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"Abbiamo chiuso il sogno in un bunker", di Saskia Sassen

Il nostro mondo, preda di ingiustizie e conflitti, ha bisogno dell’Europa. Ma dell’Europa come era stata pensata, e cioè basata su un forte contratto sociale che ambisce alla giustizia collettiva e a proteggere gli svantaggiati; dell’Europa che per gestire i conflitti internazionali ricorre alla diplomazia e alla legalità, e non alla forza degli eserciti; dell’Europa che lavora con l’ambiente, e non contro l’ambiente, dimostrando così di essere più avanzata di buona parte del pianeta.
QUESTA Europa ideale, però, è venuta meno e nel corso degli ultimi anni ha preso alcune decisioni che l’hanno allontanata da ciò che doveva essere. Il regresso è evidente in molti ambiti, perfino in quei settori economici che quasi per definizione sono un po’ “predatori” e che dunque negli anni potrebbero aver tratto vantaggio, come le grandi banche
europee.
Oggi, invece, ci stiamo richiudendo nei bunker. Due dei bunker più grandi che abbiamo appena ultimato sono il regime di asilo dettato dal regolamento di Dublino III e il nuovo progetto di unione bancaria.
Invece della molto discussa unione bancaria che darebbe vita a meccanismi di ridistribuzione, siamo ricaduti nelle usanze del passato, con le classi politiche e bancarie di ciascun paese fin troppo amichevoli tra loro. Con tutti i suoi limiti e il suo obiettivo comune — un settore bancario forte — l’unione bancaria avrebbe imposto a paesi con tanto credito come la Germania di prendere provvedimenti per aiutare i paesi più poveri e fortemente indebitati. Nel migliore dei casi questo avrebbe richiesto un’Europa che in parte riprendesse la proposta di Keynes per la quale i paesi più ricchi hanno l’obbligo di mettere i paesi più poveri e indebitati nella condizione di poter reagire, così da garantire un sistema globale più sano. Keynes fallì nel suo tentativo, soprattutto perché gli Stati Uniti all’indomani della Seconda guerra mondiale non vollero fermare il tentativo delle banche e delle corporation di prendere il potere. Ma anche l’unione bancaria europea ha deluso, soprattutto perché la Germania non ha voluto rischiare di trovarsi bloccata con le obbligazioni che i paesi dell’Ue più ricchi avrebbero dovuto accollarsi nel nome di un’Unione europea sana.
Il secondo segnale del decadimento europeo riguarda l’asilo. Come nel caso dell’unione bancaria, un regime comune per l’asilo non è una faccenda semplice. L’Europa riuscirà a escogitare qualcosa di più ragionevole e giusto delle regole oggi vigenti? Dublino III crea un conflitto tra i paesi europei meridionali e quelli settentrionali. Rende vittime sia coloro che cercano asilo sia i paesi meridionali europei più poveri, che al momento sono tra quanti accolgono in maggior numero i richiedenti asilo — Spagna, Italia, Grecia. Questo, naturalmente, è il peggiore patto possibile. I paesi dell’Europa del Nord offrono condizioni più vantaggiose rispetto a quelli meridionali e così si è sparsa la voce: i richiedenti asilo vogliono raggiungere la Germania. Tuttavia, la legge prevede che essi si registrino nel primo paese nel quale mettono piede in Europa. Ciò ha significato che molti richiedenti asilo finiscano per essere doppiamente illegali nei paesi settentrionali, vedi in Germania: evitano di registrarsi nei paesi meridionali — come la legge impone loro di fare — per non restare bloccati lì, ma allo stesso tempo non possono registrarsi nei paesi settentrionali perché sono entrati in Europa da quelli meridionali.
Né l’unione bancaria né l’unificazione del diritto di asilo sono progetti facili. A dire il vero, per molti sembrano entrambi irrealizzabili. Eppure, l’Europa ha dimostrato con la sua stessa storia che ciò che sembrava impossibile era fattibile.
Ecco un esempio che mi piace utilizzare per illustrare in che modo ciò che sembra irrealizzabile è in realtà possibile e può diventare uno strumento per trarne ulteriori benefici. Riguarda una delle caratteristiche del Vecchio Continente più ammirate in tutto il mondo, e cioè la “città aperta” tipica dell’Europa. Si tratta di un elemento cruciale della storia d’Europa, spesso trascurato, che dimostra come la sfida per incorporare lo “straniero” diventino strumenti per sviluppare la comunità civile nel senso migliore della parola. Ed è uno strumento che oggi potrebbe assumere forme e contenuti nuovi.
