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"Ultimo stadio", di Massimo Gramellini

Nella finale della coppa calcistica nazionale ogni Paese offre uno specchio di sé. Anche noi, modestamente. Si comincia con un simpatico assalto degli ultrà della Roma a quelli napoletani. Non importa che la partita sia Napoli-Fiorentina e i romanisti non c’entrino nulla. La finale di Coppa Italia è una sorta di convegno dove delegazioni di violenti provenienti da ogni bar sport della penisola si danno appuntamento fuori dallo stadio per regolare i conti in sospeso: laziali contro romanisti, romanisti contro napoletani, pare addirittura napoletani contro veronesi. Al culmine della battaglia, una brigata di teste di cuoio giallorosse tende un agguato ai marines partenopei, o viceversa: dall’immane scontro di cervelli scaturisce un parapiglia. Da qui in poi i contorni della vicenda diventano ancora più sfocati. L’unica certezza è che qualcuno estrae una pistola e spara. Riassumendo: un agguato per le strade e l’assolo di un pistolero. Non a Tripoli o a Beirut, dove al massimo può succedere di imbattersi in Dell’Utri, ma nel cuore di Roma, capitale di un sedicente Stato occidentale. Sul selciato restano vari feriti, uno dei quali messo malissimo. Gli altri travolgono lo sparatore e ne fanno poltiglia da pronto soccorso.

Dopo essersi espressa fuori dallo stadio, la cultura sportiva degli italioti si trasferisce all’interno e assume la forma di due valentuomini appollaiati sopra una balaustra, uno dei quali indossa una maglietta che inneggia all’assassino del poliziotto catanese Raciti, a cui un ultrà tirò addosso un lavandino. I due pensatori si presentano come i capipopolo della tifoseria napoletana. Pare che senza il loro meditato assenso non si possa disputare la partita. I desideri degli altri settantamila dello stadio e dei milioni davanti alla tv non contano ovviamente nulla. Solo i pendagli da curva hanno il monopolio della minaccia fisica e verbale. Marek Hamsik, il capitano del Napoli che un destino milionario ma bizzarro ha condotto dalla natia Slovacchia a questi climi molto meno temperati, si attarda a parlamentare con gli ambasciatori ultrà e, quando ormai si sta consumando la vergogna di una resa ai violenti in diretta televisiva, in un eccesso di magnanimità i capibastone concedono alle squadre e all’Italia intera il permesso di giocare.

Con un’ora di ritardo tutto è pronto per la cerimonia dell’inno nazionale ispirata al modello americano del Superbowl, con una cantante, Alessandra Amoroso, che intona «Fratelli d’Italia» al microfono. Ma i fratelli riuniti allo stadio fischiano l’esecuzione fin dalle prime note e ha un bel sgolarsi Matteo Renzi in tribuna: quando i fischi non bastano più, a soffocare la musica arriva il sostegno di qualche bombetta carta, una delle quali manda un vigile del fuoco all’ospedale.

Ora che gli agguati, gli spari, i ricatti, i fischi e i petardi sono finiti, la finale di Coppa Italia può persino cominciare. L’Italia, quella è già finita da un pezzo. Naufragata in un profluvio di parole, proclami e decreti che servono a coprire la mancata applicazione delle leggi. Perché se un hooligan inglese o spagnolo si azzardasse a fare anche un decimo delle cose che vi abbiamo sommariamente raccontato passerebbe il resto della sua giovinezza in carcere, meglio ancora a compiere qualche lavoro socialmente utile. Come del resto chiunque di noi, se commettesse quegli stessi reati lontano dallo stadio, ormai ridotto a porto franco della bestialità tribale travestita da «onore e rispetto» non si sa di chi, certo non degli altri e tantomeno di se stessi. I bambini inquadrati sugli spalti dell’Olimpico avevano sguardi impauriti e severi: un verdetto di sconfitta per tutti.

La Stampa 04.05.14

"Crisi, la top list dei tagli degli italiani: -16% su vestiti e -8% sul cibo", da Il Sole 24 Ore

Gli acquisti delle famiglie hanno subito un taglio che va dal 16 % per i vestiti e calzature al 12 % per mobili, elettrodomestici e manutenzioni fino all’8 % per gli alimentari, rispetto dal’inizio della crisi nel 2008. E’ quanto emerge da una analisi della Coldiretti su come la crisi ha cambiato le abitudini di acquisto degli italiani nel 2013 sulla base dei consumi finali delle famiglie a valori concatenati dell’Istat. In media la diminuzione è stata del 7 % e a subire tagli, seppur minori, sono stati anche – sottolinea la Coldiretti – l`abitazione, l`acqua, l`elettricità (-1,4%), la sanità (-1,5 %), l`istruzione e la cultura (-1,2 per cento) che hanno sofferto nonostante la maggiore rigidità della domanda.
Crollo record per la spesa alimentare

Gli italiani nei primi anni della crisi – precisa la Coldiretti – hanno rinunciato soprattutto ad acquistare beni non essenziali, dall’abbigliamento alle calzature, ma una volta toccato il fondo hanno iniziato a tagliare anche sul cibo con un crollo record del 3,1 per cento della spesa alimentare nel 2013 rispetto all`anno precedente. A differenza di quanto è accaduto per tutti gli altri settori – sottolinea la Coldiretti – in cui gli acquisti sono stati rimandati, per l’alimentare, che va in tavola tutti i giorni, questo non è possibile, almeno oltre un certo limite, ma si è verificato un sensibile spostamento verso i prodotti a basso costo per cercare comunque di risparmiare.
La crisi – sottolinea la Coldiretti – ha fatto retrocedere il valore della spesa alimentare per abitante, che era sempre stato tendenzialmente in crescita dal dopoguerra, fino a raggiungere l’importo massimo nel 2006 per poi crollare da allora progressivamente ed in misura crescente ogni anno. Una leggera inversione di tendenza è attesa per il 2014 perché sarà proprio la spesa alimentare, che rappresenta la seconda voce dei budget familiari, a beneficiare maggiormente del bonus di 80 euro al mese per alcune categorie di lavoratori dipendenti che destinano una quota rilevante del proprio reddito all’acquisto del cibo.

