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«La prima volta davanti allo specchio C’è un’altra persona che mi guarda da lì», di Lucia Annibali

Oggi è il giorno spartiacque. Se la visita di controllo va bene, possiamo lasciare l’appartamento a Parma e tornare tutti a casa, e non c’è un solo motivo per credere che qualcosa non funzioni. Quindi arrivo in ospedale con la certezza che la mia nuova vita a Urbino mi stia aspettando già per domani. A pensarci bene, non ho molta voglia di andar via da qui. Non so se voglio uscire da questa campana di vetro che finora mi ha così protetto. Qui mi sento al sicuro. Entro nella sala medicazioni e trovo un’infermiera che mi insegna a lavarmi il viso. D’ora in poi dovrò fare da sola: serve molta delicatezza e una grande attenzione, mi spiega. Chiedo a lei e al Califfo se per favore posso tornare a casa sbendata: ne ho abbastanza delle fasciature sulla faccia. Dice di sì, posso farlo. In questi giorni sono migliorata molto con gli occhi, ma vedo ancora male e perciò capisco più col tatto che con la vista quanto sapone liquido devo usare per lavarmi, perché l’infermiera me ne versa un po’ nel palmo della mano sinistra.
«Vado?». «Vai». Per la prima volta le dita delle mie mani, avvolte da una schiuma morbida, sfiorano la pelle del viso, la sentono ferita, la accarezzano. Mi viene in mente un paesaggio marziano; i polpastrelli percorrono croste che forse una volta sono stati crateri di piccoli vulcani; individuano solchi che, chissà, magari erano fiumiciattoli; toccano increspature dove un tempo c’era sicuramente dell’acqua. «Un tempo era un pianeta vivo, la mia faccia. E adesso? Cosa sarà rimasto?» mi domando all’improvviso come se finora mi fossi dimenticata di farmi questa domanda. Sospiro. Chiamo a raccolta tutto il coraggio che posso e lo chiedo: «C’è uno specchio?». Il cuore accelera il ritmo. Mi tocca rispolverare il vecchio mantra: «Va tutto bene, Luci. Tranquilla». Il Califfo si piazza in mezzo alle mie emozioni: «Se vuole lo specchio c’è, sì. Ma allora facciamo entrare anche la mamma, che dice? Così vede anche lei come deve fare i lavaggi…». «D’accordo, facciamola entrare.» Un minuto dopo Lella è accanto a me. Sento la sua commozione perché, dopo tutto questo tempo, per la prima volta rivede la mia faccia. E dev’essere parecchio cambiata da com’era la sera del 16 aprile. Altro sospiro: «Dai, datemi questo specchio». C’è un’altra persona lì dentro. Come il maleficio di una fiaba, lo specchio mi restituisce un’immagine nella quale non mi riconosco. Mi studio per un po’ di minuti in silenzio, qua e là vedo il colore della pelle un po’ più scuro, metto a fuoco le croste che avevo sentito poco prima sotto le dita e il dettaglio che noto più di tutti è il naso. «Manca un pezzo» penso, ma apro bocca sfumando il concetto: «Mi pare di vedere che questo naso non è un granché». Nessuno fiata. Dev’essere la mia bacchetta magica: si è mossa e qui si sono fermati tutti. Immobili. Ci sono parole sospese attorno a me. Sento addosso il peso delle sensazioni degli altri. Mia madre, il Califfo, l’infermiera: come se tutti i loro pensieri ruotassero in una sola girandola nella mia testa. Si aspettano una reazione, una frase, un commento. È un momento troppo importante per non meritare nemmeno una lacrima, una domanda, una parola… «Di’ qualcosa, Luci» scuoto il mio mutismo. «Be’, secondo me con la frangia starei meglio» è la prima frase che mi viene in mente. E la bacchetta magica spezza l’incantesimo. L’infermiera scoppia a ridere, il dottor Caleffi saluta e abbandona la stanza e io potrei scommettere su che cosa sta pensando mentre esce: «Lucia ha superato la prova». Me lo dice una didascalia che vedo solo io sulla sua testa, quella sì, nitida.

