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"È una battaglia dello Stato", di Marco Bucciantini

L’intervento del Presidente della Repubblica sui fatti di sabato ridimensiona il ruolo dello Stato. Additare il perverso rapporto fra le società di calcio e gli ultras è uno sprono sul quale vigilare ma fuori e dentro l’Olimpico si è consumato il dramma di un sistema-Paese. Sarebbe cinico e poco utile non considerare questa realtà. E solo lo Stato può intestarsi una definitiva battaglia contro l’inquinamento di uno spaccato di vita pubblica e sociale qual è il calcio in Italia. Per ragioni essenziali alla sua nobile esistenza e legittimità: lo Stato come titolare delle politiche che permettono un pieno diritto di cittadinanza. Non solo inasprendo le sanzioni, come viene promesso a ogni rovescio (come se i divieti non ci fossero), ed è inutile ricordare i 45 milioni spesi in questo «capitolo» se poi si depositano i tifosi a 4 chilometri dallo stadio, obbligandoli alla processione in città, con tutti i rischi annessi: nei Paesi civili i «mezzi» avvicinano gli appassionati alle strutture, senza ghettizzarli altrove e poi – magari – scortarli.

Non ci piace, non ci basta, l’approccio repressivo (che fu decisivo in Inghilterra). È un desiderio stucchevole come tutte le profezie reiterate ma è anzitutto un “lavoro culturale”: fabbricare un nuovo tessuto connettivo. Il Paese è immiserito (economicamente, intellettualmente) ma non è violento. Ci sono società assai più pericolose, dove si va a scuola armati per sparare ai coetanei (negli Usa) ma dove l’evento sportivo è vissuto in modo festoso e la partecipazione dell’avversario è riconosciuta come fondamentale, e per questo rispettata. In breve: si frequenta e si celebra un momento condiviso, «nazionale», non si partecipa a un rituale di tifo. E sulla consegna degli stadi a questo rituale (che poco alla volta si è elevato a Repubblica autonoma: si è visto) la colpa dello Stato è evidente. I provvedimenti degli ultimi tempi hanno definitivamente escluso dagli spalti le famiglie e gli appassionati occasionali: dai terribili treni speciali alla tessera del tifoso, ogni cura ha nutrito il male alimentando il tifo organizzato, fanatico e professionale, di fatto esaltando il ruolo padronale degli ultras dentro strutture che ancora le società di calcio non riescono a possedere: altro “ritardo” del Parlamento, che ha legiferato sulla materia dopo aver congelato la norma per 7 anni. Da quale piedistallo lo Stato oggi chiede alle società di recidere questo legame?

C’è poi il compito più ambizioso: ricostruire il senso della legalità che è il contorno di una comunità, mentre la cultura ne è il concime. Quel perimetro è stato varcato da tutti: dai tifosi, che per chiarirlo lo scrivono anche sulle maglie, dove si invertono vittime e carnefici. E sulle maglie perfino i protagonisti oltraggiano le sentenze: il «32» rivendicato dalla Juventus cresce dentro lo stesso disprezzo delle regole e delle sentenze che vorrebbero riaffermarle, e si fa beffe del senso di responsabilità che i «forti» accumulano su loro stessi. Ma quel rovesciamento della verità (che in fondo è distruzione democratica) è lo stesso che anima il revanscismo dei poliziotti che applaudono gli assassini di Aldrovandi: ancora una volta lo Stato non può salire sul piedistallo. Deve scendere, e lavorare sodo.
Prima ancora di chiedere al mondo del calcio la «separazione» da chi passeggia oltre quella frontiera deve esso stesso separarsi in senso etico, marcare un territorio «giusto», «onesto», «bello» e slegare queste parole assolute e confuse dalle loro negazioni perché questa separazione è mancata proprio alla politica, all’arte di governare le società e la complessità. Perché a Roma non si è consumata la tragedia del calcio ma si è raccontata la penosa autobiografia di un Paese.