Per il pesce fresco calo del 20%
Nel 2013 le famiglie italiane – precisa la Coldiretti – hanno tagliato la spesa dal pesce fresco (-20 per cento) alla pasta (-9 per cento), dal latte (-8 per cento) all`olio di oliva extravergine (- 6 per cento) dall’ortofrutta (- 3 per cento) alla carne (-2 per cento) mentre aumentano solo le uova (+2 per cento), sulla base dell`analisi della Coldiretti su dati Ismea relativi al primi undici mesi. In particolare si è assistito – continua la Coldiretti – ad un calo nelle quantità di alimenti acquistati, ad una riduzione degli sprechi ma soprattutto all`affermarsi dei prodotti low cost a basso prezzo in vendita nei discount che sono gli unici a fare registrare un aumento (+1,6 per cento) nel commercio al dettaglio nel 2013.
Prodotti scadenti e rischi per la salute

Dietro questi prodotti – precisa la Coldiretti spesso si nascondono infatti ricette modificate, l`uso di ingredienti di minore qualità o metodi di produzione alternativi. Il risultato è che nel 2013 sono aumentati del 14 per cento gli allarmi alimentari in Italia con ben 534 notifiche sulla sicurezza di cibi e bevande potenzialmente dannosi per la salute, sulla base del sistema europeo di allerta rapido per alimenti e mangimi (RASFF), rispetto al 2007 in cui è iniziata la crisi. Si tratta di un balzo record nel numero di notifiche nazionali al sistema di allerta comunitario per la prevenzione dei rischi alimentari, rispetto allo stesso periodo di cinque anni fa, prima dell`inizio della crisi.

Il Sole 24 Ore 03.05.14

"Europee, la crescita di Grillo Forza Italia ancora sotto il 20% Pd in testa al 34,3%", da Il Corriere della Sera

La campagna elettorale sta entrando nel vivo e la settimana è stata caratterizzata da alcune roboanti dichiarazioni di Grillo e di Berlusconi che sembravano avere finalità diverse: il primo intenzionato ad ampliare il proprio elettorato cercando di intercettare il voto di scontenti e delusi dagli altri partiti; il secondo a limitare le defezioni degli elettori di Forza Italia adottando toni e argomenti forti e facendo leva su aspetti identitari. È presto per dire se queste strategie comunicative avranno effetto. Per il momento nelle intenzioni di voto di questa settimana non si rilevano novità: il Pd rimane in testa con il 34,3%, seguito dal M5S (22,5%), FI (19,2%), Ncd (6,1%) e Lega Nord (5,3%). Al momento sarebbero questi i partiti al di sopra della soglia del 4%, ma la partita è davvero aperta soprattutto per Fratelli d’Italia (3,9%) e, più staccati, Tsipras (3,3%) e Scelta europea (3,0%). I partiti si distinguono non solo per potenziale di voto ma anche per il profilo degli elettorati. I segmenti sociali, infatti, esprimono domande eterogenee e reagiscono diversamente alle promesse elettorali. Ad esempio i toni contro l’Europa e la proposta di ritornare alla lira trovano risposta tra gli elettori con minore dimestichezza con temi finanziari e macroeconomici, mentre tra ceti dirigenti e laureati hanno meno presa. Lo stesso dicasi per il sempre più frequente riferimento ai costi della politica: l’abolizione del Senato viene proposta più per ragioni di risparmio (tema molto sentito dai ceti popolari) che di efficienza del processo legislativo (tema a cui sono più sensibili i ceti più istruiti e dinamici). Per analizzare i profili degli elettori italiani è stato considerato un campione, molto ampio, di oltre 7.000 persone intervistate tra il 25 marzo e il 29 aprile. Innanzitutto è utile sottolineare la composizione dell’elettorato italiano nel complesso, caratterizzato in prevalenza da persone non giovani (il 40% ha più di 54 anni, mentre le persone da 18 a 34 anni rappresentano solo il 23%), poco istruite (il 61% possiede al massimo la licenza media), inattive (casalinghe, pensionati e disoccupati rappresentano la metà degli elettori), che si informano prevalentemente o esclusivamente attraverso la tv (54%). In questo contesto generale, il Pd ha un elettorato piuttosto anziano: la quota di ultrasessantacinquenni è pari al 33% e risulta in aumento del 3% rispetto solo a un anno fa mentre la quota dei giovani è molto più modesta, pesa per il 16% ed è in diminuzione del 5% sul 2013. I pensionati rappresentano il gruppo più numeroso, seguito da ceto impiegatizio, casalinghe e operai che pesano quanto i ceti produttivi con gli autonomi. Gli elettori del M5S sono molto più sbilanciati per genere (il 61% è maschio) e per età (il 31% è giovane, solo il 7% ha oltre 65 anni). Sono più istruiti (laureati e i diplomati rappresentano il 45% degli elettori grillini); inoltre impiegati, operai e ceti imprenditoriali insieme agli autonomi, rappresentano i gruppi più numerosi, ciascuno con una quota del 19%. Da ultimo, pur informandosi prevalentemente con la tv (51%) la quota di coloro che si informano tramite Internet (29%) rappresenta il doppio della media nazionale (14%). La scissione del Pdl ha prodotto due partiti abbastanza diversi: tra gli elettori di FI la componente matura e anziana è la più numerosa (46%) mentre i giovani rappresentano il 19%. In Ncd i più giovani sono un po’ più presenti (26%). Ma le differenze principali, rispetto a FI, si registrano in termini di istruzione e di condizione professionale: gli elettori di Alfano sono più istruiti, mentre tra quelli di FI quasi tre su quattro raggiungono al massimo la licenza media e i laureati rappresentano solo il 6%; inoltre la popolazione attiva è nettamente più presente, in particolare i ceti dirigenti e gli autonomi pesano per il 21% (contro l’11% in FI) gli impiegati e gli insegnanti il 25%; in FI invece, le casalinghe e i pensionati rappresentano quasi un elettore su due (47%). La Lega ha un elettorato un po’ più femminile, e ciò rappresenta una novità rispetto al passato che dipende molto dalla guerra all’euro (a cui molte delle donne sono sensibili), trasversale quanto a età, meno istruito (70% possiede al massimo la licenza media) e con una quota di lavoratori autonomi e disoccupati superiore rispetto agli altri partiti. Per quanto riguarda le altre formazioni politiche, Scelta europea ha un elettorato molto maschile, non giovane ma molto scolarizzato (due su tre sono laureati o diplomati); tra gli elettori di Fratelli d’Italia prevalgono i maschi, i pensionati e i ceti dirigenti; tra gli elettori di Un’altra Europa con Tsipras la componente femminile è nettamente prevalente (61%) e quella giovanile ha un peso molto elevato (34%); infine il 30% risulta laureato e 35% diplomato, uno su quattro è impiegato mentre studenti e pensionati hanno all’incirca lo stesso peso percentuale. Le ultime settimane della campagna elettorale vedranno partiti e candidati competere non solo per strappare elettori agli avversari ma soprattutto per conquistare gli elettori indecisi e convincere gli astensionisti a recarsi alla urne. Ebbene, si tratta di due segmenti elettorali non molto dissimili in termini di età e di genere (in entrambi prevalgono le donne) ma abbastanza diversi quanto a istruzione e condizione professionale: tra gli indecisi la componente dei laureati e dei diplomati è decisamente maggiore e i gruppi più numerosi sono quelli delle casalinghe e degli impiegati, mentre tra gli astensionisti primeggiano i pensionati. In uno scenario politico fluido e in presenza di un elettorato meno fedele rispetto al passato, la difficoltà principale per i partiti è quella di conciliare bisogni e aspettative di gruppi sociali molto diversi tra di loro, correndo il rischio di perdere i vecchi elettori nel tentativo di conquistarne di nuovi.

