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"Avanza lo spettro del nuovo populismo I l suo fondatore è il «vecchio» Bossi", di Paolo Franchi

Populismo, populisti. A meno di un mese dalle elezioni per il Parlamento di Strasburgo se ne parla come di uno spettro che si aggira per l’Europa. Senza trovare nei partiti e negli establishment tradizionali degli acchiappafantasmi capaci di metterlo in scacco. Se si materializzerà lo capiremo subito dopo il 25 maggio, quando sapremo se il fronte neopopulista incardinato sull’alleanza tra Marine Le Pen e il leader del Pvv olandese Geert Wilders sarà riuscito o no a dar vita a un suo eurogruppo, per la cui costituzione occorrono 25 deputati eletti (e sta qui la difficoltà principale) almeno in 7 dei 28 Stati membri dell’Unione.
Già adesso paghiamo però, e ancor più rischiamo di pagare in futuro, un prezzo salato anche al pressapochismo politico e culturale con il quale in questi anni è stato affrontato un fenomeno che non si lascia esorcizzare né da sprezzanti alzate di spalle né, tanto meno, dagli anatemi. Perché ha una storia ormai antica, che comincia con i narodnik russi e il People’s Party americano di fine Ottocento, e passa per l’Uomo Qualunque, per Poujade e i suoi piccoli commercianti impoveriti e furibondi, magari anche per Peron e i suoi descamisados, di certo per Dreux, storico bastione rosso e proletario francese che nel 1983 passa in un battibaleno in mani lepeniste. Ma, e questo è il punto più importante, è riuscito a trovare in Europa negli ultimi anni nuove motivazioni, un nuovo e più vasto bacino d’udienza almeno potenziale, nonché nuovi leader capaci di ammodernarne e in qualche modo incivilirne il messaggio politico, rendendolo accettabile anche per mondi sino a ieri irraggiungibili.
Per capirci: molti elettori francesi ai quali non sarebbe mai passato per la testa di votare Le Pen padre non si fanno problemi a votare Le Pen figlia, o quanto meno non escludono in via pregiudiziale questa possibilità. E qualcosa di non troppo dissimile capita, o può capitare, in altri Paesi europei. Ma non in Italia. Dove una dose più o meno massiccia di populismo (in senso lato) è presente in quasi tutti gli attori politici, a cominciare ovviamente da Beppe Grillo, ma dichiaratamente neopopulista (in senso europeo) è solo la Lega. Se sia il caso di rallegrarsene o, tutto al contrario, di preoccuparsene, è naturalmente un altro discorso.
In ogni caso. Chi ha voglia di dedicare un’oretta o poco più del suo tempo a cercare di saperne e di capirne qualcosa di più può leggere utilmente il documentatissimo ebook (First on line – i goWare) che su populismo e neopopulismo, hanno scritto il direttore di West, Guido Bolaffi, e il suo vice Giuseppe Terranova. Vi troverà un’agile quanto dettagliata ricostruzione di ciò che unisce (in primo luogo, ovviamente, la parola d’ordine: no euro, ma non solo questa) e di ciò che divide non solo dagli ultranazionalisti dell’Est o dagli euroscettici, ma anche tra loro, forze che hanno storie e culture politiche anche molto differenti. Non è un caso, per esempio, se i britannici dell’Ukip (stimati da molti sondaggi come il secondo partito, dopo i laburisti, nelle imminenti elezioni, e quindi decisivi anche per la formazione del gruppo parlamentare in Europa), considerandosi un partito libertario, sono tuttora ben poco inclini a fare cartello con forze come il Fronte nazionale.
Prima ancora, il lettore troverà elementi utili a comprendere come e perché partiti e movimenti di origine nazionalistica, e (relativamente) radicati soprattutto tra i settori più disagiati della popolazione, siano riusciti a darsi — all’apparenza è un paradosso vistoso — una dimensione metanazionale, parlando anche a zone (relativamente) larghe di ceti medi acculturati e a loro modo moderni. Così che, là dove c’era, con tutta la sua carica di xenofobia, la lotta all’immigrazione, ecco che il contrasto si è concentrato sull’Islam e l’islamismo, in quanto irriducibilmente estranei e ostili alla nostra cultura (diritti non solo delle donne, ma anche dei gay compresi) e al nostro modo di vita; e la “preferenza nazionale” in materia di lavoro e di welfare ha preso il posto della lotta ai lavoratori immigrati che «ci rubano il pane».
Un’operazione, più o meno riuscita, di maquillage? Sì, ma non solo. Perché sono in larga misura cambiati i soggetti cui il messaggio neopopulista si rivolge. Non più, o non più solo, i perdenti ormai politicamente fuorigioco (gli operai comunisti francesi, tanto per fare l’esempio più classico), ma una vasta middle class impoverita, declassata (un tempo si sarebbe detto: proletarizzata) e frustrata, che non ha mai praticato la lotta di classe organizzata, ma ha di nuovo imparato che cosa sia il rancore sociale. Come hanno colto bene studiosi del calibro di Tony Judt, è stato proprio per legare questi ceti alla democrazia, dopo la catastrofe degli anni Venti e Trenta, che ha preso corpo nell’Europa occidentale lo Stato sociale, promosso, nei principali Paesi europei, dai democristiani molto più che dai socialdemocratici; e della democrazia per come la abbiamo nel bene e nel male conosciuta essi hanno rappresentato uno dei supporti fondamentali. In tempi di globalizzazione, non è più scritto che sia così. Anzi. La loro crisi e la crisi di una politica che, a livello nazionale e tanto più a livello europeo, sembra aver rotto l’antico patto con il popolo senza neanche immaginarne uno nuovo e diverso sono due facce della medesima medaglia. «Non è detto che le democrazie riescano sempre a soddisfare le aspettative dei ceti medi, ma quando non lo fanno loro si innervosiscono e si agitano», ha scritto di recente Francis Fukuyama: per una volta, c’è da dargli ragione. Tanto più che nulla lascia prevedere, per il prossimo futuro, un’inversione della tendenza al declassamento.
È tutto da stabilire in quale misura questo elettorato così poco ideologico, al quale nessuno è in grado di dire se, quando e come tornerà in movimento l’ascensore sociale bloccato, farà proprio il motto neopopulista «europeo quando necessario, nazionale tutte le volte che è possibile»; e quanto invece si indirizzerà verso un’astensione carica di protesta che però, paradossalmente, stavolta giocherà a favore delle forze tradizionali di sinistra, di centro e di destra, o si turerà il naso votando per i partiti consolidati. Ma di sicuro è cominciata una partita nuova e molto rischiosa. In tutt’altre faccende politiche (apparentemente) affaccendati, noi la seguiamo un po’ a distanza, quasi da spettatori. Eppure tutto è cominciato, trent’anni fa, proprio in Italia, anzi, in Padania. Perché del neopopulismo, anche se non ce siamo accorti, Umberto Bossi è stato il padre fondatore.