L’Unità 07.05.14

“Basta trabocchetti. Dal prossimo anno cambia il test Invalsi”

Mai più domande trabocchetto, mai più quiz inutilmente arzigogolati: la promessa è della presidente dell’Invalsi Anna Maria Ajello alla vigilia della nuova tornata di test che prendono il via da oggi coinvolgendo oltre due milioni di studenti fino a giugno. Gli ultimi a sostenere la prova saranno i ragazzi di terza media per i quali il test sarà prova d’esame.

Coni test Invalsi tornano anche le polemiche. Lei ha scritto ai docenti alla vigilia delle prove accennando allo sviluppo di pratiche didattiche più efficaci. Che cosa vorrebbe cambiare? «I test vengono rivisti regolarmente e cambiati perché, ad esempio, alcune formulazioni sono troppo complicate. Ho provato a leggere le domande del test di seconda elementare, in alcuni casi ho dovuto leggerle due volte prima di capire la domanda. Non è ammissibile».

Sono le domande-trabocchetto. «Non si possono effettuare le prove sulla base di tranelli o furbizie. Non vanno rese più difficili i test ricorrendo a queste complicazioni».

Generazioni intere di futuri studenti la ringrazieranno. Renderà finalmente meno ostiche le domande? «Sto già incontrando gli esperti per capire come all’interno del quadro delle indicazioni nazionali si possano mettere a punto delle prove ben fatte».

È una promessa?Dal prossimo anno quiz più semplici? «Sì, è una promessa».

Resta l’opposizione dei sindacati. Oggi scioperano i Cobas contro quello che definiscono «l’insensato rito del quiz-indovinello». «E’ vero che c’è sempre opposizione ai test ma è anche vero che si tratta di un’opposizione molto ridimensionata rispetto a quanto avveniva in passato. È anche vero che, se per quelli che hanno un po’ di anni come me, un tempo la valutazione nemmeno esisteva, ora, invece, si tratta di un tema di cui discutere, da modificare semmai, ma da cui non si prescinde. Non è un risultato banale ed è il frutto del lavoro di questi anni da parte anche degli insegnanti che si sono lasciati coinvolgere. Senza di loro questo sistema non starebbe in piedi, voglio sottolinearlo».

Non tutti sono convinti,però. «Ma anche chi ha dei dubbi fa svolgere regolarmente le prove e molti di loro riescono anche ad usare i dati».

Il nodo è proprio questo: come vengono poi usati i dati? «Chi sostiene che i test Invalsi servano a valutare gli insegnanti irrobustisce solo le critiche. Servono per valutare le competenze acquisite e per confrontare i dati in modo da mettere a punto indicatori per evidenziare il peso che le diverse variabili socioeconomiche, socio- culturali e familiari possono avere nel determinare i risultati ottenuti» .

La ministra dell’Istruzione Stefania Giannini chiede il coinvolgimento dei dirigenti scolastici nella valutazione. Lei che ne pensa? «In una buona scuola il dirigente spesso fa la differenza, ha una funzione fondamentale, insostituibile. Va definita meglio la valutazione del suo operato in base alle specificità della scuola. Si deve riuscire a valutare la quotidianità del suo lavoro, una quotidianità che deve essere chiaro però che è molto complessa».

C’è un’altra novità di cui si parla da anni, l’introduzione del test Invalsi all’ultimo anno delle superiori. A che punto siete? «Siamo in una fase di sperimentazione tra proposte diverse. Siamo ancora in mare aperto, dobbiamo fare in modo che la comunità scientifica raggiunga un accordo. Ci sono ancora molti nodi da sciogliere: deve essere una prova di opere come avveniva negli istituti tecnici, o di competenza? Uguale per tutti o diversa in base agli indirizzi di studio? Vorrei che la discussione su come dovrà svolgersi la prova avvenisse sotto forma di dibattito pubblico». I tempi? «Di sicuro non brevi».

