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"Curva padrona, stato sconfitto", di Maurizio Crosetti

Essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, ma questo momento si chiama adesso e questo posto, forse, si chiama Italia. Non il Sudamerica degli allarmi sociali quotidiani e della spaventosa violenza di strada, non il Brasile delle favelas che sta per ospitare un
Mondiale pieno di paura. L’Italia, invece. Dove in un normale sabato di sport può capitare di essere colpiti da un proiettile vagante, cosi, nel mezzo di una passeggiata. Dove si può rischiare la vita per niente quando la vita vale, appunto, niente.
L’incredibile pomeriggio dell’Olimpico ha ancora molti punti immersi nel buio, i confini tra pura violenza e calcio malato si confondono, ma quanto si sa è abbastanza. I colpi di pistola, gli agguati, le imboscate, le bombe carta, le lame. I ricatti degli ultras, i giocatori e la parte sana del pubblico in totale ostaggio dei violenti: quelli che alla fine decidono se si possa giocare oppure no, e non è certo la prima volta che succede. Chissà se il capo del governo, allo stadio insieme alla famiglia, avrà preso appunti. Chissà se l’emergenza forse senza ritorno in cui è precipitato il nostro sport più popolare avrà posto nell’agenda del premier.
Il calcio è da troppo tempo una zona franca, senza legge, anzi senza la legge dello Stato: quella dei delinquenti e dei teppisti conosce invece giurisdizione piena. Se questo è il clima, se questa è la giungla, è logico che le bestie la facciano da padroni. Sanno di essere impuniti, e agiscono non solo dentro lo stadio ma più spesso fuori, dove la criminalità comune e quella da stadio si fondono e approfittano del caos. E forse è ora di annullare le differenze, di smetterla con i distinguo: perché quei criminali sono una cosa sola, un’identica sporca razza.
Lo Stato è storicamente sconfitto perché non ha saputo isolare, combattere, identificare e punire: i Daspo sono carezze, con un buon avvocato si neutralizzano, e mai una volta che si riesca davvero a spezzare la dinamica del branco. Nessuna punizione è un vero deterrente, la massa cieca governata dai peggiori ha sempre la meglio, grazie anche alla complicità di molti club sotto ricatto. Oppure, peggio, conniventi.
La legge del circo (quando muore il trapezista, entrano i clown) ha stabilito dalla sera dell’Heysel che si deve giocare ad ogni costo. Ragioni di ordine pubblico, le chiamano. Ma questa diventa un’arma per i delinquenti: sanno che lo spettacolo non finisce mai, qualunque cosa facciano. È stato triste, oltre che intollerabile, assistere alla finale di Coppa Italia nell’eco delle bombe carta, dopo la grottesca “riunione” tra calciatori e curve. Già visto pure questo, sempre all’Olimpico, nella sera di quel derby in cui gli ultras decisero che non si doveva giocare e basta, nonostante la notizia del ragazzino morto fosse per fortuna falsa. Comandano loro, e basta. E noi, invece, qui a discutere dell’arbitro.
In questo posto che si chiama Italia, un posto sbagliato, sarebbe normale se la gente normale decidesse di non rischiare la vita per una partita di calcio, e facesse altro. Ma sarebbe ancora più normale se uno Stato normale riuscisse a proteggere e tutelare normalmente la vita, la salute e la libertà delle persone. Altrimenti è ferito a morte lui.

La Repubblica 04.05.14

Dieci Paperoni “valgono” 500 mila operai, di Rosaria Amato

In dieci mettono insieme più di 75 miliardi di euro. Il più ricco degli italiani, Michele Ferrero, che insieme alla famiglia vanta un patrimonio di oltre 18 miliardi di euro, ha anche un primato personale: secondo la rivista Forbes, che ogni anno aggiorna la lista mondiale dei miliardari, e che lo definisce affettuosamente candyman, è anche il più ricco industriale dolciario del pianeta. Per mettere insieme un patrimonio equivalente a quello della top ten italiana, calcola il Censis, bisogna sommare la ricchezza di quasi 500.000 famiglie operaie. Gli operai non sono sicuramente una categoria di lavoratori scelta a caso: hanno sofferto più di altri infatti l’erosione del reddito e della ricchezza negli anni della crisi. Calcola l’associazione Nens che tra il 2006 e il 2012 il reddito di un operaio si è ridotto all’82,9 per cento della media nazionale, quello di un impiegato è salito al 128,4 per cento, quello di un dirigente al 183,6 per cento e quello di un imprenditore al 171,4 per cento. «Chi più aveva più ha avuto», sintetizza il Censis: rispetto a 12 anni fa i redditi familiari annui degli operai sono diminuiti, in termini
reali, del 17,9 per cento, quelli degli impiegati del 12 per cento, quelli degli imprenditori del 3,7 per cento ma quelli dei dirigenti sono aumentati dell’1,5 per cento.
La ricchezza si è spostata di conseguenza, visto che (ex) ceto medio e operai hanno faticato moltissimo per mantenere un tenore di vita non troppo lontano da quello precedente alla crisi, e per farlo hanno eroso i risparmi. Ecco perché, ipotizza il Censis, solo una parte del bonus da 80 euro che verrà erogato dal governo in busta paga a partire da questo mese verrà speso in consumi. Appena 2,2 milioni di beneficiari spenderanno tutto nei negozi, per una spesa pari a 1,5 miliardi. Altri 2,7 milioni di destinatari del bonus spenderanno 1,2 miliardi di euro in consumi, destinando il resto ad altro, e i rimanenti 5 milioni di beneficiari destineranno la somma al risparmio e al pagamento dei debiti. «Gli italiani hanno paura», ricorda il direttore del Censis Giuseppe Roma: a molti spendere tutti gli 80 euro in consumi potrebbe sembrare un azzardo.
Difficilmente però 80 euro al mese potranno ridurre le
distanze tra le classi sociali. Oggi «il patrimonio di un dirigente è pari a circa 5,6 volte quello di un operaio, mentre era pari a circa 3 volte vent’anni fa». Ancora, il patrimonio di un libero professionista è pari a 4,5 volte quello di un operaio, vent’anni fa lo era 4 volte. Più in generale, si ricava da una pubblicazione che mette a confronto la disuguaglianza in 25 Paesi del mondo, “The Chartbook of economic inequality”, di Salvatore Morelli e Anthony B. Atkinson (a cui ieri Repubblica ha dedicato un ampio articolo) se l’1 per cento della popolazione italiana, circa 600.000 persone, concentrava nelle proprie mani nei primi anni ‘80 il 6 per cento del reddito nazionale, adesso è arrivata al 10 per cento. L’iniquità pesa di più sulle coppie con figli, ricorda il Censis: infatti la nascita del primo figlio fa già aumentare, anche se poco, il rischio di finire in povertà, che passa dall’11,6 al 13,1 per cento (dati Istat). Mentre la nascita del secondo figlio fa quasi raddoppiare il rischio di finire in povertà, che passa al 20,6 per cento, e al 32,6 per cento con il terzo figlio. Il rischio di povertà è triplo per chi vive nel Mezzogiorno (33,3%) rispetto a chi vive nel Nord (10,7%).

