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Grandinata, Pd “Inseriamo i nuovi danni nel dl Modena”

I parlamentari Baruffi, Ghizzoni e Vaccari e i consiglieri regionali Vecchi e Serri. I parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari e i consiglieri regionali modenesi del Pd Luciano Vecchi e Luciana Serri hanno partecipato, in mattinata, alla riunione urgente convocata per fare il punto sui gravi danni subiti dal settore agricolo dopo il tornado e la violenta grandinata che sono andati a colpire un’ampia area, già danneggiata da sisma e alluvione: “Occorre prevedere – hanno sostenuto parlamentari e consiglieri regionali – l’indennizzo del danno e forme di sospensione fiscale simili a quelle messe a punto in occasione del sisma”.

“Un’altra situazione difficilissima, con gravi danni al settore agroalimentare, che dobbiamo affrontare con decisione e rapidità: è per questo che ci siamo già messi al lavoro per introdurre meccanismi di indennizzo e di sospensione fiscale nel dl Modena, quello relativo alla recente alluvione”: è un impegno comune quello assunto dai parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari e dai consiglieri regionali modenesi del Pd Luciano Vecchi e Luciana Serri che, in mattinata, hanno partecipato all’incontro urgente con rappresentanti delle associazioni di categoria e delle istituzioni sulla situazione del settore agricolo nei territori modenesi colpiti dal tornado che si è abbattuto su Nonantola, Castelfranco e San Cesario e dell’eccezionale grandinata che ha colpito i Comuni di Bastiglia, Bomporto, Carpi, Cavezzo, Soliera, Medolla, Modena e San Prospero. “La conta dei danni è ormai chiara – spiegano i parlamentari e i consiglieri regionali Pd – si aggira sui 13 milioni di euro per frutteti e fabbricati, ma le conseguenze saranno ancora più serie nel medio periodo. Non solo quindi per la mancata produzione, ma ricadute anche sull’occupazione e sull’intera filiera di trasformazione agro-alimentare. Si pensi, ad esempio, alle pere o al lambrusco che si intendeva portare all’Expo di Milano come esempio di prodotto che è riuscito a crescere qualitativamente e a imporre una nuova immagine di brand: la zona colpita è proprio quella dei vigneti di pregio”. Tra l’altro l’area interessata da tornado e grandinata è la stessa che aveva già vissuto il terremoto e poi l’alluvione: “Occorre prevedere l’indennizzo del danno e forme di sospensione fiscale simili a quelle messe a punto in occasione del sisma – proseguono i parlamentari e i consiglieri regionali Pd – Il dl Modena già prevedeva di tenere aperta la definizione dei danni sulle colture arboree per verificare cosa succederà davvero nelle campagne nei prossime mesi. L’idea quindi è quella di allungare ulteriormente il periodo di osservazione per farvi rientrare anche i danni causati da questa ulteriore violenta grandinata. La situazione è davvero seria, la media dei danni delle aziende più danneggiate si aggira tra i 500mila e i 700mila euro. A Roma deve essere ben chiaro che la situazione che si è venuta creare a Modena, in questi ultimi due anni, ha tutte le caratteristiche dell’unicità e dell’eccezionalità. Su questo dobbiamo lavorare tutti, in maniera concorde, parlamentari, consiglieri regionali, istituzioni, ma anche i rappresentanti nazionali delle associazioni di categoria coinvolte”.

Sos del Nobel “Il mondo salvi le ragazze in mano a Boko Haram”, di Wole Soyinka.