Il Corriere della Sera 03.05.14

"Nella trappola degli uomini verdi", di Paolo Garimberti

A furia di giocare al gatto con il topo, Vladimir Putin ha ottenuto il suo scopo: rovesciare l’onere della responsabilità per quanto sta accadendo nell’Ucraina russofona. Ieri quella che sembrava un’ipotesi estrema, la guerra civile, è diventata un rischio reale, con sparatorie, morti, feriti, blocchi ferroviari.
Ora Mosca, per bocca del portavoce del Cremlino, può permettersi di accusare il governo di Kiev di rendere impraticabili gli accordi di Ginevra, che la Russia ha concluso con lo scopo di violarli attraverso i suoi “uomini verdi” massicciamente infiltrati nell’Ucraina orientale per sobillare e provocare, fino a realizzare il suo scopo, la reazione del topolino ucraino per assestargli una zampata.
L’Ucraina non è la Crimea e Putin sa benissimo che non può annetterne una parte con un’invasione e un’occupazione militare. Non solo per ragioni politiche e diplomatiche (evocare lo spettro della terza guerra mondiale è certamente esagerato, ma la tensione con l’Occidente e con la Nato salirebbe a livelli di calore insopportabili per tutti). Ma anche per ragioni tecniche. L’esercito russo, nonostante l’aumento massiccio delle spese per la difesa e la ristrutturazione organizzativa avviata dal ministro della Difesa Serdyukov e proseguita dal suo successore Sergej Shoigu, risente delle disfunzionalità dell’Armata Rossa accumulate negli anni della agonia dell’Unione Sovietica, che emersero in modo clamoroso durante la campagna di Georgia del 2008. Manca di flessibilità, è ancora basato sul vecchio modello della preminenza di carri armati (ben 2.550) e fanteria meccanizzata (7.360 unità, secondo le stime più recenti) e su una leva molto macchinosa. Le operazioni di intervento rapido sono impraticabili e quelle di un’invasione massiccia ancora più complesse. Ha detto un esperto di dottrina militare: «Invadere l’Ucraina orientale per la Russia sarebbe come avventurarsi in un nuovo Afghanistan » (che fu, come molti ricorderanno, il Vietnam dell’Urss, finché Gorbaciov non decise di ritirarsi).
Il ricorso a quelli che gli ucraini hanno chiamato ironicamente “i piccoli uomini verdi”, paracadutisti e spetsnaz ( reparti speciali addestrati per operazioni di infiltrazione, sabotaggio e talvolta killeraggio), era dunque una scelta tecnica per il Cremlino. La tesi russa che si tratti di «forze di autodifesa », formatesi spontaneamente tra la popolazione delle città russofone, non ha retto più di pochi giorni all’analisi dei loro armamenti (tra cui il nuovissimo Kalashnikov AK-100) e perfino dei volti di alcuni di loro, già ripresi in precedenti azioni dal 2008 in poi. L’obiettivo era quello di balcanizzare l’Ucraina orientale, di renderla simile alla Bosnia degli anni 90, di far sì che laddove etnie diverse hanno convissuto per anni in armonia si scatenasse l’inferno delle provocazioni, dell’occupazione dei palazzi del potere, degli scontri etnici (a Odessa, come accadde durante le guerre balcaniche, sono scesi in campo gli ultrà del calcio, secondo un modello istituito nei Balcani dal celebre comandante Arkan). Da ieri lo scopo sembra raggiunto e, come accadde nel secolo scorso, l’Occidente, l’Europa in primis, è tardo nelle reazioni e soprattutto incapace di trovare una linea comune. Quando Mitterrand volò dimostrativamente a Sarajevo dopo un fallimentare vertice della Ue sui Balcani disse: «L’Europa non ha gli strumenti politici, e ancor meno quelli militari, per fare qualcosa». Che cosa ha oggi di fronte alla balcanizzazione dell’Ucraina?
Qualcuno ha suggerito a Barack Obama, che appare pateticamente impotente di fronte all’improntitudine di Putin, di riesumare la vecchissima dottrina del containment elaborata da George Kennan all’epoca della guerra fredda per fronteggiare la minaccia sovietica. Ma allora l’Occidente era compatto, la leadership degli Stati Uniti indiscussa e l’economia era compartimentata tra l’Occidente capitalista e l’Oriente comunista. Oggi l’Occidente, se ancora si può usare questo concetto, è diviso («si fotta l’Unione europea », ha detto proprio a Kiev una dei vice di John Kerry), la guida americana è fortemente contestata (alle Nazioni Unite al voto sull’Ucraina perfino Israele non ha partecipato, India e Sud Africa si sono astenute), e la globalizzazione dell’economia rende la riesumazione del containment assolutamente impraticabile.
Le sanzioni preoccupano di più le multinazionali europee e anche americane che il Cremlino o gli oligarchi russi. I quali hanno molti modi per aggirarle. Per esempio investendo nel mattone. Il mercato immobiliare di Londra, secondo un’inchiesta del Financial Times, è fiorentissimo proprio nelle zone preferite dai russi (è di ieri la notizia che un miliardario, russo o ucraino, ha comprato una casa da oltre 130 milioni di sterline). E perfino dal calciomercato giungono segnali che gli oligarchi non sono per niente inquieti se il Chelsea di Abramovic ha comperato Diego Costa, stella dell’Atletico Madrid,
40 milioni di euro.
In conclusione, l’Ucraina scivola drammaticamente verso la guerra civile e nessuno (ad eccezione di Putin) sa che cosa fare per impedirlo. Perché per anni ci siamo illusi che la Storia fosse finita e che sarebbe stato impossibile riscriverla, mentre un ex colonnello del Kgb pensava che la fine dell’Urss fosse «una grande tragedia dell’umanità». Perché ci siamo autoconvinti che avremmo vissuto in un mondo diverso, senza più conflitti e senza cortine di ferro mentre qualcuno al Cremlino stava riesumando la dottrina del 19mo secolo del conte Uvarov: «Ortodossia, Autocrazia, Nazionalismo ». Perché, infine, gli egoismi nazionalisti, soprattutto in Europa, hanno prevalso sugli interessi collettivi. Esattamente come due decenni fa, quando implose la Jugoslavia e nessuno fu capace di prevenire e ancora meno di intervenire.

