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"Si può criticare il capitalismo?", di Claudio Sardo

Un twitter di Papa Francescp ha seminato il panico fra i teo-con e, più in generale, fra quanti intendono il capitalismo come la religione naturale dell’uomo moderno. «L’inequità è la radice dei mali sociali»: è il messaggio lanciato il 28 aprile dall’account @Pontifex. Non si tratta, a dire il vero, di una novità assoluta. L’espressione è la sintesi di un più complesso periodo della Evangelii gaudium, l’esortazione apostolica che costituisce finora il «manifesto programmatico» di Francesco. Il problema è che soltanto nella lingua italiana il termine inequità attenua la forza della condanna morale. In inglese inequality vuol dire ineguaglianza. In tedesco Ungleichheit si traduce con diseguaglianza. E così anche in spagnolo, la lingua del Papa: la parola inequidad non consente altra traduzione che diseguaglianza. Insomma, non c’è più una diseguaglianza iniqua da condannare e una più morbida da perseguire: la radice del male è l’«economia dello scarto» che rende gli uomini sempre più diseguali.
L’impatto non poteva non essere traumatico, soprattutto negli Stati Uniti dove si è scatenata immediatamente una vivace polemica sui social network. Stiamo parlando dei fondamenti stessi dell’etica del capitalismo. La diseguaglianza non è più un male necessario, il costo inevitabile di un meccanismo sociale che comunque assicura sviluppo e dividendi per la comunità. È la sua giustificazione morale a venir meno. E questo avviene mentre la crisi sta cambiando i paradigmi stessi della scienza economica. Non c’è soltanto Papa Francesco a delegittimare l’etica del capitalismo e l’idea di una sua «naturalità ». Ormai il fior fiore degli economisti spiega, numeri alla mano, che la crescita delle diseguaglianze nelle società avanzate sta favorendo la decrescita, la recessione, la rottura delle reti di coesione sociale. Fa riflettere il successo nelle librerie americane dell’ultimo libro del francese Thomas Piketty. Il filone è lo stesso di Joseph Stiglitz e di Paul Krugman: il prezzo della diseguaglianza è ormai insostenibile nella prospettiva stessa del mercato e dello sviluppo.
Tornano alla mente gli articoli di Michael Novak, guida intellettuale dei teo-con, a commento della Evangelii gaudium. L’avversione era netta. Anche se la critica trattenuta da ragioni diplomatiche. A Novak non era sfuggito nel testo del Papa la contestazione più radicale al cuore del capitalismo, e cioè alla teoria della «ricaduta favorevole». Non è vero, ha scritto il Papa, che «ogni crescita economica, favorita dal libero mercato» produce maggiore equità e inclusione sociale. «Questa opinione, mai confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante». Quel participio, «sacralizzati», è spietato: denuncia ogni tentativo di assimilare il capitalismo alla natura o alla religione.
C’è nuovo materiale per discutere le diversità tra culture cattoliche e protestanti. La prospettiva di Francesco, comunque, non è quella di aggiornare la dottrina sociale della Chiesa. Non gli interessa una terza via cattolica tra il liberismo e il marxismo. Né tra il mercato e lo Stato. Alla Chiesa chiede di stare evangelicamente con i poveri e di guardare il mondo dal loro punto di vista. Di gridare le ingiustizie che altri non denunciano. Di offrire al mondo, ai cattolici in special modo, una riserva di pensiero critico sulla contemporaneità. Questo non è il solo mondo possibile. Non c’è sfiducia, o delegittimazione della politica. Anzi, Papa Francesco mostra di avere un’idea alta della politica (il contrario del populismo). Ma devono svolgerla i laici, i cittadini del mondo, di cui i credenti sono parte. Se i cattolici hanno un segno particolare, è quello di non fare un «idolo» di questa economia o di qualche altra ideologia.
Per i teo-con il cristianesimo è il cemento dell’Occidente, l’impronta morale sul capitalismo, la fortezza da difendere contro la secolarizzazione e l’Islam. Ora attaccano il Papa sostenendo che è comunista o che deraglia dalla dottrina millenaria: argomenti ricorrenti delle destre reazionarie. Per Francesco vale invece, come per Paolo VI, il principio di «non appagamento» della politica. I governi, i partiti devono fare di tutto per il bene comune, ma qualunque soluzione sarà sempre criticabile e perfettibile. Il pensiero critico resta la risorsa più preziosa a disposizione dell’uomo.
Anche a sinistra c’è chi farebbe volentieri a meno del principio di uguaglianza. Nel dibattito di questi anni è entrata a sinistra, eccome, la parola «equità» proprio per ammorbidire il senso dell’uguaglianza e per tenersi nel mainstream. Ma così la sinistra si è allontanata dalle contraddizioni reali. Nell’illusione di conquistare la modernità ha pagato un tributo al pensiero unico. La radicalità sta soprattutto nel pensiero, nella libertà di sottrarsi all’omologazione. La politica concreta sarà comunque e sempre un compromesso. Il problema è se nel compromesso la sinistra si sentirà appagata, o penserà ancora a un domani più giusto.