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Due maschere e la mano di un bambino Il viaggio di Lucia per riprendersi la vita

Le maschere sono due. La prima va indossata durante il giorno. È di silicone ed è tenuta ferma da due elastici neri: sopra Lucia può infilare gli occhiali ma non potrebbe mai mangiare. La seconda maschera, la «morbida», entra in gioco dopo cena e con quella Lucia ci dorme: è un mefisto, color carne, come quelli indossati dai poliziotti o dai carabinieri che hanno arrestato un mafioso e non devono farsi riconoscere. Tutto questo per almeno 20 ore al giorno: la pelle che sta guarendo è bianchissima, liscia, fragile. È una pelle da bambola, di aspetto mutevole e ancora incerto, in parte nuova e in parte scolpita da ustioni e cicatrici di cicatrici. Fino a oggi gli interventi al viso e alla mano destra sono stati 11.
Lucia Annibali ha 36 anni, compiuti il 18 settembre, già con questo nuovo aspetto. Il 16 aprile di un anno fa due albanesi assoldati da Luca Varani, coetaneo, avvocato civilista di Pesaro, le hanno cambiato il destino gettandole addosso dell’acido.
In Io ci sono, la mia storia di non amore (Rizzoli, da domani in edicola con il Corriere della Sera a 12,90 euro, in libreria a 15 euro), un libro di 272 pagine scritto con la giornalista del Corriere della Sera Giusi Fasano, Lucia racconta tutto quello che è capitato da allora. Ma va anche un po’ più in là: nel passato, per trovare le radici della storia d’amore che è diventata un tentato omicidio, e nel futuro, per provare a pensare cosa fare di bello e di buono della sua vita.
È un viaggio al centro del dolore costruito su due livelli. C’è il racconto dei fatti, fatti che sono anche scritti nelle carte del processo che ha portato Luca Varani alla condanna a vent’anni in primo grado. Definirlo ex fidanzato, anche se è vero, è fastidioso.
Il secondo codice è il più misterioso e inedito, perché è una tela sottilissima il cui ordìto sono i dettagli. Infinitesimali, squallidi, commoventi. Un dettaglio è, per esempio, il nuovo modo di misurare il tempo. Subito dopo il ricovero, e per il mese e mezzo a seguire, Lucia ha sempre e soltanto contato fino a tre, cioè la distanza di ore tra una applicazione di collirio e di crema e l’altra. Le avevano già detto che quasi certamente sarebbe rimasta cieca.
I grandi ustionati come Lucia non possono né piangere né ridere. Tante volte abbiamo letto o sentito dire che le lacrime «bruciano». Infatti è vero: sono salate e sembrano fuoco sulle cicatrici di innesti di pelle. Ma non si può neanche ridere se, come è accaduto a Lucia, la strada seguita dall’acido ha sciolto gli angoli della bocca, riducendo il diametro del suo sorriso. Lei lo sa bene e lo racconta per un solo motivo: dopo non molto tempo ha cercato di farlo. E poi ci è riuscita.
Le cure, il processo: la ricostruzione di un corpo e di una vita, la costruzione di una verità processuale. In mezzo deposizioni, interrogatori e un continuo andare e tornare dal Centro grandi ustionati di Parma. In Io ci sono è tutto descritto talmente tanto e talmente bene che fa soffrire. Dettagli, ancora dettagli. Come questa scheggia di vita: siamo in estate, Lucia è tornata ancora una volta per una operazione. Le palpebre devono essere reinnestate. Dovrà restare ferma nel letto per cinque giorni, con gli occhi cuciti. C’è un nuovo compagno di stanza, come sempre… «Resto sola finché nel letto accanto arriva un bambino che non ha nemmeno due anni. Si è ustionato con il caffè e siccome sua madre dorme qui con lui, gli infermieri hanno aggiunto un letto e gli spazi si sono molto ridotti. Praticamente ci si tocca. “Questo bimbo sta cercando di darti la mano” dice mia madre dopo averlo visto avvicinare il braccino più volte verso il mio letto. Allungo la mano sinistra verso di lui e aspetto. Ovviamente è un invito che non può ignorare. Sento le sue piccole dita accarezzare le mie e il linguaggio universale del gioco ci fa diventare amici in un minuto. Il gioco è questo: ogni tanto lui allunga la manina e mi tocca, io fingo di scappare dal suo contatto e lui ride per riprovarci un istante dopo e vedere, come direbbe Jannacci, l’effetto che fa».
A Lucia nessuno, tranne una volta durante una conferenza stampa, ha mai osato chiedere se intendesse perdonare l’uomo che l’ha sfigurata. Il che è strano, in genere è una delle curiosità più ricorrenti nei confronti di chi esce dalla cronaca nera ed entra nella nostra vita. «Non ne voglio parlare. Delle volte mi ha fatto pena, questo sì», è stata la risposta. Lei pensa che non si possa, che non abbia senso usare la categoria del perdono per chiudere la traiettoria innescata da un gesto «miserabile». Ma certo non è arbitrario o sbagliato leggere nella sua totale, inspiegabile assenza di odio l’esistenza e la forza della compassione. Ora davvero ogni maschera è caduta. Per tutti e per sempre.