La Repubblica 03.05.14

La Regione: «Danni ingentissimi Si chiederà lo stato d’emergenza», da La Gazzetta di Modena

A tre giorni dalle trombe d’aria che si sono abbattute nel Modenese causando interruzioni della circolazione stradale, danni ad aziende e abitazioni e alcuni feriti lievi, «stiamo completando rapidamente la raccolta di tutti gli elementi per la richiesta dello stato di emergenza nazionale – ha spiegato l’assessore regionale alla Protezione civile Paola Gazzolo – anticipata dalla dichiarazione dello stato di crisi regionale che sarà decretato dal presidente Vasco Errani», ai sensi della legge regionale 1 del 2005. Contemporaneamente, sottolinea Gazzolo, «stiamo lavorando per garantire a cittadini e imprese colpiti il ritorno alla normalità». In particolare, l’Agenzia regionale di Protezione civile è in continuo contatto con la Provincia e i Comuni interessati sia per seguire l’evolversi dell’evento sia per attivare tutte le misure necessarie. Intanto i danni si stimano intorno a decine di milioni di euro. Nei Comuni più colpiti dall’evento (Nonantola, San Cesario e Castelfranco) i vigili del fuoco hanno ultimato giovedì sera alle 20 le operazioni di messa in sicurezza tramite soprattutto operazioni di copertura e telonatura dei tetti delle aziende e delle abitazioni danneggiate dal forte vento. Sono stati nel complesso attuati una quarantina di interventi in un’area del raggio di 30 chilometri. Hanno operato squadre dei distaccamenti dei vigili del fuoco di Modena e delle Province di Parma, Ferrara, Reggio Emilia e Bologna. Da una prima ricognizione effettuata dalla Protezione civile della Provincia di Modena con i tre Comuni colpiti, risulta che una settantina di aziende (50-60 nel solo Comune di Nonantola) hanno subìto i danni più gravi con un centinaio di immobili coinvolti. Riguardo le abitazioni private, le situazioni di danno più ingente ammontano a una trentina di unità, mentre ulteriori 50 abitazioni hanno subìto danni minori. È inoltre in corso una ricognizione degli assistenti sociali dei Comuni per verificare le condizioni dei cittadini coinvolti. Qualora emergessero ulteriori esigenze di assistenza, la Regione è pronta a farsi carico della sistemazione dei cittadini in strutture adeguate. Prosegue in parallelo la raccolta dei rifiuti, a seguito delle operazioni di pulizia delle aree interessate e, in particolare, sul fronte amianto è stato attivato il coordinamento tra Regione, Provincia, Asl, Arpa, Comuni e aziende di servizio incaricate della raccolta, con le stesse modalità già adottate per la tromba d’aria che si era verificata nel modenese il 3 maggio dello scorso anno, compreso un programma immediato di recupero e smaltimento del materiale contenente amianto localizzato nelle aree direttamente colpite dall’evento ad opera di ditte specializzate. Si è già partiti dalle aree pubbliche, parcheggi e strade e si proseguirà ora in tempi rapidi nelle aree in cui sono necessarie operazioni di bonifica. Intanto fino a questa notte la protezione civile ha attivato la fase di attenzione per pioggia intensa e temporali e per il rischio di criticità idrogeologica e idraulica con possibile superamento dei livelli di soglia nei corsi d’acqua. L’allerta coinvolgerà tutto il territorio della Regione. Sulla situazione che le zone colpite dal tornado si trovano ad affrontare intervengono anche i parlamentari modenesi del Pd Davide Baruffi, Manuela Ghizzoni, Maria Cecilia Guerra e Stefano Vaccari. «Ci siamo recati nella zona colpita e abbiamo incontrato i sindaci dei Comuni che hanno subìto danni; nel contempo abbiamo mantenuto il contatto telefonico con la Regione e in particolare con il commissario straordinario Vasco Errani. Le stime dei danni sono ancora provvisorie: solo per quanto riguarda l’agricoltura si pensa a 5/6 milioni di euro. Da subito, ci siamo messi a disposizione dei territori per rappresentare a livello governativo l’ennesima difficile situazione verificatasi in una zona già duramente colpita. Attendiamo la pubblicazione del cosiddetto decreto legge Modena in Gazzetta Ufficiale, quello che prevede misure specifiche per i territori colpiti dall’alluvione del 19 gennaio scorso. È quello il provvedimento normativo in cui, in Parlamento, potremo e dovremo lavorare per far inserire anche la tromba d’aria del 30 aprile, oltre quella del 3 maggio 2013, tra gli eventi indennizzabili. Sul medio termine, dovremo ragionare insieme a tecnici ed esperti del cambiamento climatico, facendo tesoro delle indicazioni che il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (Ipcc) ha consegnato alla politica e alle istituzioni. Non possiamo più parlare di eccezioni, ma di eventi estremi con i quali dobbiamo imparare a convivere adattando ad essi i sistemi di allerta, quelli di protezione delle colture agricole, il nodo idraulico modenese e i comportamenti dei cittadini tutti e delle comunità che non dovranno contribuire al peggioramento dei fattori che alterano il clima. È nostro compito lavorare su questi temi a livello normativo, ma bisogna farlo anche a livello culturale e dei comportamenti».