L’ostilità per gli immigrati e gli attacchi contro di loro si sono verificati in ciascuna delle più importanti fasi migratorie dei principali paesi europei. Nessuno Stato che accoglie manodopera ne è immune: né la Svizzera, con la sua lunga e apprezzabile storia di neutralità internazionale, né la Francia, il paese più aperto all’immigrazione, ai profughi e agli esuli. Nel 1800 i lavoratori francesi uccisero quelli italiani, accusandoli di essere cattivi cattolici.
Sono sempre esistiti, tuttavia — come del resto esistono ancora oggi — , singoli individui, gruppi, associazioni e politici che credono nell’idea di rendere le nostre società maggiormente inclusive nei confronti degli immigrati. La storia ci insegna che coloro che combattono per l’integrazione alla fine ottengono ciò che vogliono, anche solo in parte. Se vogliamo concentrarci sul recente passato, un quarto dei francesi ha un antenato nato all’estero, tre generazioni indietro, e il 32 per cento dei viennesi è nato all’estero o ha genitori stranieri.
Potrebbe essere utile a questo proposito, e tenendo conto della sconfortante situazione sull’immigrazione di oggi, ricordare che l’Europa soffre di una mancanza di prospettiva storica, e questo è assurdo. L’Europa ha una storia secolare, a stento riconosciuta, di migrazione interna dei lavoratori. Un fenomeno rimasto nell’ombra rispetto alla “storia ufficiale”, nella quale predomina l’immagine di Europa come continente di emigrazione, mai di immigrazione. Eppure, quando Amsterdam nel Settecento costruì i suoi polder e drenò i territori paludosi importò lavoratori della Germania del nord; per le loro vigne i francesi sfruttarono gli spagnoli; quando Milano e Torino si svilupparono importarono operai dalle Alpi; quando Londra costruì le sue infrastrutture per l’acqua e per le fogne si servì di irlandesi; quando nell’Ottocento Haussmann rifece Parigi, fece arrivare operai tedeschi e belgi; quando la Svezia decise di aver bisogno di palazzi eleganti, importò gli italiani; quando la Svizzera costruì il tunnel del San Gottardo, utilizzò immigrati italiani; e quando la Germania ricostruì le sue ferrovie e le sue acciaierie si servì di immigrati italiani e polacchi.
Anche se molti di questi lavoratori migranti tornarono nei rispettivi paesi di origine, molti altri sono rimasti, soprattutto nelle grandi città. L’integrazione degli immigrati in Europa nel corso dei secoli ha imposto la fatica di redigere norme nuove, soprattutto perché l’Europa prende molto sul serio le sue città e il senso civico. Lo fa molto più seriamente, per esempio, degli Stati Uniti, per i quali in passato è sempre valso il principio “vieni pure, ma ti arrangi”. Questo atteggiamento scoraggiante negli Usa è cambiato, però non ha seguito l’esempio europeo di una maggiore attenzione nei confronti della comunità: ha promosso la nascita di uno “stato di polizia” all’interno dello stato.
Dal mio punto di vista, questa premura nei confronti della comunità e delle proprie città è una dinamica cruciale nella storia d’Europa, spesso fin troppo ignorata e trascurata, che dobbiamo invece riscoprire. Sarebbe infatti di enorme utilità oggi, anche nel caso in cui assumesse forme e contenuti nuovi.
Questa è la chiave della loro utilità: vista la premura dell’Europa nei confronti della comunità, le sfide per incorporare lo “straniero” sono diventate strumenti per far evolvere il senso civico nell’accezione migliore della parola, aspetto che sviluppo ed esamino in maniera approfondita nel mio libro Territory, Authority, Rights ( che uscirà in Italia per Bruno Mondadori). Un singolo esempio illustra la validità di questo progetto pratico: se una città deve avere un sistema di trasporti pubblici efficiente, deve permetterne l’accesso a tutti, a prescindere dal loro status. Non può controllare i cittadini o lo status di immigrati di coloro che “sembrano stranieri”. Un sistema di trasporti pubblici efficiente deve avere una regola minima condivisa: procurati il biglietto o l’abbonamento e potrai accedervi. Questo è tutto. Se oggi potessimo pensare in termini altrettanto pratici e affrontare questi aspetti critici in maniera semplice e concreta (non nelle aule della politica o dei tribunali), potremmo compiere un notevole passo avanti verso un’integrazione degli stranieri. E ne beneficerebbero anche ai nativi.
( Traduzione di Anna Bissanti) Saskia Sassen, sociologa, insegna alla Columbia University. Il suo nuovo libro si intitola Expulsions: Brutality and Complexity in the Global Economy. Cambridge, Massachusetts: Harvard University Press ( sarà pubblicato in italiano da Il Mulino)

