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"Divorzio, l’eccezione italiana" Carlo Rimini *

La Camera approvò la legge sul divorzio nel 1969, durante l’autunno caldo. Non furono certo formidabili quegli anni, ma oggi sembrano incredibili. La Democrazia Cristiana accettò che venisse approvata la legge dopo un accordo che un grande giurista, Michele Giorgianni, definì «un biblico piatto di lenticchie».
Gli ingredienti della ricetta parvero allora a chi ci osservava dall’estero, da Paesi da tempo abituati al divorzio, piuttosto bizzarri. Il divorzio all’italiana non si fonda sul consenso dei coniugi e neppure sull’accertamento di una colpa, ma solo sull’accertamento da parte del giudice della assoluta intollerabilità della convivenza. È quindi pronunciato come un estremo rimedio di fronte ad una situazione oggettivamente irrecuperabile.
Insomma, la frase che già allora si sentiva nei film americani – «non gli concederò mai il divorzio!» – è rimasta fuori dai nostri tribunali. In Italia il divorzio non si può «concedere», perché il consenso dell’altro coniuge allo scioglimento del matrimonio è ininfluente. Neppure rilevante è la prova dell’adulterio o di qualche altra colpa commessa dall’altro. La legge invece prevede che l’impossibilità di ricostituire l’unione fra i coniugi si presuma dopo che è passato un periodo di separazione legale: cinque anni quando fu approvata la legge, ridotti a tre nel 1987. Trascorso questo periodo, indipendentemente dai comportamenti e dalla volontà, il divorzio è, in pratica, un diritto di ciascun coniuge.

La legge approvata nel 1970 e confermata dal referendum del 1974 prevede quindi, pur non dicendolo espressamente, il divorzio per scelta unilaterale di un coniuge. È incredibile, ma ci siamo arrivati prima degli altri! Oggi, infatti, molti Stati che siamo abituati a considerare assai più avanti di noi nel consentire il divorzio stanno faticosamente arrivando al medesimo risultato: se un coniuge vuole il divorzio, lo ottiene anche senza avere dimostrato la colpa dell’altro o averne acquisito il consenso. Quando finalmente il nostro legislatore eliminerà il periodo di separazione triennale, retaggio di quegli anni remoti e ormai privo di significato, il percorso che porta ad un diritto europeo sul divorzio sarà compiuto.

Dovremo però iniziare una riflessione su un tema rispetto al quale siamo invece inesorabilmente indietro nel confronto con gli altri Stati: le conseguenze patrimoniali del divorzio. Se il divorzio può essere ottenuto sulla base della volontà unilaterale di un coniuge, è opportuno introdurre norme che tutelino colui o colei che al matrimonio e alla famiglia ha dedicato la vita, senza invece creare insensate rendite vitalizie per chi non ha fatto alcun sacrificio. Da questo punto di vista le norme che regolano l’assegno divorzile sono ormai del tutto inadeguate. Gli altri ordinamenti europei sono molto più avanti di noi lungo la strada che porta ad un’equa ridistribuzione della ricchezza fra coniugi divorziati.

* Ordinario di diritto privato nell’Università di Milano

La Stampa 12.05.14

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“C’eravamo poco amati un matrimonio su 3 fa crac e ora il divorzio va di fretta”, di Vera Schiavazzi