La Gazzetta di Modena 03.05.14

Manifatturiero italiano al top da 3 anni, aumentano le assunzioni

Si rafforza la ripresa nel manifatturiero italiano, dove secondo una indagine tra i responsabili degli approvvigionamenti ad aprile si è registrata l’attività più sostenuta da tre anni a questa parte.
Il Purchasing Managers Index, relativo alle aziende del comparto della penisola, è aumentato a 54 punti, dai 52,4 punti di marzo, segnando il valore più elevato dall’aprile del 2011, secondo la società di ricerche Markit Economics. In questo tipo di indagine i 50 punti rappresentano la soglia limite tra crescita e calo dell’attività.
Inoltre secondo Markit l’ultima indagine ha segnato un «notevole» aumento dei livelli occupazionali, al tasso più forte dal febbraio 2011. Con questo sono sei mesi che si registrano variazioni positive sui livelli di personale nel manifatturiero, la serie più lunga dal 2007 sebbene dopo una prolungata fase di cali.
Secondo Phil Smith, economista di Markit, il manifatturiero italiano è stato «incoraggiato dall’ennesimo successo delle esportazioni». Cresce la produzione e «l’indagine ha sottolineato una contrazione del carico dei costi, provocata dal minore prezzo di materie prime, che conseguentemente ha consentito di applicare ulteriore sconti dei prezzi all’ingrosso. Per adesso ciò pare stia incentivando le vendite, in particolare quelle estere, ma certamente – conclude Smith – rimane il rischio che la deflazione diventi radicata e soffochi la domanda».

Il miglioramento italiano rispecchia il più generale miglioramento registrato nell’area euro, la cui attività sempre ad aprile è risalita ai massimi da tre mesi a questa parte. In questo caso infatti il Purchasing Managers Index relativo alle aziende del comparto di
tutta l’Unione valutaria si è attestato a 53,4 punti, in lieve incremento dai 53 punti di marzo e superando lievemente i 53,3 punti indicati nella stima preliminare, secondo i dati forniti
dalla società di ricerche Markit Economics. In questo tipo di indagine i 50 punti rappresentano la soglia limite tra crescita e calo dell’attività ed è il decimo mese consecutivo che il Pmi segnala espansione sul manifatturiero.

Oltre che in Italia si sono registrati miglioramenti occupazionali in Germania,
Spagna, Paesi Bassi e Grecia e stabilizzazioni in Irlanda e Austria. In Francia invece sono stati registrati leggeri tagli occupazionali. Secondo il capo economista di Markit, Chris Williamson, gli sviluppi di aprile dipingono «un quadro positivo» sull’inizio del
secondo trimestre. «La ripresa del settore sta diventando generale e se tutto va bene sostenibile, a causa dell’aumento della domanda da parte di ogni stato membro che alimenta la crescita in altre nazioni».

Restano comunque i timori di una deflazione e non è scontato che le aziende, data l’elevata
capacità produttiva inutilizzata e la forte disoccupazione, se la sentano di aumentare i prezzi all’ingrosso. Comunque sia i numeri appena diffusi confermano la prospettiva di una crescita del quadro economico, e in questo modo allontanano le pressioni sulla Bce, che da mesi medita possibili interventi espansivi data la debolezza dell’inflazione.

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"Donne, più della metà senza reddito da lavoro. Ruoli chiave: un abisso il gap con gli uomin", di Michela Scacchi

Disoccupazione, precarietà, uguaglianza salariale e conciliazione: i dati Istat fotografano una situazione femminile che in Italia è ancora drammatica e indietro rispetto ad altri Paesi europei. A sud le percentuali precipitano: in Puglia hanno un impiego appena 26 su 100. Tetti di cristallo: 7 dirigenti su 10 sono maschi
In Italia è donna soltanto il 6,5% degli ambasciatori, il 31,3% dei prefetti, il 14,6% dei primari, il 20,3% dei professori ordinari e – nei ministeri – il 33,8% dei dirigenti di prima fascia. A prima vista, l’unica eccezione parrebbero farla i dirigenti scolastici visto che il 58,6% è femmina. Nel ‘pianeta scuola’, però, le donne rappresentano complessivamente il 79% del totale degli incarichi e, quanto a piramidi e gerarchie nei ruoli, risultano ampiamente spalmate dall’alto in basso. Di contro, i dirigenti scolastici uomini sono, sì, il 41,4% ma siccome vanno calcolati su un totale complessivo che è soltanto del 21%, ne consegue che, in rapporto alle donne, quei ‘pochi’ uomini che lavorano nella scuola stanno quasi tutti in alto.

Sempre in Italia, più di 5 donne su 10 sono senza reddito da lavoro, e, per quelle che il reddito lo hanno, la retribuzione media pro capite (calcolata tra impiegate e operaie) si ferma sotto i 25mila euro annui, mentre quella di un uomo sfonda il tetto dei 31mila. Un divario che incide non solo sul quotidiano ma che si ripercuote anche – con lo sguardo proiettato verso il domani – sull’ammontare della pensione.

LO SPECIALE: 24 ore nella vita di una donna che lavora

Accesso al mercato del lavoro, uguaglianza salariale, conciliazione famiglia-occupazione, stop ai ‘tetti di cristallo’ e credito agevolato. Utopie per le donne? In Italia – indietro rispetto ad altri Paesi europei – la possibilità di agguantare una reale parità di genere è frenata da problemi di natura strutturale. Eppure, le donne ormai raggiungono gli uomini, e spesso li superano, sia nella formazione scolastica sia nella preparazione universitaria. La barriera che si erge all’ingresso del mercato del lavoro, dunque, costituisce una discriminazione che oggi, a detta di tutti, deve essere superata. Allo stesso tempo va contrastata la diversità, anche salariale: già, perché la commissione Ue ha appena richiamato gli Stati membri ad adottare misure utili a diminuire il persistente divario retributivo fra uomo e donna e, in tal senso, a garantire trasparenza.