La Repubblica 08.05.14

"Simulazione di schifo", di Massimo Gramellini

L’immagine immortala Riccardo Fraccaro dei Cinquestelle in uno studio televisivo mentre si spazzola il gomito della giacca dopo che il suo vicino di posto Pippo Civati gliel’ha sfiorata. Il Pippo del Pd non risulta portatore di malattie infettive (non è neanche comunista) e tra i tutti i membri dell’esecrabile nomenclatura è senz’altro il meno impuro, essendosi sempre schierato all’opposizione di chiunque.
Eppure il cittadino Fraccaro ritiene inconcepibile ogni contatto fisico con lui. Non subito però. Impiega tre secondi per accorgersi dell’oltraggio, come quei giocatori diplomati in simulazione che ci mettono del tempo prima di cadere moribondi al suolo. Nella spazzolata ritardata di Fraccaro latitano l’ironia e la spontaneità che avrebbero saputo profondervi degli istrioni matricolati come Grillo o il Berlusconi ilare spolveratore della sedia di Travaglio. La sua sembra piuttosto l’esecuzione gelida di uno schema mandato a memoria per esprimere con un gesto plastico, a beneficio del pubblico votante, lo schifo suscitato dai politici di professione. Ma se persino i grillini cominciano a recitare i loro malumori, ai cercatori di certezze alternative al sistema non resterà che aggrapparsi ai tatuaggi del signor Carogna. Sempre che non facesse finta anche lui.