Il Corriere della Sera 23.04.14

Renzi: «Gli 80 euro sono per sempre», di Marco Rogari

Non più di 9-10 miliardi. Almeno sulla base dello schema di coperture presentato dal Governo con il varo dell’operazione taglia-cuneo fiscale. Sono le riduzioni di spesa per il 2015 che dovranno scattare in autunno con la legge di stabilità per rendere permanente il bonus Irpef da 80 euro mensili, garantito a circa 10 milioni di lavoratori, ma per il momento per il solo 2014, dal decreto varato la scorsa settimana dal Governo Renzi. Anche se il premier tiene a ribadire che gli 80 euro «sono per sempre». I tagli ex novo per il prossimo anno potrebbero comunque non superare quota 4-5 miliardi visto che una fetta di 5 miliardi è già attesa dalla stretta sugli acquisti di beni e servizi nella Pa prevista dal Dl. E, sulla falsariga di quanto indicato dal Def, una fetta consistente, pari a circa 1,6 miliardi, dovrebbe arrivare da interventi su Comuni e Forze di polizia.
Già nelle prossime settimane i tecnici dell’Esecutivo e il commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, saranno al lavoro per giungere all’inizio dell’estate con il sistema di coperture per il 2015 già abbozzato. Al momento la priorità resta il via libera delle Camere al decreto taglia-cuneo appena varato, su cui si sono già concentrate le critiche di M5S e di Forza Italia per una presunta fragilità delle coperture.
Ma Matteo Renzi in un’intervista al Tg1 difende a spada tratta il provvedimento. «Stiamo restituendo 80 euro al mese. I soloni abituati a stipendi da milionari dicono che sono pochi, vorrei vedere loro guadagnare mille euro al mese. Per chi guadagna quelle cifre, 80 euro non sono pochi», dice il premier. Che aggiunge: «I soldi arriveranno non per maggio ma per sempre». E non risparmia una stoccata a M5S e Fi: «Le polemiche di Brunetta o Grillo sono due facce della stessa medaglia, loro sono il partito dei chiacchieroni che si divertono con i comunicati stampa, noi facciamo le cose concrete».
Ancora nella giornata dei ieri i tecnici hanno lavorato al coordinamento del testo. All’ora di pranzo a Palazzo Chigi il premier ha visto il ministro Pier Carlo Padoan e nell’incontro è stato stato fatto anche il punto sugli ultimi assestamenti tecnici del decreto. Che oggi o al più tardi domani dovrebbe approdare nella Gazzetta Ufficiale per la pubblicazione, ma non prima di aver ottenuto il sigillo del Quirinale.
Quanto alle coperture per il 2015, della dote da 14 miliardi quantificata da Palazzo Chigi per dare prosecuzione all’operazione taglia-cuneo fiscale, 3 miliardi dovrebbero arrivare da risorse recuperate con la lotta all’evasione, anche se in realtà il decreto ne contabilizza soltanto 2. Un altro miliardo verrebbe ricavato dalla maggiore Iva legata al completamento del processo di pagamento dei debiti della Pa nei confronti delle imprese. È poi ipotizzato 1 miliardo da interventi sulle agevolazioni alle imprese che, come per il 2014, potrebbero di fatto arrivare da maggiori entrate seppure catalogate come riduzione di spesa. Rimarrebbero 9-10 miliardi.
Oltre ai 5 miliardi già previsti per effetto del nuovo meccanismo di gestione degli acquisti di beni e servizi della Pa, nello schema di coperture per il 2015 presentato da Palazzo Chigi vengono indicati 1 miliardi dalla voce “innovazione” (in parte la digitalizzazione della Pa), un altro miliardo dalla “potatura” delle municipalizzate e 2 miliardi dalla voce “sobrietà” (che assorbe le spese e i costi di funzionamento delle amministrazioni pubbliche). Le singole “poste” dovranno essere definite dalla legge di stabilità. Ma alcune indicazioni arrivano dal Def varato dal Governo. Che indica in 6-800 milioni le risorse recuperabili con l’estensione a tutto campo dei costi standard per i Comuni e in 800 milioni i risparmi realizzabili facendo leva sulla riorganizzazione delle forze di polizia. Lo stesso Def, per la verità, quantifica in soli 110 milioni le maggiori risorse ottenibili nel 2015 dalla digitalizzazione della Pa. Circa 300 milioni dovrebbero arrivare dal riassetto di Prefetture e Capitanerie di porto e di tutte le sedi periferiche dello Stato, e 100 milioni dal riordino delle comunità montane.