LEGGI Sabbadini: “Lavoratrici e pilastro del welfare ma a caro prezzo”

Di sicuro c’è che la crisi ha colpito duramente le donne, soprattutto nel Mezzogiorno, dove giovani, mogli e mamme (video) accettano lavori anche dequalificanti pur di risolvere i problemi economici della famiglia, soprattutto se l’uomo ha appena perso il proprio impiego. Inoltre, il part-time involontario, cioè quello stabilito dalle aziende e non certo per motivi di conciliazione, è una condizione sempre più diffusa tra le lavoratrici. Di contro, migliorare la conciliazione fra i tempi di lavoro e quelli di cura rappresenta uno dei principali obiettivi per fare esprimere pienamente il potenziale femminile nel mondo del lavoro e migliorare la produttività delle aziende pubbliche e private.

Freni, vincoli e discriminazioni che vanno eliminati, perché – e soltanto qualche settimana fa a ripeterlo è stato il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti aRepubblicaTv – le donne “devono avere tutte le opportunità per assumere ruoli di responsabilità nella società italiana e nelle imprese”.

Vero è, tuttavia, che i numeri parlano chiaro. Ancora prima di poter affrontare il nodo delle differenze retributive di genere, il problema è rappresentato dalle percentuali legate all’occupazione. Secondo gli ultimi dati Istat, a febbraio di quest’anno risultava occupato soltanto il 46,6% delle donne (46,7% a dicembre 2013), contro un 64% degli uomini, per un totale medio pari al 55,2 per cento. Un gap che dal 2004 a oggi si è via via ristretto (dieci anni fa il rapporto era 70% uomini contro 45% donne) soprattutto perché sono stati i maschi a perdere sostanzialmente l’impiego. Sull’altro versante, più che aumentare l’ingresso delle donne nei luoghi di lavoro, si è allungata la permanenza di quelle che un’occupazione l’avevano già in virtù dell’estensione dell’età pensionabile.

Un tasso di occupazione, quello femminile, che è comunque il risultato di una situazione geograficamente variegata. Le cifre del 2013 regalano un’immagine del Paese che fa tremare le vene ai polsi: se si guarda alle regioni del nord, risulta occupato il 56,5% delle donne. Al centro, lavora il 53,2% contro il 68% degli uomini. Al sud il divario di genere si trasforma in un abisso: ha un impiego solo il 30% delle donne a fronte di un 53,4% di maschi impiegati.

D’altronde, se si analizza il tasso di disoccupazione aggiornato a fine 2013, tali differenze emergono in maniera prepotente. Nella top ten delle regioni che fanno registrare le percentuali più drammatiche, ci sono Puglia (è disoccupato il 26,5% delle donne contro il 18,8% degli uomini), Campania (il 23,7% contro il 19,7%), Calabria (il 24,3% contro il 13,8%), Sicilia (il 23,7% contro il 16,5%), Sardegna (il 18,1% contro il 13,6%), Molise (il 18% contro un pari 18%), Basilicata (dove la situazione è ribaltata pur se di poco: il 15,9% contro il 16,9%), Marche (il 14,5% contro il 10,6%), Abruzzo (il 13,4% contro il 10,6 per cento), e Umbria (il 13,06% contro l’8,8%).

Interessante, inoltre, il raffronto per tipologia di impiego. Nel 2013 i dipendenti a tempo pieno sono per il 62,8% uomini e per il 31,11% donne. La disparità si accentua ulteriormente se si guardano gli autonomi a tempo pieno: il 74,9% è maschio, il 25,08% è femmina. La situazione si ribalta, però, se si analizza il dato sul part-time dei dipendenti: il 19,2% è rappresentato dagli uomini contro un 80,7% costituito dalle donne. Sempre il part-time, ma sul versante autonomi, regala una foto capace di riavvicinare gli estremi: il 42,7% è maschio, il 57,2% è femmina. Anche sugli atipici le percentuali marciano quasi assieme: uomini il 50,6%, donne il 49,3 per cento.

I numeri sulla precarietà restituiscono un’immagine niente affatto serena tanto per gli uni quanto per le altre: hanno contratti a tempo determinato il 51,4% degli uomini e il 48,5% delle donne. E sono collaboratori il 46% dei primi e il 53,9% delle seconde.

Ma è sui profili professionali che permangono i dislivelli più ampi, nonostante il regolamento sulle quote di genere nei cda delle società pubbliche abbia contribuito, già da due anni, ad accorciare lo scarto. E se, per la prima volta nella storia dell’Italia, i ministri che siedono al governo sono per metà uomini e per metà donne, in parlamento le donne sono 3 su 10.

GUARDA I GRAFICI In mano agli uomini l’80% degli incarichi istituzionali

Fuori dalla politica, due esempi su tutti: i dirigenti e il lavoro a domicilio. Nel primo caso, gli uomini rappresentano il 70,6% contro il 29,3% delle donne. Nel secondo caso il rapporto è invertito visto che le donne sono l’86,7% e gli uomini appena il 13,2 per cento. E ancora: per quel che riguarda l’imprenditoria, la percentuale ‘in rosa’ si ferma al 22,3% contro un 77,6% prettamente maschile.

A guardarlo ancora più nel dettaglio, il pianeta donna che lavora è così ‘spalmato’: è impiegato il 57,5% (il 42,4% sono uomini), è quadro il 41,6% (il 58,3% sono uomini), è operaio il 35,5% (il 64,4% sono uomini) ed è apprendista il 44,2% (il 55,7% sono uomini). Non basta: è libero professionista il 31,8% (il 68,1% sono uomini), è libero professionista senza dipendenti il 32,9% (il 67,01% sono uomini), ed è libero professionista con dipendenti – qui la cifra si abbassa ulteriormente – il 26,08% (il 73,9% sono uomini). A mettersi in proprio, inoltre, è appena il 25% delle donne, contro un 74,8% di uomini, mentre coadiuvante familiare è il 58,7% delle donne a fronte di un 41% di uomini.

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Sabbadini: “Donne lavoratrici e pilastro del welfare, ma pagano un caro prezzo”di MICHELA SCACCHIOLI

E’ capo del dipartimento Statistiche sociali e ambientali dell’Istat e ora anche del dipartimento per i Censimenti e gli archivi amministrativi e statistici: unica donna ai vertici dell’Istituto. Linda Laura Sabbadini, classe 1956, dice di adorare il suo lavoro, e nel 2006 è stata scelta dall’allora capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, per essere insignita – era l’8 marzo – dell’onorificenza di commendatore della Repubblica in virtù del ruolo particolarmente innovativo svolto nel campo delle statistiche sociali e di genere. Fa parte di gruppi di alto livello e di centri di eccellenza dell’Onu e della Commissione europea. Nonostante tutti i suoi incarichi, la Sabbadini non ha mai smesso di occuparsi anche di condizioni e qualità della vita delle donne.