www.lastampa.it

I violenti di famiglia", di Emanuela Audisio

L’Italia si è incurvata. Da tempo. Guarda, assiste, subisce. Dovrebbe non giocare più, non a queste condizioni. Invece si volta dall’altra parte, fa passare la nottata, e il giorno dopo piange e si lamenta. I cattivi le hanno fatto male. Cosa si fa? I vertici sportivi (Giancarlo Abete, Federcalcio, Maurizio Beretta, Lega di serie A e i loro predecessori) preoccupati solo delle poltrone e di non assumersi un minimo di responsabilità fanno la faccia triste, misurano distanze, diventano sociologi: «È la società ad essere violenta, gli incidenti sono avvenuti fuori dallo stadio». In pratica: noi non c’entriamo. Culturalmente chi amministra lo sport è colpevole di ignavia. Il tifoso è un appassionato che sbaglia, anzi che esagera, non un delinquente. Va capito, e dai, vuol bene alla squadra. I dirigenti del calcio che ora fanno le vittime, lo sono eccome. Ma di se stessi, della loro vigliaccheria: mai una reazione in tutti questi anni in cui bruciavano treni, quartieri venivano devastati, e negli stadi entrava di tutto: motorini, svastiche, asce, odio, criminali. Solo in Sudamerica e in qualche paese sottosviluppato c’è la stessa situazione. In America appena un proprietario di una squadra di basket (i Clippers) ha parlato con toni razzisti dei neri, la Lega lo ha squalificato a vita. Spendeva miliardi, eppure è stato cacciato. In Italia il calcio (campione del mondo nel 2006) non si è mai dato una casa degna, si è sempre accontentato della sua pochezza. Stadi vecchi, che invitano ad essere bestie dietro al recinto, non spettatori. Dove le bestie ultrà imprigionano il paese che alza le mani, si arrende, e tratta: vi cediamo il comando, ma non esagerate. Come dire ai banditi: questa è la banca, prendete solo quello che vi serve. In questo momento, secondo la classificazione Uefa, in Italia non c’è un solo stadio di categoria élite, ce ne sono quattro a 4 stelle.
In Germania invece 12 sono di élite e 10 a quattro stelle. Sarà proprio un caso che Guardiola è andato ad allenare lì? I nostri ormai sono stadi spettrali. Un territorio nemico, dove basta una sciarpa sbagliata e ti accoltellano.
Poi c’è lo Stato, le forze dell’ordine. Lo Stato ha sempre considerato gli ultrà come un fuoco amico. Dagli orari regolari. Per questo comodo. Ne conosce gli appartenenti e il territorio in cui si muovono. Mentre la violenza sociale e politica viene repressa, quella da stadio viene sopportata. È a tempo. Controllabile. Non sono nemici dello Stato, solo dementi che giocano a fare la guerra, pericolosi nella loro feroce ignoranza. Che se la sbrighino tra curve, facciano i conti tra di loro, noi stiamo a guardare. Trattino, così si calmano, e si evitano guai peggiori. Questo è il patto, che la polizia agevola. Voi rapinate la banca senza sparare, e noi non vi inseguiamo. Non è una politica, è una resa di autorità. Ultrà e capitani si parlano, poi decidono i teppisti. Gli allenatori che se ne devono andare (Giampaolo a Brescia), se si deve giocare (finale Coppa Italia, derby Lazio-Roma). Genny ‘a Carogna è il leader di un pezzo indipendente delle Curve d’Italia. Ivan il terribile Bogdanov, capo ultrà che nell’ottobre 2010 a Genova decise di far sospendere Italia-Serbia, fu arrestato, Genny invece è tornato a casa. Non è uno straniero, ma uno di famiglia, una controparte. All’estero il calcio è bello da guardare, riesce perfino a fare ironia su una banana razzista. In Italia fa schifo, soprattutto perché nessuno ha voglia di giocare seriamente.

