Latest Posts

"Le radici dell’ottimismo", di Matteo Renzi

Ci sono ancora occhi che, oggi, possono testimoniare ciò che accadde ieri. Alcuni sono stati rintracciati e fotografati settant’anni dopo: sono occhi, volti, rughe e ombre di chi scampò alla strage di Sant’Anna di Stazzema. Occhi che hanno visto razzie, morte, devastazioni. Ma non si sono arresi alla violenza e hanno vissuto per costruire un futuro di libertà, non di vendetta.

L’Italia che oggi ha lo sguardo fiero è quella uscita settant’anni fa da tragedie, lutti e indicibili sacrifici. Ed è a quanto è costato a tutti il per- corso per arrivare sin qui che penso quando penso al 25 aprile. E penso, ancora, al fatto che un Paese in grado di rialzarsi da quelle macerie e ricostruirsi così è un Paese in grado di affrontare e superare tutto. Tutto.

Il volto di oggi è stato pagato a caro prezzo ieri. E forse è arrivato anche il momento di capitalizzare quei sacrifici: l’Italia del 25 aprile non è quella di una parte ma quella di tutti («Abbiamo combattuto assieme per riconquistare la libertà per tutti: per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro», come diceva Arrigo Boldrini). Lì abbiamo scelto di scrivere per la prima volta, la nostra carta d’identità, che si chiama Costituzione. Lì abbiamo messo nero su bianco chi volevamo essere e dove volevamo andare.

Potrei, anzi forse dovrei parlare delle sfide che ci attendono, delle opportunità che ci stanno davanti, dell’economia, del lavoro, dell’avvenire dei nostri figli. Mi dicono che ne parlo pure troppo tutti i giorni, è il mio lavoro, è la responsabilità che porto. Ma non intendo farlo oggi, di 25 aprile, come fosse una epokhé, una sospensione del tempo ordinario. Una occasione per non mescola- re i piani, per portare rispetto, per ricordare insieme e dare senso.

È grazie a quel passato che oggi possiamo immaginare il nostro futuro e immaginarlo con fiducia: l’ottimismo che deve accompagnarci non è dunque un auspicio, un io-spe- riamo-che-me-la-cavo ma è la certezza di poter contare su radici co- me queste. Da lì arriviamo. Dall’aver scelto di ripartire dalla libertà. Dall’aver scelto di ripartire insieme.

