivendicazione del diritto a scrivere, a fare informazione e a esprimere idee e opinioni senza essere minacciati e intimiditi come capita ormai quotidianamente.
Perché è chiaro che neanche questo, come altri buchi neri del caso Italia, smette di essere un problema ora che Berlusconi esce di scena. Capita, semplicemente, che il bavaglio si trasforma in gogna, e che chi s’atteggiava a vittima si candida a carnefice.

da Europa QUotidiano 22.05.14

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Il maxi-processo del giudice Grillo”, di FRANCESCO MERLO
MUORE miseramente nel blog-cestino di Grillo la carriera di una delle più valorose metafore italiane, il Processo, sia quello politico di Pasolini contro il Palazzo, sia quello sportivo di Sergio Zavoli alla tappa del Giro .
MESCOLANDO Alcatraz con lo sputo in faccia, Grillo annette a sé anche il “Processo del Lunedì” di Biscardi, che fu il primo festival nazionale del libero insulto e divenne l’anello di congiunzione tra il bar e il tribunale. E ricorrendo sia agli anonimi accusatori incappucciati del web sia alle celle segrete del castello di Lerici già destinate a Napolitano, a Renzi e al giornalista Tal dei Tali, Grillo riproduce pure il Tribunale del popolo delle Brigate rosse che uccisero Aldo Moro. Ebbene, l’esito comico della metafora pasoliniana, che riassume gli ultimi quarant’anni della cultura e della sottocultura italiane, gioiose, catartiche, popolaresche e sanguinarie, rende grottesco ma non divertente il Processo che ora Grillo ci promette. E’ vero che, chino sul plastico dove ha imprigionato i pupazzetti che riproducono in effigie i suoi nemici, più che ai terroristi che spararono alla nuca di Moro, Grillo fa pensare a certi bambini sadici che catturano e torturano le mosche e le lucertole. Ma è altrettanto vero che nella sua idea
di processo non c’è traccia, neppure sotto forma di orecchiata parodia, del confronto civile e solenne che, regolato dalla legge penale, in democrazia accerta la verità: «Alla fine gli iscritti certificati al M5S potranno votare per la colpevolezza o l’innocenza » scrive travestendo di procedura il suo ghigno.
Insomma questo processoburla di Grillo non è il cerchio di fuoco di Di Pietro che sognava il governo dei giudici, ma la goliardia del sorvegliare e punire, non il feticcio della legalità del giustizialismo ma il manifesto sciocco del tagliatore di teste da videogioco, la promessa di sostituire la civiltà del Diritto con l’allegra inciviltà dello scaracchio e del dileggio: «Il processo durerà il tempo necessario, almeno un anno, le liste saranno rese pubbliche quanto prima e l’ordine in cui saranno processati gli inquilini del castello sarà deciso in Rete ». È dunque garantito almeno un anno di bip, chip, play, pause, score, leaderboard, winner, loser, tie e si capisce che questa Procedura Penale è opera del Cordero di Settimo Vittone, il famoso giureconsulto informatico Gianroberto Casaleggio: cliccate, accusate, sparate, condannate, arrestate e vaffanculo.
Così il blog di Grillo somiglia a quel sinistro appartamento immaginato da Friedrich Dürrenmatt e messo in scena da Ettore Scola dove ogni sera una banda di pensionati frustrati processava qualcuno, e l’imputato innocente Alberto Sordi era convinto che fosse un divertente gioco, «la più bella serata della mia vita », fino a quando una risata epica di tre minuti non lo accompagnò… alla condanna.
Ammesso che quella di Grillo sia davvero arte comica diventata scienza politica, che ci siano dietro uno stile e una composizione da spettacolo iperbolico, di sicuro il contenuto delle sue immaginazioni è morale, e i commenti che le accompagnano traboccano indignazione etica contro i distruttori d’Italia, la casta, i giornalisti che disinformano, i ladri di Stato, i colpevoli di ogni genere: Grillo stana le serpi, scova le colpe e garantisce che il Processo «sarà uno sputo popolare». È infatti lui il giudice di specchiata moralità che, come è noto, deve avere la fedina pulita, altrimenti non si è ammessi nella categoria, e Dio sa quanto ci piacerebbe applicare stesso principio ai politici. Una volta al giudice era richiesto anche il certificato di buona condotta, ma Grillo ne sarebbe comunque esentato per meriti rivoluzionari. Pure Robespierre e Danton non tennero una buona condotta, ma tutto si può dire tranne che non fossero all’altezza morale dell’appuntamento che la storia aveva preso con loro. Non è così per Grillo.
Come si sa è stato condannato per l’omicidio colposo di tre persone che viaggiavano in auto con lui: Renzo Giberti, 45 anni, la moglie Rossana Quartapelle, 34, il figlio Francesco, 9. La Corte di Cassazione individuò «la colpa del Grillo nell’avere proseguito nella marcia, malgrado l’avvistamento della zona ghiacciata, mentre avrebbe avuto tutto lo spazio per arrestare la marcia, scendere, controllare o, quanto meno, proseguire da solo». Nessuno pretende che a distanza di tanti anni Grillo si volti e si rivolti su quella colpa come su un letto di chiodi, ma la morte di tre persone causata da un comportamento colpevole può restare remota e vaga solo se l’omicida colposo non si avventa con furia sulle (presunte)
colpe degli altri con annunzi squillanti e gloriosi di processi sommari. Come si sa, Grillo riuscì ad aprire la portiera e a lanciarsi fuori mentre la Chevrolet precipitava in un burrone. È un omicida colposo ma non un assassino, come dice invece Silvio Berlusconi che non si dà pace perché si specchia in Grillo e lo vede uguale a sé: un pregiudicato che diventa suo giudice dimenticando che la via dei processi è stretta, buia e sporca.
E non è finita. Secondo Lello Liguori, l’ottantenne ex proprietario del Covo di Nord Est di Santa Margherita Ligure, il comico, negli anni in cuI si esibiva a pagamento, «si faceva dare 70 milioni: dieci in assegno e 60 in nero». E Pippo Baudo ha aggiunto a Daria Bignardi che faceva la cresta anche alla Rai. Calunnie? Di sicuro farsi pagare in nero è una pratica diffusa nel mondo dello spettacolo: «così fan tutti» diceva Craxi. Ma solo Grillo promette «verifiche fiscali per tutti prima di mandarli affanculo » con tanti bei processi popolari, come se fossimo nell’Egitto di Mubarak, come se fossimo nella Romania di Ceaucescu. Siamo invece in Italia dove abbiamo rispettato con discrezione la colpa di Grillo perché la sensibilità è, come la giustizia, una bilancia che pesa anche i colori e la luce. Ma in democrazia anche colpe molto più piccole dovrebbero gravare come sassi nella coscienza e nella carriera di un “giudice” che manda gli altri
a Processo.