È SINGOLARE , e perfino un po’ beffardo, che l’Italia celebri i 40 anni dal referendum sul divorzio, che nel 1974 confermò a pieni voti la legge Fortuna-Baslini, quella che nel 1970 lo aveva istituito, proprio mentre in Parlamento sta per giungere al voto una proposta di legge che abbrevia ulteriormente i cinque anni previsti all’inizio, poi passati a tre e che ora si vorrebbe portare a uno soltanto. Gli anni che si collocano tra quelle tre parole, “mi voglio separare”, e una sentenza scritta nero su bianco. Perché nel frattempo, come documenta l’Istat col suo ultimo rapporto su separazione e divorzi, il matrimonio non è più un tabù, tantomeno un legame indissolubile per gli italiani: una persona sposata su tre si separa, una su cinque divorzia, e ha fretta di farlo, come testimonia il dibattito politico di oggi.
«Sì come il giorno delle nozze» era lo slogan della Democrazia Cristiana in quel lontano 1974. Uno slogan, scelto personalmente dal leader Amintore Fanfani, che voleva comunicare soprattutto alle donne: attenzione – così dicevano quarant’anni fa gli anti- divorzisti – se vostro marito vuole lasciarvi potrà farlo in cinque anni anche senza il vostro consenso. Ma furono soprattutto le donne a votare “no” all’abrogazione, proprio come sette anni più tardi sarebbe avvenuto per l’aborto: erano loro a sapere prima di tutti ciò che voleva dire l’obbligo di restare sposate, o di restare incinte. Votarono “no” all’abrogazione oltre 19 milioni di italiani, il 59,3 per cento, “sì” oltre 13 milioni, il 40 per cento, e quel voto cambiò per sempre gli equilibri politici italiani.
A distanza di quarant’anni, il Matrimonio con la M maiuscola sembra non esistere più. Lo dice l’Istat nel suo rapporto del 2012 sulla “instabilità sentimentale”: fotografa italiani che si separano più che mai – per le statistiche – intorno ai 44 anni, dopo un matrimonio “usa e getta” che pure arriva tardivamente, perché in tre casi su cinque segue una convivenza di prova già avviata. Lo dicono gli avvocati matrimonialisti e il Forum delle Famiglie, entrambi ascoltati alla Camera prima di far procedere il divorzio breve, dove hanno espresso speranze e dubbi. E lo dicono le cifre: tra il 1995 e il 2009 i matrimoni in Italia sono scesi da 290.000 a 230.000 ogni anno, mentre nello stesso arco di tempo i divorzi raddoppiavano, da 27.000 a 54.000.
«I matrimoni falliscono – dice Elena Sormano, psicologa, trent’anni di esperienze come perito nei tribunali italiani – perché le persone, sia uomini sia donne, hanno aspettative illimitate in una società consumista che ci insegna a volere sempre di più». Ma la separazione e il divorzio segnano comunque un fallimento, che per qualcuno può essere un dramma. «Non solo per le condizioni economiche che ne derivano – spiega Giulia Facchini, avvocato matrimonialista alla guida dell’associazione interprofessionale Sintonie – ma anche perché per molte donne essere lasciate dal marito è tuttora vissuto come un insuperabile trauma personale».
Sì, allora, al divorzio breve? «Anche a quello immediato, se davvero i due coniugi sono consenzienti. Ma se invece uno dei due sovrasta l’altro, sia come volontà sia come disponibilità economica, allora è meglio essere rappresentati da due avvocati». Un rilievo necessario, visto che tra gli emendamenti al divorzio breve c’è anche quello di chi vorrebbe, come avviene in Francia, semplificare la cancellazione del matrimonio ad atto privato, sottoscritto dai due aspiranti ex marito e moglie semplicemente davanti a un avvocato- notaio. Un po’ come a dire: «Sposarsi o lasciarsi non è un affare dello Stato», cosa che ha suggerito anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando: «Se le parti sono d’accordo, perché non giungere a una mediazione prima di arrivare in tribunale?».
Il matrimonio “per sempre” dura ormai nella media italiana “soltanto” quindici anni, mentre la speranza di vita media si è allungata a 82,9: una parentesi, quasi, alla quale oltre l’85 per cento degli interessati arriva di comune accordo, senza ricorrere a soluzioni giudiziali. Sul tema si sfornano manuali, come quello di Tiziano Solignani, avvocato e blogger appassionato agli aspetti umani dell’applicazione del codice. Secondo lui, è meglio parlarne prima: nel suo ultimo libro, “Guida alla separazione e al divorzio” (Mondadori), insegna come fare i conti con se stessi e col proprio legale, distinguendo tra vari sistemi, dalle tariffe forensi ai forfait fino ai più nuovi “quota lite”. Già, perché il divorzio costa (da un minimo di 1.000 euro in su) e per questo molti separati preferiscono lasciar perdere: serve solo a risposarsi, e fa uscire per sempre dall’asse ereditario.

La Repubblica 12.05.14

"Affonda un altro barcone Oltre quaranta morti", di Andrea Bonzi

Almeno 36 migranti sono morti e altri 42 dispersi nel naufragio di una imbarcazione che cercava di raggiungere l’Europa. L’ennesimo viaggio della disperazione finito in tragedia: è successo al largo della costa della Libia, di fronte ad al-Qarbouli, a circa 50 chilometri a est di Tripoli. Lo fanno sapere fonti ufficiali libiche, rilanciate su Twitter da al-Arabiya: l’incidente sarebbe accaduto martedì, ma è stato reso noto solo ieri. Sul barcone erano stipate circa 130 persone, probabilmente troppe visto che il fondo è collassato, il mezzo si è ribaltato e le acque hanno inghiottito i passeggeri. I primi soccorsi – ha spiegato il colonnello della marina libica Ayub Kassem alle agenzie – sono riusciti a salvare 52 persone, in gran parte di origine africana, ma altri 36 corpi, tra cui una donna incinta, sono già stati recuperati (di cui 24 portati a riva ieri). A causa dei suoi confini con l’Africa subsahariana e della sua prossimità rispetto a Malta e all’Italia, la Libia è diventata punto di transito per i migranti che vogliano raggiungere l’Europa. Il caos seguito alla destituzione di Gheddafi ha trasformato quel Paese nel primo punto di partenza per le decine di migliaia di migranti che, ogni anno, tentano di raggiungere le coste del continente su barconi e mezzi di fortuna. Con polizia ed esercito allo sbando, il traffico di esseri umani è diventato una redditizia industria, in cui secondo le autorità di Tripoli sono coinvolte anche le milizie.
Tanto che il ministro dell’Interno libico, Saleh Maziq, ha lanciato un vero e proprio ultimatum, quasi una minaccia, dicendo che se l’Ue non farà di più per sostenere la Libia nella gestione dei migranti che usano il Paese come punto di transito verso l’Europa, Tripoli li aiuterà nel loro viaggio illegale. L’assistenza dell’Unione europea, afferma Maziq, permetterebbe al Paese di fermare i migranti che arrivano illegalmente dalle nazioni subsahariane, diretti in Europa. Il ministro libico ha anche puntato il dito contro i migranti illegali, ritenendoli responsabili per l’aumento del crimine, la diffusione di droga e malattie nel suo Paese, e ha indirizzato una richiesta di sostegno ai Paesi meridionali. «La Libia ha già pagato un prezzo – ha tuonato Maziq – ora è il turno dell’Europa a pagare. Il mondo deve prendere una posizione seria con delle azioni, non con le sole parole».
Intanto, anche ieri sono proseguiti gli sbarchi sulle coste italiane: dall’inizio dell’anno sono più di 22mila i migranti arrivati nel nostro Paese via mare, dieci volte tanti dello stesso periodo del 2013. In mattinata a Taranto sono sbarcati circa 380 migranti siriani dalla fregata «Aliseo» della Marina Militare. I migranti, tra i quali ci sono 34 donne e 7 minori, sono stati tratti in salvo dalla Marina nei giorni scorsi nell’ambito dell’operazione «Mare Nostrum ». L’area del porto è presidiata da Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Finanza a cui si affiancano gli operatori della Croce Rossa e della Protezione civile. Il Comune, con in prima linea il sindaco Ippazio Stefàno, sta gestendo l’assistenza: gli immigrati, trasportati nei pullman, saranno divisi tra l’ex palestra Ricciardi, l’ex scuola media Martellotta e un ex asilo nido comunale in periferia. Ma altre strutture sono state allertate, in caso di bisogno.
Dalla Puglia alla Sicilia: 423 migranti, tra cui un disabile, 65 minori e 45 donne, sono giunti nel pomeriggio al porto di Trapani, a bordo del pattugliatore «Sirio» della Marina Militare che li ha soccorsi insieme alla nave «Grecale », in tre distinte operazioni a circa 120 miglia a sud di Lampedusa. Gli immigrati, provenienti da Siria, Somalia, Eritrea e Nigeria, sono in buono stato di salute. Tra loro, diversi neonati e bambini al di sotto dei 3 anni, nonchè 6 donne incinte e un uomocon disabilità che ha affrontato la traversata in barcone sulla sua sedia a rotelle, assistito dal fratello.
Le operazioni di sbarco sono iniziate intorno alle 15 al molo Ronciglio e sono coordinate dalla Prefettura con l’ausilio di capitaneria di porto, polizia e carabinieri. I rifugiati dovrebbero essere ospitati nelle strutture di accoglienza della Provincia. Lo scorso 6 maggio, sempre a Trapani, erano approdati 887 migranti di cui circa la metà trasferita con voli charter in altre regioni italiane, dopo l’allarme lanciato dal prefetto Leopoldo Falco sulla saturazione dei centri di accoglienza del trapanese.