Il Sole 24 Ore 23.04.14

"Quegli ostacoli alla crescita da rimuovere", di Pier Carlo Padoan

Caro Direttore, raccolgo con piacere l’invito di Eugenio Scalfari a fornire chiarimenti sul programma di finanza pubblica approvato dal Parlamento il 17 aprile. Tanto più alla vigilia di elezioni europee in vista delle quali l’Unione viene troppo spesso descritta come un’entità astratta capace solo di dettare vincoli.
Certamente la programmazione ruota intorno ad alcuni parametri definiti nei trattati dell’Unione, che l’Italia ha volontariamente sottoscritto. Il più noto di questi è il rapporto tra deficit nominale pubblico e Prodotto Interno Lordo (Pil). Il Trattato di Maastricht ha fissato al 3% il valore soglia per questo rapporto. Con le successive riforme al Patto di Stabilità e Crescita, ai Paesi Membri è stato richiesto di specificare un obiettivo in termini di saldo di bilancio strutturale (ovvero il deficit nominale al netto degli effetti derivanti dalle misure temporanee e dal ciclo economico), finalizzato al conseguimento di una posizione di bilancio prossima al pareggio o in avanzo nel medio termine. Perché se spendi più di quanto incassi accumuli un debito che prima o dopo dovrai ripagare; puoi farlo quando è necessario, ma in altri periodi dovrai tornare all’equilibrio, altrimenti il debito continuerà a crescere. Proprio per impedire l’aumento incontrollato del debito pubblico il Parlamento italiano ha ritenuto opportuno inserire nella nostra Costituzione il principio dell’equilibrio tra entrate e spese.
Tuttavia il percorso di avvicinamento agli obiettivi di medio termine del Patto di Stabilità e Crescita prevede anche forme di flessibilità. In particolare, a fronte di eventi al di fuori dal controllo dei governi o nel caso di gravi recessioni, ma anche in presenza di importanti riforme strutturali, il Patto permette di ritardare il percorso di convergenza verso l’obiettivo di medio termine consentendo uno scostamento temporaneo.
In virtù di questa flessibilità e tenuto conto della lunga e profonda fase recessiva che ha portato a una perdita di circa 9 punti percentuali di Pil rispetto ai livelli pre-crisi, il Governo ha quindi chiesto alle Camere di approvare uno scenario programmatico di finanza pubblica che prevede nel 2015 un saldo di bilancio strutturale negativo per un decimo di punto percentuale di Pil (—0,1%). Il rapporto nominale deficit/Pil (il famoso tetto del 3%) non è in discussione: la disciplina fiscale perseguita dai governi italiani negli ultimi anni ha condotto a risultati sostanziali e nessuno può negare che i cittadini italiani abbiano sopportato un sacrificio enorme per tenere i conti in regola nonostante la recessione. L’effetto di questi sacrifici sui conti pubblici è l’avanzo primario più elevato nell’Unione, insieme a quello della Germania. Grazie a questi risultati, che vanno preservati, oggi il Paese è finalmente capace di rimuovere quegli ostacoli alla crescita che ne hanno bloccato per lunghi anni le potenzialità. Ostacoli presenti prima ancora della grande crisi, aggravati dalla grande crisi, e che oggi rallentano la rapidità con cui usciamo dalla grande crisi. Abbiamo collocato le riforme strutturali in un orizzonte pluriennale (quello appunto del Documento di Economia e Finanza) perché consapevoli che i benefici maggiori arriveranno nell’arco di un paio di anni. E abbiamo messo in campo misure di breve periodo — dal sostegno ai consumi al pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni — tali da accelerare i fattori della ripresa e rendere più efficaci le misure adottate. Questo cantiere (riforme strutturali più misure di pronto impatto) richiede il rinvio di un anno del pareggio strutturale di bilancio. È un onere che il sistema nel suo insieme può sostenere, mentre aiutiamo i ceti meno abbienti e le imprese ad uscire dalla crisi.