La Stampa 08.05.14

"Cosa succede se usciamo dall’euro", di Tito Boeri

C’è una domanda cui tutti i detrattori dell’euro, soprattutto quelli più violenti sul web, si rifiutano di rispondere: come si fa ad uscire dall’euro? Ammesso e niente affatto concesso (ne abbiamo già discusso su queste colonne) che convenga farlo, cosa accadrebbe durante la transizione dall’euro alla nuova/vecchia lira? Sarebbe davvero rapida e indolore come ci fanno pensare coloro che si ostinano a non volerne parlare? Bene partire dalla prima domanda, quella su come si può
uscire. L’EUROPA non sarà certo un esempio di democrazia, ma in tutti i paesi con l’euro c’è una maggioranza di cittadini a favore della moneta unica, come certificano i sondaggi Eurobarometro condotti a fine 2013, dopo 7 anni di crisi. L’uscita dall’euro sarebbe, invece, profondamente antidemocratica, come la nostra entrata in guerra cent’anni fa: senza un voto del Parlamento, scavalcato dalla decisione del re di rompere la posizione di neutralità assunta sin lì dal nostro paese nella Prima Guerra Mondiale. Come allora, sarebbe un atto d’imperio, un Consiglio dei ministri straordinario, convocato di notte, a decretare l’uscita dell’Italia dall’euro, mentre in via Capponi negli stabilimenti della Zecca di Stato si stampano segretamente i biglietti in lire. Ci sveglieremmo sapendo di non poter più utilizzare in Italia le banconote che oggi portano la firma di Mario Draghi, soppiantata magari dal busto di Colombo, come nelle mille lire del Regno d’Italia. Si fantastica di referendum per decidere, ma impossibile istruire un processo democratico di scelta che abbia una qualche probabilità di decretare l’uscita dall’euro, senza rischiare di metterci tutti di fronte al fatto compiuto. E una volta paventata l’uscita dall’euro, non potremmo, per molto
tempo tornare indietro.
Il fatto è che uscire dall’euro comporta una forte svalutazione della lira rispetto al tasso di cambio con cui siamo entrati nella moneta unica. È proprio il rilancio dell’export associato a questa svalutazione l’argomento forte di chi vuole l’uscita dall’euro. Nell’ultima svalutazione di cui ci ricordiamo, quella del 1992, la lira arrivò a deprezzarsi del 66% nei confronti del marco. Questa volta la svalutazione potrebbe essere ancora più forte, ma poniamo che anche solo si fermi al 50%. Chi vive in Italia e ha portato i propri risparmi in un paese rimasto nell’euro oppure chi ha investito in titoli di emittenti esteri o ancora ha prelevato tutto quello che poteva dal proprio conto corrente infilando le banconote sotto il materasso, vedrebbe raddoppiare il valore di queste somme rispetto a chi ha tenuto i soldi nel conto corrente o investito in titoli di stato e azioni di imprese italiane. Per questo motivo, la prospettiva fondata di un’uscita dall’euro è in grado di scatenare una massiccia fuga di capitali all’estero, vendite di titoli di stato e azioni e obbligazioni emesse da aziende italiane oltre che prelievi dai conti correnti per evitare conversioni forzose dei propri risparmi in lire al tasso di cambio arbitrariamente fissato dal governo. Questo sceglierebbe, molto probabilmente, il livello in cui siamo entrati nell’euro (1936 lire per un euro), onde scongiurare l’esplosione del debito pubblico, anche se un euro viene valutato sul mercato come 2900 lire. Per contenere queste fughe, registrate anche in Grecia nel maggio 2012 quando si è parlato seriamente di uscire dall’euro, il governo potrebbe introdurre restrizioni ai movimenti di capitale, chiudere la Borsa e limitare l’accesso ai conti correnti. Se avete amici argentini o ciprioti, chiedete loro cosa significhi non poter prelevare soldi dai propri conti correnti per mesi. Perdere liquidità significa non poter reagire a imprevisti, oltre a complicarvi non poco la vita quotidiana.
Le restrizioni ai flussi di capitali limitano l’arrivo di beni importati dall’estero, penalizzando le forniture alle imprese e le opportunità di consumo delle famiglie. Sono aggirabili soprattutto da chi ha redditi elevati, il che rende ancora più iniqua un’eventuale uscita dall’euro. Rappresentano poi la confessione dell’incapacità di un paese di rimanere nella comunità economica internazionale al pari degli altri, dunque alimentano una crisi di fiducia nei confronti di chi le introduce. Con un debito pubblico al 133%, l’uscita dall’euro e il ripudio del debito diverrebbero a quel punto una strada obbligata anche prima di aver democraticamente deciso. E ci sarebbero fallimenti bancari,
forse anche fuori dal nostro paese dato che l’esposizione del governo e delle banche tedesche verso l’Italia vale più del 10 per cento del loro prodotto interno lordo, in Francia si arriva a un quinto del reddito nazionale, in Austria, Belgio e Olanda non si è lontani dal 10 per cento.
Tutto questo senza tenere conto del rischio di contagio, del fatto che altri paesi (Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna) possano venire travolti dall’uscita dell’Italia. A quel punto interverrebbe il fondo salva-stati, ma solo per loro, dato che noi siamo usciti dall’Euro se non dall’Unione Europea (unica possibilità di uscita unilaterale sin qui contemplata). Tra l’altro, nella propaganda degli antieuro continua a venir data l’informazione errata secondo cui abbiamo dovuto versare 125 miliardi per alimentare i fondi salva stati e questo ci ha impedito di finanziare i sussidi di disoccupazione o tagliare le tasse. La verità è che, a seguito della costruzione dei due fondi salva-stati (EFSF e ESM) e degli interventi sin qui attuati, è aumentato, e di 58 miliardi, non già il disavanzo, ma il nostro debito pubblico lordo (a fronte del debito, c’è un credito di pari ammontare, è come se avessimo fatto un investimento che alla fine potrebbe anche farci guadagnare). Ora, se scatenassimo una nuova crisi senza precedenti in Eurozona per via della nostra decisione unilaterale di uscire dall’euro, probabilmente non rivedremmo più i 14 miliardi che dobbiamo in tutto versare per dare un patrimonio all’ESM. E c’è anche il rischio che le garanzie offerte debbano almeno in parte essere onorate, obbligandoci a versamenti che, al nuovo tasso di cambio, ci costerebbero il doppio di prima. Il tutto per salvare altri paesi. Chiamatelo recupero di sovranità!
I tempi della transizione dall’euro alla lira non sarebbero brevi. Non si tratta di una semplice svalutazione. Chi si ostina a proclamare che esistono precedenti storici di paesi che decidono unilateralmente di uscire da una unione monetaria fa riferimento a situazioni del tutto incomparabili, come quelli delle ex-colonie, dall’Algeria che si distacca dalla Francia a Capo Verde che si separa dal Portogallo oppure a paesi economicamente molto piccoli, come le Isole Salomone che si distaccano dall’Australia, per avere effetti globali e comunque con una quantità molto bassa di moneta in circolazione e un sistema bancario sottosviluppato. Oppure ancora ci si riferisce al frequente abbandono di regimi a tassi di cambio fissi, un evento che non ha nulla a che vedere con la sostituzione di tutte le monete in circolazione e con la ridenominazione in lire di tutti i contratti in essere di famiglie e imprese (mutui, assicurazioni, buoni postali, etc.) e l’inevitabile contenzioso con operatori esteri in un’economia fortemente integrata nel commercio internazionale come la nostra. Come ci spiega Marcello Esposito su lavoce.info, ci sono voluti tre anni per sostituire le vecchie lire con l’euro e non ci vorrebbe molto meno tempo per fare il contrario, creando enormi problemi alle transazioni soprattutto in un paese con scarso sviluppo della moneta elettronica e dominato da piccoli esercenti e piccole imprese come il nostro. Per non parlare del rischio che chi ha posizioni di monopolio approfitti del cambio di moneta per aumentare i prezzi facendo finta di nulla.
La transizione sarebbe dunque lunga e costosa, soprattutto per chi ha i redditi fissi e poco liquidi, a partire dai pensionati, oltre che profondamente antidemocratica. Per arrivare poi dove? I tanti problemi del nostro paese hanno a che vedere con l’economia reale. Quando il motore è in panne, non serve un nuovo libretto di circolazione. Chi oggi sostiene che uscendo dall’euro si cresce di più, attribuisce alla moneta virtù taumaturgiche. Sono gli stessi che, poco fa, tuonavano contro l’economia di carta. L’unica spiegazione possibile è che vogliano sostituire le banconote con il silice, le conchiglie oppure il tabacco, come durante la guerra di secessione americana.