La Repubblica 04.05.14

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“In Italia i dieci più ricchi hanno quanto 500mila famiglie operaie”

Dieci uomini d’oro: sono i dieci italiani più ricchi che dispongono di un patrimonio di circa 75 miliardi di euro, pari a quello di quasi 500mila famiglie operaie messe insieme. A fotografare plasticamente le disuguaglianze sociali che la crisi ha fatto esplodere è il Censis. Poco meno di duemila italiani ricchissimi, membri del club mondiale degli ultraricchi, dispongono di un patrimonio complessivo superiore a 169 miliardi di euro (senza contare il valore degli immobili): vale a dire – spiega l’istituto di ricerca socio-economica – lo 0,003% della popolazione italiana possiede una ricchezza pari a quella del 4,5% della popolazione totale. «Le distanze nella ricchezza sono cresciute nel tempo. Oggi, in piena crisi, il patrimonio di un dirigente è pari a 5,6 volte quello di un operaio, mentre era pari a circa 3 volte vent’anni fa. Il patrimonio di un libero professionista è pari a 4,5 volte quello di un operaio (4 volte vent’anni fa). Quello di un imprenditore è pari a oltre 3 volte quello di un operaio (2,9 volte vent’anni fa)».

In sostanza, dice il Censis, chi più aveva, più ha avuto. Con una dinamica molto differenziata tra le diverse categorie di cittadini. Rispetto a dodici anni fa, il reddito annuo di una famiglia di operai è diminuito del 17,9%, quello degli impiegati del 12%, per gli imprenditori del 3,7%, mentre i redditi dei dirigenti sono aumentati dell’1,5%. Di conseguenza la cinghia si è stretta non in modo uguale per tutti: negli anni della crisi (tra il 2006 e il 2012), i consumi familiari annui degli operai si sono ridotti del 10,5%, mentre i consumi dei dirigenti hanno registrato solo un -2,4%. E agli imprenditori (-5,9%) è andata peggio rispetto agli impiegati che hanno sforbiciato del 4,5%.

«Distanze già ampie che si allargano, dunque, compattezza sociale che si sfarina, e alla corsa verso il ceto medio tipica degli anni Ottanta e Novanta si è sostituita oggi una fuga in direzioni opposte, con tanti che vanno giù e solo pochi che riescono a salire. In questa situazione – è l’allarme lanciato dall’istituto guidato da Giuseppe De Rita – è alto il rischio di un ritorno al conflitto sociale, piuttosto che alla cultura dello sviluppo come presupposto per un maggiore benessere».

Non solo. Il Censis certifica che fare figli in Italia è una faccenda da ricchi: avere o non avere figli è una causa di diseguaglianza. La nascita del primo figlio fa aumentare di poco (+13,1%) rispetto alle coppie senza figli, il rischio di finire in povertà. Ma la nascita del secondo figlio fa quasi raddoppiare il rischio di finire in povertà (20,6%) e la nascita del terzo triplica questo rischio (32,3%). A stilare una lista dei tagli decisi dalle famiglie dall’inizio della crisi, è la Coldiretti: stretta del 16% per abbigliamento e calzature, del 12% per mobili, elettrodomestici e manutenzioni, fino all’8% per i prodotti alimentari. Ma anche sanità (-1,5%), istruzione e cultura (-1,2 per cento). Tuttavia per l’anno in corso l’organizzazione stima una «leggera inversione di tendenza», soprattutto per la tavola, spinta anche dal bonus di 80 euro al mese deciso dal governo.