L’Unità 12.05.14

"Il difficile compito di rilanciare l'Europa", di Adriana Cerretelli

Il governo di Matteo Renzi non nasconde le ambizioni italiane per il semestre europeo che debutterà il primo luglio prossimo. Rilancio della crescita economica e dell’occupazione in Europa cambiando passo, contenuto e priorità delle attuali politiche europee.
Unità politica e più integrazione a tutti i livelli inseguendo un’altra Europa, più coesa, più solidale e più umana, capace di riconciliarsi con i suoi cittadini disoccupati, provati e disillusi, quando non dichiaratamente scettici o ostili.
Anche se forse un po’ velleitario nell’ansia di mettere il sale sulla coda di un’Europa svogliata, priva di visioni comuni che non siano quella della stabilità della moneta unica e in apparenza sempre meno entusiasta di “stare insieme in famiglia”, il canovaccio delle priorità italiane sarebbe quello giusto al momento giusto se non dovesse fare i conti con il grande ingorgo istituzionale Ue. Che questa volta rischia di ridurre al minimo i margini di manovra della presidenza italiana.
Il secondo semestre dell’anno è già quello più breve perché è interrotto dalla pausa estiva, l’intero mese di agosto e anche l’ultima settimana di luglio, salvo eventi eccezionali. La riforma del Trattato di Lisbona, poi, l’ha molto depotenziato con la creazione della presidenza stabile del Consiglio Ue, riducendolo a una liturgia più simbolica che davvero fattuale. Questa volta si incrocia con le elezioni per il rinnovo dell’Europarlamento, molto diverse dalle precedenti per l’ondata di euroscettici che potrebbero essere catapultati nell’assemblea di Strasburgo. Si parla di un terzo su un totale di 751 seggi. Tecnicamente una simile percentuale non sarebbe in grado di sconvolgere la governabilità del parlamento perché i partiti tradizionali potrebbero mantenere comunque la maggioranza e le file degli euroscettici sarebbero (almeno così molti sperano) divise tra loro e quindi concretamente poco influenti.