La Repubblica 08.05.14

I nostri consigli per il rilancio dell’Europa

Anni di politiche di austerità devastanti non hanno limitato o ridotto la recessione, ma l’hanno resa più profonda e più duratura di quanto sarebbe stata altrimenti. L’Fmi, la Commissione europea e molti governi europei hanno imposto delle politiche sbagliate basate su assunti difettosi e idee ingenue. Queste politiche hanno stabilizzato le banche europee, e poco altro. Hanno peggiorato le condizioni dei Paesi in crisi. Notiamo oggi che il dipartimento di ricerca del Fondo Monetario Internazionale sostiene in gran parte queste conclusioni.

I risultati, oggi, sono sotto gli occhi di tutti. La disoccupazione è deflagrata e ha colpito più duramente i giovani. Circa un terzo dei disoccupati è già intrappolato in una disoccupazione di lungo termine. La povertà e l’esclusione sociale hanno raggiunto proporzioni assolutamente scioccanti. La coesione e la solidarietà, una volta assi portanti dell’integrazione europea, sono scomparse dal dibattito politico. La deflazione è una minaccia. I rapporti debito-Pil continuano a salire. Il calo degli investimenti unito all’emigrazione dei lavoratori qualificati comprometterà la crescita della produttività in molti Paesi europei. La disuguaglianza è in aumento ed è diventata una minaccia per tutta l’Europa. Tra i bambini, la disuguaglianza nelle opportunità di vita ha raggiunto oggi livelli mai toccati negli ultimi 30 anni.

Un’analisi credibile fatta da istituti economici indipendenti, e più recentemente dai servizi economici della Commissione europea, ha dimostrato che un diverso approccio avrebbe evitato la recessione “double-dip” in molti Paesi e le gravissime depressioni nei Paesi in crisi. Inoltre, avrebbe comportato lo stesso debito in rapporto al Pil nel lungo periodo.

In particolare, una politica globale che comprenda la stabilizzazione dei redditi, un approccio più ponderato e orientato alla crescita del consolidamento fiscale, maggiori investimenti nel sociale e nelle infrastrutture, la ristrutturazione del debito e l’assistenza sociale avrebbe prodotto sia una maggiore performance economica, sia un debito e prospettive finanziarie migliori.