La Repubblica 23.04.14

Scuola, Ghizzoni “In una scuola bella e sicura si impara meglio”

La parlamentare modenese Pd sulla messa in sicurezza del patrimonio scolastico pubblico. “In una scuola bella e sicura si impara meglio”: la messa in sicurezza del patrimonio scolastico pubblico, insieme alla sua modernizzazione, è uno degli obiettivi fondamentali per assicurare una didattica efficace e un tempo scuola soddisfacente per gli studenti. Il tema, di grande attualità, è uno di quelli su cui, da tempo, è impegnata la parlamentare modenese del Pd Manuela Ghizzoni, vicepresidente della Commissione Istruzione della Camera dei deputati. Ecco la sua ricetta:

“Scuole accessibili, sicure, belle e funzionali alle nuove metodologie didattiche sono condizione per una buona istruzione e, quindi, per un Paese migliore. Pochissime scuole italiane, però, rispondono a questi requisiti, per una serie di ragioni, prima di tutte la scarsità delle risorse disponibili e della capacità di spesa. Troppo spesso fondi stanziati non si riescono a spendere, mentre enti proprietari come Province e Comuni devono rinunciare a interventi già preordinati a causa dei vincoli del patto di stabilità. Due questioni dirimenti devono quindi essere affrontate e risolte: occorre rimuovere dal patto di stabilità gli investimenti per le scuole e bisogna rendere finalmente operativa l’Anagrafe dell’edilizia scolastica. Solo con un’Anagrafe funzionante sarà possibile conoscere le priorità di intervento, territorio per territorio. E’ necessario, poi, procedere all’accorpamento delle numerose linee di finanziamento che ora coinvolgono ben quattro diversi ministeri: si potrebbe destinare risorse, ad esempio per cinque anni, nella legge di stabilità, disponibili in tempi certi, in modo da attivare tutti gli interventi che residuano dalle diverse linee di finanziamento oggi esistenti, conferendo, nel contempo, specifici poteri commissariali a sindaci e presidenti delle Province. A quel punto, perno del sistema diventa la regia unica istituita presso Palazzo Chigi, con l’obiettivo di raccordare esigenze territoriali ed erogazioni dei fondi. In questo modo diventa più facile monitorare periodicamente l’efficienza del sistema e gli esiti raggiunti e anche, ad esempio, emanare linee guida nazionali sui capitolati capaci di introdurre innovazioni tecniche, come la lotta all’inquinamento acustico. Del resto a noi cosa interessa? Mettere in sicurezza il patrimonio scolastico pubblico, modernizzarlo attraverso l’utilizzo di nuove tecnologie, elevarne il livello di benessere e di accessibilità così che anche le esigenze didattiche e pedagogiche ne traggano un concreto vantaggio. In una scuola bella e sicura si impara meglio”.