Boko Haram rappresenta la fatwa ultimativa del nostro tempo. Si rivolge contro la nostra ragion d’essere comune, contro la missione e la giustificazione della nostra esistenza produttiva. Ma rappresenta anche la maggioranza dei mussulmani della Nigeria?
In base alla mia esperienza degli ultimi anni, la risposta a questa domanda è un inequivocabile no. La notizia più recente a questo proposito è che il governatore dello Stato federale dell’Osun, un musulmano, visibilmente adirato, ha esortato i musulmani «a ribellarsi a queste atrocità commesse da gruppi fondamentalisti nel nome della religione», e ha dichiarato categoricamente: «La nostra religione rifiuta ciò che questa gente malvagia ha intende compiere nel nome dell’Islam. Non possiamo tacere, perché Boko Haram è il male». Ora queste voci, anche se un po’ in ritardo, dichiarano che i decreti — cioè le fatwa — di Boko Haram sono privi di valore e inaccettabili per il resto della società. Fare di meno significherebbe riconoscere a Boko Haram il potere di esprimere la volontà di tutta l’umanità.
Non possiamo suggerire che tutti si uniscano alle forze armate in uniforme che effettuano i loro interventi di soccorso nelle caverne e nelle paludi della foresta, non solo per annientare il nemico, ma per salvare le nostre figlie rapite con la violenza dalle loro scuole per farne delle schiave sessuali — non vogliamo soltanto parlarne, ma vedere negli occhi l’orrore, per riconoscere la sventura che minaccia il nostro popolo. Queste ragazze avranno bisogno di aiuti massicci quando torneranno a casa. Chi ora si rifiuta, tradisce il nostro avvenire e incoraggia la prosecuzione dei crimini contro la nostra umanità. Non c’è alternativa: dobbiamo combattere contro il nemico. E non è vuota retorica — il campo di battaglia va oltre il terreno fisico. Questo campo di battaglia non appartiene alla mera fantasia, ma alla memoria e alla storia, la nostra storia.
Abbiamo già dimenticato la distruzione delle monumentali statue di Buddha, dei monumenti e delle tombe di Timbuctù, con i loro antichissimi manoscritti, luoghi della sapienza islamica, più antichi dei capolavori del Medioevo europeo? I veri seguaci del profeta Maometto vanno fieri di essere il popolo del Libro: per questo a Timbuctù c’erano quei manoscritti amorevolmente protetti e curati da generazioni di musulmani. E da che parte stiamo, quando i bambini saltano in aria nelle scuole e vengono massacrati, gli insegnanti e i genitori vengono cacciati perché osano disubbidire alla fatwa che vieta qualsiasi istruzione? Rimaniamo nelle nostre caserme? Qui parliamo di una guerra che ha raggiunto il suo orribile culmine già quattro anni fa. Che oggi essa, con il rapimento di scolare che dovranno servire come bestie da soma al nemico, abbia raggiunto una dimensione tanto allarmante da scuotere i nostri sentimenti umani non può farci dimenticare gli errori passati, i nostri silenzi.
Consentitemi di proporre ai dirigenti di questo Paese un semplice e diretto esercizio di immedesimazione. Per favore, immaginate di essere una delle più di mille vittime dell’ultimo bagno di sangue e di trovarvi in ospedale. Non potete muovervi né parlare; potete solo muovere le ciglia. I visitatori si susseguono: rappresentanti locali dello Stato, ministri, funzionari, governatori, prelati, fino al vertice della piramide del potere, il Presidente della Repubblica. Vi fanno perfino promesse: cure mediche gratuite, riabilitazione. I visitatori si congedano, il vostro stato d’animo è sollevato. Sulla parete di fronte è stato premurosamente appeso un televisore, acceso perché possiate riprendervi dai vostri traumi e possiate offrire al vostro spirito una via di fuga. Qualche ora dopo che i vostri illustri visitatori se ne sono andati, aprite gli occhi e vedete sullo schermo, dal vivo, questi visitatori felici e beati nel corso di una manifestazione elettorale, dove il fiduciario sollecita l’iniziativa popolare per una raccolta di fondi per la campagna elettorale. Questo leader nazionale conclude il suo intervento con una virtuosa esibizione di danza che farebbe impallidire d’invidia Michael Jackson.
I titoli di oggi sui media parlano di quasi duecento ragazze scomparse. Anche se fossero solo venti o dieci o uno solo: è questo il momento giusto per ballare? Cosa c’è di così urgente nella campagna elettorale che non si possa rinviare? Tutto il mondo guarda a noi con occhi pieni di lacrime. Ma noi ci guardiamo allo specchio e iniziamo un nuovo numero di danza. Cosa ne è stato di questo paese? Èun miracolo che qualcuno ancora agiti un pezzo di stoffa chiamato bandiera e che canti a voce alta una melodia priva di fantasia che chiamiamo inno nazionale. È diventato un lamento funebre. E quella che chiamiamo bandiera è un sudario ora adagiato sul nostro popolo: un popolo che non è capace neanche di tenere l’atteggiamento dignitoso dell’autodenuncia e del pentimento.
La realtà ci guarda negli occhi, in mezzo ai feriti, in mezzo ai morti. E basterebbe un impegno riconoscibile nel rispondere al grido «riportate indietro le bambine ». Nerone suonava solo la lira, quando Roma era in fiamme. Ma non si narra che sulla sua melodia egli abbia anche danzato. Eppure esiste un’espressione per definire questo tipo di ballo: viene chiamato il ballo dei morti. E sappiamo tutti cosa significhi.
© Frankfurter Allgemeine Zeitung ( Traduzione di Carlo Sandrelli)

La Repubblica 12.05.14

"Il welfare al tempo dell’Europa che invecchia", di Carlo Buttaroni

Nel 2050 la popolazione del mondo supererà i 9 miliardi, con un incremento di 6,6 miliardi rispetto a cento anni prima, mentre verso la fine del secolo dovrebbe varcare la soglia degli 11 miliardi di individui. Le stime per i prossimi decenni evidenziano anche un’altra dinamica, altrettanto imponente: il progressivo invecchiamento della popolazione. A oggi, sono 810 milioni gli anziani in tutto il mondo, ma si prevede che il numero raggiunga il miliardo in meno di dieci anni e raddoppi entro il 2050, toccando i 2 miliardi. Ben 64 Paesi registreranno, nel 2050, oltre il 30% di anziani, facendo dell’invecchiamento il fenomeno più significativo del 21esimo secolo che trae le sue origini in due dinamiche confluenti: la crescita dell’aspettativa di vita e la diminuzione dei tassi di fertilità. La conseguenza inevitabile di questo processo demografico è il capovolgimento della piramide delle età, prima caratterizzata da un’ampia base costituita da giovani, che si sta assottigliando velocemente a vantaggio di un vertice anziano sempre più in espansione.