La Repubblica 06.05.14

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L’intervista Nella mente dell’Ultrà “altro che Black bloc l’anti Stato siamo noi e la violenza vincerà”, di PAOLO BERIZZI

Ha ventisei anni, è un universitario fuoricorso, non ha i muscoli pompati e non assomiglia per niente a Gennaro ‘a carogna: “Quelli che usano ancora i nomignoli di battaglia sono la vecchia guardia, ultraquarantenni destinati ad uscire presto dal giro, gente che pensa più agli affari che a scatenare l’inferno”. Lui invece è un animale da stadio di ultima generazione. Giacca nera con cappuccio come segno di riconoscimento ma anche per non farsi identificare. A volte il casco, nero pure quello. “Ti ripara, però negli agguati limita la visuale”. Amante della guerriglia e dello scontro. Nel calcio ma anche fuori. “Perché io e tanti altri abbiamo deciso di uscire dal recinto delle partite. E chi voleva schedarci ora deve fare i conti con noi nelle piazze e nei cortei”. Diceva un capotifoso, uno della vecchia guardia, collezionista di scontri “a mani nude” negli anni ‘90, che fare la guerra nel tuo stadio è meglio che fare l’amore con la tua donna (lui la declinava in altri termini). È vero? «Se fai i casini è perché ti piace e ci stai dentro e in quel momento lì stai bene».
Adrenalina a fiumi, forse. O no?
«Ti sale una cosa qua». Preme con il dito all’altezza dello sterno, poi lo fa scorrere fino alla gola mostrando la scritta brechtiana “dalla parte del torto” e un altro motto — “a guardia di una fede” — tatuati con inchiostro nero e blu sull’avambraccio.
Che cosa sale?
«È una specie di scarica che parte dalle gambe e divampa nella testa: e a quel punto parti. Parti e basta. Contro gli sbirri o contro i tuoi nemici. La tua storia è partire e fare danni. Hai l’asta della bandiera che è una mazza di legno o di ferro rivestita di plastica. Le hai viste a Roma? Hai bombe carta e fumogeni. E tiri su tutto quello che trovi: pietre, bottiglie, pezzi di metallo, cartelli stradali, materiale da cantiere».
L’ultrà di ultima generazione parla con il tono disincantato di un peter pan che all’infanzia senza fine ha sostituito una violenza sporca, feroce. Chiamatelo Fabrizio o come volete. Ventisei anni, un corpo per niente pompato, Atalanta e molto altro che ha ancora meno a che fare col calcio. Giacca impermeabile nera con cappuccio, marchio tecnico ispirato a una parete da arrampicata che è diventato un must per gli ultrà: un po’ divisa perché anonima («nei filmati non sei riconoscibile»), e un po’ segno di riconoscimento, «per distinguersi dai tifosi “normali” ». A vederlo Fabrizio, universitario fuoricorso, pare l’opposto di Genny ‘a carogna. Fisicamente, ma anche come baldanza. Dice cose da abisso umano ma senza ostentare; un suo “socio” di incidenti dice che se fosse un animale sarebbe una iena: mammifero che si ciba prevalentemente di carcasse.
Niente nome di battaglia?
«I nomignoli sono superati. Gli ultrà che si fanno ancora chiamare con un soprannome, tipo banditi o mafiosi, sono gente sopra i 45 anni. Capi, sì. Come “Genny” o come “Gastone” (Daniele De Santis, ndr). Ma destinati a uscire dal giro. Perché i nuovi sono diversi: meno cinema (protagonismi, ndr) e più scontri. Come era una volta. Prima che nascesse la figura del capotifoso, che in molte curve pensa più a fare soldi che scontri».
