Latest Posts

"La grande fuga dei giovani italiani a Londra", di Luca Pagni

Non si ferma la grande fuga degli italiani che si trasferiscono all’estero per lavoro. Secondo l’Aire (l’uffici del ministero degli Interni che registra i trasferimenti dei cittadini in altre nazioni), anche nel 2013 i flussi in uscita sono aumentati del 19 per cento, un dato che fa seguito all’incremento del 30 per cento comunicato nel 2012. Questo significa che in soli due anni, gli italiani che hanno varcato i confini sono cresciuti del 55 per cento: erano 61mila nel 2011 e ora sfioriamo i 100mila.

Ma il dato ancora più clamoroso del 2013 riguarda i giovani e l’Inghilterra. Sempre l’anno scorso, nella fascia di età compresa tra i 20 e i 40 anni è stato dell’71 per cento (mentre complessivamente è stato dell’81%). A rivelarlo è stata la trasmissione di Radio24 “Giovani Talenti” che si è procurata i dati ufficiali dell’Aire per il 2013. Con una prevalenza della fascia 20-30 anni (4.531 espatriati) su quella dei 30-40 anni (4.136).

Ma il dato complessivo potrebbe essere ancora più clamoroso se si considera che, secondo gli esperti di flussi migratori, soltanto un italiano su due di solito comunica il suo trasferimento all’estero al Ministero.

I dati rivelano come gli italianis entano l’Europa, sempre di più, come la loro casa. Anche nel 2013, le nazioni del Vecchio Continente sono state la meta preferita di chi si è trasferito, con iltre il 61 per cento del totale. La Gran Bretagna rimane saldamente al primo posto (12.904 espatri), seguita dalla

Germania (11.713), Svizzera (10.300), Francia (8.342) e Argentina (7.496), il primo dei paesi non europei. Da segnalare, la crescita dei paesi dalle economie emergenti: nella classifica delle destinazioni, il Brasile ha raggiunto il sesto posto e ha superato gli Stati Uniti, ora settimi.

A preoccupare i nostri governanti, dovrebbe essere il fatto che il fenomeno riguarda in modo più significativo i giovani. L’incremento della fascia dei 20-40 anni è stato del 28,4 per cento, quindi nettamente superiore alla media. In dato che si conferma, in questo caso, visto che anche nel 2012, la crescita era stata del 28,3 per cento.