P oliticamente però la constatazione irrefutabile che un cittadino europeo su tre è contrario al disegno europeo e/o all’euro sarebbe uno shock destinato a tagliare le gambe a molte ambizioni: perché sintomo della fuga del consenso popolare dall’Europa che, proprio perché è, si vanta e si professa democratica, non può agire e tanto meno avanzare su progetti più integrativi prescindendo da quel consenso.
A complicare ulteriormente le cose c’è poi il fatto che questa Europa senza popoli al seguito vive al tempo stesso una profonda crisi istituzionale, esasperatasi nel quinquennio di euro-crisi. Commissione e Consiglio Ue, e relativi presidenti, si sono progressivamente indeboliti, hanno visto nettamente ridimensionato il loro ruolo di garanti e mediatori nella dinamica intra-europea. A poco a poco, insomma, si sono ritrovati agli ordini dei Governi e del metodo intergovernativo che muovono sempre più l’Unione a scapito di quello comunitario.
È questo lo scenario di fondo che attende al varco la presidenza italiana che inizierà il 1° luglio, lo stesso giorno in cui a Strasburgo si riunirà il nuovo Parlamento. Allora si saprà quanto pesante sarà stato il plebiscito anti-europeo e quindi con che tipo di Parlamento e di Europa bisognerà fare i conti. E si saprà anche se nel frattempo la “guerra delle poltrone” sarà stata o no risolta.
Grazie a un’interpretazione un po’ garibaldina dei Trattati Ue, quest’anno le urne eleggeranno anche il loro candidato alla presidenza della Commissione. Questo almeno ha preteso il Parlamento uscente e il suo presidente, il socialista tedesco Martin Shulz, che è anche il candidato socialista alla guida della Commissione Ue. Gli altri gruppi politici si sono allineati. Ma i Governi, Angela Merkel in testa, non sembrerebbero disposti a incassare il colpo di mano che li priverebbe del loro potere di scegliere in autonomia, sia pure alla luce dei risultati elettorali, riconosciuto dal Trattato di Lisbona.
Se questo è vero, è però altrettanto vero che politicamente, in un’Europa in grande stress democratico, sarebbe difficile ignorare il responso dei cittadini. In palio ci sono la guida della Commissione e del Consiglio Ue, cioè la successione a Josè Barroso e a Herman Van Rompuy, la nomina del “ministro degli Esteri Ue” al posto di Lady Ashton e forse quella del nuovo presidente dell’Eurogruppo.
Con questi chiari di luna, la distribuzione delle poltrone si annuncia complicata e promette scontri intra-europei al calor bianco. Con possibili strascichi di vendette politiche trasversali. Per esempio qualora il Consiglio Ue decidesse di non nominare il candidato vincente dell’europarlamento ma qualcun altro. In questo caso l’assemblea non sarebbe disarmata: ha infatti il potere di accettare o respingere con il voto il nuovo presidente dell’Esecutivo Ue.
Anche se la guerra inter-istituzionale sarà evitata, a mettere alcune zeppe nelle ruote del nostro semestre saranno i tempi lunghi di molte procedure: dall’elezione del nuovo presidente del Parlamento, che tradizionalmente non arriva prima di metà luglio, alla sua stessa operatività che a pieno regime in genere comincia solo con la prima sessione di settembre.
Di più. La Commissione Barroso scade a novembre. Il che significa che prima dovranno esserci le audizioni parlamentari dei 28 nuovi commissari designati dai rispettivi Governi. Non si può escludere che qualcuno venga bocciato, con relativo allungamento dei tempi di conclusione del processo.
Tanto che c’è chi non esclude che la Commissione attuale possa restare in carica fino alla fine dell’anno. Ovviamente uno scenario di tensioni e lungaggini procedurali finirebbe per paralizzare la miglior buona volontà della presidenza italiana. Che per di più, con la probabile elezione a eurodeputato dell’attuale commissario Ue, Antonio Tajani, si ritroverà a dover sceglierne al più presto il successore per non cominciare il semestre senza un proprio rappresentante dentro la Commissione.
Anche qui possibili complicazioni in vista: chi farà infatti le audizioni del candidato italiano e quando? Impossibile in giugno nella vacanza del Parlamento uscente, molto difficile in luglio con il nuovo in gestazione operativa. Si escogiteranno eccezioni alle regole? Si rimanderà a settembre l’audizione? Si inventeranno altri escamotage? Di sicuro nemmeno queste incertezze aiuteranno l’Italia a guidare un’Europa dalle idee confuse e dagli entusiasmi spenti.
Però c’è chi è convinto del contrario: che sarà proprio questo stato confuso e catatonico a dare al Governo Renzi la forza di ricominciare un’Europa diversa e migliore. Speriamo abbia ragione.

Il SOle 24 Ore 12.05.14

"Il delirio burocratico che uccide l’università", di Claudio Sardo

l’università che uccide se stessa È il titolo provocatorio di un post, pubblicato a fine aprile da due professori di filosofia a Tor Vergata, Stefano Semplici e Giovanni Salmeri. Un sasso che sta provocando una valanga. Anzitutto una valanga di adesioni sul web, con centinaia e centinaia di messaggi da tutti gli atenei italiani. Poi sono partite le lettere ai rettori (una di queste, sottoscritta da 90 presidenti di corso di laurea – su 120 – dell’università di Padova). E ieri, a sostegno della protesta, ha preso ufficialmente posizione anche Stefano Paleari, presidente della Crui, la conferenza dei rettori. I docenti non ne possono più della «burocrazia accademica», di quel “delirio” di carte, adempimenti, misurazioni, redazioni, descrizioni, a cui sono quotidianamente costretti e che stanno diventando ormai la loro attività principale, superando il tempo dedicato alla didattica e agli studenti. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la pubblicazione, da parte dell’Anvur (Agenzia nazionale di Valutazione del sistema universitario e della ricerca), delle «Linee guida per l’accreditamento periodico delle sedi e dei corsi di studio». Un documento di 57 pagine, il cui scopo è verificare il livello del sistema di «Assicurazione della qualità» nei singoli atenei. Un ulteriore supplemento di moduli, indicatori, misuratori, quesiti di complicata interpretazione. Nel documento il burocratese supera se stesso, fino a indicare dettagliatamente i giorni della settimana e gli orari in cui i componenti della Commissione di esperti per la Valutazione dovranno svolgere i loro incontri. Il presidente della Crui ha scritto al ministro che occorre «riflettere radicalmente» su queste Linee guida (del resto, il tam tam dei docenti arriva a minacciare un clamoroso blocco della didattica).

Lanciando il primo sasso, i due professori romani hanno precisato che non intendono affatto rifiutare o contrastare l’idea della valutazione
degli atenei e dei professori. «Non abbiamo paura – hanno scritto – di essere valutati, giudicati e controllati. È giusto che i professori universitari siano premiati quando operano bene e siano puniti e, nei casi estremi, perfino cacciati quando si sottraggono ai loro doveri verso gli studenti e verso la comunità scientifica». Ma ci sarà un modo meno burocratico e ossessivo di valutare? La stessa ministra Giannini, in commissione al Senato, ha riconosciuto che con l’Anvur «invece di semplificare, abbiamo complicato» e che ora bisogna assolutamente sforbiciare la burocrazia accademica.