Nel 2045, per la prima volta nella storia dell’umanità, la popolazione anziana (cioè le persone con più di sessant’anni) e quella giovane (con meno di quindici) rappresenteranno la stessa quota della popolazione mondiale.

In Europa, il passaggio di staffetta tra giovani e anziani è avvenuto già all’inizio degli anni novanta e oggi stiamo assistendo al progressivo pensionamento della generazione nata ne- gli anni del «boom demografico», che garantì al sistema produttivo le risorse umane necessarie a sostenere la crescita economica e ai sistemi di welfare un ampio bacino di approvvigionamento finanziario. Le nuove generazioni europee non sono sufficienti a sostituire quelle che escono dal mercato del lavoro per anzianità e il sistema presenta una crescente sproporzione tra popolazione attiva e non attiva. Oltretutto, mentre da un lato si registra un notevole prolungamento del periodo di permanenza degli anziani a carico del sistema di protezione sociale, dall’altro cresce il numero di anni che precedono l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro.

Tutto questo ha portato a reso il sistema di welfare europeo sempre meno sostenibile dal punto economico nonché meno stabile nel momento in cui la base fiscale si riduce e, contestualmente, aumentano i costi determinati dall’aumento della popolazione anziana a cari- co del sistema stesso. Le entrate e la spesa pubblica, infatti, risentono inevitabilmente delle caratteristiche anagrafiche della popolazione. Le prime, infatti, derivano principalmente dalla tassazione dei redditi di lavoro (e, quindi, il periodo di massima contribuzione degli individui coincide con l’età lavorativa adulta), men- tre le punte massime della spesa pubblica si concentrano nelle due fasce estreme: la prima tra 0 e 20 anni e la seconda tra i 60 e gli 80 anni, con il secondo picco che supera abbondantemente il primo ed è in veloce ascesa.

Se da un lato, quindi, le entrate sono destinate a ridursi in funzione del minor peso delle generazioni in grado di produrre reddito, dall’altro, la spesa pubblica per la previdenza e l’assistenza agli anziani potrà solo crescere in relazione all’aumento dei beneficiari del sistema pensionistico e socioassistenziale.

Questo scenario non è, però, ineluttabile e può essere cambiato attraverso scelte di politica economica che devono essere assunte nel giro di poco tempo, anche in risposta alla crisi economica e ai danni prodotti dalle politiche del rigore.

La priorità assoluta, in questo momento, per rispondere agli squilibri di finanza pubblica derivanti dallo spostamento verso l’alto del baricentro demografico è, innanzitutto, quella di mettere più persone al lavoro. In quest’ambito, i margini di miglioramento sono molto ampi, poiché meno dei due terzi della popolazione europea in età lavorativa è effettivamente occupata. Un altro aspetto fondamentale è l’aumento della produttività del lavoro che, nel prossimo decennio, rappresenterà il principale fattore di crescita economica in tutto il mondo.

La produttività del lavoro dipende prevalentemente dal progresso tecnologico il quale, a sua volta, dipende sempre più dalle università, dagli investimenti in ricerca e sviluppo e dalla rapida adozione di nuove tecnologie da parte delle imprese. Per far crescere la produttività del lavoro, quindi, è necessario far leva sui livelli di competenza dei lavoratori e, in questo senso, un ruolo fondamentale deve essere riservato agli investimenti pubblici in istruzione.

Naturalmente, l’obiettivo deve anche essere la crescita del tasso di natalità e questo aspetto è legato a doppio filo col tema dell’occupazione. Ricerche estese all’area Ocse, mostrano, in- fatti, una forte relazione fra alto tasso di occupazione femminile e trasferimenti di denaro alle famiglie, disponibilità di lavori part-time e cura per i bambini. Dove tutte queste misure sono presenti, il tasso di natalità è cresciuto. Ad esempio, in Francia e nella maggior parte dei Paesi nordeuropei negli anni passati sono state intraprese politiche di sostegno economico alle famiglie e di potenziamento delle infrastrutture sociali che hanno prodotto un aumento della natalità.

Naturalmente, non si è trattato di scelte «a costo zero»: questi Paesi destinano, infatti, fra il 3 e il 4% del Pil all’investimento sulle generazioni future, considerandola evidentemente una spesa pubblica «produttiva», in quanto capace di contenere i maggiori costi in un futuro non troppo lontano.

In sintesi, per rispondere all’invecchiamento della popolazione e al conseguente deterioramento della finanza pubblica, occorre agire prioritariamente in tre direzioni: aumentare il numero di occupati, far crescere la produttività del lavoro, soste- nere economicamente le famiglie per aumentare il tasso di natalità.