L’Unità 01.05.14

"Quanti nemici ha il lavoro", di Maurizio Ferrara

Seicentottantamila. Questo il numero di giovani disoccupati nel mese di marzo. Un piccolo esercito, a cui si devono aggiungere più di due milioni di «né, né»: ragazzi e ragazze fra i 18 e i 29 anni che non studiano e non lavorano. Cosa si può fare per aiutarli? Da oggi, Festa del Lavoro, l’Unione Europea e il governo italiano offrono una nuova possibilità: la «Garanzia giovani». Chi si iscrive ad un apposito portale Internet verrà contattato nei prossimi mesi dai servizi per l’impiego al fine di concordare un percorso di inserimento. Una dote di un miliardo e mezzo di euro (co-finanziati dalla Ue) consentirà di agevolare e incentivare le varie opzioni: dall’apprendistato allo stage, dall’addestramento professionale all’autoimpiego.
I servizi per l’impiego (pubblici e privati) dovranno affrontare una sfida enorme. In paragone ad altri Paesi, in Italia queste strutture non hanno mai funzionato bene: la stragrande maggioranza dei giovani in cerca di occupazione è perciò costretta ad arrangiarsi e molti si perdono per strada. Un moderno mercato del lavoro non può più reggersi solo sul «fai da te». L’Europa ha ragione a sollecitare un cambiamento e ha dato prova di responsabilità mettendo a disposizione soldi propri.
L’importante adesso è non sprecare l’occasione. Due gli obiettivi prioritari. Innanzitutto, censire tutte le posizioni lavorative vacanti. A dispetto della crisi, ci sono infatti molte aziende (il 16,7% del totale, secondo le stime Excelsior) che non trovano personale con le competenze richieste. In secondo luogo, bisogna fare ogni sforzo per offrire un’esperienza, anche breve, di lavoro «vero», auspicabilmente nel privato. Di tutto abbiamo bisogno fuorché di una nuova stagione di lavori socialmente utili o di corsi di formazione fasulli. Poco promettente anche l’idea di un servizio civile retribuito, che potrebbe creare aspettative di proroghe e stabilizzazioni di massa. Il governo ha firmato intese con le principali associazioni imprenditoriali. La collaborazione delle aziende è fondamentale, soprattutto al Sud.
L’attuazione pratica della «Garanzia giovani» spetterà alle Regioni, che dal 2001 già si occupano in via esclusiva di formazione e lavoro. Questo aspetto non rassicura. Nell’ultimo decennio, la gestione delle politiche attive per l’impiego (decine di miliardi di euro, co-finanziati dall’Ue) ha visto nascere veri e propri blocchi di potere locale, al servizio delle élite politiche, burocratiche e sindacali. I soldi della «Garanzia giovani» rischiano di finire nei calderoni regionali, per finanziare iniziative già in corso, mentre ciò che serve è un cambio di rotta. Nessun Paese europeo (nemmeno quelli federali, come Germania e Spagna) dà così tanto spazio alle Regioni nel governo del mercato del lavoro.
La disoccupazione giovanile è un’emergenza nazionale e lo schema che prende avvio oggi può contribuire ad affrontarla in modo nuovo. Se è vero che la crisi sta finendo, la prima funzione della «Garanzia» deve essere quella di aiutare i giovani a salire sul treno della ripresa, a intercettare il lavoro che auspicabilmente arriverà nei prossimi mesi. Nulla di più, per ora. Ma neanche nulla di meno.