Ci racconta la sua ultima guerriglia?
«Domenica scorsa a Bergamo. Atalanta-Verona. Aspettiamo i veronesi, sono in tanti. Gli sbirri circondano il piazzale dello stadio di fronte al settore ospiti. Partiamo e andiamo contro i poliziotti per cercare lo scontro coi veronesi che stanno arrivando in pullman. Iniziamo a lanciare. Quando lanci una bomba carta lo fai per aprirti il varco. Per spaccare » .
A Roma hanno sparato. Colpi di pistola come in Sudamerica. Nel 2014. Allo stadio. Per il calcio. Follia.
«Brutta storia. Succede se decidi che vale tutto, anche le pistole che in Italia non si erano mai viste. Ognuno si dà il suo codice. Ho iniziato a fare scontri che avevo 15 anni, mi hanno sempre detto che i coltelli sono da infami e le pistole le usano solo i rapinatori.
Non do giudizi, non so “Gastone” che cosa avesse nella testa. Comunque i napoletani di oggi fanno paura, sono i più tosti. Paragonabili solo a certe tifoserie dell’Europa dell’Est ».
Torniamo a quella «scarica che sale». Quante volte la sente? Solo allo stadio?
«La senti tutte le volte che decidi di andare dove c’è casino. Chi crede che gli ultrà li trovi solo allo stadio è rimasto indietro di cinque anni almeno».
Che cosa vuole dire?
«Oggi si va dappertutto. Ci sono manifestazioni che come disordini valgono dieci partite. Se ci sono incidenti lo sai prima. E vai. Io sono nato col calcio. Mi piace lo stadio, la rivalità tra gruppi. Ma negli ultimi anni ho partecipato a decine di cortei perché sapevo che c’era casino. Dagli “Indignati” ai “Senza casa” ai “Forconi” alle proteste studentesche. E i No-Tav. L’anno scorso ero in Val di Susa ogni fine settimana. Dove ci sono scontri ci sono anche gli ultrà. Fanno da supporto».
Perché vi siete trasformati in teppisti multitasking, buoni — si fa per dire — per tutte le occasioni?
«Abbiamo alzato il tiro. Siamo usciti dai perimetro dello stadio. Lo Stato aveva deciso di eliminarci con la repressione. Avevamo detto che non ci saremmo arresi e infatti molte tifoserie la tessera del tifoso l’hanno boicottata. Per protesta a Bergamo abbiamo assaltato Maroni con le molotov. Nessun tesserato. Niente trasferte. Niente scontri fuori casa».
E quindi?
«Lo Stato adesso ci ritrova nelle piazze. I napoletani a Chiaiano per l’inceneritore, quelli del Nord a Torino coi Forconi o in Val di Susa, romani fiorentini e livornesi a Roma coi “Senza casa”. Voi li chiamate black bloc, ma sono ultrà».
La politica c’entra?
«Zero. Al vero ultrà della politica non gliene frega niente. In curva i politicizzati ci sono, ma chi vuol far politica non rischia il culo sotto una bomba con dentro i chiodi».
Il ministro degli Interni Alfano, dopo Roma, pensa un Daspo a vita per gli ultrà più violenti.
«Il Daspo è una pena ridicola. Negli anni ‘80 e ‘90 c’era il carcere. Comunque più lo Stato alza il livello della repressione e più le curve alzano il livello della violenza. Vediamo chi vince».
Ma che senso ha tutto questo?
«La gente è incazzata. Prima aveva voglia di aggregazione, adesso di fare casino».
Perché vi vestite tutti di nero, senza più sciarpe né vessilli coi colori della squadra?
«Gli sbirri ti riconoscevano da una sciarpa o da un cappellino. Così, tutti in jeans e giubbino nero, è più difficile. Anche il casco se lo metti è nero. Ti ripara, però negli agguati toglie la visuale».