Finora, però, le scelte rigoriste di politica economica so- no andate in direzione opposta: vasti gruppi di popolazione in età lavorativa sperimentano condizioni di disoccupazione o sottoccupazione, i redditi reali delle famiglie sono diminuiti e i tagli alla spesa pubblica hanno prodotto una profonda rimodulazione degli investimenti in istruzione e in ricerca.
Queste scelte, non solo hanno avuto effetti negativi nell’immediato, ritardando la ripresa, ma rischiano di avere conseguenze ancora più gravi nel futuro, incrociandosi con il progressivo invecchiamento della popolazione.

L’Unità 12.05.14

"La Reggia dei soldi buttati via", di Gian Antonio Stella

Non ha portato bene, alla Reggia di Caserta, l’orrendo «cuorno» alto 13 metri eretto prima di Natale davanti all’ingresso: sui tetti del magnifico e ammaccato Palazzo borbonico si è spalancata una voragine. Non bastasse, sono crollati i visitatori e anche il gigantesco corno «russo, tuosto, stuorto» (rosso, tosto e storto), costato 70 mila euro e rimosso dopo le proteste, giace ora abbandonato a ridosso di un capannone. In pezzi. Colpa del malocchio? No, della cattiva manutenzione di quel tesoro che non ci meritiamo.

Silvio Berlusconi ci portò i grandi del mondo, alla Reggia casertana, durante il G7 di Napoli del 1994, per la serata di gala. Il giorno dopo, ai giornalisti di tutto il mondo, ammiccò: «Ieri sera mi sono sentito orgoglioso di essere italiano. Le fontane illuminate erano bellissime. Le signore stringevano gli occhi con anche un’aria romantica. A qualcuno ho detto: “Attenzione che sennò questa notte aumentiamo la prole”».
Dicono di essere tutti orgogliosi, a parole, quelli che in questi anni hanno tenuto i cordoni della borsa. A parole, però. Perché quella straordinaria Reggia edificata a metà del Settecento da Luigi e Carlo Vanvitelli, con il suo parco, le sue fontane, la sua sala del trono, i suoi saloni, le 1.200 stanze e le 34 scale e le 1.742 finestre è da troppo tempo trascurata. E vede l’intervento dei governi e dei ministri e delle autorità regionali, generalmente, solo «dopo» qualche crollo, qualche scandalo, qualche denuncia tivù. Come il servizio, mesi fa, della trasmissione Kilimangiaro , dove Stefania Battistini fece vedere alberi secolari del parco crollati e mai rimossi, le piantine che crescevano sui cornicioni, i calcinacci ancora a terra di uno squarcio apertosi nel soffitto molte settimane prima per il crollo d’una trave sul fianco della Cappella Palatina o le erbacce che invadevano i pavimenti delle Reali Cavallerizze da non molto restaurate per una mostra. Denuncia seguita da una sistemazione delle realtà di incuria più inaccettabili.
Certo è che da tempo i giornali battono e ribattono sul degrado della residenza, spesso abbinato all’abbandono della vicina Reggia di Carditello alla quale Nadia Verdile ha appena dedicato un libro. Basti ricordare il reportage di Alessandra Arachi che un anno fa raccontava di tuffi di ragazzini nella fontana di Diana e Atteone, di ponteggi montati con enorme ritardo dopo troppi crolli, di auto e moto su e giù per i viali e venditori abusivi che si infilavano «persino dentro le stanze degli appartamenti» per spacciare «guide taroccate e tarocchi della felicità, ombrelli, palloncini, biglietti per i ristoranti, persino numeri da giocare al lotto».