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Il Corriere della Sera 04.05.14

"Questione docente e riconoscimento della professionalità. Il Ministro ci prova?" di Antonio Valentino

Le dichiarazioni del Ministro sulla differenziazione dei ruoli nell’attività docente, contenute nel testo dell’audizione programmatica al Senato e in recenti interviste, sembrano cogliere un aspetto importante della questione insegnante. Tuttavia i termini del suo ragionamento sono, allo stato attuale, ancora piuttosto confusi; e il riferimento al superamento degli scatti di anzianità introduce elementi di conflittualità che, per i tempi e i modi con cui viene proposto, non aiuta la riflessione.Sembra di capire – ma chi lo può dire? – che per differenziazione di ruoli si voglia intendere una più marcata valorizzazione delle funzioni aggiuntive all’insegnamento e la previsione di altre “figure di presidio” di aree strategiche (orientamento, formazione, integrazione, sostegno) che potrebbero anche operare su più scuole del territorio.

Come sanno anche le pietre, è un tema, questo, collegato ad una diversa progressione di carriera, che è ricorrente nel dibattito sul pianeta scuola.

Qui si intende riprendere la questione mettendo al centro della riflessione quelle che il Ministro ha indicato come “le parole chiave” del suo programma di lavoro, presentato nella già citata udienza: competizione e cooperazione.

Non è facile, nel testo ministeriale, coglierne, per così dire, la declinazione. Il fatto però che esse siano “accostate” senza nessun’altra annotazione, può significare forse che le si ritengano non solo compatibili, ma anche, per così dire, coniugabili; tali cioè da poter essere messi in una relazione positiva tra di loro.

L’orientamento del Ministro e le diffidenze del mondo della scuola

Per quel che riguarda la prima (competere), si può coglierne comunque l’indicazione di marcia in alcuni riferimenti che troviamo anche in alcuni passaggi delle interviste del Ministro in cui si parla della necessità di puntare – appunto – ad una “diversificazione di ruoli” nella scuola; ad un “superamento dell’attuale progressione di carriera”; alla valorizzazione chi lavora meglio (“premio di produttività per i più meritevoli e sanzioni per gli insegnanti incapaci”).

Che dirne?

Sappiamo delle diffidenze che larghe fette di insegnanti nutrono nei confronti di modelli organizzativi che introducono trattamenti economici differenziati all’interno della categoria; come pure è noto che il “competere”, in vista di posizioni organizzative (e quindi stipendiali) diversificate, non riscuote successo generalizzato.

Oggi – questa è, penso, una percezione diffusa – queste diffidenze sembrano attenuarsi, sia perché l’accresciuta complessità dell’organizzazione scolastica è sempre meno compatibile con livelli di responsabilità, e quindi remunerativi, uniformi; sia perché l’assenza di meccanismi che premino impegno e risultati – favorendo e valorizzando la disponibilità a collaborare per il funzionamento generale delle scuola – è sempre più vista come una delle cause della situazione attuale di immobilismo, disimpegno e demotivazione.

Certamente continua ad essere forte la contrarietà a modelli organizzativi gerarchici e basati sulla competizione tra i docenti. In primo luogo, per la considerazione – certamente fondamentale, ma, in verità, piuttosto “latente” nella categoria – che la collaborazione nel mondo della scuola è la chiave di volta di un modello organizzativo capace di raggiungere i traguardi propri della sua missione.