La Stampa 03.05.14

"Quei nostalgici di ricette fallite", di Ronny Mazzocchi

Complice anche la fiorente pubblicistica che ha riportato in auge il «tema diseguaglianza», abbiamo imparato a familiarizzare con le complesse misure statistiche che fino a poco fa erano confinate agli studi degli economisti. L’indagine del Censis sulla distribuzione dei redditi e dei patrimoni nel nostro Paese ha tuttavia il vantaggio di tradurre indici e coefficienti in numeri concreti e facilmente accessibili a tutti. Scoprire che i 10 uomini più ricchi d’Italia vantano un patrimonio che è superiore a quello di cui dispongono tutti gli abitanti di Milano messi insieme fa senza dubbio un certo effetto. Così come sapere che, negli ultimi dodici anni, il reddito reale di una famiglia della classe media si è ridotto di un quinto, mentre quello dei più ricchi è addirittura aumentato. Il problema della crescente diseguaglianza non è certo qualcosa che riguarda solo il nostro Paese. Gli studiosi si sono a lungo interrogati – e tuttora dibattono in modo acceso – sulle ragioni di questo preoccupante e repentino peggioramento nella distribuzione di redditi e ricchezza. Indubbiamente la crescente globalizzazione dei mercati e il progresso tecnologico hanno giocato un ruolo importante. Tuttavia non si può prescindere anche dalle precise scelte di politica economica relative all’assetto dei vari mercati. È innegabile che le scelte dei vari governi nello scorso ventennio – anche quelli progressisti – abbiano subito l’effetto di un orientamento ideologico meno ostile rispetto al passato ad un aumento delle diseguaglianze. È negli anni Novanta che torna in auge la cosiddetta tesi dello «sgocciolamento», che non era nient’altro che la riproposizione del tradizionale argomento conservatore per cui il benessere della società nel suo complesso si poteva ottenere con politiche favorevoli alla parte più ricca della società stessa, perché più produttiva e quindi capace di aumentare la ricchezza complessiva per tutti. Nel dibattito pubblico la diseguaglianza diventava così il prezzo da pagare per avere un’economia più dinamica. La celebre metafora della marea che crescendo avrebbe sollevato tutte le barche, grandi e piccole, diventò lo strumento con cui liquidare le critiche di coloro che si ostinavano a non volersi allineare al nuovo corso. Diversi rapporti Ocse evidenziano come il sistema fiscale dei paesi industrializzati – che nel decennio 1985-1995 si era fatto più redistributivo – a partire dalla metà degli anni Novanta abbia mostrato una capacità decrescente di contrastare la diseguaglianza, anche in quei paesi in cui era storicamente più forte la propensione a redistribuire. Quella che riguarda imposte e trasferimenti non è tuttavia l’unica scelta di politica economica che ha inciso sull’aumento della diseguaglianza. Sempre l’Ocse ha più volte segnalato come un impatto molto rilevante lo hanno avuto soprattutto le riforme finalizzate ad aumentare la concorrenza nei mercati dei beni e dei servizi, per non parlare della massiccia deregolamentazione intervenuta nel mercato del lavoro. Su quest’ultimo, il riferimento è rivolto in particolare a tutti quegli interventi che hanno ridotto il grado di protezione per i lavoratori: dall’esplosione dei contratti temporanei alla riduzione dei minimi salariali, dalla tendenza verso la decentralizzazione nella fissazione dei salari alla riduzione della cosiddetta «densità sindacale» (il rapporto tra iscritti ai sindacati e occupati) o della copertura degli accordi collettivi stipulati dai sindacati (la proporzione dei lavoratori il cui salario dipende dalla contrattazione sindacale). Non marginali sono stati infine gli effetti negativi determinati dalla riduzione dei sussidi di disoccupazione in quasi tutti i paesi industrializzati. Si tratta di un insieme di fattori che hanno minato seriamente il potere contrattuale dei lavoratori e hanno di conseguenza inciso neagativamente sulla distribuzione funzionale del reddito.
È innegabile che, per quanto riguarda il sistema fiscale, il governo abbia avviato una forte inversione di rotta rispetto al passato. Sia l’innalzamento delle aliquote sulle rendite finanziarie che l’abbattimento della tassazione sui redditi più bassi sono provvedimenti che avranno effetti positivi sia sulla crescita che sulla distribuzione del reddito. Purtroppo non altrettanto si può dire per quanto riguarda le riforme che stanno investendo il mondo del lavoro. L’iniziale promessa di una riduzione della precarietà e di una più facile stabilizzazione dei rapporti di lavoro sembra scontrarsi con le resistenze di coloro che, nel decennio passato, vedevano nella deregulation giuslavoristica la medicina per uscire dalla bassa crescita (con i modesti risultati che ben conosciamo). Sarebbe un peccato che lo sforzo per ridurre la diseguaglianza venisse vanificato dai veti di questi nostalgici di ricette fallite.

L’Unità 04.05.14

"Renzi: c’è chi resiste nella classe dirigente ma il sistema non fermerà la rivoluzione", di Aldo Cazzullo