Poi, appena l’attenzione dei giornalisti calava, tutto tornava come prima. Con Italia nostra che si sgolava per denunciare la mancanza di manutenzione, l’eterno ritorno degli ambulanti, la mancanza di custodi perché i dipendenti sono in larga parte «amministrativi», i tentativi del sindaco Pio Del Gaudio di strappare il via libera della sovrintendenza a costruire dei baracchini in piazza: «Il problema degli abusivi va risolto, che male ci sarebbe a mettere delle strutture fatte bene in fondo all’emiciclo? Siamo gli unici al mondo a non avere delle bancarelle!».
Finché, motivando la sua contestatissima scelta con la tesi che voleva dare una scossa al disinteresse generale, il sindaco fece tirar su, in poche ore, nel dicembre scorso, un enorme corno portafortuna rosso battezzato «Good Luck, Caserta» proprio in faccia all’ingresso della Reggia.
Reazioni scandalizzate. Foto sui giornali. Critiche pesanti. E lui: «Se davanti alla Reggia avessi messo un grande albero di Natale o un bel presepe non se ne sarebbe accorto nessuno. Un giorno o l’altro, presto, lo togliamo, ma mica mi chiamava il Corriere , se non mettevo “’o cuorno ”! E invece, così, al ministero è scoppiato un putiferio e li ho costretti a precipitarsi tutti qui». E insistette: «Quando a Roma l’hanno saputo mi ha telefonato il direttore generale Antonia Pasqua Recchia: “Tolga subito quel coso prima che al Unesco se ne accorgano! La piazza è nostra”. E che è: extraterritoriale come il Vaticano? “Finalmente ve ne siete accorti”, ho risposto, “Ci abbiamo messo due giorni a tirarlo su. Senza che qualcuno se ne accorgesse. Evidentemente la Reggia è incustodita e abbandonata a se stessa».
Certo è che il 1° maggio quelli della Soprintendenza hanno notato un foro nei tetti della parte della Reggia occupata dall’Areonautica militare. Risposta: «La competenza sui tetti non è nostra, ma del ministero». Durante la stessa giornata, ha raccontato alla Repubblica di Napoli la funzionaria Flavia Belardelli, «il foro si è esteso diventando una voragine». Colpa della pioggia? Anche. Ma «crediamo sia un problema di scarsa manutenzione». E di rimpallo delle competenze. Al punto che per una settimana lo squarcio è rimasto così. Senza che alcuno intervenisse.
Più o meno contemporaneamente, scoppiavano nuove polemiche dopo la pubblicazione su Facebook, da parte dell’associazione «Ciò che vedo in città», delle foto che mostravano che fine avesse fatto «’o Cuorno ». L’«opera d’arte», dopo essere stata rimossa per essere spostata da un’altra parte, è stata in realtà abbandonata all’esterno di un capannone dalle parti dell’autostrada. Dove rappresenta oggi un monumento allo spreco: 70 mila euro buttati per una bravata propagandistica di un mese.
Soldi che avrebbero potuto essere spesi meglio. Magari per un minimo di decoro intorno e dentro la Reggia. Lo scrittore israeliano Abraham Yehoshua e il filosofo veneziano Massimo Cacciari, salendo ieri mattina la scalinata centrale del palazzo per il Forum Universale delle Culture, potevano notare insieme con la magnificenza dell’architettura, il volo dei piccioni che svolazzavano schizzando qua e là il loro guano, i mozziconi schiacciati sui gradoni, un pacchetto di sigarette vuoto abbandonato da una parte…
Come meravigliarci del crollo dei visitatori? Dicono i numeri ufficiali del ministero che nel 1996, l’anno prima di diventare sito Unesco, la Reggia era al terzo posto tra i siti più visitati d’Italia: adesso è al decimo. Da allora ad oggi i visitatori paganti sono precipitati da 458.942 a 204.390: meno 55 per cento. I visitatori complessivi, compresi quelli coi biglietti gratuiti, da oltre un milione a 439 mila: meno 57 per cento. E meno male che dovrebbe, quella Reggia, renderci «orgogliosi di essere italiani».