Comunque – sappiamo – la collaborazione, oggi, nella scuola non è una pratica molto diffusa; ed è poco diffusa perchè manca una cultura in questo senso: non basta infatti una generica aspirazione – che certamente non manca – perché si dia collaborazione mirata e produttiva (su programmi, progetti, risultati, …).

Se si vuole assumerla come parola chiave, occorre dare ad essa valore, portarla a diffusa consapevolezza, renderla operativamente produttiva (per esempio dentro un modello organizzativo ispirato ad una leadership educativa diffusa).

Cambiare pagina. Ragioni, senso e strumenti

Queste ultime considerazioni intercettano però non tanto l’idea di competizione (che evoca antagonismi, spinte negative a primeggiare e modelli organizzativi gerarchici di cui non si avverte il bisogno e che, a dirla tutta, non ci appartengono); quanto piuttosto un’idea di scuola che voglia “ripartire” dotandosi di strumenti e condizioni che valgano a liberarci dall ‘immobilismo e dalla piattezza di cui siamo attualmente prigionieri, ad accrescere la motivazione e spingere – chi nella scuola lavora e ci crede – a dare il meglio di sé.

E quando si parla di strumenti e condizioni, il riferimento d’obbligo (fondamentale, anche se non l’unico) è a incentivi economici e di carriera che valorizzino e premino l’impegno e la qualità professionale del personale in genere e dei docenti in particolare (dentro le loro classi e nel funzionamento generale).

L’interrogativo che, soprattutto in ampi settori della sinistra, si tende ad sottovalutare, è oggi questo: una organizzazione scolastica, con gli attuali livelli di complessità, può reggere senza una qualche divisione interna di ruoli e funzioni e quindi senza dispositivi premianti che risultino attrattivi e che, nel tempo, ne garantiscano continuità, efficacia e coerenza?

Ovviamente nessuno può pensare che questo approccio sia l’unico possibile o il migliore in assoluto. Certamente però è ineludibile se vogliamo che le cose cambino.

Rendere attrattivi e produttivi funzioni e ruoli

Uno dei problemi della nostra scuola è proprio questo: pur gravando il suo funzionamento, in gran parte, sugli insegnanti che ricoprono funzioni aggiuntive all’insegnamento, l’assetto organizzativo che ne è alla base non ha spesso solide fondamenta e cambia col cambiare dei dirigenti scolastici e coi trasferimenti dei docenti “disponibili”.

Se ci sono questi e se c’è un dirigente capace di valorizzarli, la scuola tiene. Diversamente, opacità e disorganizzazione diventano la cifra dominante.

Rendere attrattivi queste funzioni e questi ruoli aggiuntivi con misure adeguate (dentro un discorso più ampio che miri a rendere appetibile il mestiere dell’insegnante), è, pertanto, ormai un imperativo al quale non ci si può sottrarre.

Oggi il nostro sistema favorisce sostanzialmente comportamente uniformi. Questa uniformità e piattezza alcuni la ritengono garanzia di un clima interno sereno e proficuo. Ma l’esperienza ci dice che non è così. Perché attribuisce riconoscimenti sostanzialmente indifferenziati a tutti: quale che sia il carico di impegni di ciascuno. Né possono risultare attrattivi i compensi, tra l’altro progressivamente ridotti in questi anni, alle funzioni strumentali e il tipo di “considerazione” ad esse attribuite.

Questo contraddice qualsiasi principio di buona organizzazione – oltre che di equità – e causa mal funzionamento e spesso degrado.

Una politica che punti quindi ad un modello organizzativo meno piatto, e chiuda con l’”uniformismo” della figura docente, pone certamente interrogativi e problemi grossi (anche e, direi, soprattutto di fattibilità – perchè richiede, tra l’altro, investimenti ad hoc: che non è proprio questione inscrivibile tra le “quisquiglie”).

Ma, se pensata bene e con coraggio, può mettere a punto condizioni e strumenti capaci non solo di superare l’immobilismo prevalente e contrastare quelli che sono i mali più diffusi – e profondi – della nostra scuola: l’autoreferenzialità e la chiusura individualistica; ma anche assicurare alla cooperazione leve utili che la rendano fattibile ed efficace.

Si fa presto a dire collaborazione (o cooperazione).

Non c’è dubbio comunque che la cooperazione sia la stella cometa di un sistema organizzativo come quello scolastico. E in questo senso è la vera parola chiave in qualsiasi discorso sulla “ripartenza” (come direbbe il Direttore Mario Dutto).

A questo proposito, i paletti irrinunciabili per ragionamenti che assumano “ la cooperazione” dentro un modello di scuola che punti a rimettersi in moto, mi sembrano soprattutto tre:

Ogni provvedimento che punti a introdurre elementi diversificazione nelle funzioni e nei ruoli non dovrebbe mai ostacolare – dovrebbe anzi facilitare – un clima collaborativo. In caso contrario, l’intera operazione è destinata ad essere controproducente.
La cooperazione ha senso e dà frutti se informa e anima assetti organizzativi su una leadership educativa di scuola di tipo diffuso, plurale, che si avvalga di figure di coordinamento con compiti di orientamento ai risultati previsti e valorizzazione dell’apporto dei singoli.
La cooperazione non è virtù innata, non si eredita, ma si apprende e si coltiva, come tanti altri comportamenti professionali (ascolto attivo, adattività, capacità di coordinarsi rispetto al gruppo, fare la propria parte…).

La collaborazione non è comunque la bacchetta magica. Essa si nutre, prima ancora che di comportamenti organizzativi idonei e di competenze (che dovrebbero costituire elementi di profilo di un insegnante moderno), dell’idea di scuola come organizzazione, che necessita – per stare in piedi – di figure di riferimento riconosciute e incentivate.