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“Processeremo i politici” Grillo minaccia anche imprenditori e giornalisti. “La Rete giudicherà”. La Fnsi: questo è neofascismo E il leader cita Berlinguer: noi eredi della sua lezione, di TOMMASO CIRIACO e SIMONA POLI

Difficile concentrare una minaccia così intimidatoria in sole quarantadue righe. Eppure Beppe Grillo riesce nell’impresa, lanciando un «processo popolare» per «l’orrendo trio» composto da giornalisti, imprenditori e politici. Il resto sono insulti ai «pennivendoli di regime», alle «meretrici» della politica e agli industriali corrotti.
Simbolo del sinistro progetto è il plastico donato a Bruno Vespa. Un castello – quello di Lerici – e tante celle per rinchiudere quelli che il Fondatore del Movimento individua come nemici dei cittadini. Per Berlusconi c’è la copia di quella di Al Capone ad Alcatraz. Le segrete, insomma, sono il «simbolo di quello che succederà se il M5S andrà al governo ». Le liste di proscrizione del Capo supremo dei grillini saranno rese pubbliche dopo le Europee, promette il comico. Il giudizio durerà un anno, ci saranno «le prove e i testimoni di accusa». Non manca neanche il braccio operativo del popolo, un cittadino trasformato in inquisitore che «articolerà i capi di accusa ». Pollice verso o salvezza saranno decretati – chi l’avrebbe mai detto? – dalla Rete degli iscritti certificati al M5S.
Toccherà a Napolitano, Berlusconi, Monti e Renzi. Ma prima saranno giudicati i giornalisti. E la Federazione nazionale della stampa non gradisce. «I processi popolari – si indigna il segretario Franco Siddi – li fanno i regimi e le dittature di ogni colore e quella di Grillo appare proprio l’idea aggiornata di un neo-fascismo prossimo venturo, che riprende concetti e spunti delle adunate di Piazza Venezia convocate dal Duce per additare i colpevoli, come accadde poi per gli ebrei e per gli antifascisti ».
In un giorno già così teso torna a farsi sentire anche Gianroberto Casaleggio. Intervistato dal Fatto quotidiano, non esclude di diventare ministro: «Dipende dal Movimento, ma perché no?». E si spinge anche a prenotare
una poltrona ben precisa: «Dovendo scegliere, opterei per l’Innovazione. Grillo? Bisogna chiedere a lui, io lo vedrei bene ministro». Sponsorizzarsi al governo, però, può risultare sconveniente a tre giorni dal voto. E infatti poco dopo Casaleggio precisa: «Né il sottoscritto, né Grillo si candidano come ministri », la squadra di governo sarà decisa dagli iscritti al M5S. Matteo Renzi, intanto, mette in
chiaro: «Casaleggio un po’ mi inquieta… comunque i ministri per il momento li scelgo io».
E proprio nella città del premier, a sera, quattromila persone ascoltano il comizio di Beppe. Ogni volta che nomina Renzi arrivano i fischi. Di Battista prende in braccio Grillo sul palco. E il leader evoca Berlinguer: “Non siamo alla sua altezza, ma anche noi parliamo di questione morale”. La gente chiede di buttare tutti fuori, il Capo rivendica l’idea del plastico, anche se smussa un po’: «Niente di violento, l’informazione è molto aggressiva con me e con la mia famiglia. Noi siamo francescani, dovrebbe esserci Bergoglio qui sul palco». Poi insulta Renzi – «primo ministro del cazzo» – e attacca: «Eletto con i voti del sindaco, è andato da un’altra parte. Non lo faremo più succedere ». Infine, incitato dai suoi, non si contiene: «Vinceremo straordinariamente le Europee. Siamo oltre Hitler, siamo Charlie Chaplin. E nel Pd non sono più figli di operai, ma di massoni».

La Repubblica 22.05.14