da repubblica.it

"Scuola, è tempo di ri-creazione", di Pietro Greco

Il mondo è cambiato, diceva Gianni Rodari all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso. Io scrivo per i ragazzi di oggi, astronauti di domani. Ragazzi che vivono e apprendono in un mondo molto diverso da quello conosciuto dai loro padri e dai padri dei loro padri. Occorre una nuova scuola. Occorre un nuovo metodo d’insegnamento. Occorre una «nuova grammatica della fantasia». Non è un caso se cita anche Gianni Rodari, che con Collodi è stato il più grande scrittore per ragazzi nella storia della letteratura italiana, e chiede una nuova grammatica della fantasia, Luigi Berlinguer, cultore di storia del diritto, già Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, parlamentare europeo uscente del Partito Democratico e soprattutto analista tra i più attenti del rapporto tra scuola e società, nel libro che ha appena pubblicato con l’editore Liguori dal titolo, niente affatto casuale, di Ri-creazione. Una scuola di qualità per tutti e per ciascuno. Un libro con cui il cultore di storia del diritto esce dal contingente per collocare la scuola nel mondo che cambia, sia proponendo una rivoluzione nel modo di insegnare dopo quasi due millenni di consolidata trasmissione del sapere da chi sa a chi non sa (o top-down, come dicono gli inglesi), sia ridefinendo il rapporto tra scuola e democrazia, quattro secoli dopo che Jan Amos Komensk ha indicato nella scuola di massa e nell’educazione per tutti la nuova frontiera della modernità e lo strumento con cui tutte le persone possono migliorare la propria condizione sociale e spirituale. Luigi Berlinguer entra nel dettaglio dei singoli aspetti in cui si declina il nuovo rapporto tra scienze e società. Ma conviene seguirlo nel discorso più generale. Questo rapporto è diventato così forte, così intimamente interpenetrato che chiede sia alla scuola sia alla società di ripensare se stesse. Di ri-crearsi appunto. Ri-fondando la democrazia sulla conoscenza. E conferendo alla conoscenza una dimensione democratica, di potente (del più potente) fattore di inclusione sociale. L’analisi, in estrema sintesi, è questa. Il mondo sta cambiando. Viviamo in una nuova era, che molti hanno definito della conoscenza. A partire da quel Jacques Delors che oltre venti anni fa indicò all’Europa la necessità di ridefinire le sue politiche per diventarne leader assoluta. In questa nuova era, la conoscenza non solo continua ad avere quel valore intrinseco che, come diceva Comenio, consente all’individuo che la possiede di progredire sul piano spirituale e sociale. Ma ha anche un valore economico – nel senso originario, di gestione la migliore possibile della casa comune – che consente il progresso delle nazioni. Oggi sempre più la società e la stessa economia chiedono conoscenza. Chiedono che una parte considerevole, addirittura maggioritaria, delle persone in età da lavoro abbia almeno 15/20 anni di studi alle spalle e continuino ad apprendere per tutta la vita (long life learning). Nel medesimo tempo nuovi strumenti tecnologi – il computer, la rete di computer, la rete delle telefonia mobile, le reti radiotelevisive, la rete delle reti – consentono l’accesso a e l’uso creativo di una quantità di informazione e di conoscenza (ebbene sì, anche di conoscenza) che non ha precedenti nella storia. Parafrasando Rodari, noi comunichiamo con i ragazzi di oggi, cybernauti di oggi. È chiaro che noi, immigrati digitali, dobbiamo riscrivere daccapo – ri-creare, appunto – la nostra grammatica della fantasia, se vogliamo comunicare e se vogliamo contribuire all’apprendimento dei ragazzi di oggi, che sono nativi digitali. Ecco, dunque, la doppia sfida che la scuola deve affrontare