Il Corriere della Sera 01.05.14

"Democratici e arrabbiati, tra le due polizie", di Carlo Bonini

Il Prefetto di lungo corso schiarisce la voce e la dice come se volesse levarsi un peso: «Guardi, ha ragione il senatore Luigi Manconi quando dice che una parte della Polizia italiana è malata. Io aggiungo che lo è non da oggi, purtroppo. Non è certamente maggioranza ed è ragionevolmente lontana dal diventarlo. Ma è tutt’altro che numericamente indifferente. Direi che un 20, 25 per cento del Corpo mostra segnali inequivocabili di… come vogliamo chiamarlo?… scollamento democratico, frustrazione patologica, smarrimento, rancore. E Rimini è solo una tappa di questo percorso. Non è stata la prima, come è noto. E non sarà l’ultima. Perché la forza di questo contagio è importante». Esistono dunque “due Polizie”. Che vestono la stessa divisa ma coltivano un culto diametralmente opposto della Costituzione e della legge. «C’è chi la “serve” e per questo se ne considera sottoposto — osserva amaro il Prefetto — C’è chi se ne ritiene depositario, custode, interprete e dunque, sostanzialmente immune. È la Polizia che non si lascia processare, che si ritiene orfana di una dirigenza e di una Politica capace di rappresentarla e insieme guidarla. Che della riforma di trent’anni fa non ha conservato e non intende conservare nulla».
Per un giorno, l’applauso di Rimini fotografa questa verità con la geografia delle sigle sindacali e l’antitesi dei loro argomenti. Da una parte il Siulp, il Silp-Cgil, il Siap, l’Anfp (Associazione nazionale dei funzionari di Polizia), vale a dire la storica tradizione del sindacato nato con la riforma della Polizia nel 1981 e la sua smilitarizzazione. Dall’altra il Sap, il Consap, il Coisp. In altre parole, la rappresentanza sindacale di destra cresciuta nei numeri e nella capacità e peso di interlocuzione nel ventennio berlusconiano.
Si incrociano così, quasi a fornire una rappresentazione plastica di un Corpo scisso, voci antitetiche. Quelle di chi ricorda il «rispetto della vita come irrinunciabile » (Siulp) e sente l’obbligo della dissociazione (il Silp), perché «la Polizia è al servizio di tutti i cittadini e le sentenze si rispettano» (Siap). «Perché si applaudono gli eroi e non i condannati» (Anfp). E quella, al contrario, di chi rivendica il senso e il significato della standing ovation di Rimini (Sap), definisce «ignobili» le parole del senatore Manconi perché «esiste il diritto ad appoggiare umanamente chi ha pagato più gravemente del dovuto» (Coisp), fino ad avanzare una richiesta immediata, le dimissioni del Capo della Polizia (Consap).
Certo, gli acronimi sindacali non sono una guida agevole alla sostanza delle cose. Ma i loro numeri, ad esempio, qualcosa suggeriscono. Dei 100 mila poliziotti italiani, oltre 18 mila iscritti al Sap si riconoscono nell’applauso solidale a chi ha ucciso Federico Aldrovandi. E quel numero sale a 30 mila se si considerano gli iscritti di Consap e Coisp, che del resto insistono su una stessa base di “consensi”. È una Polizia che ha una sua terra di origine, diciamo pure un suo humus — l’Emilia Romagna, il Polesine, il Nord-Est — e suoi reparti di elezione: celere, squadre mobili, reparti volanti. Lo Stato che lavora e vive in strada. «Non vorrei passare per “sempliciotto” — dice un dirigente di polizia emiliano — ma Bologna, l’Emilia, hanno conosciuto la Uno Bianca. Qui, in queste terre, ad un certo punto ha ripreso forma il fantasma di una Polizia che, sbagliando, credevamo di aver seppellito con la Riforma. Ora, Federico Aldrovandi è stato ucciso a Ferrara. E Ferrara, da almeno due anni, è diventata l’epicentro di campagne sindacali che hanno poco a che fare con il merito di quella vicenda, ma molto con una certa cultura dell’essere poliziotti». Che parla alla pancia dell’apparato. Che attecchisce rigogliosa dove il terreno si è fatto fertile.
Raccontano in proposito che recentemente gli uffici del Viminale abbiano segnalato al Capo della Polizia, Alessandro Pansa, un dato statistico significativo. Che tra i poliziotti sia diventata la norma, nel mese di settembre, la cessione del quinto dello stipendio per fare fronte all’acquisto di libri dei propri figli. Senza contare gli stipendi congelati da cinque anni, il blocco del turn-over, l’età media di quanti sono in servizio che ormai sfiora i 50 anni. Emanuele Fiano, responsabile Pd per la Sicurezza, dice: «I poliziotti vivono e stanno vivendo la crisi due volte. Prima come cittadini, poi, come volto dello Stato nelle piazze in cui la crisi assume la forma della protesta, del conflitto. Se la sinistra non comprende che questo problema ci riguarda e anche molto, il problema si farà sempre più serio».
In questo spazio altamente infiammabile, chi ha invece lanciato da tempo un’Opa è stata appunto la destra. O, meglio, una delle due destre. Quella che oggi si riconosce in Berlusconi e in ciò che si muove a destra di Forza Italia. L’idea di poter passare all’incasso vellicando il ventre molle degli apparati, la loro esasperazione, ha modificato e sta continuando a modificare il linguaggio e i modi di una delle due Polizie e dei sindacati in cui si riconosce. Valga per tutti proprio la vicenda del Sap, dove l’ex segretario Nicola Tanzi ha pagato per la sua “moderazione”. La scommessa, a quanto pare, è sfruttare la debolezza di Angelino Alfano, il solco mai colmato aperto con gli apparati nella vicenda Shalabayeva e la diffusa percezione che prima che ministro dell’Interno sia innanzitutto un segretario di partito. E ancora, far leva sulla difficoltà oggettiva di un Capo della Polizia che, a differenza di chi lo ha preceduto, non è vissuto come espressione interna del Corpo, ma come uomo di mediazione stretto da troppe compatibilità. Non per nulla, la platea del congresso Sap di Rimini poteva o forse doveva diventare la sua Waterloo, se non fosse arrivata la decisione di lasciare la sala prima che questa si abbandonasse alla sua standing ovation.