Il Corriere della Sera 11.05.14

"La sfiducia verso l'Europa, aspettando le elezioni", di Marc Lazar

Le elezioni europee del 25 maggio fanno paura alle élite dell’Unione, ma lasciano indifferenti i popoli. Temendo un alto tasso di astensione e il successo dei movimenti e partiti definiti populisti, i leader europei fanno un ultimo sforzo per mobilitare gli elettori, stigmatizzando gli euroscettici e decantando l’Europa in tutti i toni. Ma per ora senza molto successo, a giudicare dal perdurante, massiccio disinteresse degli europei: secondo un recente sondaggio, il 60% degli intervistati riconosce di non sapere bene cosa rappresenti e quale sia il senso di questo voto. Come siamo arrivati a una situazione del genere?
Innanzitutto pesa, com’è evidente, la crisi economica, con le politiche di austerità e rigore e la sofferenza sociale che ne deriva. Per molti europei (tranne qualche eccezione, tra cui la Germania) da decenni l’Europa è sinonimo di bassi livelli di crescita, aumento della disoccupazione, delle disuguaglianze sociali e della povertà, sacrifici dolorosi e la sensazione di non avere un futuro. Tutto ciò toglie vigore al progetto europeo. A sessantaquattro anni dal discorso con cui Robert Schuman, il 9 maggio 1954, lanciava il piano che porta il suo nome – una delle basi essenziali dell’Ue – per la messa in comune delle risorse di carbone e acciaio, l’idea europea appare logora e appannata. Quest’idea poggiava su tre P: pace, prosperità, protezione. La prima è più o meno garantita, ma sembra ormai talmente scontata da far sottovalutare la sua portata storica, soprattutto alle giovani generazioni. Quanto alla prosperità e alla protezione, oggi sono incrinate – anche se siamo tuttora in forte vantaggio rispetto ad altre potenze (ad esempio l’America e la Cina). Malgrado ciò potremmo dire, parafrasando una celebre frase riferita da Enrico Berlinguer alla rivoluzione bolscevica, che la spinta propulsiva dell’Europa si è ormai esaurita.
Il motivo principale è politico. Innanzitutto, come si è detto e ripetuto a iosa, per ragioni inerenti all’architettura europea: l’assenza di una vera politica comune, dovuta tra l’altro alle divergenze tra gli stati membri sulle istituzioni e sul funzionamento dell’Unione; le modalità del suo allargamento (il passaggio da quindici a ventotto membri in nove anni); l’impressione di una certa opacità nei processi decisionali ecc. Il risultato è che l’Europa, come ha scritto il politologo Yves Mény in un eccellente articolo uscito sull’ultimo numero del Mulino, è «un po’ come una mosca chiusa in un barattolo». Ma è intervenuto anche un altro fattore non meno destabilizzante, originato non dall’Ue ma dalle mutazioni più generali che investono le democrazie europee e si ripercuotono direttamente sull’Unione.
In quasi tutti i nostri Paesi si fa strada una crescente diffidenza nei confronti delle élite di ogni natura, e soprattutto dei responsabili politici. Ma i leader europei danno prova di una preoccupante sordità. È stato un grave errore, ad esempio, presentare molte candidature col principale intento di ricollocare o riciclare personaggi di cui ci si vorrebbe sbarazzare a livello nazionale. Peraltro, al tempo delle tecnologie moderne le istituzioni della democrazia deliberativa soffrono quasi ovunque di un deficit di legittimità e di attrattività. I parlamenti, in particolare, non catturano più l’attenzione; e ancor meno la cattura il parlamento europeo. Il rafforzamento dei suoi poteri non è stato spiegato agli elettori con sufficiente chiarezza. Per riaccendere l’interesse e il gusto per i lavori parlamentari non bastano le telecamere installate nell’emiciclo. Occorrerebbe immaginare altri mezzi; anche perché in parallelo si afferma sempre più un’esigenza di trasparenza e partecipazione. I cittadini vogliono essere ascoltati in permanenza, e non solo al momento delle elezioni. In questo senso, a livello dell’Unione tutto è ancora da inventare. Infine, la vita politica è sempre più mediatizzata e personalizzata, e ciò spiega il successo di eccellenti comunicatori e leader carismatici quali Tony Blair, Silvio Berlusconi, Nicolas Sarkozy o Matteo Renzi. La scelta di candidare alla presidenza della Commissione i capi delle famiglie politiche – Martin Schulz per la sinistra riformista, Jean-Claude Juncker per la destra, Guy Verhofstadt per i liberali, José Bové e Ska Keller per gli ecologisti, Alexis Tsipras per la sinistra radicale – costituisce una novità, che però al momento non sembra avere un grande impatto popolare.
C’è dunque da sperare che il 25 maggio il messaggio degli elettori – che rischia di essere traumatico, per l’astensionismo e per gli orientamenti del voto – venga ascoltato dai leader europei, e serva come un elettroshock, per ridare nuovo respiro all’Unione.