Interrogativi e qualche prima proposta

Si tratta quindi di capire come il criterio della cooperazione possa incrociarsi con / rapportarsi a criteri premiali (incentivi, progressione di carriera “verticale”– e “orizzontale” …), quali rischiquesti ultimi comportino e quali antidoti mettere sperimentalmente in campo.

Alcune proposte da introdurre nel dibattito potrebbero essere queste:

i compensi e le premialità in genere dovrebbero essere significativi ma contenuti; bisognerebbe puntare, piuttosto, a costruire e sperimentare un sistema di crediti professionali, acquisibili nell’esercizio di uno o più ruoli, che valgano come requisiti per passare a posizioni organizzative di maggiore rilievo ed economicamente più vantaggiose; o per aspirare a passaggi “verticali” (Dirigenza…) per i quali, comunque, il concorso nazionale resta sempre la via maestra;
la rendicontazione formale e una valutazione positiva dei risultati è condizione per la maturazione del credito;
garante per la correttezza degli incarichi e per l’assegnazione dei crediti è il Dirigente Scolastico, coadiuvato da un comitato di valutazione di Istituto (del tipo di quello previsto dal DdL sulle “norme di autogoverno delle Istituziono Scolastiche”, non arrivato in porto alla fine della scorsa legislatura).

Questioni aperte

Si tratta inoltre di capire

come potrebbero trasformarsi / convertirsi le funzioni strumentali e di collaborazione col DS (previste dall’ordinamento vigente) con l’introduzione sia di figure per ruoli aggiuntivi, sia di una progressione di carriera – non più legata (solo?) all’anzianità di servizio – che si ridefinisca in base al portfolio di esperienze e di risultati professionali di ciascuno e quindi ai crediti acquisiti;
come vanno quindi riqualificate le figure di coordinamento e presidio, presenti nella maggior parte delle nostre scuole;
quali altri funzioni e ruoli debbano essere previsti per assicurare un adeguato funzionamento interno e collegamenti con le altre scuole e col tessuto del territorio.

Ma su tali questioni, il dibattito che a più voci si è aperto sulla Leadeship educativa di scuola, può offrire spunti di un qualche interesse da sviluppare ulteriormente.

Conclusivamente

Se hanno senso e fondamento le considerazioni qui svolte, cooperazione e modelli organizzativi più articolati (e quindi l’dea di crediti premiali che valorizzino l’impegno e i risultati, e rilancino un protagonismo diffuso dei docenti), non sono necessariamente antitetici. Fra di loro può esserci anzi una relazione positiva qualora

si assegni a questi ultimi (i crediti) la funzione di introdurre nel sistema elementi di dinamismo e di buona organizzazione e si evitino leaderismi e gerarchizzazioni che possano accrescere i mali che si vogliono combattere;
si concepisca la collaborazione come scelta legata a modelli organizzativi che si avvalgano di ruoli organizzativi riconosciuti che la rendano produttiva.

Praticamente una sfida, date le condizioni e la situazione, molto vicina alla quadratura del cerchio.

Ma la speranza, si dice, è l’ultima a morire.