"Le scelte delle madri", di Chiara Saraceno

L’Italia è tra i Paesi sviluppati uno di quelli che più scoraggia l’occupazione femminile, con effetti negativi per lo sviluppo e la competitività. Lo ripetono da anni studiose e studiosi di vario orientamento. Di recente lo ha denunciato anche Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale. L’effetto negativo, tuttavia, non riguarda solo la scarsa valorizzazione del capitale umano e la resistenza ad ogni tipo di innovazione organizzativa. Riguarda anche lo scoraggiamento della fecondità.
Come avviene ormai in quasi tutti i Paesi Ue, in Italia il numero di figli desiderati è più alto rispetto al numero di figli che effettivamente si hanno. Lo scarto tra i due numeri, tuttavia, in Italia è mediamente maggiore, avendo l’Italia uno dei tassi di fecondità tra i più bassi. Il nostro è un Paese in cui conciliare responsabilità famigliari e lavoro remunerato è molto difficile: perché i servizi per la prima infanzia e le scuole a tempo pieno sono mediamente insufficienti e distribuiti in modo molto disomogeneo; perché la divisione del lavoro in famiglia continua ad essere molto asimmetrica tra uomini e donne; perché nell’organizzazione del lavoro si è diffusa più la flessibilità dettata dalle priorità aziendali che non quella che tiene conto delle esigenze dei lavoratori.
All’interno di questo fenomeno generale vi sono, tuttavia, importanti differenze tra donne, secondo il livello di istruzione, dell’area geografica di residenza, del tipo di professione. È più facile per le laureate che vivono nel Centro-Nord combinare lavoro remunerato e maternità. Anche per le laureate, tuttavia, lavoro e maternità possono apparire inconciliabili. Secondo gli ultimi dati Almalaurea, a cinque anni dalla laurea è occupato il 63,3% di coloro che hanno già un figlio a fronte del 75,8% di coloro che non ne hanno. La maternità allarga la differenza con i coetanei maschi, le cui percentuali sono rispettivamente 88,9% e 83,5%. Mentre la paternità è associata ad una più alta partecipazione al lavoro, per la maternità è vero il contrario. Il fatto è che le giovani laureate, oltre a sperimentare maggiori difficoltà di conciliare famiglia e lavoro quando hanno un figlio, rimangono anche più concentrate dei loro coetanei nei contratti di lavoro temporanei, quindi con minori garanzie in caso di interruzione per maternità.
Anche il tipo di contratto di lavoro, infatti, conta ai fini delle scelte di fecondità. I dati più recenti sulle forze di lavoro mostrano che tra le giovani tra i 25 e 34 anni esistono due tipi di distinzioni: una tra lavoratrici e casalinghe (una minoranza, in questa fascia di età), l’altra tra lavoratrici a tempo indeterminato e lavoratrici con contratti a tempo determinato. Le non lavoratrici hanno già almeno un figlio più frequentemente delle lavoratrici, al contrario dei loro coetanei uomini, che, se non sono occupati (e neppure studiano), nella stragrande maggioranza vivono ancora con i genitori e non hanno figli. Tra le donne occupate, la maggioranza in questa fascia di età, sono le lavoratrici stabili, insieme alle lavoratrici autonome, ad avere più spesso almeno un figlio. Nel 2013 aveva già un figlio il 34,1% di coloro che avevano un rapporto di lavoro stabile, a fronte del 23,8% di chi ne aveva uno a tempo determinato. Queste ultime, inoltre, più spesso non erano ancora uscite dalla famiglia d’origine.
È la precarietà nei rapporti di lavoro, più che l’essere tout court occupate, che pone vincoli alle scelte di fecondità. Non riduce solo la disponibilità di reddito e l’orizzonte temporale dei progetti di vita. Riduce anche le forme di protezione, aumentando, per le donne, i rischi lavorativi connessi alla maternità, imponendo rimandi che non sempre possono essere recuperati. Il proposito del governo di ridurre l’imposizione fiscale per le madri lavoratrici è un segnale di attenzione, anche se occorrerà fare attenzione a non farne pagare il prezzo alle famiglie monoreddito negli scaglioni più bassi. Ma i dati ci dicono che, almeno per quanto riguarda le scelte di fecondità, i due fattori più cruciali sono una ragionevole stabilità delle prospettive lavorative e la disponibilità di servizi per i bambini accessibili economicamente e di buona qualità.