L’Anvur è stata costituita nel 2006 con compiti «di valutazione esterna della qualità delle attività delle università e degli enti di ricerca». Una funzione tecnica, dunque, a fronte della responsabilità politica del ministero. Ma con la legge Gelmini, e il relativo regolamento di attuazione, l’Anvur ha acquisito veri e propri compiti di indirizzo. Ora spetta ad esso fissare «i requisiti didattici, strutturali, organizzativi, di qualificazione dei docenti e delle attività di ricerca, nonché di sostenibilità economico finanziaria». Il rapporto tra ministero e Anvur è stato di fatto ribaltato: l’Agenzia tecnica definisce le scelte e i criteri-guida, il ministero li applica e li fa applicare. Viste le scarse risorse dell’università e della ricerca, i criteri di valutazione diventano essenziali per i finanziamenti e gli organici. E così la burocrazia, con la sua pretesa di oggettività, si sta imponendo come padrona del campo.

La protesta che si è sviluppata sul web non si limita a chiedere un drastico disboscamento delle procedure previste della recenti «Linee guida». Punta al ritiro del decreto Ava (Autovalutazione, Valutazione periodica, Accreditamento) del 30 gennaio 2013, indicato come capofila della degenerazione burocratica. In effetti, per un profano che si avvicina a quel testo, c’è da essere increduli. Ecco una citazione del decreto, relativa ai requisiti per la docenza: «La quantità massima di didattica assistita si calcola, con riferimento al quadro Didattica erogata della SUA, per i vari corsi di studio dell’Ateneo, tenendo conto del numero di docenti di ruolo disponibili (professori ordinari e associati e ricercatori a tempo indeterminato e determinato) e del numero di ore di didattica assistita massima erogabili da ciascun docente, attraverso la seguente formula: DID = (Yp x Nprof + Ypdf x Npdf +Yr x Nric) x (1 + X)». Rettori e professori dovrebbero attenersi a questa formula algebrica. Sempre che sia possibile. Sempre che resistano alla disperazione e all’istinto di dare testate al muro.

Il premier Renzi e la ministra Giannini si sono posti l’obiettivo di combattere la burocrazia inutile e dispendiosa. Questo sarebbe un ottimo punto di partenza. Anche perché, dai messaggi che si leggono in rete, avrebbero come alleati la maggior parte dei professori. Che sanno bene quanto sia importante avere una valutazione efficace in un sistema universitario ormai aperto al mondo e alla competizione. Ma sanno anche che la qualità della burocrazia è, appunto, un indice primario della competitività del Paese.

L’Unità 12.05.14

"Test Invalsi: cosa c'è che non va e come si potrebbero cambiare", di Francesca Sironi

Poco supporto alle scuole. Domande scadenti. Nessun questionario per conoscere meglio genitori, studenti e insegnanti. Sovrapposizione fra prove nazionali e internazionali. Così da 30 anni le valutazioni standard dicono sempre le stesse cose delle nostre scuole. Senza che per questo l’educazione migliori. Ecco dove bisognerebbe intervenire, secondo due grandi esperti. È un rito che si ripete ogni anno. Col suo corredo di stress, fatica e proteste. I test Invalsi, introdotti per la prima volta 13 anni fa e diventati d’obbligo per tutti gli studenti italiani, dalle elementari alle superiori, catalizzano battaglie e speranze come pochi altri aspetti della scuola dell’obbligo. Valutare infatti è difficile. E se la misura viene imposta dall’alto può risultare odiosa. Quest’anno alla guida dell’ente è arrivata una nuova presidente, Anna Maria Ajello, che promette di voler cambiare le cose e di ascoltare i pareri di chi dissente. “l’Espresso” ha chiesto a due esperti di provare a spiegare, concretamente, cosa c’è che non va in queste prove. E come potrebbero migliorare. Così Bruno Losito , docente a Scienze della formazione all’Università di Roma Tre e per 15 anni responsabile dei quiz internazionali dell’Invalsi, e Clotilde Pontecorvo , professore emerito di Psicologia evolutiva alla Sapienza, raccontano cosa servirebbe, secondo loro, per rendere i test più giusti ed esatti. E quindi forse più benvoluti.

IO MISURO MA POI?
«L’aspetto forse più disperante, dei test Invalsi, è che gli elementi di fondo fotografati dai risultati di oggi sono gli stessi degli anni ’70», inizia Losito: «Gli esiti nazionali sono oltremodo prevedibili: la distanza del Sud dal Nord, l’arretratezza delle regioni meridionali … Uno si chiede a cosa serve continuare a insistere sulla valutazione se poi non cambia niente. È frustrante». «Io c’ero, 30 anni fa, nella squadra che ha avviato le prime prove standard per misurare le competenze degli alunni», racconta Pontecorvo: «E in effetti ciò che scoprimmo allora a livello nazionale è purtroppo quello che emerge ancora oggi: le ineguaglianze derivano dalla collocazione territoriale». Ma è colpa dei test se alle loro domande gli studenti falliscono a seconda di dove sono nati? O della politica che non interviene a riguardo? «Bisognerebbe definire a cosa servono i quiz», risponde Losito: «Se servono per programmare politiche nazionali oppure piuttosto per permettere ai docenti della singola scuola di intervenire sulle carenze. Ma per questo ci sarebbe bisogno di supportare le classi, dare loro esperti, fondi, tempo. Da 13 anni ormai le prove Invalsi sono entrate nelle scuole. Perché non finanziare una ricerca che studi e analizzi sul serio se sono servite a qualcosa? Se a professori e dirigenti scolastici sono state utili per cambiare oppure no? Se hanno fatto avviare miglioramenti oppure sono rimaste nei cassetti?».