e vincere. Una è la sfida della quantità. Molti, tendenzialmente tutti devono poter compiere 15/20 anni di studi e continuare, poi, con il long life learning. È un diritto di ciascuno. Ma anche un bene comune, cui una nazione moderna non può rinunciare, pena la sua stessa marginalizzazione culturale ma anche economica. L’altra, è la sfida della qualità. Occorre superare l’idea che si possa trasmettere, con l’approccio top-down, un sapere uguale per tutti. Ma occorre sempre più acquisire l’idea – la nuova grammatica della fantasia – che consente a ogni singolo studente a ogni «soggetto individuale», per dirla con il sociologo francese Alain Touraine di partecipare in maniera critica alla sua stessa formazione, secondo un percorso personalizzato che si modella sulle esigenze, la curiosità, le inclinazioni, la storia di ciascuno. La scuola deve diventare ri-creare se stessa e diventare «scuola del soggetto», in grado di perseguire l’uguaglianza nella diversità. In altri termini, nell’era dei nativi digitali la scuola non deve trasferire il sapere, di cui non ha più il monopolio, perché il sapere è diffuso, ma deve insegnare a ciascuno ad apprendere. Non è facile. Non è scontato. Perché richiede agli studenti di diventare attori del proprio destino culturale. Di apprendere ri-creandosi, in una dimensione che è prima di tutto piacere. Di conseguenza, chiede al docente di trasformarsi da «agente che trasmette» a «guida che connette». Berlinguer è un illuminista, che indica le opportunità cui spalancano le nuove tecnologie. Ma è un illuminista realista. Sa che, così come è struttura, la scuola, di ogni ordine è grado, ancorché in maniera molto diversificata, è in piena emergenza. Quantitativa mancano le risorse, la scuola è sottoposta a tagli pesanti, ai tagli più pesanti riservati alla pubblica amministrazione ma, anche, qualitativa. Sa che la vecchia scuola è, appunto, vecchia. Che il mondo intorno all’aula scolastica è il mondo del XXI secolo, mentre l’aula metaforicamente, ma non solo è ancora quella del XIX secolo. Tuttavia non partiamo da zero. Certo, ci siamo dimenticati di loro, ma il nostro Paese che ha dato i natali a Maria Montessori e a don Lorenzo Milani, pionieri della scuola partecipata e personalizzata; che ha dato i natali a Gianni Rodari, teorico della ri-creazione (nel suo duplice senso) continua dell’apprendimento, ha al suo interno le capacità per accettare e cercare di vincere le sfide dei tempi, perseguendo non un apprendimento fine a se stesso. Non la semplice acquisizione di conoscenze e di nozioni. Ma un apprendimento per competenze. Per spiegare la differenza tra i due concetti, Berlinguer ricorre a uno degli aforismi che hanno contribuito a rendere famoso, già nel Seicento, Michel de Montaigne: «Noi teniamo in serbo le opinioni e la scienza altrui, e questo è tutto. Bisogna farle nostre. A cosa ci serve la pancia piena di cibo, se non lo digeriamo? Se esso non si trasforma in noi? Se non ci fa crescere e non ci rende più forti?». Ecco, dunque, un programma fuori dalla contingenza e dalle politiche di bilancio. Costruiamo, non solo metaforicamente, nuove aule. Frequentate da tutti e in cui tutti, ciascuno secondo il proprio metabolismo, hanno l’opportunità di digerire il cibo della mente e di trasformare, come sostiene Luigi Berlinguer, i contenuti di sapere e conoscenza in esperienze di formazione d’identità, di progetto individuale o di adattamento a situazioni sempre nuove. Si tratta di una sfida epocale. Di un grande programma politico. Che riguarda il modo in cui faremo cultura, svilupperemo un’economia sana e sostenibile. In una parola, il modo in cui ri-creeremo la democrazia con quella «risorsa infinita» che è la conoscenza.