È iniziata la rivoluzione. Una rivoluzione pacifica, ma che le resistenze del sistema non fermeranno — dice Matteo Renzi al Corriere della Sera —. Il fatto che tutti gli organismi siano contro lo considero un elemento particolarmente incoraggiante: noi non facciamo favoritismi». Matteo Renzi, la attaccano sindacati e prefetti, protestano le banche, la burocrazia, le Camere di commercio. Non sta esagerando? Come si fa a governare avendo tutti contro?
«Noi siamo qui per cambiare l’Italia. Se qualcuno pensava che fossimo su Scherzi a parte, si sarà ricreduto. Trovo legittimo il malumore di tante realtà. Certo, non mi sarei aspettato che rappresentanti delle istituzioni abituati a servire lo Stato usassero espressioni come “coltellate alla schiena”. Ma il punto è un altro: l’Italia ha tutte le carte in regola per essere un leader nel mondo e il leader in Europa; ma per farlo deve cambiare. Non basta cambiare il Senato o le Province o i poteri delle Regioni; ma se ci riusciamo, se la politica dimostra che può riformare se stessa, allora abbiamo l’autorevolezza morale per cambiare gli intoccabili».
Quale resistenze sta incontrando? Aveva ragione Nardella, quando diceva che l’establishment la considera un barbaro e fa bene, perché lei lo vuole scardinare?
«I miei avversari non sono in trincea. Sono piuttosto nella palude. Nell’establishment ci sono, come dappertutto, forze conservatrici. Ma ci sono anche forze di cambiamento. È evidente che una larga parte della classe dirigente ci osteggia. È altrettanto evidente che noi non arretreremo davanti all’obiettivo di garantire ai cittadini una pubblica amministrazione in cui non si sentano ospiti indesiderati, ma padroni di casa. Se per far questo dobbiamo prenderci un po’ di insulti e contumelie, ce le prendiamo. Non dico che dobbiamo cambiare tutto, ma che dobbiamo cambiare tutti. Sono qui per cambiare il Palazzo; non accetteremo che il Palazzo cambi noi. Non diventeremo “buoni” al punto da modificare il nostro dna».
I sindacati sono all’opposizione su due fronti: decreto lavoro e riforma della pubblica amministrazione.
«Sono due cantieri aperti. Si confrontino, discutano, ci dicano le loro idee: non abbiamo problemi ad ascoltarli. Ma vogliamo negare che occorra un cambio radicale delle regole del lavoro? La Germania l’ha fatto più di dieci anni fa; e l’ha fatto la sinistra, non la destra radicale. Ora la Germania è leader in Europa. In America il Jobs Act di Obama ha portato la disoccupazione sotto il 7%; noi siamo al 13, e tra i giovani al 42. Dobbiamo fare di tutto per consentire a chi vuole creare lavoro di farlo. Le resistenza del sindacato sono rispettabili, non comprensibili».
Sta dicendo che anche il sindacato è un elemento di conservazione del sistema?
«Il sindacato non può occuparsi solo di chi il lavoro ce l’ha o di chi è in pensione. Anche i sindacati, come la politica, devono farsi un esame di coscienza, devono cambiare. Sogno un sindacato che, nel momento in cui cerchiamo di semplificare le regole, dia una mano e non metta i bastoni tra le ruote. Non vogliamo fare tutto da soli, sulla riforma della pubblica amministrazione aspettiamo anche le loro idee; ma vogliamo che a un certo punto si decida, altrimenti non è politica, è chiacchiericcio. Non vorrei che la polemica derivasse dal fatto che si dimezza il monte ore dei permessi sindacali e che i sindacati saranno obbligati a mettere on line ogni centesimo di spesa. Non i bilanci, che spesso sono illeggibili; ogni centesimo. Di fronte all’avanzare di Grillo e del grillismo la risposta è sfidare i sindacati a viso aperto».
Che c’entra Grillo?
«Mi ha molto colpito l’atteggiamento di Grillo a Piombino. È andato in un’azienda che sta morendo, dove hanno appena spento l’altoforno, a strumentalizzare un dramma con il solo obiettivo di prendere voti e attaccare i sindacati. Ma le persone che vogliono bene ai lavoratori non si comportano così; cercano di salvare i posti di lavoro. Noi abbiamo messo su Piombino più di 200 milioni, riconoscendo come interlocutore unico il presidente della Toscana, che in passato su di me aveva espresso opinioni non particolarmente esaltanti. Non ho attaccato i sindacati su Piombino: li ho coinvolti. Non per questo i sindacati possono fare finta di niente mentre l’Italia soffre. Anche loro devono mettere qualcosa. In ogni caso, non sarà un sindacato a fermarci».
Lei è sicuro che le prefetture siano enti inutili?
«La presenza dello Stato va riorganizzata. Le prefetture appartengono a un modello di Stato diverso da quello di oggi. È possibile ridurne il numero. Che senso ha mandare a casa il ceto politico delle Province e mantenere in ogni provincia uffici distaccati della Ragioneria dello Stato? C’è un filo logico che lega tutto: via le Province, le auto blu, il Cnel, gli stipendi dei supermanager; ora iniziamo a semplificare gli organismi dello Stato su base territoriale. Mi ha molto colpito scoprire che esiste un sindacato dei prefetti, e pure un’associazione dei segretari comunali: la sindacalizzazione ha portato anche a questo. Ma non può passare la logica del “cambiate tutto, purché non si inizi da me”; oppure “vai avanti tu, che a me scappa da ridere”. Se l’Italia avrà un sistema burocratico più efficiente, potrà attrarre più investimenti, e restituire speranza ai giovani che non trovano lavoro e ai cinquantenni che lo perdono. Ho incontrato un sacco di investitori stranieri, Padoan ha fatto lo stesso in Europa questa settimana: se riusciamo a cambiare l’Italia, qui i soldi arrivano a palate. A me piace creare posti di lavoro. Se il sindacato dei prefetti, l’associazione dei segretari comunali e la lobby dei consiglieri provinciali si oppongono, è un problema loro, non nostro».
I tecnici del Senato avanzano dubbi sulla copertura del decreto degli 80 euro. Sono oppositori anche loro?
«Con loro vorrei un dibattito pubblico. E vorrei rivedere tutte le scelte che hanno avallato in passato. Comunque non cambia nulla: la decisione spetta alla maggioranza politica, che al Senato è molto compatta. Abbiamo calcolato in modo prudenziale ogni voce. Ora i tecnici del Senato — casualmente — esprimono dubbi. L’avevo messo in conto. L’aspetto più divertente è che io non vivo questa vicenda con la foga di uno che deve dimostrare a tutti i costi che si può fare. Io so che si può fare. Vince chi molla per ultimo. Pensano di trascinarsi in un pantano; ma a me non interessa aver ragione, mi interessa riorganizzare lo Stato, perché vedo lo spazio economico, politico e culturale per fare dell’Italia la guida d’Europa, e trovo allucinante non cogliere l’occasione».