QUIZ VS CONOSCENZE
L’altro tema eternamente discusso riguardo alle prove è loro sostanza. Di imbuti a crocette, fondamentalmente, domande chiuse a cui rispondere attingendo alle proprie conoscenze di grammatica, matematica, logica. Ma chiuse. «Io ho sempre difeso le prove scritte», spiega Pontecorvo: «Ho insegnato per 15 anni in un liceo classico e dalla mia esperienza, oltre che dai nostri studi, ho sempre tratto l’idea che le prove scritte siano più oggettive delle interrogazioni orali, nelle quali il docente mette per forza la sua parte. L’interrogazione serve per interagire, approfondire, ma non è la forma migliore per valutare. Certo, poi c’è prova scritta e prova scritta». Ovvero c’è l’abisso che separa una composizione a soggetto libero da un quiz, e da un quiz raffazzonato a uno studiato nel dettaglio. « Gli attuali test Invalsi sono molto più “chiusi” di quelli internazionali, paradossalmente», commenta Losito: «E questo per un evidente problema di costi e di tempo: vogliono fare prove universali, dirette a milioni di studenti, e correggerle in pochi mesi per restituire i risultati alle scuole entro ottobre. Così è impossibile, anche assumendo ricercatori precari. La verifica delle risposte a domande aperte è uno dei costi maggiori nel budget Invalsi. Ma sono anche le domande più importanti». Quindi? « È davvero necessario sottoporre questi test a ogni alunno in ogni classe ogni mese di maggio di ogni anno? », si chiede il docente di Roma Tre: «Non sarebbe sufficiente proporre le prove con cadenza biennale, per dare spazio a test più aperti, più complessi, quindi a correzioni più attente, così come ad analisi più profonde sui risultati da inviare ai docenti e ai dirigenti scolastici?»

LE DOMANDE CHE MANCANO
C’è un altro vuoto nei mega-test che impegnano in questi giorni bambini e ragazzi italiani. Ed è quello del contesto: «Anche qui, assurdamente, i test internazionali sono più attenti dei nostri», spiega Losito, che ne è stato responsabile per 15 anni: «Insieme alle domande di matematica e italiano c’è sempre un questionario rivolto agli studenti e ai loro genitori, per poter confrontare i risultati col contesto di provenienza degli alunni. Nelle prove nazionali questo aspetto manca». «Bisognerebbe averlo chiaro, e ribadirlo ogni volta: questi test servono a misurare. Non a valutare», continua Pontecorvo. Sembra una differenza lessicale, più che sostanziale, visto che il ministro che ha introdotto le prove, Letizia Moratti, li chiamava per l’appunto “ strumenti di valutazione ”, e che i dirigenti scolastici mostrano fieri i risultati sui siti web d’istituto se sono eccellenti o li nascondono se sono scarsi. «Questo è un grave errore delle istituzioni», afferma la docente della Sapienza: « Per controllare e valutare sarebbero necessari molti altri valori che ora non entrano nei risultati. E riguardano gli alunni, le loro famiglie, la posizione della scuola, il contesto. Soprattutto non servono per valutare gli insegnanti, come suggeriscono invece alcuni dirigenti ».

DOPPIONE INTERNAZIONALE
Nel 2012 l’istituto Invalsi ha speso complessivamente 24 milioni e 962 mila euro. Per i prossimi tempi calcola le sue necessità finanziarie in 16 milioni e 960 mila euro all’anno. Di questi, quattro serviranno per le prove universali nazionali; due per quelle internazionali; 850 mila euro andranno a quelle campionarie; e due milioni e mezzo infine serviranno a “supportare” le scuole nella loro “autovalutazione”. «Il confronto internazionale è indispensabile», sostiene Pontecorvo. «Ma nella fotografia che dà del Paese a livello centrale si sovrappone agli esisti delle prove nazionali », aggiunge Losito. Quindi? Si tratta di un costoso doppione? «In parte sì», risponde il docente romano: «Ed è una sovrapposizione che va risolta. Il campione selezionato per i confronti internazionali probabilmente è troppo vasto. Si potrebbe risparmiare ed avere ugualmente un parametro con cui confrontare i nostri risultati a quelli degli altri Paesi dell’Ocse».

NAUSEA DA TEST
L’ultimo rischio, il più avvertito, forse, dai docenti, riguarda le conseguenze che le prove hanno nelle classi. «I nostri studenti hanno un tasso altissimo di risposte non date», spiega Pontecorvo: «Ed è dovuto al fatto che non capiscono le domande. Non sono abituati a quell’impostazione, alla formulazione dei problemi proposta dagli standard internazionali. Il rischio è che gli insegnanti allora si riducano al “teaching to the test”, ovvero ad addestrare gli alunni a rispondere ai quiz piuttosto che a rafforzare le competenze di base che questi richiedono . Una prospettiva pedagogicamente orribile». Le prove intanto aumentano però, risicando tempo all’insegnamento, fra campioni, test nazionali, confronti internazionali e questionari vari. Richiedendo straordinari ai docenti per correggere e verificare: «Il rischio è che le classi arrivino a non sopportare più l’idea di doversi sottoporre ai test », racconta Losito: «Come già sta avvenendo in paesi come la Gran Bretagna. Nel 2005, quando chiamavamo le scuole per chiedere di partecipare a una prova internazionale non si tirava indietro nessuno. I miei colleghi di oggi dicono che ora chiamano e iniziano a trovare resistenze. Continuando così andranno in sovraccarico, e senza un serio incentivo per farlo».