L’Unità 25.04.14

"Intellettuali e contadini alla macchia per la libertà", di Dino Messina

Una scelta morale prima ancora che politica. È questo il senso dell’epopea della Resistenza che viene fuori dalle pagine di Cento ragazzi e un capitano , il saggio di Pier Giorgio Ardeni che racconta i venti mesi di guerra partigiana sulle montagne dell’alto Reno (Bologna) concentrandosi sui ragazzi delle brigate Giustizia e Libertà e della Matteotti. Alcuni di loro ebbero il privilegio di entrare a fianco delle truppe alleate nella Bologna liberata.
Una storia non agiografica quella scritta da Ardeni (appena pubblicata dall’editore Pendragon, pp. 476, e 28) che ha avuto una motivazione biografica (il padre dell’autore, Sisto, era uno di quei giovani sbandati dell’esercito italiano che non volevano più combattere per il fascismo), ma soprattutto una spinta scientifica. Studiando i flussi migratori della comunità di Gaggio Montano e di Porretta Terme per una ricerca dell’Università di Bologna, dove insegna Economia dello sviluppo, Ardeni si è imbattuto nei pochi fuoriusciti antifascisti che furono i primi punti di riferimento delle spontanee aggregazioni partigiane dopo l’8 settembre 1943.
Ne è nato un racconto corale, basato anche sulla fondamentale testimonianza e collaborazione dell’avvocato Francesco Berti Arnoaldi Veli, che aveva diciotto anni quando si diede alla macchia, sul diario del fratello Paolo, più giovane di un anno, sul memoriale di Renato Frabetti, militante comunista che scelse di unirsi ai «giellisti» e sui contributi più vari dei protagonisti. Dagli scritti di Enzo Biagi, studente poco più che ventenne che si unì al gruppo affidato dal Comitato di liberazione nazionale a un militare di carriera, il tarantino Pietro Pandiani, ai quaderni della brigata redatti per lo più da uno straordinario personaggio fiorentino, il critico d’arte Sandrino Contini Bonaccossi, discepolo di Carlo Ludovico Ragghianti, che seguì nel breve governo guidato da Ferruccio Parri. Era questa la rappresentanza borghese e intellettuale di una pattuglia costituita in maggioranza da operai e contadini di una zona molto povera, dove il fascismo era stato subìto e in cui si era conservato un fastidio sottotraccia verso la dittatura.
Sulla scorta delle indicazioni di Claudio Pavone, che all’inizio degli anni Novanta sdoganò anche a sinistra l’espressione di «guerra civile», questo libro scritto dal punto di vista dei partigiani non omette gli aspetti scomodi della lotta di liberazione, a cominciare dalle rappresaglie sulla popolazione civile che accompagnarono da Sud a Nord l’arretramento dell’esercito tedesco. L’episodio più grave, che viene ancora ricordato dalla comunità locale, avvenne alla fine di settembre del 1944 a Ronchidoso, per mano di un gruppo della Wehrmacht, sembra lo stesso che fu responsabile dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, ma non è accertato. All’arrivo dei soldati tedeschi, i partigiani si rifugiarono nella macchia, qualcuno fece partire un colpo, ci fu una prima rappresaglia. Ma l’eccidio di oltre sessanta fra uomini, donne e bambini, molti sfollati da Bologna, avvenne qualche giorno più tardi dopo che da Gaggio Montano era partita una delegazione con il segretario comunale e due suore per chiedere clemenza ai tedeschi.
Una rappresaglia gratuita, che suscita ancora controversie, non paragonabili però alla ferita provocata nella comunità da uno degli episodi che chiudono il volume: il regolamento di conti, a guerra finita, di un gruppo di ex partigiani che nel settembre 1945 uccisero per vendetta privata cinque «fascisti» di Gaggio Montano, tra i quali un ragazzo che aveva quindici anni all’8 settembre e una donna cui era stata requisita la casa dai tedeschi. Tra gli autori della mattanza c’erano l’ex partigiano giellista passato alla brigata Garibaldi Secondo Lenzi, descritto da Enzo Biagi come un fanatico, e il comunista Mario Rosinetti, che aveva avuto il padre ucciso a Marzabotto. Lenzi morì in carcere di tubercolosi prima della sentenza definitiva, gli altri responsabili furono condannati a 28 anni per omicidio e rapina, anche se uscirono di prigione dopo pochi anni per gli effetti dell’amnistia Togliatti. Ancora di recente il cippo che ricorda uno dei cinque uccisi di Gaggio Montano è stato imbrattato da presunti eredi della Resistenza.