Italia guida d’Europa? Non è una formula da campagna elettorale?
«Lunedì dirò al partito di buttarsi nella sfida: campagna porta a porta; tavolini in piazza. Ma la campagna non serve per una vicenda interna al governo; serve a mandare in Europa persone capaci di riportare l’Italia là dove deve stare. Se si manda Borghezio, non ci si può lamentare dell’immigrazione; se si mandano persone competenti, si può scegliere sull’immigrazione una linea diversa. Se mandiamo i rappresentanti 5 Stelle che credono alle sirene, sconsiglierei di affidare a loro la gestione di Mare Nostrum. Ho stima dei 5 Stelle e ancor più delle sirene, ma è una vicenda un po’ più complicata. I miei amici mi dicono: se hai un buon risultato hai risolto il problema della legittimazione popolare…».
Non è così?
«No. La legittimazione popolare non l’avrò mai, neanche se il Pd stravincesse le Europee; a questo giro è andata così, mi basta la legittimazione costituzionale prevista dalle norme vigenti. I sondaggisti mi dicono che mettere il mio nome nel simbolo varrebbe un paio di punti. Ma lo scopo di queste elezioni non è il fixing dei partiti. È spiegare che le grandi questioni, dalla disoccupazione alle tasse, dipendono dalla credibilità che abbiamo in Europa. Il Pd può essere il primo gruppo parlamentare dei 28 Paesi, e questa è una cosa importante. Ma è molto più importante evitare che il grillismo, inteso come populismo demagogico, caratterizzi il nostro Paese; altrimenti l’Italia sarà sempre meno credibile».
La vedo molto preoccupato da Grillo.
«Sinceramente no. Battono i pugni sul tavolo e dicono: usciamo dall’euro. Ma questo scenario porterebbe code ai bancomat, fallimento delle aziende, bancarotta dei conti pubblici; il modello Argentina di qualche anno fa. Se non riusciamo a spiegarlo, è colpa nostra, non merito di Grillo».
Non la preoccupa anche il ritardo dell’intesa con 13 Regioni per attuare il piano sul lavoro ai giovani?
«Non è questo ritardo a preoccuparmi. È il fatto che dobbiamo imparare a spendere meglio i soldi europei. I miei amici mi dicono anche: non parlare d’Europa. Invece noi parleremo molto d’Europa. Non si tratta di uscire dall’euro, ma di entrare in Europa; perché in questi anni non abbiamo toccato palla».
I tecnici del Senato parlano anche di incostituzionalità dell’aumento delle tasse sulle banche.
«Ma stiamo scherzando? Sono tasse previste per l’esercizio 2014. Non sono retroattive. Di cosa stiamo parlando? Anche su questo dobbiamo organizzare un confronto pubblico».
Carlo De Benedetti prevede elezioni politiche anticipate in autunno. Sbaglia?
«La data delle elezioni la decide il capo dello Stato, non il presidente del Consiglio, né i parlamentari, né un imprenditore, pure autorevole. Quanto alle previsioni, la mia è che si voti nel febbraio 2018, alla scadenza della legislatura».
Qual è la posizione del governo sull’Ucraina? A Roma sta per cominciare il G-7 sull’energia: salterà il condotto South Stream?
«La giornata passa tra emendamenti e comunicati, ma poi la sera prima di andare a letto ti vengono in mente dubbi e pensieri, di fronte al dolore del mondo. Penso al Papa che piange per i ragazzi cristiani crocefissi in Siria. Penso alla situazione delicatissima dell’Ucraina. Noi la stiamo gestendo con rigore e coerenza: come ho detto al premier ucraino Yatsenyuk e al presidente Putin, dobbiamo fare di tutto per lasciare aperto un canale diplomatico, ripartendo dagli accordi di Ginevra. Questa non è la posizione dell’Italia; è la posizione di tutti. Al G-7 diremo che siamo per confermare l’impegno South Stream. Ma la questione energetica non può essere considerata l’altra faccia della questione dei valori. Il problema non è la fornitura di gas per l’anno prossimo; è quale rapporti vogliamo costruire con la Russia, quale futuro vogliamo per la Nato, quale ideale di democrazia e di libertà coltiviamo».
Cos’è successo tra lei e Piero Pelù?
«Sono vecchie polemiche fiorentine che lasciano il tempo che trovano. A me non interessano gli incarichi di Pelù con il Comune, né quanto prende dalla Rai. Mi dispiace solo la spocchia sugli 80 euro da parte di un certo mondo artistico, imprenditoriale, salottiero. Chi parla di elemosina non si rende conto di cosa significhi per chi guadagna 1.100 euro guadagnarne il mese prossimo 1.180. Nessun rinnovo contrattuale ha mai dato ai lavoratori quel che diamo noi. Non chiedo rispetto per me, ma per chi avrà gli 80 euro e per chi è costretto a vivere davvero di elemosina».
Sono in molti a considerarlo un obolo elettorale.
«Non è vero. Arriva in busta paga dopo le elezioni. È una misura stabile. Ed è l’inizio di un vero cambiamento, che da una parte pone un tetto agli stipendi pubblici e dall’altra avvia una battaglia di equità sociale».
Ma perché continuano ad associarla a Licio Gelli? L’ha mai incontrato?
«Mai, ovviamente: è quanto di più lontano ci sia da me. Mio padre, zaccagniniano della sinistra Dc, mi ha cresciuto nel mito di Tina Anselmi. Le parole di Pelù sono una contraddizione in termini. Tra l’altro non gli venivano dal cuore, perché non le ha dette; ha letto un testo che qualcuno gli avrà preparato».
Come giudica l’accenno di discesa in campo di Marina Berlusconi?
«Non so se sia una strategia elettorale sull’immediato. So che è sbagliato sottovalutare Berlusconi. L’anno scorso il Pdl, con Alfano, prese il 21%. Oggi Forza Italia è quasi allo stesso livello. Voglio dire ai miei di aspettare a fare ironie».
Pare quasi che lei tifi perché Berlusconi non affondi, visto che è il perno della sua strategia per le riforme.
«Ma no. A me quel che prende Berlusconi non interessa. Però sono grande abbastanza per ricordare che la sinistra ha sempre riso di Berlusconi in campagna elettorale, per poi piangere. Io voglio ridere dopo, non prima. Massima concentrazione sulle Europee e anche sulle città».
A Firenze pensa di vincere al primo turno?
«Sì, Dario Nardella è bravo. Ma Il simbolo di queste elezioni per me è Prato con Matteo Biffoni. Cinque anni fa il Pd subì una sconfitta storica. Oggi riprenderla significa non solo recuperare l’onore perduto, ma dare una prospettiva di sviluppo a una città manifatturiera degna di stima e di rispetto».