Noi riteniamo necessario un cambiamento profondo e ci appelliamo a tutti coloro che vorranno assumersi la responsabilità politica di sostenere tale cambiamento in tutte le istituzioni Ue all’indomani delle prossime elezioni europee.

Prima di tutto, l’Ue deve porre fine alla crisi e rilanciare la sua economia in direzione di una crescita sostenibile e dell’occupazione. Una nuova strategia macroeconomica è possibile e può essere messa in atto rapidamente. Tale strategia deve avere cinque elementi principali: finanze pubbliche orientate alla crescita, una nuova strategia per il debito pubblico che includa la ristrutturazione del debito nei Paesi in crisi, la risoluzione della banche insolventi, politiche per l’occupazione realmente attive e inclusive e un nuovo programma europeo per la solidarietà sociale. Questa strategia deve includere nuovi investimenti pubblici in infrastrutture per un ammontare annuo di 200 miliardi che faccia leva su un aumento addizionale di 10 miliardi del capitale della Banca europea per gli investimenti e che miri alla trasformazione ecologica dell’Europa e alla ricostruzione della sua competitività.

Una volta che una nuova strategia macroeconomica avrà iniziato a rilanciare l’economia e a creare posti di lavoro, l’Ue dovrà rivedere la sua governance economica, tanto nelle regole quanto nell’assetto istituzionale. Un riassetto meticoloso è inevitabile (rendere le norme meno complesse, meno pro-cicliche e più inclini a rispondere rapidamente ed efficacemente agli shock economici, rendere i processi decisionali più democratici) e può essere raggiunto nell’ambito dei trattati esistenti.

In secondo luogo, l’Europa deve rispondere in modo forte al drammatico aumento delle disuguaglianze. Non ci sono prove del fatto che la riduzione delle disuguaglianze comporti in futuro la riduzione delle performance di crescita di una nazione. Di contro, gli attuali livelli di disuguaglianza hanno dimostrato di generare instabilità economica e di provocare effetti negativi per le nostre società sotto diversi aspetti. Lanciamo un appello per una nuova strategia egualitaria. Tale strategia deve portare avanti azioni politiche su più livelli (fisco, salari, assicurazioni sociali e regolamenti) e puntare su una serie di obiettivi volti alla riduzione delle disuguaglianze nei Paesi. In definitiva, l’Ue deve andare verso una vera e propria Unione Sociale Europea che sostenga i welfare state nazionali a livello sistemico, guidando il sostanziale sviluppo di questi welfare state.

Infine, l’Ue deve garantire pari opportunità di vita per tutti i bambini. Sappiamo che quando i bambini provenienti da famiglie svantaggiate hanno un buon accesso a servizi per l’infanzia e a un’istruzione di qualità – così come all’alimentazione quando sono a scuola – le pari opportunità diventano un obiettivo realistico. L’Ue ha un obbligo morale e un interesse economico nel ricostruire, in uno sforzo congiunto degli stati membri, tale uguaglianza di opportunità. Le azioni nazionali ed europee potrebbero essere condotte e coordinate nell’ambito di un Programma europeo per le pari opportunità dell’infanzia.

Noi crediamo che ci sia una via d’uscita, a condizione che le carenze del sistema attuale e gli errori politici fatti siano, con onesta e correttezza, identificati e superati. Ciò potrebbe fornire l’occasione per un nuovo approccio capace di costruire una società europea più egualitaria, prospera, ecologicamente responsabile e stabile. Un tale modello potrebbe, a sua volta, influenzare il modo in cui il mondo si evolverà nei decenni a venire.

Peter Bofinger, Gøsta Esping-Andersen, Jean-Paul Fitoussi, James K. Galbraith, Ilene Grabel, Stephany Griffith-Jones, András Inotai, Louka T. Katseli, Kate Pickett, Jill Rubery, Joseph E. Stiglitz,
Frank Vandenbroucke

Il testo completo dell’Appello per il Cambiamento può essere consultato su:www.progressiveeconomy.eu/callforchange