Il COrriere della Sera 24.04.14

******

Come ingannare i nazisti raccontando barzellette, di Antonio Carioti

Parlava un tedesco colto, da persona istruita, era gioviale, spiritoso, bravo nel raccontare barzellette. Ma sapeva anche usare il tono arrogante di chi ritiene di appartenere a una razza superiore. Benché il nome tradisse la sua origine italiana, i militari del Terzo Reich consideravano Carlo Travaglini uno dei loro. Non immaginavano che si trattasse di un convinto antinazista, che li stava abilmente ingannando.
Ha dei risvolti romanzeschi la vicenda narrata da Luigi Borgomaneri, ricercatore della Fondazione Isec, nel libro Lo straniero indesiderato e il ragazzo del Giambellino (Archetipolibri, pp. 232, e 22). Ma tutto è rigorosamente documentato. Perché Travaglini dei tedeschi possedeva anche la tipica meticolosità e aveva conservato una gran mole di carte e oggetti riguardanti la sua attività partigiana. Testimonianze dalle quali emerge un quadro della guerra di Liberazione lontano dagli stereotipi della retorica esaltatrice o denigratoria. Ma partiamo dall’inizio.
Nato in Germania nel 1905 da madre tedesca e da un direttore d’orchestra italiano, Travaglini negli anni Trenta era entrato nel mirino della Gestapo, per via di un romanzo in cui aveva scritto una frase contraria all’antisemitismo. Arrestato con motivazioni probabilmente pretestuose, era stato chiuso in un lager e poi espulso in Italia. Qui si era sposato e aveva trovato un impiego alla Magneti Marelli di Milano. Durante la Resistenza, inizialmente l’attività di Travaglini consisteva soprattutto nel sottrarre alla deportazione militari e operai italiani, facendoli passare per manodopera specializzata di cui le fabbriche milanesi avevano bisogno per proseguire la produzione a vantaggio del Terzo Reich. Gli invasori si fidavano di lui e questo gli permise di diventare l’intermediario dell’industria chimica Ledoga con il potente ministero degli Armamenti di Berlino. Convinse perfino i nazisti a fornirgli un’automobile e riuscì a sottrarre un timbro del loro comando, utilissimo per falsificare documenti.
Inoltre collaborò con i Gruppi d’azione patriottica (Gap), le formazioni legate al Pci che conducevano la guerriglia urbana. Con alcuni giovani compagni, Travaglini colpì un campo d’aviazione controllato dai tedeschi e partecipò alla sparatoria in piazza del Duomo durante il corteo funebre delle camicie nere che accompagnavano la salma del segretario fascista milanese Aldo Resega, ucciso dai Gap. Borgomaneri sottolinea che Travaglini non era comunista e nel dopoguerra non svolse alcuna attività politica. La sua presenza «anomala» al fianco dei Gap dimostra che quell’organizzazione, come nota lo storico Santo Peli nell’introduzione del volume, non era affatto un nucleo impenetrabile di rivoluzionari votati con ferrea disciplina alla causa del partito, come è stata dipinta dalle opposte vulgate. Molti gappisti erano ragazzi poco politicizzati, ma decisi a tutto per combattere il nemico, che agivano spesso in modo spontaneistico e imprudente, senza una strategia precisa e violando le regole cospiratorie.
Un adolescente di quel tipo era anche «il ragazzo del Giambellino» cui si riferisce il titolo del libro. Non ancora sedicenne, Lamberto Caenazzo incontrò Travaglini in montagna nell’agosto del 1944, quando il coraggioso partigiano, scoperto dai tedeschi e sfuggito di poco alla cattura, si era aggregato a una banda che operava nella zona del lago di Como. Nonostante la differenza di età, tra i due nacque un’amicizia senza la quale il lavoro di Borgomaneri non avrebbe mai visto la luce.
«Fu Caenazzo a parlarmi dell’attività di Travaglini, del quale non avevo mai sentito parlare benché da anni studiassi la Resistenza milanese», racconta l’autore al «Corriere». Il fatto è che si trattava di un personaggio scomodo, estraneo ai partiti e pronto anche a denunciare le malefatte di alcuni partigiani. «Dopo la guerra — continua Borgomaneri — Travaglini non aveva fatto nulla per rivendicare i suoi meriti e su di lui era calato l’oblio. Addirittura inizialmente pensai che Caenazzo non fosse attendibile. Ma quando le figlie di Travaglini mi mostrarono il materiale conservato dal padre, mi appassionai alla sua figura e decisi di scriverne la storia».