da ScuolaOggi 03.05.15

"Alfabeto Grillo", di Mario Lavia

In fondo, l’anatema più sintetico e terribile che Beppe Grillo abbia scagliato contro i politici italiani è questo: voi siete fuori dal tempo. Se da un lato non è certo la prima volta che nella vicenda nazionale si imponga il clivage vecchio-nuovo, è certamente inedito il fatto che dal punto di vista elettorale ciò si sia connotato come il vero discrimine fra un soggetto – il MoVimento 5 Stelle – e tutti gli altri. Il (presunto) nuovo contro il (presunto) vecchio. Nella grande scia storico-psicologica apertasi con la crisi di Lehman Brothers, e nel vento italiano striato di arancione e rottamazioni varie, il grillismo è diventato come la picca alla quale infilare la testa del vecchio sistema (d’altronde i riferimenti a miti e simboli della Rivoluzione francese si vanno sprecando: e la picca rende l’idea).
L’esito è noto, e conforme alla dicotomia dell’uno contro tutti: uno solo ha vinto e tutti gli altri hanno perso. Ergo, Grillo non ha vinto sull’idea di futuro. Sulle proposte. Non si può credere che abbia conquistato tutti quei voti – 1 italiano su 4 – sulle peraltro vaghe idee sulla decrescita felice e neppure, pur cogliendo qui consensi soprattutto fra i giovani, sulla mitizzazione della democrazia diretta via web (ma sulle suggestioni rousseauiane torneremo). No, il M5S ha saputo collocarsi al punto esatto della crisi della politica europea e italiana criticando la ristrettezza di vedute della classe politica italiana proprio in quanto incapace di rappresentare questo tempo. Se, come ha detto Carlo Freccero, Grillo «è un ibrido fra vecchio e nuovo», nell’immaginario collettivo è passata la percezione che è il nuovo e basta.
In questo senso dunque è giusto dire che la sfida Grillo l’ha vinta proprio sul piano della critica dell’anacronismo delle analisi, dei linguaggi, delle pratiche e dei programmi della politica tradizionale. Il fatto però che egli non abbia chiaro cosa sostituire al vecchio che muore, non ponendosi affatto il problema principale della politica, cioè la conquista del potere, lo condanna a restare mera testimonianza della crisi della politica e non attore della sua soluzione.
Quando la politica – un movimento, un partito – non si pone l’obiettivo generale della conquista del potere (qui e ora, della conquista democratica di posizioni di governo) è facile che sul terreno rimangano parole, immagini, slogan, comizi: tutti fattori comunicativi sui quali Grillo si è dimostrato eccezionale. Lo spirito del tempo, si potrebbe dire, ma post-berlusconiano (ed è stato ancora Freccero a notare come “oggi Grillo fa col web quello che Berlusconi faceva con le tv”), non posticcio e finto, cioè, non da studio tv ma da piazza. Avendo i due in comune, tuttavia, l’appello al “popolo”. «Il popolo, immaginato come unità sociale omogenea, è considerato la fonte di tutti valori positivi. Son considerati invece come potenziali ‘nemici del popolo’ non solo le oligarchie politiche, economiche e finanziarie, ma anche tutti i soggetti considerati estranei al popolo», si è giustamente osservato.
Questa visione si riconnette, anche se a prima vista non parrebbe, ad una antica tensione individualistica, che diremmo molto novecentesca. L’esaltazione del popolo, in contrapposizione alle “oligarchie”, e se vogliamo alle grandi centrali informative (i giornali) e politiche (i partiti, i sindacati), alle istituzioni sovranazionali (l’Europa), insomma a tutto ciò che viene giudicato non controllabile, culmina nel mito dell’“uno vale uno” – semplificazione democraticista fra l’utopistico e il reazionario – e non ha nulla di progressivo e di collettivo.
In questo senso certi atteggiamenti del movimento grillino, a partire dalla aggressività e dall’uso del turpiloquio (in fondo l’esplosione è stata col “Vaffa day”) ricordano qualcosa delle pulsioni post-Prima guerra mondiale, dall’Action française al primo fascismo: vitalismo, individualismo, critica radicale delle classi dirigenti. In nome del popolo. Era lo spirito del tempo, anche allora. Lo spirito di un tempo di crisi morale, oltre che economica.
Si è scritto anche che «il populismo si afferma nei momenti di trasformazione che generano squilibri negli assetti istituzionali o economici.
Il più semplice di questi squilibri in campo politico-istituzionale si ha quando nel sistema della rappresentanza politica si crea un vuoto». Questo è vero e non è vero. Il movimento dell’Uomo qualunque, tante volte richiamato proprio come possibile “antenato” di Cinque stelle, non nacque nel “vuoto” ma al contrario in una situazione probabilmente unica di “affollamento” di soggetti politici e di moltiplicazione massima dell’offerta politica (d’altronde era la stagione del ritorno alla democrazia e non poteva andare diversamente). La spiegazione del “vuoto” dunque è certamente necessaria ma non sufficiente a spiegare un exploit clamoroso come quello del M5S. C’è qualcosa di più, che la politologia non riesce da sola a spiegare. E che ha persino a che fare con un sentimento addirittura mondiale. (…)
Ed è inutile negare che in questo tempo nevrastenico Grillo siamo un po’ tutti noi o, noi che ci alziamo la mattina e già imprechiamo contro un lavoro demotivante (e figuriamoci quelli per i quali il lavoro è una chimera), contro il padrone di casa, contro l’autobus pieno, le vacanze che costano troppo, contro la stanza un tempo tutta per noi che adesso è diventata tristissima, contro la banca che deruba, la vita cara, un tempo sempre uguale e sempre diverso, cioè peggiore.
Grillo insomma è il volto tragicomico di un’Italia infastidita, anzi arrabbiata, furente, disperata. Ma non è l’aria prima della rivoluzione, semmai è il clima che segue la rivoluzione, paradossalmente una bolla di noia rassegnata, proprio come scrisse Baudelaire della sua Francia dopo le barricate del ’48. L’impressione è che Grillo non sia il 1848, e nemmeno il 1968, non sia la Rivoluzione (meno che mai la riforma) ma il Riflusso. (…)
Ecco, questa Italia del no, questa Italia contro, ha trovato la sua rappresentanza politica. Per fare cosa non è chiaro, ma intanto “mandiamoli via, poi si vede”: quante volte abbiamo sentito questa frase risuonare ovunque, dalle stradine di periferia ai borghi sperduti di questo incredibile paese? Tutto questo – o perlomeno molto di questo – era venuto avanti da tempo. Che l’indignazione in versione italiana stesse crescendo era abbastanza chiaro. Ma che potesse incontrarsi con un soggetto politico nuovo, questo è stato visibile da pochi mesi. E tuttavia questo non spiega come sia stato possibile che l’unico partito che ha ancora rapporti permanenti e sufficientemente solidi con la società italiana, il Partito democratico, abbia compreso molto tardi il fenomeno-Grillo.
Che non abbia visto per tempo montare l’onda del “partito del no”, e che quando scorse il pericolo si illuse di dribblarlo contando su un suo – chissà perché – inevitabile sgonfiamento, speculare alla sua – del Pd – ascesa. E anche nella fase cruciale della campagna elettorale, il Pd ritenne che in fin dei conti il M5S avrebbe fatto più male a Berlusconi, secondo una teoria, quella dei “vasi comunicanti”, secondo la quale Grillo avrebbe succhiato lo stesso tipo di elettorato al PdL, teoria non infondatissima ma alla fine illusoria.

da europa Quotidiano 03.05.14

"Università: l’analisi e la diagnosi dell’ANVUR e le intenzioni della Ministra Giannini", di Fabio Matarazzo

Cosa dovrebbe fare un ministro alla luce della mole di informazioni fornite dal Rapporto sullo stato dell’università e della ricerca dell’ANVUR? Fabio Matarazzo, già Direttore Generale del MIUR, non solo dà qualche suggerimento, ma sottolinea l’urgenza di rottamare alcuni vacui ritornelli: “Le 615 pagine del rapporto ci consentono ora di conoscere da vicino, come mai finora, le specifiche situazioni in cui si articola il sistema. … E’ importante, migliorarne standard e risultati. Ma se si vuole intraprendere questa via, l’unica, a mio parere, in grado di assicurare il progresso di tutte le diversificate realtà con un percorso di continuo accompagnamento, deve dimenticarsi il risonante ma, alla prova dei fatti, vacuo ritornello della competitività, del merito, dei premi che poi non arrivano e delle punizioni che poi si rivelano impossibili.”