L’Unità 11.05.14

"Tra euroscettici e populisti la missione della sinistra che può vincere" di Bernardo Valli

Alle origini fu un nome della mitologia, quello della principessa fenicia rapita e deposta sulla spiaggia di Creta da un toro bianco che era Zeus. Adesso per molti suoi cittadini sulla parola Europa c’è una fredda, indecifrabile impronta. Evoca valori concreti ma inafferrabili. Zattere sull’oceano economico e finanziario. In particolare una moneta non sempre amica, dietro la quale si annidano i tanti demoni del mercato: le banche, le società finanziarie, gli speculatori. Una moneta sganciata dai governi nazionali succubi del Grande fratello di Bruxelles di cui si diffida, anche perché lo si pensa tedesco. È un peccato, alla nostra Europa manca un po’ di quel “mito” moderno che è la politica.
Le elezioni europee sono di solito noiose, non esercitano il richiamo di quelle nazionali, né sembrano riguardare problemi vicini come quelle locali.
IL VOTO del 25 maggio si differenzia tuttavia dai precedenti perché è destinato a rafforzare le prerogative del Parlamento, e quindi a infondere più politica nell’Unione. E la politica è la linfa indispensabile per darle l’energia di cui manca. Sull’Europa pesa l’errata immagine di un’impresa dedita esclusivamente all’economia, come se quella economica fosse un’attività del tutto indipendente dalla politica. In una situazione di crisi questa visione strabica induce a concentrare sull’Europa gran parte dell’insoddisfazione, della collera risentite dalle società, in particolare quelle sottoposte a cure austere, volute da un’autorità sovranazionale vista come una matrigna crudele e senza volto. Sto tratteggiando un panorama mentale da psicanalisi. Meglio ancorarlo alla storia.
Il voto coincide questa volta con il centesimo anniversario della Grande guerra iniziata nel 1914. La ricorrenza obbliga a evocare la fine della vecchia Europa, sepolta da quel conflitto sotto una montagna di cadaveri. Fu per certi aspetti il funerale di un glorioso e rissoso continente, perché le nazioni che lo componevano furono via via declassate. La decadenza della sua potenza politica e militare è continuata per tutto il secolo, con le rivoluzioni, le dittature, i conflitti, i genocidi derivati dal 1914. Le nazioni europee sono state ridimensionate, hanno ceduto il passo agli Stati Uniti d’America, la sola nazione uscita vittoriosa dal ‘900. Tuttavia l’Europa degradata ha avuto una sua rivincita con la comunità in cui regna pace dalla sua fondazione e dove, nonostante le crisi e i costosi ampliamenti, si è affermato un progresso sociale ed economico mai raggiunto dagli Stati-nazione. Dei quali ci sono ancora tanti nostalgici. Il loro progetto è di erigere di nuovo i confini nazionali, per farne delle barricate contro i mostri della mondializzazione.
Uno dei più autorevoli e rispettabili nostalgici è Jean-Pierre Chevènement, ex ministro socialista e patriota di sinistra. Chevènement considera un errore gravissimo della Francia l’avere accettato «la dissoluzione della sua sovranità in un magma di impotenze coniugate». Per lui l’Unione europea non è la sola in grado di colmare la debolezza delle singole nazioni ma un vasto protettorato americano. Gli argomenti da contrapporgli, benché validi, possono risultare fastidiosi. Un’insistente retorica ha infatti logorato il discorso europeista. Il passaggio dalla memoria alla storia disperde inoltre i ricordi, senza i quali si smarrisce la capacità di mettere a confronto vecchie e nuove realtà.
Gli umori non sono gli stessi nella comunità dei ventotto Stati. Un paese emerso un quarto di secolo fa dal comunismo reale come la Polonia ha appena festeggiato il decimo anniversario dell’adesione all’Ue. La celebrazione è stata trionfale: il reddito procapite è passato negli ultimi nove anni da 5.900 a 8.600 euro. Le istituzioni europee hanno consentito alla società polacca di crescere più delle altre. A Varsavia si dice che «l’Europa ha fatto uscire il paese dall’ombra». L’Ucraina, secondo paese del continente per la grandezza del territorio, è sull’orlo della guerra civile per la contesa tra chi vuole entrare nell’Ue e chi preferisce la Russia. Invece a Londra, capitale di una antica e nobile nazione, il primo ministro conservatore promette per il futuro un referendum sulla permanenza nell’Ue del Regno Unito. Ed è significativo che i laburisti non abbiano neppure invitato a partecipare alla campagna elettorale il candidato della sinistra europea, Martin Schulz. In un’altra antica e nobile nazione, la Francia, il Front National, campione di antieuropeismo, potrebbe uscire dalle urne come il partito più forte. Un primato provvisorio, che non dovrebbe estendersi alle consultazioni nazionali.