L’Espresso 11.05.14

"Decreto Poletti perché dico sì", di Cesare Damiano

Le correzioni al Decreto lavoro votate dalla Camera restano confermate. I cambiamenti introdotti dal Senato, anche se presentano alcune criticità, non stravolgono le modifiche volute dal PD. In alcune parti il testo risulta migliorato, come nel caso della formazione per gli apprendisti. Restano confermate le proroghe dei contratti a termine che da 8 passano a 5 e che sono complessive nell’arco dei 36 mesi e non collegate ai rinnovi; resta la sanzione, nel caso di superamento del tetto del 20% di contratti a termine, non prevista nel decreto iniziale, che diventa pecuniaria (su questo cambiamento avvenuto al Senato avevamo già dato la nostra disponibilità al ministro Poletti nella riunione di «maggioranza» tenutasi il giorno della prima fiducia alla Camera: mediazione rifiutata all’epoca dal Ncd); il fatto che il calcolo del 20% sia esclusivamente correlato ai dipendenti a tempo indeterminato (non includendo quindi tipologie come il lavoro a progetto, l’interinale o altre forme di assunzione flessibili), riduce il numero di contratti a termine utilizzabili dalle imprese; resta il diritto di precedenza che verrà richiamato in forma scritta nel contratto di assunzione a termine e la norma che prevede che il congedo di maternità concorra a determinare il medesimo diritto, oltre che nel caso di assunzioni a tempo indeterminato, anche in quelle a tempo determinato (questo punto è stato fortemente voluto dalle parlamentari del Pd); è confermato, per l’apprendistato, l’obbligo della formazione da parte delle Regioni e on the job (in forma scritta e sintetica) che il decreto aveva cancellato e scompare, positivamente, l’assolvimento del datore di lavoro dall’obbligo formativo nel caso in cui la Regione non provveda entro 45 giorni dall’assunzione; rimane la sperimentazione, da tempo sostenuta dal Pd, dei contratti di apprendistato per giovani che frequentino il secondo biennio della secondaria superiore, nella logica dell’alternanza scuola-lavoro; resta confermata la stabilizzazione del 20% degli apprendisti, anche se le imprese che dovranno applicare la norma debbono avere almeno 50 dipendenti e non 30 come avevamo indicato alla Camera: questo rimane un punto di critica nei confronti della mediazione del governo.

Il tentativo della destra di rimettere in discussione il testo (l’argomento più volte usato è stato quello di riportarlo alle origini) è dunque fallito di fronte alla tenuta unitaria del Partito democratico alla Camera ed al Senato. Il governo ha presentato otto emendamenti, di cui due maggiormente problematici. Il primo si riferisce alla sanzione, già ricordata, sui contratti a termine che è il punto di maggiore critica dei sindacati (Cgil, Cisl e Ugl, mentre la Uil non ha sollevato obiezioni su questo argomento). Occorre rilevare che nella prima versione del decreto, come abbia- mo già detto in precedenza, la sanzione non veniva indicata: l’abbiamo fatta inserire co- me Pd, prevedendo, in caso di superamento del 20% del tetto dei contratti a termine, l’assunzione a tempo indeterminato del lavoratore. La richiesta del cambiamento da parte di Scelta Civica e Ncd aveva indotto il ministro del Lavoro a proporre come mediazione una sanzione pecuniaria per chiudere definitivamente il testo del decreto, sulla quale il Pd aveva dato il suo consenso. Il secondo cambiamento riguarda l’innalzamento da 30 a 50 dipendenti del tetto a partire dal quale scatta l’obbligo di stabilizzare almeno il 20% degli apprendisti già al lavoro nel caso di nuove assunzioni. Per noi si tratta di una correzione sbagliata. Le altre sei modifiche sono condivisibili e alcune di restyling: nel preambolo al decreto si fa riferimento, positivamente, al contratto di inserimento a tempo indeterminato contenuto nella delega governativa; si certifica il diritto di precedenza che deve essere espressamente richiamato nell’atto scritto dell’assunzione a termine; si precisa che sono esclusi dal limite percentuale i contratti a termine stipulati da istituti pubblici e privati di ricerca per attività scientifica o tecnologica e che i medesimi contratti debbano avere una durata che coincide con quella del progetto: modifica che condividiamo; si chiarisce il ruolo della formazione regionale, con comunicazione di sedi e calendari di attività, che può anche avvalersi delle imprese che si sono dichiarate disponibili e delle loro associazioni, ai sensi delle linee guida del governo Letta del febbraio 2014: si tratta di un miglioramento che rafforza l’obbligatorietà della formazione; si prevede a livello regionale e per le province autonome di Trento e Bolzano, l’apprendistato stagionale nel caso di giovani in alternanza scuola-lavoro; si perfeziona il regime transitorio nel passaggio dalla vecchia all’attuale normativa. Come si vede si tratta di correzioni che non intervengono sulla sostanza del provvedimento, alcune delle quali richieste dal Pd.