La Stampa 08.05.14

"Quelle ragazze nostre sorelle", di Barbara Stefanelli

Blessing Abana, Deborah Abari, Deborah Abbas, Hadwa Abdu… Sono i primi nomi di una lista che corre fino a quasi 300: sono i nomi delle ragazze rapite, tra il 14 e il 15 aprile, nel dormitorio di una scuola in Nigeria. Rapite da uomini armati di kalashnikov, torce e una fede fanatica. Le hanno caricate sui camion in mezzo al bestiame razziato nei campi e portate nella foresta di Sambisa, dove sono ancora prigioniere.
Il sogno di un diploma per diventare un giorno avvocate, insegnanti, chirurghe fa dunque paura ai terroristi. Nel video in cui rivendica il sequestro, il leader del gruppo Boko Haram dice ridendo: le ragazze sono fatte per diventare mogli — a 12 anni, anche a 9 — non per studiare, adesso troveranno un marito o saranno vendute al mercato. Boko Haram, una sigla che significa «l’educazione occidentale è peccato», combatte e minaccia la popolazione da anni con l’obiettivo di creare nel Nord un’area integralista islamica. Ma questa non è una storia di musulmani contro cristiani. L’elenco di quei nomi, pubblicato dalla Christian Association of Nigeria, dimostra che le ragazze sono cristiane e musulmane. È una storia contro l’educazione, soprattutto contro l’educazione delle bambine. Una storia per il potere, che passa dal controllo delle donne. Come è successo in Pakistan con Malala, colpita da una raffica in faccia; come succede in Afghanistan dove in alcune zone le studentesse vengono punite con l’acido.
In Nigeria i rapimenti non sono cominciati e non sono finiti il 14 aprile. A lungo il presidente Goodluck Jonathan ha cercato di minimizzare, ha sospettato le famiglie di tramare contro il futuro di una nazione che — prima economia continentale — ospita oggi orgogliosa il World Economic Forum on Africa. Ma, incredibilmente, qualcosa di intangibile ha rotto il silenzio del colosso: un hashtag, #BringBackOurGirls , ha cominciato a contagiare la Rete. Ora, se fate una ricerca, troverete le foto delle donne in rosso che manifestano da Abuja a Manhattan, la denuncia di Wole Soyinka, le parole di Hillary Clinton, Sean Penn, Desmond Tutu. Troverete petizioni da firmare, scritte che colorano i muri delle città e messaggi tracciati su una scatola di fiammiferi. «Riportate a casa le nostre ragazze». Un’onda virtuale che ha mosso i governi: prima gli Stati Uniti, poi la Gran Bretagna e la Francia. Forse la foresta di Sambisa non resterà inaccessibile a lungo, come è stata per quei padri che — inseguendo i camion, a mani nude — hanno cercato di riprendersi le figlie e sono stati respinti dagli Ak-47 degli integralisti.
A noi resta una domanda alla quale vorremmo rispondere non solo con le squadre speciali e l’intelligence . Che possiamo fare perché qualcosa cambi? Una risposta l’hanno data Nicholas Kristof sul New York Times e la giovane Malala. Vogliono fermare l’istruzione per le ragazze? E noi mandiamole a scuola: tutte, a lungo, libere, sempre di più, anche in Occidente. Perché un libro nelle mani di una bambina che sa quello che vuole è più potente di cento droni contro il terrorismo.

Il Corriere della Sera 08.05.14

Rivara, parlamentari Pd “M5s non speculi su pelle dei terremotati”

I parlamentari modenesi Pd rispondono ai 5stelle sul nuovo ricorso di Rivara Gas Storage
I parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Manuela Ghizzoni e Stefano Vaccari rispondono ai 5stelle dell’Area Nord che, dando notizia di un nuovo ricorso al Tar di Rivara Gas Storage srl, accusano l’Esecutivo e il Pd di comportamento dicotomico, a seconda che parlino con i territori o con i produttori di energia. Ecco la loro dichiarazione:

“I 5stelle dell’Area Nord stanno “prendendo fischi per fiaschi”. Dicono che il Governo sta mantenendo una porta aperta per il progetto del deposito interrato di gas a Rivara. Non è vero, il Ministero dell’Ambiente si è già espresso chiaramente e ha detto no al progetto: tanto è vero che il nuovo ricorso di Rivara Gas Storage impugna proprio il diniego al progetto espresso dal Ministero. Che gli atti amministrativi dei diversi soggetti appartenenti alla Pubblica amministrazione possano essere sempre impugnati al Tar è norma stabilita a garanzia e tutela dei cittadini. E questo è vero per tutti gli atti. Infatti, quando i 5stelle invocano la revoca del decreto ministeriale 17/2/2012, non propongono una soluzione definitiva, ma semplicemente l’adozione di un atto che, a sua volta, potrà, se Rivara Gas Storage ne avrà interesse, essere impugnato davanti agli organi giudiziari amministrativi competenti. Come Pd ribadiamo che il Governo ha già chiuso la partita del deposito di gas. Come parlamentari, comunque, appena avuto notizia del nuovo ricorso al Tar ci siamo attivati per comprendere quali azioni possano essere assunte sul territorio e in Parlamento per meglio tutelare le decisioni già definite. Quanto alle accuse rivolte al ministro Guidi, è evidente che il ministro ha tracciato una strategia energetica complessiva, non ha certo riaperto sul fronte del gas di Rivara. Sostenere queste tesi significa fare allarmismo in una terra già duramente colpita dal sisma e voler strumentalizzare per fini elettorali paure già abbondantemente risvegliate da quanto accaduto: queste zone non meritano trattamenti di questo tipo. C’è chi urla e c’è chi assume atti. Gli atti del Pd e di chi governa il territorio, sia a livello locale che nazionale, sono chiari e univoci: il no al deposito di gas lo hanno detto i territori, lo ha ribadito la Regione, lo hanno rilanciato i parlamentari, lo ha confermato il Governo”

"F35, accordo sul dimezzamento. Oggi ok ai tagli, 1 miliardo l’anno" da l'Unità

È stato raggiunto un accordo per una «drastica riduzione» del programma d’acquisto degli F35, che potrebbe essere dimezzato da una spesa di 12 miliardi a 6 miliardi, sempre nell’arco di trent’ anni. Oggi si vota in commissione Difesa alla Camera la relazione del governo sulla riforma dei sistemi d’arma e complessivamente potrebbe esserci una riduzione delle spese non so- lo per i 150 milioni indicati da Renzi, ma oltre un miliardo l’anno già dal 2015 per i prossimi cinque anni.

Ieri sera in una riunione del gruppo Pd a Montecitorio è stato prodotto un documento, come contributo alla relazione del governo in commissione, che sarà discusso con gli altri gruppi. Scelta civica e Ncd infatti già stavano contestando un accordo che pensavano fosse stato trovato solo fra governo e Pd.

Il gruppo dem alla Camera chiede un ridimensionamento molto significativo del programma che vincola l’Italia all’acquisto dei cacciabombardieri F35 (anche se l’ambasciatore Usa ha avvertito l’Italia di non ridurlo). Si parla del dimezzamento delle forniture, quindi da 90 caccia potrebbero essere acquistati 40 o 45, la metà, ma dovrebbe essere comunque dimezzata la spesa.

Il governo, nei contatti che si sono svolti ieri, ha dato il via libera per una sensibile riduzione. Nel Pd c’erano resistenze ma nella riunione di ieri sembra che ci fosse una unanime volontà di ridurre le spese militari. Negli ambienti legati al ministero della Difesa, però, c’è chi è contrario a un passo indietro sugli F35, giudicato penalizzante per l’economia legata alla costruzione del discusso cacciabombardiere.

Il presidente del consiglio Matteo Renzi aveva annunciato una «rimodulazione» del programma F35 nel corso della conferenza stampa sul bonus Irpef. Ma in quella sede, venti giorni fa, il governo si era fermato a prevedere un risparmio di soli 150 milioni. Con il voto di oggi in Commissione si dà l’autorizzazione del Parlamento ad ulteriori riduzioni che potrebbero arrivare a sfiorare il miliardo di euro nel prossimo anno.

Il programma degli F35 costa all’Italia 12,2 miliardi nell’arco di trent’anni, spesa che, con il voto di oggi, potrebbe essere dimezzata. Sul punto il Pd si è espresso con un documento in calce all’indagine conoscitiva avviata dal Par- lamento, in cui si avanzano «molteplici riserve tecniche e operative», senza garanzie «dal punto di vista della qualità e del valore, di ritorni industriali significativi». «Non risulta contrattualmente garantita per le piccole e medie imprese nazionali l’acquisizione di commesse o sub commesse. A fronte degli investimenti impegnati per realizzare lo stabilimento di Cameri – si legge nel documento del Pd – non risulta contrattualmente definito un prezzo per l’assemblaggio delle semiali che garantisca l’ammortamento del capitale investito e un ragionevole ritorno».

L’Unità 07.05.14