L’Agenzia di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR) ha presentato a Roma, il 18 marzo, il suo primo rapporto biennale, cioè il “ Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca per il 2013”. La versione integrale, di ben 615 pagine, si può consultare al seguente indirizzo:

Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2013

E’ tuttavia disponibile anche una più agile versione di sintesi:

Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2013 – SINTESI

La dettagliata fotografia della situazione dell’Università e delle ricerca del nostro Paese conferma, sostanzialmente, pur con la dovizia dei dati ed ampiezza di analisi – che, in aggiunta a ciò che era tradizionalmente presente nei Rapporti annuali del Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario, CNVSU, comprendono ora anche gli enti di ricerca e le istituzioni AFAM – una malattia conosciuta da tempo. Ne segnalano il degrado progressivo e viepiù preoccupante, senza che, alle viste, si intravveda alcun accenno di inversione di tendenza. L’Italia risulta, ancora una volta, tra i paesi con la più bassa percentuale di laureati anche tra i più giovani e, nonostante l’incremento dei titoli in questa fascia di età, non si è affatto ridotto lo scarto rispetto ai valori medi europei, di gran lunga superiori. E’ sempre più evidente la progressiva disaffezione dei nostri diplomati nei confronti dell’Università. Il tasso di passaggio scuola-università risulta di ben 11 punti inferiore a quello medio europeo. Gli immatricolati con almeno 25 anni sono soltanto l’8% del totale contro un valore medio del 17%. E’ notevole la flessione del numero delle immatricolazioni.

Nonostante la difficoltà per i diplomati di trovare lavoro, l’Università non rappresenta più, evidentemente, un’appetibile area di parcheggio in attesa di prospettive future migliori né, tanto meno, l’utile ascensore sociale che ne ha caratterizzato la funzione negli anni passati. Rimane alto, nonostante il 3+2, il numero degli abbandoni e basso il numero di coloro che ottengono il titolo, anche di primo livello, negli anni previsti. La media, per una laurea triennale, è di 5,1 anni. Eppure la laurea conviene, ce lo dice da tempo ‘AlmaLaurea’, lo conferma il rapporto. Conviene per le possibilità di impiego e per la gratificazione anche economica che ne deriverà nel corso degli anni. Questa constatazione non è però in grado di motivare a sufficienza studenti e famiglie a proseguire gli studi. Incide negativamente, forse, l’opinione, di cui si fa cassa di risonanza il sistema mediatico ma anche qualche celebrato opinionista, secondo cui il nostro sistema produttivo non ha bisogno, e anzi in qualche modo osteggia i laureati, per rivolgersi a tecnici e diplomati con preparazione calibrata meglio per le esigenze delle piccole e medie industrie.

Diminuiscono le spese; diminuisce l’offerta formativa, permane l’assurdo fenomeno delle idoneità senza borsa nel diritto allo studio. Nel prossimo futuro mancheranno almeno 9000 professori. Il rapporto tra la spesa per l’istruzione universitaria e il PIL segna un meno 37% rispetto alla media OCSE. Insomma, i numeri sono tutti a disposizione e non c’è ragione di insistere per descrivere il piano inclinato sul quale ormai da tempo sta scivolando la nostra università e con essa la nostra capacità di progresso e di ruolo attivo nella società e nell’economia della conoscenza, di cui pure esaltiamo ad ogni piè sospinto l’importanza.

Questo quadro fosco, del quale lo stesso Ministro si è dimostrata preoccupata, non sembra tuttavia aver suscitato nelle sue prime parole, e nei commenti che si sono letti sulla stampa, quel moto di reazione determinato e consapevole della necessità, non più procrastinabile, di quella “scossa”, del “cambiare verso”, che in altri campi contraddistinguono tanta parte del messaggio mediatico dell’attuale governo. Per l’università e la ricerca, pilastri essenziali della strategia governativa, più volte evocati quale teste di capitolo di una opportuna riscrittura del patto sociale, non sembra profilarsi una volontà di contraddire le linee di tendenza delle politiche che in questi anni hanno accompagnato, al di là delle diverse accentuazioni e dell’alternarsi dei ministri e dei governi, questa parabola declinante quasi fosse un esito scontato e irreversibile di un pensiero unico e di un contesto economico immutabile.

La Ministra riconosce nel sapere e nella conoscenza un essenziale strumento di riscatto sociale e giustamente considera il calo delle immatricolazioni una questione politica, etica ed economica allo stesso tempo, ma, detto questo, non enuncia, almeno per ora, propositi concreti per affermare discontinuità di azione dai suoi predecessori. Certo, afferma la necessità di migliorare l’immagine del nostro sistema universitario per renderlo nuovamente attrattivo per gli studenti ed i docenti stranieri. La semplificazione delle procedure di accesso e di selezione torna ancora una volta nelle dichiarazioni del Ministro, così come l’urgenza di potenziare l’orientamento e il tutoraggio per ridimensionare abbandoni e i fuori corso. Anche per il diritto allo studio è stato apprezzabile sentire la Ministra denunciare l’ignominia degli idonei senza borsa, ma anche questa dichiarazione soffre della ripetitività con cui viene ribadita da tutti senza risultati concreti. Sono intenzioni positive che non possono non essere condivise ma sono attese alla verifica dei fatti. Troppi annunci analoghi abbiamo ascoltato in questi ultimi anni, e nessuno di essi è stato capace di frenare l’incremento dei numeri che abbiamo letto.