La Repubblica 06.05.14

Fossoli, Ghizzoni “Il campo sia dichiarato monumento nazionale”

Mercoledì 7 maggio a Roma alla Camera si proietta il documentario “Crocevia Fossoli”. L’ex campo di Fossoli sia dichiarato monumento nazionale: è la richiesta, contenuta in una proposta di legge, depositata nei giorni scorsi, a prima firma Manuela Ghizzoni: “Crediamo – spiega la vicepresidente della Commissione Cultura della Camera – che il valore culturale e morale del Campo non sia ancora stato pienamente affermato: è per questo che chiediamo che venga dichiarato monumento nazionale”. Tra l’altro proprio l’ex campo di Fossoli sarà protagonista, mercoledì pomeriggio, alla Camera, a Roma, di un seminario nazionale nel corso del quale verrà proiettato il documentario dal titolo “Crocevia Fossoli”, alla presenza del ministro per i Beni e le Attività culturali Dario Franceschini.

L’ex campo di smistamento e transito di Fossoli torna al centro del dibattito politico e culturale. Nel pomeriggio di mercoledì 7 maggio, a Roma, presso la sede dei Gruppi parlamentari della Camera, verrà presentato, nel corso di un seminario, il film documentario di Federico Baracchi e Roberto Zampa “Crocevia Fossoli”, prodotto dalla Fondazione Fossoli. All’incontro interverranno, tra gli altri, il ministro dei Beni e delle Attività Culturali Dario Franceschini, la vicepresidente della Camera dei deputati Marina Sereni, il sindaco di Carpi Enrico Campedelli, il presidente della Fondazione ex Campo di Fossoli Lorenzo Bertucelli e la direttrice della Fondazione Marzia Luppi. Nei giorni scorsi, intanto, è stata depositata una proposta di legge, prima firmataria la deputata carpigiana Pd Manuela Ghizzoni, che chiede che l’ex Campo di Fossoli sia dichiarato monumento nazionale. La proposta di legge – che prevede anche un contributo straordinario per interventi di recupero, mantenimento e conservazione del Campo – porta la firma anche dei deputati modenesi Pd Davide Baruffi, Edoardo Patriarca, Giuditta Pini e Matteo Richetti. “Siamo particolarmente orgogliosi che la storia dell’ex Campo di Fossoli approdi alla Camera e abbia finalmente una meritata ribalta nazionale – commenta Manuela Ghizzoni, vicepresidente della Commissione Cultura della Camera – Il seminario e la proiezione nazionale del documentario premiano il lavoro prezioso portato avanti, in questi anni, dalla Fondazione e dal Comune di Carpi. Come parlamentari Pd crediamo che dopo l’importante decreto di vincolo emanato dalla Direzione regionale per i beni culturali dell’Emilia Romagna, del maggio 2011 – che ha sottoposto l’ex Campo Fossoli ad un preciso regime di tutele – il valore culturale e morale del Campo debba essere pienamente affermato con la dichiarazione di “monumento nazionale”. La presenza del ministro Franceschini alla presentazione romana è particolarmente significativa – conclude l’on. Ghizzoni – Ci piacerebbe che, nell’occasione, il ministro potesse tornare sull’auspicio, espresso dal suo predecessore Bray nel corso della sua visita al Campo nel settembre corso, che il Mibact possa entrare nel consiglio di amministrazione della Fondazione ex Campo di Fossoli in qualità di socio della Fondazione medesima”.

"Renzi: senza riforme Italia ridotta a fanalino di coda Ue", di Vladimiro Fruletti

L’alternativa è secca: o guida dell’Europa o fanalino di coda. O fare da traino, diventare la locomotiva o accontentarsi di essere trainati. Il premier si presenta al convegno organizzato dal Pd sulle riforme istituzionali dopo che nella mattina, alla direzione democratica, ha chiesto al suo partito di giocarsi la sfida elettorale a viso aperto, nelle piazze. E dai costituzionalisti e parlamentari, chiamati a dire la propria sul disegno di legge costituzionale, Renzi incassa un sostanziale via libera. È vero che sono assenti i cosiddeti “professoroni” come Rodotà e Zagrebelsky, e che non mancano le osservazioni, i distinguo e le critiche: Valerio Onida e anche altri gli fanno notare che le riforme non possono avere come giustificazione il taglio dei costi della politica. Ma tirando le somme finali la platea sembra più orientata a dare fiducia al progetto del governo che non ad affondarlo.