Sabbadini, perché le donne incontrano – ancora oggi – così tanti ostacoli all’inserimento nel mondo del lavoro?
“I fattori sono molteplici. Complessivamente, dal 2008 l’occupazione è calata di quasi un milione di unità. E il solo 2013 è stato peggio del 2009. Tuttavia, le donne hanno tenuto più degli uomini, anche se nel 2013 hanno perso di nuovo occupazione. Ma ciò è successo perché le donne sono molto meno inserite in settori quali industria e costruzioni, il cuore della crisi, a predominanza maschile”.

LO SPECIALE: 24 ore nella vita di una donna che lavora

Sono state registrate talune dinamiche positive?
“Nei servizi alle famiglie sì. Le assistenti ad anziani, soprattutto immigrate, hanno tenuto bene. E’ l’unico settore, quello delle famiglie, che ha mantenuto un segno positivo durante la crisi. E poi c’è stato l’innalzamento del tasso di occupazione per le ultracinquantenni, che ha aumentato la permanenza sul mercato del lavoro delle donne di queste età.. Non si tratta, insomma, di nuove lavoratrici, ma di donne che già lavoravano e che hanno dovuto prolungare la propria permanenza sul luogo di lavoro”.

Gap geografici: differenze tra nord e sud del Paese?
“Al sud la dinamica occupazionale è peggiore che al nord. E’ sempre stato così, però ora è ancora peggio. Ma al sud si sono verificati alcuni fenomeni interessanti che riguardano le donne”.

LEGGI E GUARDA LE TABELLE Donne e lavoro, i dati Istat

Vale a dire?
“Nel Mezzogiorno, a fronte di uomini capifamiglia che hanno perso il lavoro e che si sono ritrovati costretti a casa, ci sono state parecchie donne che si sono messe alla ricerca di un lavoro al posto del marito o del compagno per far fronte alle gravi criticità familiari. Sono infatti aumentate le donne capofamiglia occupate che si sono accontentate di qualsiasi tipo di lavoro pur di garantire un reddito per la famiglia. Aumento delle occupate immigrate, maggiore permanenza sul lavoro delle ultracinquantenni e riattivazione nella ricerca del lavoro da parte delle donne del sud spiegano quindi la maggiore tenuta dell’occupazione femminile . Anche se le donne hanno pagato un prezzo a tutto ciò: il peggioramento della qualità del lavoro”.

In generale, che ci siano molte donne che svolgono mansioni al di sotto del livello di istruzione raggiunto è un dato di fatto.
“Sì, quello della sovra-istruzione è un altro fenomeno che purtroppo è anche aumentato. Laureate, cioè, che risultano occupate ma che svolgono impieghi per cui la laurea non è affatto necessaria. Inoltre, sono diminuite le professioni tecniche e cresciute quelle non qualificate. E poi è letteralmente esploso anche il part-time involontario”.

Part-time coatto?
“Un lavoro a metà tempo che la donna però non vorrebbe fare né ha mai richiesto al proprio titolare. Un part-time di necessità per le aziende, e scelto dalle imprese. In Italia si tratta di una quota doppia rispetto agli altri Paesi europei”.

Ma c’è un segmento anagrafico che sta peggio?
“Sì, ed è quello delle giovani, fino a 34 anni di età. Per loro il calo dell’occupazione è continuo dall’inizio della crisi. In questo senso sono colpite come i loro coetanei maschi, e in alcuni casi di più.

Quando si parla di occupazione, per le donne va tenuto conto anche del cosiddetto lavoro di cura.
“Sì, e in questo contesto continua a permanere una situazione che non è più sostenibile. Nell’arco della giornata la percentuale di ore di lavoro di cura assorbita dalle donne sul totale di quella prodotta nella coppia è superiore al 70 per cento. E’ un indice che noi monitoriamo ogni 5-6 anni perché si muove con estrema lentezza. Ebbene, i risultati ci dicono che, pian piano, la situazione accenna a migliorare, ma lo fa con tempi molto rallentati”.

E dunque cosa accade?
“Che nell’arco di venti anni le donne hanno cominciato a tagliare il numero di ore dedicato al lavoro familiare perché non ce la facevano più. Il miglioramento nell’asimmetria dei ruoli è più dovuto all’azione di taglio delle donne che all’incremento di collaborazione degli uomini. E ciò non va sottovalutato visto che la spesa sociale pubblica sta subendo tagli non indifferenti. Se le donne tagliano sulla cura e così anche il pubblico, che succederà di tutti i segmenti di popolazione che ricevevano la cura e non la riceveranno più? Di quanto aumenteranno la marginalità sociale e la sofferenza? Basti pensare alle difficoltà in cui si trovano le nonne italiane: lavorano più a lungo, hanno spesso un figlio grande a casa che non trova lavoro, e si ritrovano a dover aiutare contemporaneamente nipoti e genitori anziani spesso non autosufficienti. Sono una grande risorsa del Paese, ma rischiano di diventare anche un anello debole della catena di solidarietà. Saranno costrette sempre di più a dover tagliare le ore di cura”.

Lei intende dire che se tutto deve continuare a stare sulle spalle delle donne, queste non ce la possono fare?
“No, non ce la possono fare. E bisogna prendere coscienza di questo da un punto di vista delle politiche. Il nostro sistema di welfare va rifondato. Non è più pensabile che le donne possano essere il pilastro dell’assistenza nel momento in cui vogliono realizzarsi su tutti i fronti e inserirsi nel mercato del lavoro. E’ un cambiamento epocale Non possono avere il tempo che avevano le generazioni delle loro madri o nonne. Bisogna ridare centralità alla cura nelle politiche pubbliche”.