Le 615 pagine del rapporto ci consentono ora di conoscere da vicino, come mai finora, le specifiche situazioni in cui si articola il sistema. Mettono in chiaro che esso non è costituito da entità uniformi che possano essere regolate in maniera unitaria e omogenea; pongono in luce che non possono essere giudicate in base a processi burocratici preordinati ed astratti, ma, e su questo sembra consentire e insistere la Ministra, sui risultati conseguiti. E’ importante, credo, questa possibilità di avvicinare, con l’azione di governo, ciascuna realtà e operare rispetto alle sue concrete esigenze per migliorarne standard e risultati. Ma se si vuole intraprendere questa via, l’unica, a mio parere, in grado di assicurare il progresso di tutte le diversificate realtà con un percorso di continuo accompagnamento, deve dimenticarsi il risonante ma, alla prova dei fatti, vacuo ritornello della competitività, del merito, dei premi che poi non arrivano e delle punizioni che poi si rivelano impossibili.

www.roars.it

Come salvare gli studenti dal “rinuncianesimo”, di Antonello Guerrera

La scuola? Non serve a niente. Non è solo un diffuso e stucchevole stereotipo, ma anche il titolo dell’ultimo, graffiante libro di Andrea Bajani, arricchito dai contributi, tra gli altri, di Massimo Recalcati, Mariapia Veladiano e Marco Lodoli. La scuola non serve a niente è sicuramente una forbita provocazione del 38enne scrittore, che sviscera le lacune dell’istruzione italiana, oggi sempre più abbandonata dagli studenti, come mostrano ricchi video, grafici e statistiche allegati al volume. Ma è anche il denso auspicio di un’istruzione che sia sì focolare di nozioni e conoscenze, ma soprattutto faro brillante di una più lucida lettura del mondo. Affinché alunni e studenti possano dare “un nome alle cose” di questa sfuggente società liquida.
Insomma, Bajani, perché oggi «la scuola non serve a niente »?
«È un paradosso: oramai è diventato un mantra della nostra società per qualsiasi cosa, dall’economia al lavoro. Invece, bisogna uscire da questa logica utilitaristica: la scuola non deve soltanto “servire”, alla stregua di una chiave inglese. Bisogna tornare a quello che c’è dentro la scuola».
E cosa c’è dentro?
«C’è la cultura. E la cultura contiene il verbo “coltivare”: le nozioni, certo, ma anche la convivenza, oltre a una lettura del mondo. Non a caso, la scuola è il nostro primo — e forse ultimo — luogo di aggregazione, comunità, condivisione. E quindi è indispensabile in un’epoca di profonde solitudini come la nostra ».
E invece si allarga il fenomeno del «rinuncianesimo», come
lo chiama nel libro una giovane partecipante a un suo seminario. E cioè una scuola di rinunciatari passivi.
«È una parola tremenda e bellissima, a metà tra ideologia e religione. Risuona quasi come un atto di fede, ma purtroppo è una mesta chiave per capire che cosa sta succedendo alla scuola italiana: da un lato, gli studenti tendono sempre più a “disarmarsi”, a rinunciare ad aggredire la vita quotidiana. Dall’altro, considerano gli insegnanti degli impiegati statali e fannulloni. I quali, bisogna dirlo, a volte si attaccano conservativamente al vecchio mondo. E così perdono autorità».
Perdita di autorità legata anche alla “scomparsa dei padri” nella società odierna, come ha scritto Massimo Recalcati che lei cita nel libro.
«È vero. Come il “Padre padrone”, non esiste più il “maestro Manzi”. Oggi, l’unica cosa che può fare un padre, spiega Recalcati, è testimoniare la propria paternità. E l’unica cosa che può fare un insegnante, di fronte al discredito collettivo, è dare testimonianza di sé, plasmando l’istruzione con entusiasmo e metodi concreti, alternativi alla tradizione. Come diceva Hannah Arendt, del resto: “L’insegnante è il testimone del mondo”. Ma qui c’è un ulteriore
passaggio fondamentale».
Quale?
«L’insegnante è parte integrante dello Stato. E lo Stato deve
aiutarlo a restituirgli quell’autorità: dall’immaginario collettivo ai compensi, fino all’agibilità degli edifici. Un insegnante deve avere le spalle coperte. Da solo non ce la può fare ».
Invece, l’istruzione pare spesso trascurata dallo Stato italiano.
«Assolutamente. È inquietante che le riforme degli ultimi anni siano state tutte dettate da esigenze economiche e dai numeri più che da un nuovo approccio pedagogico o di insegnamento».
Riforme che tra l’altro non hanno allineato l’Italia all’Europa. Un valido paragone nel libro è quello della Germania, dove la lezione è ultrapartecipativa, il professore “supera il fossato” e responsabilizza gli studenti.
«Esatto. In Germania, dove vivo, non c’è, almeno in apparenza, un rapporto di superiorità, perché il docente permette all’alunno di prendere in mano l’oggetto (ossia l’argomento) e di smontarlo e rimontarlo a piacimento. Così si sviluppano dialettica e senso critico. Negli studenti, ma anche negli insegnanti. Da noi, invece, si è sviluppata una passività sempre più marcata».
Per questo lei scrive che la scuola deve ripartire dalle “parole”. Perché?
«Perché solo le parole possono salvarci. I ragazzi dei miei seminari li lascio sbizzarrire con neologismi perché diano un nome alle cose, che così escono dal buio e diventano conoscibili. È una delle grandi sfide: insegnare agli studenti come farsi certe domande e scegliere, per dare una forma al mondo. Soprattutto nel magma di Internet, dove hanno a disposizione tutta l’informazione possibile. Che però, senza il filtro della scuola, è merce senza valore”.

La Repubblica 03.05.14