La Repubblica 01.05.14

"Quattro giovani su dieci restano senza occupazione", di Luigina Venturelli

La realtà dei numeri, punto più punto meno, continua ad essere drammatica. L’Istat ha diffuso ieri i dati provvisori di marzo che, ancora una volta, raccontano di un’emergenza occupazionale da livelli record, con un tasso di disoccupazione pari al 12,7%, in calo dello 0,1% rispetto al mese precedente, ma in aumento dello 0,7% rispetto ad un anno fa. Variazioni decimali che non cambiano l’ordine di grandezza del fenomeno e fotografano una situazione «sconvolgente», per usare le parole scelte dal premier Matteo Renzi.
Ma se il quadro generale è stabile, ed è caratterizzato dal lavoro che non c’è, soprattutto per i giovani che si ritrovano con una disoccupazione ferma al 42,7% – vale a dire, quasi un giovane su due tra quelli che hanno dai 15 ai 24 anni cerca inutilmente lavoro – si vede anche qualche piccolo segnale di ripresa. Per la prima volta in questa fase della crisi, infatti, si registra un’inversione di tendenza nell’andamento dell’occupazione, il cui tasso si assesta ora al 55,6%. A marzo gli occupati sono saliti 10
a 22 milioni e 356mila, in crescita dello 0,3% su febbraio (con un guadagno di 5 73mila posti di lavoro), benché in diminuzione dello 0,6% su marzo 2013 (con 0 una perdita di 124 mila posti).