Arrivare a redistribuire le ore di cura tra i generi è un’utopia?
“Qualcosa sta cambiando, ma molto lentamente. In Italia il percorso che può portare verso una condivisione più simmetrica dei ruoli è, ancora oggi, pieno di ostacoli. Agiscono anche gli stereotipi di genere. I cittadini pensano che, se lavorano entrambi, uomini e donne devono anche dividere equamente il lavoro di cura. Ma a domanda più approfondita ci rispondono che la suddivisione dei compiti nella coppia è equa, quando sappiamo che non è affatto così. In realtà è come se avessero introiettato il modello de facto”.

Il modello per cui gli uomini non sono adatti a svolgere lavori domestici?
“Lo ripetono in molti, e in molte. Pensate che solo la metà delle donne si contrappone al fatto che, in periodo di crisi, gli uomini devono avere la precedenza nel lavoro. Il 25%, poi, non prende posizione. Quel che emerge, pertanto, è che il problema risiede nella mentalità anche di una parte delle donne. Nella percezione delle persone, gli uomini devono lavorare e un po’ possono occuparsi della famiglia, ma solo un po’. Viceversa, le donne devono occuparsi della famiglia e un po’ possono lavorare. E’ il cosiddetto modellobreadwinner modernizzato, cioè il vecchio modello tradizionale di divisione rigida dei ruoli un po’ modernizzato: gli uomini tutt’al più aiutano, cosa ben diversa dal condividere. E’ necessario liberarsi di questo stereotipo, anche perché i numeri legati all’asimmetria di genere ci dicono chiaramente che stiamo indietro rispetto ai Paesi avanzati, e ciò porta a un forte spreco di capitale umano femminile”.

Donne manager e donne ai vertici della politica: il nuovo governo Renzi si caratterizza per un 50 e 50 di rappresentatività di genere, anche se il grosso delle key position resta in mano agli uomini. Alla guida di talune importanti società a partecipazione pubblica, inoltre, sono state piazzate donne, anche se gli Ad con deleghe di sostanza sono tutti uomini. Passi avanti significativi o si tratta di operazioni di maquillage?
“Passi in avanti assolutamente significativi. Questi atti sono fondamentali. Mai successi. Deve diventare normale che le donne occupino queste posizioni. E’ un aspetto simbolico fondamentale. Più diventa la normalità, più sarà di spinta per le donne contro gli stereotipi che le vogliono relegare fuori dal potere. Da anni siamo abituati all’assenza delle donne, e la normalità è sempre stata rappresentata da un monopolio di tipo maschile. Romperlo è un fatto fondamentale per il Paese non solo per le donne. Per questo penso che bisogna continuare così e soprattutto accelerare questo processo. Sono scossoni fondamentali. Le donne così avranno la possibilità di dimostrare che valgono, contano, incidono anche facendo massa critica con le altre. E sarà il Paese ad avvantaggiarsene, è un elemento di innovazione sociale fondamentale. Una opportunità da cogliere al volo, da non perdere”.

Non crede che la necessità di introdurre quote di genere – se ne è discusso tanto anche nell’ambito della riforma elettorale – per affermare la presenza femminile altro non sia che uno svilimento della donna medesima?
“Niente affatto. Le quote di genere possono servire a innescare un circolo virtuoso, e a rendere normale, e non più una eccezione, ciò che non rientra nelle nostre abitudini. La visibilità è un fattore cruciale. Il cambio di rappresentanza nel governo – come anche nel parlamento e nei cda delle imprese in virtù di un meccanismo normativo – può essere utilissimo a dare la spinta e a rompere un monopolio che si è autoriprodotto per cooptazione e non in virtù del merito per anni. Ne guadagnerà tutto il Paese. E poi, mica è detto che dobbiamo mantenere per l’eternità queste misure. Si possono introdurre in una fase transitoria per ripristinare l’equilibrio. Poi non ce ne sarà più bisogno. Credo fortemente nella capacità creativa e innovativa delle donne, la fatica è tanta, ma ce la faremo”.

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"Il compito della politica e quello di una mamma", di Luigi Manconi e Valentina Calderone