L’Europa d’oggi è anemica. I suoi globuli rossi sono i consensi dei cittadini. E tra di loro cresce lo scetticismo. Non è un rifiuto netto, piuttosto un sentimento in cui si alternano indifferenza, sfiducia, rancore. L’Europa è un capro espiatorio. Una volta si preferiva dire «governo ladro». Stando a uno studio recente, più approfondito dei numerosi, inflazionati sondaggi che sembrano avere il compito di deprimerci, il sostegno di fondo all’integrazione europea è restato abbastanza alto e stabile durante tutta la crisi. Secondo le conclusioni di Sara B. Hobolt, della London School of Economics and Political Science, l’Ue non suscita entusiasmo, tutt’altro, ma le soluzioni alternative non ispirano fiducia. Di riflesso maggioranze sia pure non traboccanti preferiscono quindi un’integrazione rafforzata all’avvenire incerto dei governi messi individualmente davanti alle difficoltà economiche e politiche.
Questo non significa che le spinte verso un’uscita dall’euro, o addirittura dall’Unione, non si siano intensificate e non favoriscano l’elezione di un Parlamento con all’interno una forte opposizione (il 30 per cento stando ai sondaggi) alla sua stessa sopravvivenza. Se lo scetticismo è in aumento non lo è al punto da mettere in serio pericolo le istituzioni. Un consistente numero di deputati eurofobi costituisce una minaccia relativa trattandosi di una forza frantumata in tanti movimenti non sempre alleati.
L’appuntamento del 25 maggio dovrebbe essere un momento intenso della democrazia europea ma è dominato dai problemi nazionali e quindi non accende un adeguato interesse. L’astensione si annuncia alta. I media lo trattano come un test cui sono sottoposte le società politiche dei diversi paesi. Un test senza una conseguenza immediata sul piano nazionale e poco convincente perché il voto con la proporzionale favorisce i piccoli partiti, in particolare quelli protestatari, che sono i più ascoltati. Singolare, indicativo è l’atteggiamento del Front National di Marine Le Pen e del Movimento Cinque stelle di Beppe Grillo. Entrambi si propongono di chiedere lo scioglimento dei rispettivi parlamenti nazionali nel caso di un loro netto successo alle europee, come se quest’ultime riguardassero direttamente i governi di Parigi e di Roma, e il Parlamento di Strasburgo fosse soltanto un fastidioso e secondario obiettivo del voto.
Durante la crisi si è visto quanto abbia contato il colore politico della Commissione e del Parlamento. Le prossime elezioni accentueranno questo aspetto al quale non si è prestata finora la dovuta attenzione, avendo prevalso la generica accusa di «tecnocrazia» rivolta all’Ue, quasi fosse politicamente asessuata. O come se le decisioni di Bruxelles fossero in realtà dettate da Berlino. Il 25 maggio gli europei potranno scegliere il futuro presidente dell’esecutivo comunitario, poiché egli sarà eletto poi dal Parlamento come in una vera democrazia. Il successore del portoghese José Manuel Barroso, un conservatore, potrebbe essere il tedesco Martin Schulz, un socialdemocratico. In tal caso, da non escludere, il clima politico cambierebbe a Bruxelles. Anche perché il nuovo presidente di sinistra avrebbe alle spalle il Parlamento che lo ha eletto, e del cui voto i ventotto capi di Stato o di governo dovranno «tener conto».
La politica, quindi la democrazia, compie un passo avanti nelle istituzioni europee. L’offerta è ampia. Se Martin Schulz è il campione della sinistra riformista, quello dei conservatori è il lussemburghese Jean-Claude Juncker; quello dei liberali è il belga Guy Verhofstadt; quello di una sinistra più radicale il greco Alexis Tsipras; mentre i verdi mettono in campo il francese José Bové e la tedesca Ska Keller. Gli eurofobi e l’estrema destra non hanno designato candidati alla presidenza. Loro hanno come obiettivo di boicottare l’Unione europea.
Conservatori e liberali prevalgono dal 1999 nella Commissione e in Parlamento. Sui ventotto membri dell’esecutivo soltanto quattro sono socialisti, perché questo era il rapporto di forza nel Consiglio europeo del 2009 quando i capi di Stato e di governo designavano in gran segreto il presidente della Commissione. Il tedesco Martin Schulz non è il candidato di Angela Merkel. La cancelliera cristiano-democratica non lo sostiene. E lui, socialdemocratico ottimista, vede un movimento di fondo in favore della sinistra, e una tendenza al ribasso dei partiti popolari (centrodestra) che hanno dominato nell’ultimo decennio. Se il pronostico di Schulz si rivelerà esatto, e lui conquisterà la presidenza della Commissione, il patto di stabilità e di crescita continuerà ad essere applicato, ma si punterà con maggior decisione sulla crescita.