Traduzione di Elisabetta Horvat

La Repubblica 11.05.14

"Il danno del denaro creato dalle banche", di Luciano Gallino

L’articolo di Martin Wolf uscito pochi giorni fa sul “Financial Times” (il 24 aprile) è a dir poco sensazionale. Gli si desse retta, il solo titolo – “Spogliare le banche private del potere di creare denaro” – basterebbe per mandare in soffitta le teorie, le istituzioni e le politiche economiche che prima hanno causato la crisi, poi l’hanno aggravata con le politiche di austerità. Non si vuol dire che di per sé l’articolo di Wolf arrivi a svelare delle novità fino ad oggi inimmaginabili. Da anni vari gruppi di studiosi e associazioni in Usa come in Europa sostengono che se non si limita il potere delle banche private di creare denaro dal nulla la prossima crisi potrebbe essere anche più devastante della precedente. Il fatto nuovo è che a dirlo è il maggior quotidiano economico del mondo, da sempre pilastro (bisogna ammetterlo: con dosi di pensiero critico che di rado si ritrovano nei suoi confratelli) della cultura economica neoliberale. I chiodi su cui batte Martin Wolf sono tre. Il primo è che la stragrande maggioranza del denaro in circolo viene creato dal nulla – perché lo stato glielo consente – dalle banche private nel momento in cui concedono prestiti, accreditando l’ammontare sul deposito del richiedente. Quando Mr. Jones o la Sig. ra Bianchi si vedono accreditare 100.000 sterline o euro sul proprio conto di deposito, grazie ai quali stipuleranno un mutuo, non un solo euro è stato tolto da altri depositi o dal capitale della banca. La somma è stata creata da un contabile con pochi tocchi sulla tastiera. Specifica Wolf: “Le banche creano depositi come sottoprodotto dei prestiti che concedono.”
Sarà un caso, ma forse non lo è affatto, che l’articolo di Wolf sia stato preceduto a marzo da una pubblicazione della Banca d’Inghilterra la quale ripete una decina di volte in poche pagine che sì, sono proprio le banche private la fonte maggiore della creazione di denaro. Tanto per cominciare: “In pratica la creazione di denaro differisce da vari malintesi popolari: le banche non agiscono semplicemente da intermediari, dando in prestito i depositi effettuati presso di loro… Ogni qualvolta una banca fa un prestito, crea simultaneamente un corrispondente deposito sul conto del mutuatario, creando in tal modo nuovo denaro.” (Bank of England, “Quarterly Bulletin”, n. 1, 2014). C’è da sperare che gli economisti ortodossi i quali insegnano ancora ai loro studenti che le banche possono prestare soltanto il denaro che tengono in cassa, mostrando così di ignorare nel loro insegnamento il ruolo fondamentale che svolge nel sistema economico la creazione privata di denaro, trovino modo di dare una scorsa, oltre che all’articolo in parola, pure al bollettino della BoE.
Il secondo chiodo su cui batte Wolf è il pesante ruolo negativo che la suddetta creazione di denaro svolge a danno dell’intera economia. “Il nostro sistema finanziario è palesemente instabile perché lo stato prima gli ha concesso di creare quasi tutto il denaro che circola nell’economia, poi si è visto costretto a sostenerlo nello svolgimento di tale funzione. Questo è un buco gigantesco nel cuore delle nostre economie di mercato.” L’autore avrebbe potuto aggiungere che oltre ai trilioni di dollari, sterline ed euro creati dal nulla dalle banche sotto forma di depositi, circolano nel mondo, al di fuori delle piattaforme regolamentate, centinaia di trilioni di derivati dalle innumeri denominazioni (ABCP, ABS, CDO, CLO, CDS, MBS…), pure essi creati dalle banche private. Poiché questi titoli hanno un valore di mercato, ciascuno può venire istantaneamente commutato in denaro contante, oppure versato come collaterale per garantire un prestito, o altro. Grosso modo, si tratta di una massa di denaro potenziale – potenziale, va notato, come la nitroglicerina – che gira per il mondo in quantità decine di volte superiori alle transazioni aventi per oggetto beni o servizi reali.
Infine c’è la fondamentale proposta dell’autore, che va ben al di là di quanto sintetizzato nel titolo. Il potere di creare denaro dovrebbe essere riservato esclusivamente allo stato. La funzione delle banche dovrebbe venire circoscritta alla intermediazione tra risparmiatori e investitori o mutuatari, alla effettuazione dei flussi di pagamento, e alla custodia dei depositi. Per appoggiare la sua proposta, che rientra nel quadro delle riforme le quali postulano un’attività delle banche “ristretta” o “limitata”, Wolf si richiama brevemente a studi degli anni 30 quale l’illustre Piano di Chicago. Esso prevedeva che una banca dovrebbe sempre disporre del 100 per cento di riserve per ogni soldo che ha in deposito e che presta a qualcuno, il che porrebbe definitivamente fine al suo potere di creare denaro dal nulla. Un piano rivisitato di recente da ricercatori del Fmi, i quali arrivano a concludere che esso potrebbe funzionare bene anche oggi. Agli oppositori i quali temono che in questo modo rischierebbe di sparire il credito alle imprese, l’autore ricorda che le banche finanziano l’investimento produttivo in misura pari appena al 10 per cento dei loro prestiti.
Questo articolo proveniente da una fonte quale il “Financial Times” vale a ricordare ai governi Ue, compreso il nostro, che una riforma finanziaria la quale in qualche modo riduca drasticamente il potere delle banche private di creare denaro è la maggiore riforma politica di cui essi dovrebbero occuparsi per salvare l’Unione e i propri stessi paesi. Non importa se oggi questi appaiano far parte del gruppo dei più forti, oppure di quello dei più deboli. Al confronto le riforme bancarie di cui si parla nella Commissione (il rapporto Liikanen), nell’Ecofin (l’Unione Bancaria), in alcuni parlamenti (Regno Unito, Francia, Germania), sono acqua fresca. Soltanto una forte riduzione del potere “creativo” delle banche può fare uscire i governi Ue dal ruolo di burattini del potere finanziario che attualmente svolgono. Salvo che, naturalmente, in tale ruolo ci si trovino bene, per scelta o per incompetenza. Al riguardo, è ancora Martin Wolf che avverte: “Quando arriva la prossima crisi – e di sicuro arriverà – abbiamo bisogno di essere pronti.”