Il decreto, nella sua versione definitiva con le correzioni di Camera e Senato, dovrà trovare una sua rapida conversione. La discussione in Aula alla Camera è prevista da oggi. Il testo è stato licenziato dalla Commissione Lavoro della Camera venerdì scorso e ha visto le opposizioni abbandonare la votazione degli emendamenti con l’accusa al governo di avere «blindato» il testo. È molto probabile che venga posta una nuova fiducia per evitare una sua decadenza: l’ultimo giorno utile per la conversione è il 19 maggio. Il monitoraggio dopo 12 mesi dall’approvazione, richiesto ed ottenuto dal Pd, ci dirà se questo decreto produrrà, come auspica il governo, un incremento delle assunzioni a tempo indeterminato ed un ridimensionamento dell’utilizzo delle forme di assunzione più precarie: a quel punto potremo fare un bilancio oggettivo. Quello che è chiaro è che l’occupazione tornerà a crescere soltanto se il governo saprà creare un contesto di robusto e convinto sostegno allo sviluppo, all’incremento dei consumi ed alla diminuzione della pressione fiscale a carico delle imprese.

L’Unità 12.05.14

L’Unità 12.05.14

Renzi chiama Cantone all’Expo: controllo sugli appalti «puliti», di Vladimiro Frulletti

«Vogliono usare la vicenda Expo contro il governo e il Pd? Bene, allora ci salto sopra. Ci metto la faccia». Renzi ha deciso di giocarsi all’attacco la partita dell’Expo. E visto che la partita non s’annuncia semplice farà scendere in campo anche il neopresidente dell’autorità anti-corruzione Raffaele Canto- ne a cui ieri ha chiesto di seguire i lavori per l’Expo. E visto che Grillo e i 5 Stelle dicono che va fatta saltare l’esposizione, che è tutto un disastro, che già si sapeva che l’Italia non sarebbe riuscita nell’impresa, il premier coi suoi si dice pronto a scommettere che Milano ce la farà e che certo non sarà lui, ora, a mollare. «C’è chi gioca alla meno, che vuol far credere che l’unica strada è la disperazione, che è tutto finito. Invece dobbiamo dare un messaggio di speranza non ce lo chiede il nostro passato ce lo chiedono i nostri figli», scandisce da Monfalcone all’inaugurazione della nuova nave da crociera della Fincantieri.
La vicenda Expo e la relativa inchiesta della magistratura milanese preoccupano, perché potrebbero portare ac- qua alla propaganda di Grillo. Ma sono considerate anche un’occasione, come direbbe Renzi, per «cambiare verso». «È un’occasione troppo grossa per buttarla via. Posso perdere due punti percentuali, ma l’Italia non può perdere questa opportunità», spiega ai suoi. Non a caso domani a Milano il premier incontrerà anche commercianti e imprenditori per ribadire che il governo l’Expo lo vuole fare e che non ci sta a farsi battere dal pessimismo. Non è mi- ca un caso che se i 5 Stelle stanno alzando la bandiera dei politici «tutti uguali» e dell’irriformabilità del sistema tanto da chiedere che l’Expo non si faccia più. Però, ragiona Renzi, una risposta forte del governo sarà un nuovo messaggio per chi nel cambiamento ci spera. Per Renzi quindi anche l’Expo deve essere la prova che è davvero «la volta buona», come twitta appena arrivato a Monfalcone assieme alla presidente del Friuli Debora Serracchiani. E far vedere che, appunto, proprio come quegli operai che hanno costruito la nave della Fincantieri «ci rendono orgogliosi di essere italiani, ci fanno andare avanti, tengono alta la bandiera dell’Italia». Proprio come fanno le migliaia di alpini che incontra poco dopo a Pordenone e dove la gente lo ferma per invitarlo a non mollare a portare avanti le riforme.
E il tricolore per Renzi non potrà certo essere ammainato fallendo l’occasione di quella vetrina mondiale che è l’Expo 2015. Ecco perché di fronte a vicende come l’Expo è indispensabile dare risposte immediate e convincenti. Da qui la decisione del premier di andare immediatamente a Milano per fare il punto con gli amministratori locali, il commissario Giuseppe Sala e il ministro Maurizio Martina che ha la delega all’esposizione universale. Da qui la scelta di farsi accompagnare anche da Cantone. Non una passerella, ma una visita per mettere in campo subito azioni concrete. Il gruppo di Palazzo Chigi che doveva seguire dal punto di vista tecnico-operativo il lavoro del commissario è già pronto e domani entrerà in funzione.
Poi però c’è la faccenda penale. L’obiettivo sarà di sganciare il destino dell’Expo 2015 da quello delle inchieste. «Chi ha sbagliato deve pagare», è la posizione di Renzi. La piena fiducia nella magistratura che Renzi ha ribadito fin dall’inizio. Tuttavia non si può da- re a chi riceve o dà mazzette anche il potere di far fallire Expo. Sarebbe una ammissione di impotenza. La dimostrazione che l’Italia è irriformabile. Una bandiera per Grillo. Cioè l’esatto contrario della «svolta buona» promessa dal premier. Da qui la decisione di puntare tutto sulla trasparenza con Cantone e l’autorità anti-corruzione per evi- tare d’ora in avanti qualsiasi zona d’ombra che possa rallentare ulteriormente l’opera milanese.
Certo le dimensioni sono assai diverse ma quello che è successo per il nuovo teatro dell’opera a Firenze spinge Renzi all’ottimismo. Anche in quel caso c’era stato un momento in cui tutto sembrava perduto a causa di chi s’era infilato dentro l’opera per farsi i propri malaffari. Poi invece il teatro è stato realizzato e sabato sera è stato inaugurato proprio dal premier. Prima però, proprio perché come Sindaco aveva deciso di metterci la faccia, era stata fatta piazza pulita di tutti i responsabili coinvolti o anche chiacchierati.

L’Unità 12.05.14