Un cambio di rotta i cui effetti sono ancora di impatto limitato sull’economia reale, come sottolinea il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi, che intravvede «qualche mode- sto spiraglio positivo ancora assoluta- mente insufficiente». Ma che è nondimeno importante per quanto lascia sperare per l’immediato futuro, con gli analisti più prudenti che ci leggono almeno «l’arresto del processo di contrazione del mercato del lavoro», e quelli più ottimisti che tirano un sospiro di sollievo perchè «il peggio è passato», visto che la ripresa del ciclo è iniziata e sono buoni i segnali che arrivano dalle indagini sulla fiducia.

Non a caso arrivano notizie cautamente positive anche sul fronte dei consumi, visto che sembra farsi un po’ più lontano lo spettro della deflazione, la spirale di abbassamento dei prezzi generata dalla depressione dei consumi che attualmente rappresenta un vero e proprio spauracchio per la ripresa economica italiana ed europea in genere.

L’inflazione ad aprile torna a salire allo 0,6% dallo 0,4% di marzo, con un incremento su base mensile dello 0,2%, anche se le variazioni sono quasi nulle se si considera solo il carrello della spesa tipo, cioè i prezzi dei prodotti ad alta frequenza di acquisto.

L’IMPEGNO DEL GOVERNO

Un quadro, quello delineato dai dati Istat, che non fa che aggiungere pressione sul mondo politico, impegnato nel frattempo nell’approvazione del decreto voluto dal ministro Giuliano Po- letti che, tra mille polemiche e trattati- ve all’interno della maggioranza, ha iniziato il suo iter parlamentare. «Oggi il lavoro attraversa un momento di gran- de difficoltà» commenta il responsabile del Welfare, sottolineando però «l’in- versione di tendenza» rilevata tra gli occupati per la prima volta dal febbraio 2013. «Ma il tasso di disoccupazione è ancora drammaticamente elevato, soprattutto tra i giovani» aggiunge Poletti. «Per questo l’impegno prioritario del governo è quello di attuare interventi che possano favorire la ripresa economica e stimolare la crescita dell’occupazione». E il ministro confida che «il parlamento provveda a convertire il decreto legge nei tempi previsti, confermandone l’ispirazione di fondo ed i contenuti fondamentali. Auspichiamo, nello stesso tempo, che ci sia la volontà di assicurare un rapido iter al disegno di legge delega».

L’Unità 01.05.14

"Se la Cina sorpassa un’America distratta", di Gianni Riotta

Thomas Polgar, ultimo capo della Cia a Saigon e uno degli ultimi americani a lasciare la capitale del Vietnam nei giorni della disfatta 1975, scomparso da poche settimane a 91 anni, amava dire: «Abbiamo perso la guerra in Vietnam per il golpe in Cile e la guerra del Kippur». A chi chiedeva stupito, come un colpo di Stato in America Latina e una guerra in Medio Oriente del 1973, avessero innescato una sconfitta nel Sud-Est asiatico, Polgar spiegava tranquillo che il Congresso, furioso per l’appoggio della Cia e del segretario di Stato Kissinger al golpe di Pinochet, non concedeva più spazi di manovra, civili o militari, al Vietnam, e che l’impegno economico per sostenere Israele dopo il Kippur, nel pieno della crisi energetica del petrolio, impedì ogni resistenza in Vietnam.

Avesse torto o ragione su Saigon, il metodo della vecchia spia Polgar è spesso utile. Fatti lontani nel presente, si rivelano cruciali causa ed effetto nella storia. Noi viviamo giorni storici, il mondo che ne nasce sarà diverso da quel che immaginiamo.