La Repubblica 10.05.14

"Le dieci start-up che sono già nel futuro", di Romano Prodi

L’edizione italiana della rivista dell’Innovazione del Mit (Massachussets Institute of Technology) da qualche anno si è presa il compito di presentare le aziende più innovative del nostro Paese. Fino allo scorso anno il concorso per premiare le aziende più innovative aveva il titolo «Disruptive Companies» ovvero aziende che stavano sviluppando qualche tecnologia così innovativa da portarle rapidamente a forti guadagni di quote di mercato o aperture di mercati prima sconosciuti. È chiaro che essere “disruptive” come è stato l’irrompere del mondo del digitale nella registrazione dei suoni o delle immagini, rispetto a quello precedente delle videocassette, o internet nel mercato dei media, è un vantaggio enorme.
Un vantaggio che va comunque perseguito con una ricerca di base di grande qualità ed intensità. Ma non è il solo modo di innovare perché esistono (e sono molto importanti) le innovazioni incrementali che non rompono col passato ma lo migliorano. È stata perciò aggiunta al concorso la qualifica di “intelligenti”: “Smart”. Cercare le aziende “Smart&Disruptive” in Italia ci ha fatto guardare il mondo industriale Italiano con occhi diversi. La selezione è stata fatta sondando non solo i tradizionali ambienti delle Università e degli Istituti di ricerca ma anche quelli delle organizzazioni che ne promuovono la attività.
Di qui la ricerca di un rapporto non solo con i maggiori incubatori per l’innovazione in tutta Italia : Alma Cube a Bologna, Rieforum a Padova, fino al Parco scientifico e tecnologico della Sicilia. Poi il Trasferimento Tecnologico di IIT a Genova, I3P al Politecnico di Torino, o Filarete a Milano per non citarne che alcuni. Ma anche le loro aggregazioni come Netval che raccoglie i centri per l’innovazione di 54 Università. Infine la grande Banca dati di Confindustria.
È ovvio che non sono state trascurate le poche, anzi pochissime grandi strutture di ricerca e sviluppo (con centinaia di addetti per intenderci) quali ST Microelettronica, Enel, Eni. Per fortuna accanto a queste abbiamo tante aziende, anche di piccolissime dimensioni che vanno a “sniffare”, come diciamo cinicamente, quanto di nuovo e utile nasce dalla grande rete di intelligenze che circonda tutto il mondo.
Data la struttura del nostro Paese, abbiamo sentito l’obbligo di andare ad ascoltare anche i “segnali deboli” della innovazione, e, con la comunicazione, aiutarne la aggregazione. Abbiamo cioè cercato di fare “networking”, come dicono da Boston alla Silicon Valley quando vanno anche solo in due a bere un bicchiere.
È chiaro che sarebbe ideale avere alla base un nucleo trainante di aziende forti che assumono giovani tecnici di grande qualità e permettano loro di sviluppare il meglio di quanto certamente sanno fare in un ambiente strutturato.
Se questo non c’è, e per farlo nascere è necessario un grande sforzo di politica industriale espansiva, bisogna puntare alla “impollinazione” e all’aiuto ai giovani che comunque vogliono farcela da soli. Abbiamo quindi cercato di individuare, premiare e dare una mano alle varie “start up”, “spin-off”, “spin-in”… (Che non ci sia una sola parola italiana che le descrive, vorrà pure dire qualcosa). L’11 e il 12 maggio le 10 imprese più innovative, tutte di questa diligente ricerca, verranno premiate a Bologna, presso la Alma Business School e il Mast.
Non si tratta di uno show mediatico o accademico ma di dimostrare che in un Paese in cui le spese in Ricerca e Sviluppo sono sempre più trascurate e residuali, vi sono tuttavia imprese (grandi e piccole) che cercano di andare contro-corrente. O meglio, che cercano di agganciarsi alla grande corrente dell’innovazione mondiale.
E, mentre si premieranno i vincitori, si cercherà di incoraggiare tanti altri ad imitarli, spiegando cosa hanno fatto e come hanno fatto per iniziare.
Si rifletterà anche sui limiti del sistema innovativo italiano e sull’urgenza che esso si ingrandisca e si rafforzi. Nella nostra ricerca abbiamo infatti avuto qualche problema aggiuntivo rispetto alla rete delle riviste consorelle dell’MIT degli Stati Uniti, di Cina e di Germania a costruirci una mappa dei luoghi e delle organizzazioni dove l’innovazione è davvero prioritaria.
Riconoscere i meriti di queste imprese e premiarne i risultati può essere quindi utile per svegliare gli spiriti creativi che, anche se spesso dormono, sono certamente presenti anche in Italia.