Il Corriere della Sera 04.05.14

"Il governo alla prova di leadership", di Bill Emmott

A luglio l’Italia si troverà davanti a un’opportunità e al contempo a una responsabilità. Un’opportunità per dimostrare la sua capacità di leadership dinanzi all’Europa, un’opportunità per avviare qualcosa che potrà essere ricordata come una fase importante e popolare del progetto europeo. Ed è un’opportunità, inoltre, per lanciare, o meglio rilanciare, qualcosa che aiuterebbe molto l’imprenditoria e le famiglie italiane, oltre ad essere la risposta più seria e pratica che il Vecchio continente può dare ai piani di Vladimir Putin in Ucraina.

Questo «qualcosa» è quello che può essere chiamato «Unione energetica» europea. E l’opportunità in questione è la presidenza di turno del Consiglio dei ministri europeo, che durerà per sei mesi a partire dall’1 luglio.

Questa presidenza di turno di sei mesi di solito viene inaugurata con annunci e dichiarazioni relative ad ambiziose intenzioni, specialmente davanti ai mezzi di informazione nazionali, che sottolineano l’importanza del ruolo assunto. Proclami che vengono puntualmente dimenticati a causa del pantano di summit noiosi, comunicati sciatti e progressi compiuti a passo di lumaca. Per ora, la presidenza di turno italiana sembra aderire a questo percorso già visto.

In realtà non lo deve essere necessariamente. I sei mesi di presidenza, durante i quali l’Italia avrà un ruolo primario nel dettare l’agenda di lavori per l’Europa, inizierà sulla scia dei risultati delle elezioni europee che si terranno tra il 22 e il 25 maggio. L’esito delle urne, se i sondaggi si dimostreranno attendibili, porterà a un risultato positivo per Matteo Renzi, ma sembrano destinati ad essere piuttosto negativi per l’Unione europea nel suo complesso. Questo a causa del rafforzamento dei partiti euroscettici, come il Fronte nazionale in Francia, l’Independence Party in Gran Bretagna, e il Freedom Party in Olanda, determinati ad occupare una gran parte di seggi nel Parlamento europeo. Se le previsioni dovessero essere confermate, questo peserebbe sullo spirito europeo, con pesanti ricadute sulla stessa agenda di lavori.

Questi voti anti-europeisti riflettono la lunga recessione e gli alti tassi di disoccupazione. Ma soprattutto sono il riflesso di quel clima di disillusione nei confronti dell’Unione europea che è cresciuta in un decennio ed oltre. Molte persone oggi sembrano convinte che l’Ue sia senza una direzione ed incapace di realizzare qualsiasi passo in avanti volto a migliorare il livello di vita del popolo, o ancor peggio, che possa essere addirittura funzionale agli interessi di una élite di politici, banchieri e grandi imprese a danno della gente comune.

Prima che le vicende ucraine precipitassero, con l’invio delle truppe al confine e le forze speciali di Mosca in azione all’interno del Paese, si sentiva spesso dire, con un retrogusto di amarezza, che era tragicamente ironico che molti europei perdevano affezione nei confronti dell’Ue proprio in un momento in cui tanti cittadini ucraini, nelle proteste contro Kiev, manifestavano il loro amore per le idee e i valori che l’Ue rappresentava.

Da allora, con l’annessione della Crimea alla Russia e la ribellione nell’Ucraina orientale, l’Ue si è dimostrata sempre più impotente. I suoi moniti e avvertimenti non hanno sortito nessun effetto. Le sue imprese non vogliono perdere commesse e affari con la Russia. E nel complesso siamo troppo dipendenti dalla Russia per le forniture di energia da poter rischiare una seria rottura delle relazioni con Mosca.

In un quadro di questo tipo cosa può fare l’Italia in occasione dei summit europei che si terranno durante la presidenza di turno? Certo non può fare miracoli, ma può avviare un processo in grado di migliorare la sua immagine in Europa e, nel medio termine, rafforzare l’economia nazionale.

L’energia è sempre stata un ottimo fattore potenziale di cooperazione e integrazione europea. Condividiamo la necessità di approvvigionamenti sicuri al prezzo più conveniente possibile. Condividiamo la necessità di ridurre le emissioni nocive per tutelare l’ambiente, e produrre più energia attraverso fonti pulite e rinnovabili. Condividiamo la necessità di rendere le nostre reti di distribuzione il più efficienti possibile, e al contempo di assicurare la fornitura di energia anche quando c’è poco vento o il sole non splende quanto dovrebbe.

Un mercato unico dell’energia, la competizione del settore, i vantaggi delle economie di scala assicurate da una rete europea, il potere legale di impedire la concessione di sussidi nazionali che alterano la concorrenza: questi sono stati gli strumenti tradizionali della cooperazione europea, usati nella Comunità per il carbone e l’acciaio degli Anni Cinquanta, così come la campagna contro i sussidi degli Anni Ottanta, il mercato unico degli Anni Novanta, o la politica dei «cieli aperti» sempre negli Anni Novanta. Come la Commissione europea ha ribadito a più riprese, l’energia sarebbe dovuta essere uno dei grandi progressi dell’Ue nello scorso decennio.

Ma non lo è stato. Ci sono di fatto tre ragioni che hanno contribuito a questo fallimento. La prima è che gli investimenti energetici sono costosi. Ma una ragione ancor più forte è che le imprese energetiche nazionali sono assai potenti e fortemente legate alla politica, tanto da poter bloccare ogni progresso. Una terza ragione è che la strada verso le energie rinnovabili ha dovuto convivere spesso con la concessione di sussidi nazionali che frammentano il mercato piuttosto che unificarlo, proprio come un tempo facevano per le auto o l’acciaio. E questo ha reso le imprese energetiche ancora più bramose di bloccare il progetto di un mercato comune europeo dell’energia.

Ora comunque, l’Italia ha un’opportunità e una responsabilità. L’opportunità di utilizzare la crisi ucraina per costruire quel consenso politico necessario a togliere di mezzo gli ostacoli. I giganti energetici italiani, come Eni ed Enel, sono stati d’impedimento così come i giganti tedeschi e di altri Paesi. Così se l’Italia vuole rilanciare il progetto di un’unione energetica, le sarebbe di aiuto rimediare alla crescente impressione di non voler scontentare Eni o la Russia per vili ragioni commerciali.

E’ una responsabilità perché l’Europa ha un estremo bisogno di compiere progressi sul fronte energetico. La dipendenza dalla Russia per un terzo delle nostre forniture di gas naturale è una seria debolezza. E nonostante il fatto di essere circondati da fornitori di carbone, gas e petrolio, i nostri prezzi dell’energia elettrica sono due o tre volte superiori a quelli americani. In Italia i prezzi dell’elettricità, sono i più elevati del club dei 34 Paesi industrializzati dell’Ocse.

Ed è una responsabilità ancor maggiore, perché l’Europa ha bisogno di leadership, anche per dimostrare ai propri cittadini che l’Ue è in grado di portar loro vantaggi politici, economici e sociali. La fornitura di energia sicura e a basso costo, attraverso un mercato unico e competitivo, interconnesso da una rete di distribuzione super-efficiente grazie alla quale l’elettricità può essere fornita dalla società in tutta Europa, è l’esempio eccellente e più potente di quello che l’Ue può fare.