Ma dobbiamo almeno provare a cercare i nessi decisivi. La classe dirigente tedesca, per esempio, resta filo Putin, persuasa che l’interesse energetico a breve cancelli ogni preoccupazione strategica: e, a stare ai dispacci diplomatici, la cancelliera Merkel avrebbe persuaso il nostro governo a questa linea «morbida», corroborata sembra dall’interpretazione delle fonti russe sulla telefonata tra il leader del Cremlino e il nostro primo ministro Renzi. Come è cambiato il mondo! Milizie filorusse organizzate da Mosca in Ucraina orientale (quelli del passamontagna per capirci) sequestrano i sei osservatori Osce di un team tedesco, si rifiutano di trattare con il ministro degli Esteri di Berlino Steinmeier con tale protervia da venirne definiti «disgustosi». Infine però Berlino porge l’altra guancia: e, badate, le fonti confermano che l’ex ragazza della Germania Est, Angela Merkel, è la più dura del Paese, industria e finanza, guidate dall’ex cancelliere socialista Schroeder lobbysta di Putin, accetta che la Russia, dopo porzioni di Georgia e Crimea, ingoi anche l’Ucraina, purché l’Ebitda non ne risenta.

Cosa può fare allora il presidente Obama? Poco. La spaccatura Usa-Ue, che la guerra in Iraq del 2003 non provocò, ma solo aggravò, è compiuta, e in poche ore il leader della Casa Bianca legge sui bollettini che la Cina è prossima al sorpasso economico 2014 su Washington, con gli Stati Uniti che perdono la testa del pianeta per la prima volta dal 1872, quando alla Casa Bianca venne rieletto il generale Grant. Non basta: i dati sul Pil, malgrado le scuse sul pessimo inverno, parlano di una crescita «all’italiana» 0,1%, sotto le pur mediocri previsioni Federal Reserve 1,1%. Peggio, un sondaggio del quotidiano finanziario «Wall Street Journal» stima che la metà degli americani, 47%, è stufa e stanca di intervenire nel mondo, e vuole la Casa Bianca concentrata sull’occupazione.

America isolazionista come negli Anni Trenta? Le sfortunate guerre in Afghanistan e Iraq, costate miliardi di dollari e migliaia di vite umane, hanno disgustato gli americani, eppure la maggioranza dei cittadini ritiene «troppo prudente» Obama in Ucraina, mentre il 53% boccia la sua intera politica estera e il 58 l’economica. Lo studioso conservatore Max Boot nota il paradosso: l’America non vuole impicciarsi con il mondo, ma non approva la politica estera di un presidente che se ne impiccia pochissimo. Che succede?

Succede che i nessi vanno ricercati lontano, abbiamo dimenticato che il presidente Roosevelt non riuscì a far dichiarare guerra al Congresso prima di Pearl Harbor, e anche dopo l’attacco giapponese il Parlamento nicchiò ad attaccare Italia e Germania, che fecero da sole l’errore di affrontare lo Zio Sam. Gli europei non capiscono che, in un mondo instabile, i commerci rischiano, gli americani non comprendono come leadership economica, politica e morale sono integrate, non si può essere Paese numero 1 in un solo ambito. La classe media Usa, a lungo la più benestante, è sorpassata dai canadesi, perde ricchezza e status; le infrastrutture Usa, strade, ponti, edifici pubblici, comunicazioni, sono bocciate una per una, «da terzo mondo» dal devastante rapporto «Financial Times».

Ma chi ha in America la forza di proporre un piano di lavori pubblici, scuole migliori, Difesa high tech e senza sprechi, tagliando i sussidi a industrie obsolete? Provateci e la sconfitta elettorale è certa. Dunque il mondo, in giorni di storici eventi che non fanno titoloni sui siti web, non vede i nodi che il futuro considererà con acribia. L’America crede di poter essere leader senza sacrifici; Putin si illude di potere entrare in tutta l’Ucraina, non capendo che la sua crescente aggressività ha già svegliato polacchi, svedesi e baltici e domani sveglierà gli altri europei; la Cina è, per ora, vincitrice della «guerra speciale» in Ucraina, con Casa Bianca e Cremlino in gara per corteggiarla, mentre gode dei comunicati «Numeri 1 economici!», ma ci vorranno al ritmo attuale decenni, prima che la classe media cinese abbia il tenore di vita europeo o americano, il disastro demografico rallenta la corsa, crescono in piazza e sul web malumori politici e sociali.