Il Sole 24 Ore 10.05.14

"Gli obiettivi sono chiari, ma ora serve una strategia", di Fabrizio Forquet

Tra le figure del Vasari che assistevano potenti dalle pareti affrescate della sala dei Cinquecento, il dibattito tra i potenziali candidati alla guida della Commissione europea ha dato il senso di qualcosa che ancora non è ma che forse si comincia a intravedere. È quell’Europa politica da tanti evocata, che resta fuori dal disegno costituzionale europeo, ma si fa largo nella prassi, non senza forzature rispetto a un sistema istituzionale che non prevede alcuna elezione diretta. Il confronto che si è tenuto ieri a Firenze è un passo avanti che non si può non cogliere. Ma per sconfiggere il populismo che spaventa le urne di tutta l’Unione serve che l’Europa diventi innanzitutto uno spazio dove si possa lavorare con soddisfazione, uno spazio economicamente florido e capace di crescere, rilanciando la sua industria e la sua capacità produttiva.
Matteo Renzi, nel suo discorso, ha fatto bene a mettere questa priorità tra i primi punti. Ha affermato la centralità della manifattura. E ha colto nel segno quando ha sottolineato l’esigenza di regole comuni, a cominciare dal lavoro.
Ma il problema è come tradurre questi obiettivi in realtà. Su questo Renzi, con la presidenza europea, si troverà da luglio ad avere una responsabilità diretta. Il semestre italiano coinciderà con una fase di interregno per le altre istituzioni europee, un vuoto di potere che potrebbe offrire alla presidenza del più giovane premier d’Europa una finestra di opportunità in più. Non va sprecata.
Serve allora una strategia complessiva che ieri nel discorso di Renzi ancora non emergeva.
C’erano le priorità e c’era la passione. Non c’era ancora la strategia. Non era forse neppure la sede adatta, ma se una strategia per il semestre c’è, è bene che cominci ad emergere.

L’errore da evitare è quello di porre le giuste priorità, a cominciare dalla questione del superamento dell’austerità, come una trattativa bilaterale, come un do ut des tra gli Stati o, peggio, tra l’Italia e i Paesi mediterranei, da una parte, e i Paesi del Nord dall’altra. Partire lancia in resta per chiedere il rilancio degli investimenti e l’allentamento dei vincoli di bilancio sarebbe il modo migliore per condannare la presidenza italiana all’irrilevanza.
La questione della crescita e del lavoro riguarda l’Europa tutta e come tale va posta. Non c’è quello che l’Italia chiede, c’è quello l’Europa, per sé (cioè per tutti), deve fare. Le riforme europee per la crescita sono una questione comune, una questione multilaterale, che come tale va affrontata. E in questo contesto c’è anche quello che devono fare i singoli Paesi, a cominciare dalla Germania, che è più indietro di altri sul fronte, per esempio, dell’integrazione di mercato e dell’energia.
Ma la crisi dell’euro ha dimostrato che è l’assetto stesso della governance economica europea a dover essere rimesso in gioco. Qui un leader come Renzi, cha ha dimostrato di saper giocare e vincere la sua partita contro i conservatorismi in Italia, può e deve giocarsi la sua partita.
Come ha scritto Sergio Fabbrini su questo giornale la distinzione tra la politica monetaria sovranazionale e la politica economica intergovernativa non può essere conservata. Quest’ultima si è rivelata una continua prova di forza tra Paesi ricchi e poveri, Stati del Nord e del Sud, indebitati e no. Un confronto che ha ingessato il continente, che ha avuto forse un vincitore parziale e temporaneo, ma che ha trasformato l’Europa nella zavorra della crescita del mondo.
Renzi farebbe bene a porre con chiarezza, all’esordio della presidenza italiana, un programma di convergenza verso l’obiettivo di un governo politico dell’eurozona. Un governo legittimato dal Parlamento e con la forza di intervenire sulla politica fiscale europea, fuori dal braccio di ferro intergovernativo, che si è rivelato piuttosto una gabbia di ferro per coloro che, come l’Italia, pur avendo la forza industriale, non hanno la forza politica per la difesa del proprio interesse economico.
Quei quattro leader che ieri si sono confrontati a Firenze come fossero i candidati di una elezione politica nazionale sono il segno che gli europei sono pronti a questo passo. Così come nelle parole di Renzi, poco prima, l’Europa è tornata ad essere un progetto giovane per giovani europei. Per un giorno le sciocchezze del populismo nostalgico della Lira sono emerse per quello che sono: sciocchezze. Sarà anche responsabilità dell’Italia e del suo premier dimostrare che c’è davvero un’Europa in grado di archiviare quei populismi, ridando agli europei una politica per la crescita e il lavoro.

Il Sole 24 Ore 10.05.14