La Repubblica 23.04.14

"Qualcosa di sinistra", di Guido Crainz

Il decreto che rende consultabili i documenti sulle stragi che hanno insanguinato il Paese ha valore di grande rilievo, concreto e simbolico. Attiene a un vulnus profondo della nostra democrazia, può contribuire a renderla più trasparente su un versante decisivo. È, se è lecito dirlo, una scelta di sinistra: ed è arduo parlare di «facile ricerca di consensi elettorali», come è stato fatto altre volte dopo scelte non scontate del premier. Forse occorre partire anche da qui per chiedersi perché è così difficile valutare non tanto e non solo l’azione specifica di Matteo Renzi ma l’ispirazione generale che lo muove. Nella discussione di questi mesi le critiche motivate alle sue scelte e ai suoi progetti si sono spesso intrecciate a una sorta di chiusura preventiva, quasi a una “riserva
di sinistra”. SI SONO accompagnate anche alla mancata valorizzazione del frutto più importante del suo governo: una embrionale ripresa di attese e di speranze da parte di un Paese sin lì sempre più disilluso, quasi “incattivito”. Giunto a livelli di astensione e di antipolitica inimmaginabili in passato. Si può certo discutere di questa o quella scelta fatta da Renzi ma dietro la sua idea di sinistra sembra esservi in primo luogo l’urgenza di una riconquista dei cittadini alla fiducia nella democrazia. L’urgenza, anche, di proporre forti proiezioni nel futuro. E “L’Italia cambia verso” non può non evocare “l’Italia che noi vogliamo” del primo governo Prodi (il migliore che il Paese abbia avuto negli
ultimi vent’anni).
Difficile negare poi l’importanza di altri due aspetti su cui si è fondata la “sinistra di Renzi”: da un lato l’urgenza di sbloccare l’impasse istituzionale, ponendo realmente in agenda questioni ormai marcite (dalla legge elettorale alla fine del bicameralismo perfetto, e sino a quel rapporto fra Stato e Regioni che era stato peggiorato proprio dalla vecchia sinistra); dall’altro la ripresa di iniziativa in Europa sul solco di azioni già intraprese e con la accresciuta forza di un programma di riforme concretamente avviato. Con la capacità, anche, di portare il Pd nella famiglia del socialismo europeo superando per la prima volta resistenze di lungo periodo. Qualunque giudizio si voglia dare il riformismo di Renzi è stato questo, in questi mesi. E ad esso si sono opposte non solo, occorre ripetere, fondate critiche ma più spesso una damnatio preventiva che ha via via chiamato in causa categorie più generali: dall’uso estensivo del termine di “populismo”, analizzato bene ieri da Ilvo Diamanti, sino all’equiparazione di Renzi con Craxi e Berlusconi. Forse conviene partire da qui, perché in questa equiparazione vi è una pallida intuizione e al tempo stesso una deformazione della realtà. Non vi è dubbio che le forme-partito del Novecento, basate sulla militanza e sull’appartenenza, siano entrate in crisi già negli anni Ottanta del secolo scorso. E il Psi di allora vide il primo delinearsi di un “partito personale”: con l’acclamazione diretta del premier e la sostituzione del massimo organo di decisione politica, il Comitato centrale, con una pletorica assemblea di “nani e ballerine”, per dirla con il socialista Formica. Era il Congresso del 1984: l’anno stesso della morte di Berlinguer, fischiato proprio da quell’assise, e c’è poco da aggiungere. Che rapporto c’è però fra quel mutar di pelle del Psi craxiano, colto subito da Norberto Bobbio, e le due “primarie” combattute da Matteo Renzi, capaci di coinvolgere milioni di persone? E cosa c’entra con esse il partito-azienda berlusconiano? Stupisce semmai che nei commenti più ostili a Renzi l’accostamento riguardi anche il programma politico di Berlusconi, quello millantato e quello più concretamente perseguito: quel pochissimo che ha riguardato i cittadini, perlomeno.
Vi è un precedente, ad esempio, alla determinazione con cui Berlusconi ha perseguito l’abolizione dell’Imu anche per gli altissimi redditi: anni fa il suo secondo governo aveva tolto appunto anche ad essi la tassa di successione, già abolita dal centrosinsitra per i redditi medio- bassi. E la riduzione delle tasse era stata irresponsabilmente agitata da Berlusconi per riguadagnare consenso anche nel 2011, all’indomani delle sue sconfitte alle elezioni amministrative e nei referendum, nell’incombere di una crisi che poteva essere disastrosa. Che rapporto c’è con le scelte e con le ricerche di copertura di questo governo, che si possono certo discutere ma di cui andrebbe messo in risalto anche il contrasto con pratiche precedenti? Rispetto poi al governo Monti la differenza più evidente sta proprio in una ricerca di equità sociale di cui — anche qui — possono esser criticati tempi e modalità ma non la reale consistenza. Nei mesi del governo Monti, ha annotato il Censis, vi fu una nefasta divaricazione fra un “interventismo pedagogico”, incapace di alimentare speranza, e la fatica di un vivere quotidiano sempre più gravoso: e su questa divaricazione crebbe ulteriormente un populismo gonfio di rancore. È difficile negare che qualche passo in opposta direzione sia pur stato mosso, in questi mesi: ed è ancor più difficile negare che questo sia un aspetto centrale. Non occorrono troppe parole, infine, per sottolineare la differenza fra questa prima fase del governo Renzi — pur condizionata dalla sua anomala maggioranza — e la totale afasia che aveva caratterizzato il centrosinistra sin dalla sciagurata campagna elettorale del 2013. Perché, dunque, in un quadro segnato sia da novità che da incertezze a queste ultime si è riferita in modo spesso unilaterale non solo e non tanto la polemica del Movimento 5 Stelle ma anche un’area ampia dei commentatori e talora la stessa minoranza del Pd? Qui ritorniamo forse al nodo centrale: i pilastri della tradizionale cultura di sinistra, così come l’abbiamo conosciuta, sono entrati in crisi irreversibile alcuni decenni fa. Non da essa ma solo da nuove visioni di futuro possono semmai muovere ipotesi e modalità della politica capaci di contendere a Renzi l’egemonia sul terreno principale: la capacità di ridare ai cittadini quella fiducia nella democrazia e quella speranza di futuro che negli ultimi anni è sembrata abbandonarli.

La Repubblica 23.04.14

"Per il Senato ci vorrà un miracolo", di Elisabetta Gualmini

D’altronde non può fare miracoli. Nonostante la velocità, il ritmo e il carisma, Matteo Renzi è pur sempre a capo di un governo di compromesso. Un governo di coalizione tenuto in piedi da una strana maggioranza di partiti e correnti Pd, che sono tuttavia fondamentali per farlo sopravvivere.