Siamo un mondo di miopi, grandi e piccoli. La lezione di Polgar brilla adesso con il Vietnam, che temendo l’invadenza cinese, si avvicina ai vecchi nemici del 1975, gli americani. Per dieci anni Washington ha perduto partner per eccesso di aggressività. Putin in Ucraina e i cinesi nelle isole Sankaku-Diaoyu chiariscono a tanti (forse perfino agli europei a un certo punto) che forse è comunque meglio esser amici degli americani nel duro XXI secolo. E gli americani intanto cantano «Che mi importa del mondo…». Povero Polgar: riposi in pace!

La Stampa 01.05.14

"Eterologa, dopo la Consulta boom di richieste" di Alessandra Rubenni

Un «boom». Nel tam tam di siti web e agenzie di stampa, i numeri arrivati ieri raccontano di come sarebbe una vera e propria esplosione per le richieste che riguardano la fecondazione eterologa. E ci mettono poco a scavalcare le altre notizie. In ventuno giorni, esatta- mente dal giorno in cui la Consulta ha rottamato di fatto la legge 40 del 2004 dichiarando incostituzionale il divieto a ricorrere a un donatore esterno di ovuli o sperma nei casi di infertilità assoluta, sarebbero tanti, tantissimi, a chiedere delle cure che in Italia erano state messe fuori legge. In media sarebbero 150 al giorno, per un totale di circa 3.400 in tre settimane, solo le richieste arrivate alla Cecos Italia, un’associazione cui fanno capo 20 sedi, dislocate tra 10 Regioni, e che in ogni centro avrebbe ricevuto dalle 3 alle 15 telefonate al giorno. Secondo una ricerca della stessa associazione le domande di fecondazione eterologa sarebbero in «costante e continuo incremento».

Numeri a parte, di certo la sentenza della Corte costituzionale rappresenta una rivoluzione per le coppie italiane che, volendo ricorrere all’eterologa finora (se potevano permetterselo economicamente) erano costrette a scappare all’estero. Secondo l’Osservatorio sul turismo procreativo circa 2mila

coppie l’anno, dirette molto spesso in Spagna. Non numeri di massa, quindi, ma aspiranti genitori che adesso dovrebbero trovare una risposta in Italia, dopo che la Consulta – accogliendo i ricorsi presentati dai tribunali di Mila- no, Firenze e Catania – ha bocciato gli articoli 4, comma 3; 9, commi 1 e 3 e 12, comma 1, della legge 40, che oltre al divieto assoluto di ricorrere all’eterologa prevedeva anche sanzioni per i me- dici che la avessero praticata. Ma adesso, in attesa delle motivazioni della sentenza, che arriveranno entro il 9 maggio, il tema è di nuovo un caso politico. In un clima nebuloso, che ha visto subito la ministra della Salute Beatrice Lorenzin accogliere la sentenza della Consulta con una cautela che sembra- va voler frenare ogni entusiasmo. Per- ché introdurre l’eterologa è «un evento complesso che difficilmente potrà essere attuato solo mediante decreti», aveva immediatamente messo le mani avanti Lorenzin. E di fronte all’evidenza che la sentenza va rispettata aveva subito annunciato una «road map» per fare chiarezza sui temi da definire. Questioni che però sembrano ridursi a una sola: semplicemente, andrà garantito l’anonimato e insieme la possibilità d’accesso ai dati genetici del donatore, come fanno notare le associazioni che ai tempi della legge 40 si sono battute contro quel divieto e ora dicono «no» alla prospettiva di infilarsi in un intricato percorso di norme e decreti.