Qualcuno tuttavia deve far sentire la sua voce, deve gridare per far comprendere questa necessità e per rilanciarla, al fine di creare pressioni sulla Germania e altre nazioni affinché mostrino un atteggiamento serio sull’Unione energetica. A luglio l’Italia avrà l’opportunità di fare esattamente questo.

La Stampa 04.05.14

"Il caimano e l’elefante", di Luca Landò

E’ tornato l’elefante. E’ vero, per un po’ ci siamo illusi di poter riavere, dopo tanti anni, una campagna elettorale normale, accesa e iperbolica naturalmente (tutte le campagne elettorali lo sono) ma dove a prevalere fossero le esigenze del Paese e dell’Europa, dove si par- lasse del lavoro che sparisce e della diseguaglianza che cresce, con la notizia sconvolgente (ma non sorprendente) diramata ieri dal Censis che le dieci persone più ricche d’Italia hanno un patrimonio pari a quello di 500mila famiglie operaie messe insieme. Dieci contro mezzo milione. Di questo vorremmo che si parlasse in questa campagna elettorale che riguarda l’Europa ma parla all’Italia. Invece, eccolo lì il pachiderma. Enorme, pesante, possente. Soprattutto impossibile da evitare, co- me ha spiegato con lucida analisi George Lakoff: perché una volta che lo nomini, lui è lì davanti a te.

E anche se non vuoi, anche se ti ripeti «Non pensare all’elefante» (il titolo del suo libro più famoso) quella tonnellata con proboscide ti si piazza di fronte con tutta l’aria di rimanerci a lungo. Perché più un’accusa lanciata contro un avversario è grande e pesante, anche se irreale, più resta nella mente di chi ascolta. E col passare del tempo e delle ripetizioni finisce per diventare credibile. E creduta.

Lo sanno bene negli Stati Uniti dove i Repubblicani – con il metodo dell’elefante – hanno vinto due volte la Casa Bianca e si sono portati a casa decine e decine di governatori. E lo sa bene Silvio Berlusconi, che di quella tecnica di comunicazione (il termine usato è framing )è diventato l’interprete più abile e moderno, come ha riconosciuto lo stesso Lakoff.

L’elefante è tornato e con lui il ricordo di vent’anni da circo con barzellette, corna e cucù perché il pachiderma italiano è più simpatico dell’originale americano: ti fa anche ridere o almeno ci prova. Poi però arriva sempre al dunque e tra una battuta e l’altra ecco che rispuntano il partito delle tasse e le toghe rosse. Perché nel mondo dell’elefante, delle definizioni gratuite ma “pesanti”, i comunisti sono dappertutto: nei giornali, nei ministeri, al Quirinale. Forse anche a San Pietro.

Sì, l’elefante è tornato. Lo ha ripescato Silvio Berlusconi che, come il topino in livrea di Dumbo, lo sta portando negli studi di tutte le tv (Porta a porta, Mattino Cinque, Piazza Pulita, Virus, oggi dall’Annunziata) nel tentativo disperato di recuperare voti e consensi. Con scarso successo, per il momento, perché preso dalla frenesia della rincorsa l’ex Cavaliere sta violando le regole di quel gioco di cui una volta era maestro e anziché battere tante volte sullo stesso chiodo (unico modo per rendere credibile anche l’aria fritta) martella una volta sola su tanti chiodi diversi, sparando a raffica l’intero repertorio di assurdità come i quattro colpi di Stato, i giudici golpisti, l’assoluzione in arrivo dall’Europa, Renzi «tassatore», Napolita- no «profondo rosso», Grillo «peggio di Stalin e Hitler», i tedeschi che ancora oggi pensano che «i lager non siano mai esisititi»…

È un elefante zoppo, insomma, quello che Berlusconi sta portando in giro in questi giorni, o forse solo un po’ invecchiato come il suo ammaestratore. Eppure è un animale potente che sarebbe meglio non sottovalutare, come abbiamo fatto per venti lunghissimi anni, parlando del caimano ma ignorando il pachiderma. Fa bene dunque Renzi a non rispondere alle provocazioni del cavaliere dimezzato, a lasciar cadere le accuse, insensate ma insolenti, di aver alzato le tasse pur di pagare la «mancia elettorale» degli ottanta euro. Nello stesso tempo, sarebbe opportuno aver ben chiaro l’arnese che Berlusconi è andato a ripescare giù in cantina e che, nonostante le difficoltà iniziali, potrebbe ricominciare a maneggiare con una certa abilità. Anche perché non è escluso che la strategia del silenzio scelta dal premier venga alla lunga interpretata come un segno di debolezza anziché di forza.

Per chiudere una volta per tutte una pagina non molto luminosa del nostro Paese, c’è dunque solo un modo: rubare l’elefante a Berlusconi. Non per rivolgergli accuse in- fondate o inventate, come ha fatto lui per troppo tempo, ma per ricordare agli italiani chi è stato per ben tre volte il loro premier. Non un elefante volante, dunque, come quelli che l’ex premier ha ammaestrato in tutti questi anni, ma un animale molto più solido e piantato perché abituato a trasportare fatti reali e risultati concreti. Ne elenchiamo tre.

Dimissioni. In tutti i Paesi del mondo, persino in Rwanda, i politici che ricoprono incarichi di rilievo, ministri tanto per intenderci, si dimettono appena hanno problemi con la giustizia: lo ha fatto un ministro inglese per aver tentato di dirottare sulla patente della moglie i punti tolti per una infrazione stradale commessa da lui, un altro ha lasciato per non aver versato i contributi della colf e in Germania ben due ministri se ne sono andati appena si è scoperto che aveva- no copiato le loro tesi di laurea. Il re di Arcore non si è dimesso nemmeno davanti a una condanna di terzo grado: c’è voluto un voto dell’Aula per farlo decadere da senatore. Elefante numero uno: il simbolo del potere incollato alla poltrona si chiama Silvio Berlusconi.