La Repubblica 11.05.14

"Ricordo di Moro e di Berlinguer", di Claudio Sardo

Rileggere Aldo Moro dà quasi un senso di vertigine, tanto diversi erano il suo linguaggio, il contesto, i sentimenti stessi della politica. Sembrano preistoria quei lunghi discorsi, nei quali affidava alla parola il compito non solo di spiegare, ma di capire, di scavare, di distinguere.
Di cercare sintesi più comprensive e avanzate. Sembrano preistoria, invece sono parte delle nostre radici democratiche. Rileggere Aldo Moro nell’anno delle celebrazioni di Enrico Berlinguer apre poi a domande radicali sul senso della politica, sul ruolo dei partiti, sul tempo che produce fratture e opportunità, e così incide sulla carne viva della società e sulle libertà delle persone.
Qualcuno, con arroganza, irride la nostalgia associando ad essa una «certa sinistra ». Moro fu ucciso dai brigatisti il 9 maggio 1978. C’è un modo di guardare il passato da conservatori impauriti, pensando che tutto il meglio è alle nostre spalle. Ma c’è un modo di guardare alla storia come a una risorsa, a una riserva critica del presente. Questa nostalgia è proiettata nel futuro. In un futuro che non sia solo la modernità dei nuovi potenti, ma sia una costruzione a cui partecipino passioni, intelligenze, valori, cioè persone. Conservatori e rivoluzionari, diceva Berlinguer. Perché chi vuole rendere il mondo più giusto, non si fa rubare la storia.
Del resto, il modo di guardare il passato è influenzato dal presente, è parte della battaglia politica. In un bell’articolo su l’Unità Alfredo Reichlin si è chiesto perché tanta attenzione a Berlinguer nel trentesimo della morte. E perché un approccio così diverso rispetto alle polemiche sull’alterità comunista, sulla questione morale, sul compromesso storico. È proprio la profondità della crisi di oggi – economica, sociale ma anche antropologica – a porre nuove domande. Reichlin concludeva che si guarda a Berlinguer chiedendosi quale idea bisogna avere della politica nel tempo della sua svalutazione, quale passione è necessaria per restituire alla democrazia il significato che rischia di perdere, quali battaglie vanno ingaggiate per reagire alla torsione elitaria che sta espropriando i cittadini, a cominciare dai più deboli. Serve un pensiero critico per uscire dalla cittadella assediata. E serve la materia prima per costruire. Con il nuovismo si fa marketing elettorale, ma non si tira su un edificio sulle sabbie mobili.
Aldo Moro è stato l’uomo del centrosinistra, della solidarietà nazionale, della terza fase incompiuta. Se la Dc – pur con tutte le sue contraddizioni e le sue cadute – è rimasta dopo De Gasperi una realtà originale, ancorata alla Costituzione, con un confine marcato a destra e un confronto aperto a sinistra sulle riforme sociali, questo lo deve in gran parte alla guida di Moro. E non è un caso che il suo assassinio deviò in modo così netto il corso della politica italiana.
Ma, al di là delle linee strategiche, anche per Moro valgono quelle domande sulle radici etiche della democrazia, che sono così vitali per interpretare l’oggi. Moro era attentissimo alle novità sociali: l’aderenza alla realtà che cambia era per lui condizione di legittimità stessa della politica. Emblematico il suo giudizio sulla contestazione studentesca, espresso nel novembre ’68: «Tempi nuovi si annunciano e avanzano in fretta come non mai. Il fatto che i giovani, sentendosi a un punto nodale della storia, non si riconoscano nella società in cui sono e la mettano in crisi, sono tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità». Alla spinta del cambiamento non si deve opporre una reazione difensiva, ma un confronto sui valori, sulle libertà, sui doveri, sulla solidarietà.
Il limite della politica sta nel fatto che non è mai sufficiente a se stessa. Ma neppure il nuovo è un assoluto. La pretesa di assoluto è un’insidia per la democrazia. «Se noi – sostenne Moro – sapessimo solo opporre la nostra sofferta ricerca del modo di affrontare il nuovo, ma non avessimo una fisionomia distinta, una autonomia, una ferma volontà politica, noi avremmo fatto venire meno un termine essenziale della dialettica democratica. Il nuovo dunque sì, ma il nuovo capito, dominato, voluto da noi stessi per quello che siamo stati e che siamo». Il nuovo per Moro diventa bene comune quando il fine riesce a ordinare e condizionare i mezzi. Per questo contrapponeva la violenza e il politicismo di certe espressioni del ’68 con il desiderio autentico di «nuova umanità», con quell’emergere «di una legge di solidarietà, di eguaglianza, di rispetto di gran lunga più seria e cogente che non sia mai apparsa nel corso della storia».
Senza un’idea dell’uomo non si rifonda la politica democratica. Moro, studioso di Maritain, era convinto che la persona fosse il perno di una società equilibrata, contro i rischi dell’individualismo egoista e del collettivismo autoritario. Le libertà della persona sono vitalmente connesse a quelle dei corpi intermedi, dal più piccolo che è la famiglia, al più grande e complicato che è il partito. Nella relazione al congresso di Napoli del ’62, quello che aprì al centrosinistra, Moro disse: «La polemica sulla partitocrazia è essenzialmente una polemica di destra. Pretendendo di porsi come correzione di abusi compiuti nell’azione dei partiti, essa ha di mira in realtà l’emergere di opinioni, l’affermarsi di interessi, l’elevarsi fino a posizione di potere di ceti che si era abituati a considerare fuori gioco».
Parole che mantengono tuttora la loro forza. Si dirà che i partiti sono stati vettori di corruzione e che la corruzione continua a dilagare, ben oltre Tangentopoli. Ma forse questo accade perché i partiti non sono stati ricostruiti su basi di trasparenza, attuando finalmente l’art. 49 della Costituzione. Forse la colpa è anche di chi ha teorizzato la democrazia senza partiti, così funzionale alla concentrazione di poteri nelle mani di pochi. Rileggere Moro e Berlinguer può aiutarci, non a trovare soluzioni concrete, ma a rianimare una passione civile e a radicare la politica negli interessi reali e nelle speranze.

L’Unità