Del resto lo stesso Renzi dando il via al confronto smonta subito le accuse più dure dei suoi professori avversari. Il progetto di riforma costituzionale non è né autoritario né estemporaneo. Che le istituzioni abbiano bisogno di «cambiamenti, modifiche e ripensa- menti», spiega, è una «constatazione» c’è ampia «convergenza» fra tutti gli ad- detti ai lavori oramai da «decenni». A Onida ricorda un dibattito dell’Ulivo a Figline Valdarno a metà anni 90. E quindi ora c’è da condurre in porto questa lunghissima riflessione. Evitando, come s’appunta sul foglietto che ha da- vanti di introdurre un tema, come il presidenzialismo o la forma di governo, che non è certo un tabù ma che ora potrebbe di nuovo far sfilacciare irrimediabilmente la tela fin qui tessuta.

Il premier infatti ribadisce essenzial- mente che la riforma costituzionale non è da considerare una variabile indi- pendente della sua politica. Perché c’è un filo rosso che la lega al superamento delle province, al progetto di riforma della pubblica amministrazione e ovviamente all’Italicum. Una legge elettorale che per il premier potrà anche essere discutibile. Forse le soglie potrebbero essere alzate e ci vorrebbero norme anti-discriminazione, ammette. Ma chiede che gli venga anche riconosciuto che col ballottaggio s’è introdotto un «elemento di novità straordinario», di cui da tempo (soprattutto a sinistra) si discuteva senza averlo mai ottenuto.

La conclusione di questo ragionamento renziano dunque non può che essere che il confronto è sì giusto, necessario ed anche salutare, ma che poi ci sarà da decidere. E non per risponde- re alla sua «frenesia» di fare qualcosa solo per dire che s’è fatta, ma «all’ansia di cambiamento dei cittadini». E qui il rischio maggiore per Renzi lo corre proprio il Pd. Gli altri, da Grillo a Berlusconi, possono accontentarsi di urlare o avanzare proposte che non stanno in piedi, il Pd no. O fa le riforme che ha promesso, e che ha fatto decidere, sottolinea non casualmente Renzi, a milioni di cittadini con le primarie, o sarà sconfitto. Il momento, spiega Renzi, è «delicato». Il filo che tiene insieme politica, rappresentanze, istituzioni e cittadini s’è pericolosamente sfilacciato e quindi non ci si può più permettere di fronte ai problemi di reiterare le promesse senza mai scegliere le soluzioni. Vincerebbe chi i problemi non vuole risolverli ma solo cavalcarli. Quindi alternative non ci sono: o la politica riesce a dare risposte «in tempi stretti» o «noi perderemo la nostra credibilità». Certo i tempi non sono quelli ipotizzati. Rinunciare alla data del 25 maggio per il sì al disegno di legge costituzionale, ammette, gli è costato «personalmente». Ma soprattutto «politicamente» perché sarebbe stato un ottimo biglietto da visita per un’Italia che pochi giorni dopo avrebbe assunto la presidenza del semestre europeo. Là, assicura, più che alle nostre scelte economiche, che «agli 80 euro», guardano alle riforme istituzionali. Ma lo slittamento s’è reso necessario per evitare inquinamenti da campagna elettorale. Il sì dell’aula del Senato ci dovrebbe essere entro il 10 giugno. Almeno questo è l’obiettivo ribadito dalla ministro Maria Elena Boschi che ieri è salita a riferire al Colle. Stasera la commissione darà il primo ok. «L’Italia può e deve cambiare in tempi certi» avverte Renzi. Ma non tutti nel Pd sono pronti a scommetttere che dopo le elezioni la strada sarà davvero in discesa.

L’Unità 06.05.14