Intanto il Movimento per la vita, con Paola Binetti, ha già alzato la polemica parlando di un nuovo «Far west» e presentato una proposta di legge «che sarà affidata, in particolare, ai 63 parlamentari che hanno sottoscritto l’iniziativa “UnoDiNoi” impegnandosi per la tutela del concepito». Mentre la ministra Lorenzin ieri si è sentita di dover tornare sull’argomento, invocando la necessità di inserire il tutto in quadro normativo, con il contributo di Ministero, Parlamento e di «tutte le altre istituzioni interessate». «Solo quando si conosceranno le motivazioni della sentenza sarà possibile individuarne le modalità di attuazione. Saranno molti gli aspetti da regolare – si legge nella nota del Ministero – con diversi tipi di provvedimenti, sia di tipo amministrativo che legislativo; bisognerà ascolta- re gli operatori del settore e i soggetti coinvolti. Problematiche che vanno affrontate con grande rigore e nelle sedi opportune, evitando scorciatoie e tenendo in massimo conto l’appropriatezza e la sicurezza dei percorsi, per salvaguardare innanzitutto la salute delle coppie e dei nascituri. Il Ministero è pronto ad iniziare il lavoro, fin da quando sarà pubblicata la sentenza della Consulta».

Niente fretta, insomma. Ma nel frattempo, «tutte le coppie che si rivolgono a noi fanno la stessa domanda: qual è l’iter da seguire per la fecondazione eterologa?», riferisce Elisabetta Coccia, presidente di Cecos Italia. Aspiranti pazienti che chiedono delle eventuali liste di attesa, si informano sui costi, le procedure tecniche, le garanzie del centro a cui si rivolgono. Coppie che, sembra nell’80% dei casi, vorrebbero ricorrere all’eterologa per problemi di infertilità femminile, e che sono distribuite abbastanza omogeneamente in tutta Italia, ma si rivolgono soprattutto ai centri del Nord-est e al centro (Emilia-Romagna e Toscana in particolare), un poco meno al Sud. «Coppie consapevoli che vogliono risposte – sottolinea Elisabetta Coccia – e rimangono sorprese del fatto che a oggi non so- no state emanate linee guida dal mini- stero della Salute, nonostante noi società della riproduzione abbiamo dato la disponibilità a un tavolo tecnico di confronto».

L’Unità 01.05.14

Aldrovandi, le on. Ghizzoni e Pini interrogano il ministro Alfano

“I poliziotti condannati non sono certo eroi, semmai lo è la madre, davvero instancabile”. Le parlamentari modenesi del Pd Manuela Ghizzoni e Giuditta Pini hanno firmato una interrogazione al ministro dell’Interno Angelino Alfano sull’ovazione che è stata tributata, al congresso del Sap, ai poliziotti condannati nel caso Aldrovandi. “Non ci troviamo di fronte a degli eroi – dicono – semmai l’eroina di questa vicenda è la madre di Federico che, instancabile, non ha mai smesso di cercare giustizia per la memoria del figlio”.

“No, non ci troviamo di fronte a degli eroi, i poliziotti condannati, quella notte, non ottemperarono al loro dovere di tutela dei cittadini. Se qualche eroe in questa vicenda c’è, è semmai la madre di Federico che, instancabile, non ha mai smesso di cercare giustizia per la memoria del figlio”: le parlamentari modenesi del Pd Manuela Ghizzoni e Giuditta Pini si dicono indignate del lungo applauso che il congresso del Sap, il Sindacato autonomo di polizia, ha tributato ai tre agenti, condannati a tre anni e mezzo per eccesso colposo nell’omicidio del giovane Federico Aldrovandi. “E’ per fare piena luce su questa vicenda, per separare il lavoro onesto, spesso non adeguatamente retribuito, delle migliaia di agenti che sulle strade e nei commissariati fanno fino in fondo il loro dovere di servitori dello Stato – continuano le on. Ghizzoni e Pini – che abbiamo deciso di firmare la interrogazione al ministro dell’Interno Alfano proposta dalla collega Stella Bianchi. Quell’applauso non può passare sotto silenzio, soprattutto perché avvenuto dopo poco che il capo della polizia Pansa, da quello stesso palco, aveva annunciato il nuovo decalogo a cui le forze dell’ordine devono attenersi in situazioni “delicate” da gestire come le manifestazioni pubbliche”.