Al momento del cambio a Palazzo Chigi, sia il nuovo centrodestra di Alfano sia la sinistra post-bersaniana del Pd hanno festeggiato (pur senza applaudire), perché Renzi garantiva una zattera di salvataggio alla legislatura. Non ci hanno pensato un attimo a scaricare Letta in cambio di un po’ di ossigeno.

Ma ora che Renzi detta l’agenda, su una sua linea molto netta, rischiano di scomparire: i primi, palesemente, alle elezioni europee e i secondi, senza che nessuno se ne accorga, dentro al Pd. Hanno quindi un ovvio bisogno di comunicare ai rispettivi constituencies la loro esistenza in vita e un punto di vista che li distingua, senza poter mettere d’altro canto in discussione il governo. Perché, è ovvio che, caduto Matteo, non resterebbe che tornare al voto. E allora sì, che rischierebbero di rimanere davvero senza fiato!

Questa «naturale» dinamica di un governo di coalizione, in Italia si svolge secondo le liturgie e i canoni del nostro scombinato assetto istituzionale. Con un Parlamento caotico, poco autorevole e vociferante che si è già abituato da un bel pezzo al gioco delle parti che prevede la moltiplicazione degli emendamenti civetta, senza speranze, presentati per parlare a segmenti organizzati dell’elettorato, in attesa che il governo tolga tutti dall’imbarazzo con il ricorso alla fiducia.

Da questo punto di vista, niente di nuovo sotto il sole. A meno che le due questioni oggi in ballo non aprano una crepa o non creino un alibi, dopo le Europee, per una rottura.

Quindi entrando nel merito della prima questione – il lavoro – siamo al solito conflitto divisivo tra difensori della flessibilità e i paladini delle garanzie a tutti i costi (un teatrino che va in scena da quasi vent’anni, dal Pacchetto Treu in avanti). Che tuttavia dà esiti molto deludenti, provvedimenti zoppi e annacquati senza alcun impatto di tipo strutturale. Come il decreto legge su cui ieri Renzi ha messo la fiducia dopo il compromesso raggiunto con la minoranza Pd. L’ennesimo (e modesto) maquillage alle regole sui contratti di impiego (diminuzione delle proroghe per i contratti a termine e più vincoli all’uso dell’apprendistato) che, sia nella formulazione originaria sia in quella addomesticata di ieri, non avrà un grande effetto sulla creazione di posti di lavoro.

La crepa sulla riforma del Senato è ancora più insidiosa. Perché su questo punto Renzi ha realmente innovato rispetto a tutte le proposte precedenti, le quali partivano dall’assunto di conservare due distinti corpi di parlamentari eletti, e di conseguenza una doppia filiera di incarichi e strutture burocratiche: il vero costo finanziario e decisionale del bicameralismo. E’ sempre stato un assunto non detto ma rigorosamente intoccabile, da cui discendeva poi, di conseguenza, la necessità di dare al Senato un ruolo, se non identico, equipollente a quello della Camera, finendo per costruire architetture ancora più bizantine dell’attuale. Gli oppositori interni di Renzi, da ultimo il senatore Chiti, mentre enunciano grandi principi, si appendono in realtà a questa consolidata resistenza corporativa e si sono infilati nella consueta traiettoria. Con il Movimento 5 Stelle che, messo in difficoltà ormai ogni giorno dall’antipolitica di Renzi, non può che andare a sposare una battaglia di retroguardia. Ma il mancato superamento del bicameralismo, al di là della sua intrinseca irragionevolezza, si porterebbe dietro anche l’inapplicabilità o l’inutilità dell’Italicum. Perché un Senato eletto (magari con la proporzionale) verrebbe sicuramente dotato di poteri in grado di intralciare il percorso del governo, che abbia o no formalmente il potere di votare la fiducia.

Quindi, sul lavoro Renzi può anche muoversi come hanno già fatto quasi tutti i governi degli ultimi anni. La rivoluzione «gigantesca» che ogni giorno ci promette, nel caso che qualcuno si distragga, non passerà da lì. Non sarà per lui o per il ritocco all’impianto giuridico che ripartirà il mercato del lavoro. Sul Senato invece si gioca la partita della vita, del suo governo e dei governi delle prossime legislature. Qui sì, pensandoci meglio, il miracolo ci vorrebbe davvero.

La Stampa 23.04.14