Tasse. Nel maggio 2008, quando l’allora cavaliere tornò per la terza volta a Palazzo Chigi, il peso delle tasse sul Pil era del 42.7%: l’anno dopo, nonostante l’abolizione dell’Ici sulla prima casa, la pressione salì al 43.1% e nel 2011, prima dell’arrivo di Monti, arrivò addirittura a ridosso del 45%. Berlusconi dice di voler abbassare le tasse, ma alla prova dei fatti con lui la pressione fiscale è sempre aumentata. Elefante numero due: il simbolo del potere che non mantiene le promesse e alza le tasse si chiama Silvio Berlusconi.

Evasione. Un modo efficace per abbassare le tasse è farle pagare a tutti combattendo l’evasione fiscale che secondo Bankitalia ammonta a 120 miliardi l’anno. Berlusconi ha fatto l’esatto contrario: appena tornato al governo ha eliminato le norme antievasione messe in atto da Visco durante il governo Prodi; ha realizzato una politica dei condoni che ha favorito comportamenti illegali (tanto poi ne arriva un altro…); ha sostenuto pubblicamente che è «moralmente giustificabile evadere il fisco» (17 febbraio 2004, conferenza stampa a Palazzo Chigi). Infine è stato condannato a quattro anni per una frode fiscale di 7,3 milioni di euro, così come è stata accertata (senza esiti penali sol- tanto per via della prescrizione breve, vedi ex Cirielli) l’esistenza di fondi neri per 368 milioni di dollari. Elefante numero tre: il simbolo del potere che non paga le tasse ma le fa pagare agli altri si chiama Silvio Berlusconi. La lista delle cose da dire e ripetere è assai più lunga, ma insistere su questi tre punti sarebbe più che sufficiente a centrare due obbiettivi. Il primo, ricordare agli italiani, e a lui stesso, chi è quel signore che, nono- stante la condanna a quattro anni, si permette di andare in tv a raccontare come si dovrebbe governare l’Italia. Il secondo, spingere la sinistra a meditare sul fatto che l’errore più grosso degli ultimi vent’anni, forse, è stato aver pensato soltanto ai denti del caimano. Nel frattempo c’era un elefante libero che correva negli ampi spazi della campagna mediatica.

L’Unità 04.05.14

"In tre anni porte aperte a oltre 63mila nuovi docenti", di Eugenio Bruno

La riforma della Pa annunciata dal governo Renzi risparmierà la scuola. Almeno per ora. Nel prossimo triennio saranno infatti assunti più di 63mila insegnanti e il loro reclutamento avverrà secondo il criterio introdotto 15 anni fa: il 50% dei posti sarà attribuito sulla base delle graduatorie a esaurimento (dove stazionano ancora circa 170mila precari “storici”) e il restante 50% sulla base dei concorsi. Vecchi e nuovi. La prima e più ampia “infornata” di posti avverrà nei prossimi mesi, spiega in un colloquio con Il Sole 24Ore il capo dipartimento per l’Istruzione del Miur, Luciano Chiappetta.
Per l’anno scolastico 2014/2015, a organico invariato, sono in programma circa 29mila immissioni in ruolo. Le prime 14mila serviranno a coprire i pensionamenti intervenuti nel frattempo (in aumento rispetto ai poco più di 8mila stimati a gennaio dal dicastero di viale Trastevere). Vi rientreranno quasi sicuramente gli ultimi 7mila vincitori del concorso bandito nel 2012 dall’allora ministro Francesco Profumo (per gli altri 4mila l’ingresso in servizio è già avvenuto lo scorso anno, ndr) e 7mila nominativi scelti dalle graduatorie a esaurimento. A questi si sommeranno 15mila assunzioni sul sostegno (la seconda tranche di stabilizzazioni previste dal decreto Carrozza dell’autunno 2013). Il bottino potrebbe essere ancora più sostanzioso se il Mef darà l’ok a coprire pure i circa 8mila posti oggi esistenti, ma non autorizzati, per via degli esuberi.
La terza e ultima quota da 8mila docenti di sostegno (sempre previsti dal decreto Carrozza) arriverà nell’anno scolastico 2015/2016. A questi andranno aggiunti i circa 14mila “buchi” che andranno riempiti per il turn over stimato. Anche in questo caso varrà la regola del fifty fifty. Come annunciato mercoledì scorso dal ministro Stefania Giannini, 7mila posti andranno agli idonei (ma non vincitori) della scorsa selezione e 7mila ad altrettanti precari. Nel complesso il conto dei professori che entreranno di ruolo al prossimo giro (settembre 2015) sarà di 22mila unità.
Nel frattempo la responsabile dell’Istruzione pubblicherà un nuovo bando da 17mila cattedre. Che vedrà la luce nella primavera del 2015 e presenterà più di una novità rispetto alla tornata precedente. «Innanzitutto riguarderà tutte le classi di concorso – sottolinea Chiappetta – e non solo alcune come avvenuto in precedenza; in secondo luogo, interesserà l’intero territorio nazionale e potrà avere anche una base interregionale». Non tutti i vincitori saranno assunti subito però. Per l’anno scolastico 2016/2017 infatti sono previsti poco più di 12mila avvicendamenti per turn-over (sono finite le assunzioni “extra” per il sostegno). E quindi di questi 12mila nuovi posti da coprire solo 6mila dovrebbero essere assorbiti attraverso il “concorsone”. Nel rispetto del 50% previsto dalla legge, gli altri 6mila continuerebbero ad arrivare dalle graduatorie a esaurimento.
Lunedì il ministero dell’Istruzione renderà noto il decreto sull’aggiornamento delle graduatorie di istituto (dove si pesca per le supplenze assegnate dai presidi). E nei prossimi giorni partirà anche il secondo ciclo di Tfa, i percorsi abilitanti all’insegnamento. In ballo ci sono oltre 29mila posti, di cui più di 6mila sul sostegno. Il bando è praticamente pronto. A luglio dovrebbero scattare le prove.​

Il Sole 24 Ore 04.05.14