Consideriamo due frasi di Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi. La prima è di ieri: «Ora tocca alla politica». È proprio così. Patrizia Moretti, per nove anni, è stata parte civile in un processo, testimone pubblica di un dolore infinito, esigente interlocutore soggetti istituzionali, voce che raccontava una verità inconfutabile, immagine di un bisogno insaziabile di giustizia. Poi, i responsabili della morte del figlio sono stati condannati in via definitiva, ma non è finita: Patrizia Moretti è stata oggetto di ignobili accuse e di insulti feroci. Anche a tutto ciò ha replicato con forza e intelligenza. Così, quando l’altro ieri un congresso «sindacale» ha applaudito a lungo i responsabili della morte del figlio, si è fatta carico ancora una volta di rispondere a quell’oltraggio. E ha detto basta. Non possiamo, noi tutti cittadini e ceto politico e intellettuale, partiti e istituzioni, delegare a lei la risposta più efficace a un’offesa crudele, inflitta non solo ai familiari di Federico ma allo Stato di diritto e alle stesse regole della convivenza civile. Spetta al Parlamento elaborare provvedimenti adeguati affinché quanto accaduto non si ripeta (l’introduzione del reato di tortura, il codice identificativo per gli operatori di polizia, nuovi criteri di formazione e selezione del personale, regole interne adeguate alla delicatezza del compito); e spetta a tutti noi vigilare affinché ciò che è capitato a Riccardo Magherini neanche due mesi fa in una strada di Firenze – e con modalità non troppo dissimili da quelle della morte di Aldrovandi – non si ripeta, non resti impunito e non cada nell’oblio.
La seconda frase di Patrizia Moretti è quella pronunciata nel corso di Che tempo che fa. A Fabio Fazio, che le chiedeva la ragione più profonda della sua determinazione, ha risposto: «Questo per me è semplicemente essere mamma». Tra queste due frasi, nella loro nitida essenzialità, si ritrova tutto il senso più autentico di una battaglia che non è né solo privata né solo pubblica e che non appartiene solo a Patrizia ma che, di Patrizia, non può fare a meno. Spiegano bene, cioè, com’è possibile che il legame di sangue e il sentimento più antico possano trasformarsi nella più significativa risorsa di azione pubblica, nel più efficace strumento di consapevolezza e nel più formidabile mezzo di accertamento della verità.
Ci si deve ricordare di quelle parole leggendo un libro straordinario come Una sola stella nel firmamento, appena pubblicato da Il Saggiatore. La psicoanalista Francesca Avon ha scritto il racconto di Patrizia Moretti, dei suoi sentimenti e delle sue emozioni ma anche dei fatti in tutta la loro drammatica durezza.
Il libro è stato scritto solo dopo la condanna definitiva dei quattro agenti, e non è un dettaglio da poco. Proprio perché, in questi lunghi anni, tutte le forze della «mamma» sono state finalizzate a quel risultato. E i suoi interventi pubblici, la sua presenza fisica e le sue parole sono state un insegnamento prezioso per tutti. E questo perché da una madre che perde un figlio ci si aspetta altro. Si vorrebbe, forse, che possa piangerlo nel silenzio della sua casa e nello spazio intimo dei suoi affetti: per cercare di superare, lì, l’immenso dolore che una tale tragedia porta con sé e che ammutolisce e annichilisce. Patrizia Moretti ci ha dimostrato che è possibile non vivere solo privatamente la propria lancinante perdita. Tra le molte lezioni che ci ha offerto, c’è questa: una donna che mette a disposizione della collettività tutte le sue energie, così come le sue debolezze, trasformandole in una occasione di maturazione pubblica.
La «trasformazione» di Patrizia può sembrare quasi naturale, ma non è affatto scontata. Nei primi momenti dopo la tragedia, i familiari pensavano che Federico fosse stato investito da una macchina, tanto il suo corpo era sfigurato. La fiducia sempre riposta nella giustizia li portava a dire: saranno fatte scrupolose indagini e la verità verrà infine accertata. Nulla di tutto questo sarebbe avvenuto se non perché Patrizia lo ha fortissimamente voluto e ottenuto. E questo libro ha il sapore di una conclusione, alla quale, ancora una volta, un fattore esterno (quegli applausi osceni) sembra volerla strappare. Ma resta questo libro: una sorta di esercizio terapeutico, di flusso di coscienza libero da costrizioni, che forse solo un testo scritto con una psicoanalista poteva consentire.
Non si può essere genitori orfani di un figlio e allo stesso tempo essere chiamati a fare gli avvocati, gli investigatori, i difensori. Patrizia Moretti è riuscita in tutto questo. E dopo questo, dolorosamente, a vivere.

L’Unità 01.05.14

"Una rivoluzione, ma tutta da fare", di Fabrizio Forquet

Le misure annunciate vanno in gran parte nella direzione giusta. Attaccano le inefficienze della burocrazia e avvicinano il cittadino alla pubblica amministrazione. Renzi le ha prospettate come una rivoluzione. Ancora una volta, però, si tratta di annunci e non di decreti e disegni di legge. Questi seguiranno. Forse. O magari seguiranno in parte. Ma intanto Renzi avvia il processo. Magari è una truffa, ma può anche essere un metodo: quello di creare il consenso sulle riforme per poi renderle praticabili. Si vedrà presto.
Nel merito dei singoli provvedimenti, una delle novità più importanti, anche se poco vistosa, è l’abolizione della distinzione tra dirigenti di prima e seconda fascia. Un sistema anacronistico, che oggi irrigidisce l’organizzazione degli uffici e ha l’unica ragion d’essere nella difesa delle posizioni (e degli stipendi) di un nucleo più ristretto di dirigenti.
Su mobilità obbligatoria e valutazione dei risultati, per ora, si può solo sperare che sia la volta buona. Un segnale forte è l’annunciato accorpamento delle (almeno) cinque scuole della pubblica amministrazione. Se ne parla da anni, ma finora nessuno è riuscito ad abbattere questo Moloch fatto di maxi-stipendi e incarichi di favore.
Altri intendimenti positivi sono l’estensione delle incompatibilità per i giudici amministrativi, le sanzioni per le liti temerarie e la stretta sul sistema delle sospensive negli appalti pubblici. Sorprende, invece, la facilità con cui Renzi ha liquidato in conferenza stampa la questione degli esuberi e dei risparmi nella pubblica amministrazione. In realtà, con le elezioni alle porte, se ne capiscono bene le motivazioni, ma non si può eludere un tema che in questi mesi ha monopolizzato il dibattito sulla spending review. Ricordiamo che nel piano Cottarelli si parla di 85mila esuberi possibili. Che fine hanno fatto?
Altrettanto accantonata appare la questione degli stipendi. Dopo tanto rumore di sciabole su privilegi e trattamenti eccessivi, il premier ha tagliato corto sulla questione ribadendo il solo limite di 240mila euro. Niente tetti intermedi, dunque, come invece si era ipotizzato nelle varie stesure del decreto sul bonus di 80 euro. Si pensava che la riforma della Pa sarebbe tornata sul tema, ma invece niente. Renzi sembra aver archiviato quei tetti. Rinunciando di fatto a ingaggiare uno scontro con categorie influenti, come quelle degli alti dirigenti pubblici, dei magistrati e dei diplomatici.
È una questione non secondaria. Renzi ha ragione, infatti, nel sostenere – come ha fatto ieri – che la riforma non deve essere contro i lavoratori pubblici. Ma perché la riforma sia una buona riforma deve saper superare le opposizioni corporative. Deve saper scontentare qualcuno per fare il bene dei tanti. Altrimenti ancora una volta la “rivoluzione” nella burocrazia sarà solo un cambiare tutto per non cambiare niente.
Ma qui si va oltre e si tocca il punto chiave su cui si gioca il riformismo di questa nuova generazione al potere. Il consenso, che il premier sa costruire con straordinaria efficacia, può essere un ariete dalle corna potenti per sfondare le tante resistenze e imporre le riforme di cui il Paese ha bisogno. Ma se il consenso diventa il metro su cui misurare ogni passo, il principio e il fine dell’azione del governo, quel consenso si trasformerà in una gabbia nella quale il riformismo renziano verrà archiviato come un’ennesima stagione di illusionismo politico.

Il SOle 24 Ore 01.05.14