Il Corriere della Sera 24.04.14

"Quel paragone errato", di Gian Enrico Rusconi

Matteo Renzi è un dilettante, ma non uno sprovveduto. Ed è sbagliato associarlo sempre a Berlusconi. Nel nostro linguaggio il termine «dilettante» ha un sapore vagamente sprezzante, o quanto meno ironico, contrapposto a «professionista». Ma non è un caso che proprio nel nostro paese (non altrove) il termine di professionismo politico abbia acquistato un significato sempre più negativo. Facciamo un passo indietro. Il primo Berlusconi è entrato in politica e ha raccolto consensi proprio contrapponendosi ai professionisti della politica. In realtà il suo non era un «dilettantismo politico» ma un professionismo di stile aziendale, tentativamente trasposto in politica. Poco alla volta Berlusconi si è circondato di politicanti servizievoli e di mediocri uomini e donne la cui principale competenza consisteva nell’eseguire le sue direttive. Abbiamo visto come è finita. La lettera di Sandro Bondi ieri alla Stampa («FI ha fallito, sosteniamo Renzi») è una schietta, drammatica testimonianza anche se il riferimento a Renzi è problematico.

E’ un difetto d’analisi, quasi una psicosi dei commentatori critici di sinistra, collocare Renzi accanto a Berlusconi. Oltretutto costoro dimenticano la lezione che avrebbero dovuto trarre dal successo del berlusconismo, cioè le speranze o le illusioni che ha sollevato nel paese, al di là delle sue evidenti connotazioni di classe (il berlusconismo infatti è sempre di destra), di modernizzare il paese, di liberalizzare risorse, di sburocratizzare. Attraente sembrò persino l’attesa di una maggiore efficienza decisionale e di una qualche riforma istituzionale. Ma soprattutto uno stile politico e comunicativo nuovo che dagli avversari veniva criticato come «populista». Ma non si poteva negare che c’era un potenziale politico che il berlusconismo ha interpretato, sfruttato e poi deluso.

Nel frattempo il populismo nelle sue più diverse varianti si sta manifestando in maniera così estesa da rischiare di perdere ogni connotazione specifica di contenuto, persino la differenza tra destra e sinistra. Basta un leader capace, la sua abilità comunicativa, rigorosamente mediatizzata e diretta verso un «popolo» più virtuale che reale.

Detto questo, la semplice sequenza nominalistica «berlusconismo-populismo-renzismo» va respinta. Anche se i più benevoli e scrupolosi commentatori segnalano che quello di Renzi è un populismo di sinistra e fanno l’elenco delle iniziative decise e quelle programmate.

Ma in questo contesto dove sta il «dilettantismo»? In che cosa consiste?

Ripetiamo: il dilettante, di cui parliamo, non è uno sprovveduto, né in termini caratteriali tanto meno professionali. L’esperienza di Matteo Renzi come amministratore locale a vari livelli vale molto di più di quella di un politico di mestiere che ha fatto la sua carriera tra segreteria di partito e stanze ministeriali. Il dilettantismo di cui parlo è il gusto di rischiare là dove i professionisti sono bloccati da vincoli interni e ambientali; è la volontà di privilegiare la novità non solo di sostanza ma anche di immagine, se questa ha un effetto di mobilitazione o di motivazione rispetto a quanto è già stato scontato in esperienze precedenti; è sfidare avversari e alleati con scadenze strette di decisione e di realizzazione ben sapendo che i professionisti contano sugli indugi per guadagnare risorse di resistenza (si veda quanto accade nel Senato).

Questo tipo di comportamento sfiora l’azzardo e funziona a condizione che il leader possa contare su un gruppo d’urto di collaboratori, a lui affini o comunque leali, che a loro volta interpretano diffuse attese latenti nella popolazione e quindi nell’elettorato potenziale.

Il pericolo cui va incontro questo «dilettantismo» è la tentazione di sentirsi autosufficiente, quando va oltre l’orizzonte dell’emergenza in cui è costretto a muoversi attualmente. E’ il pericolo di un respiro culturale corto.

La Stampa 24.04.14

"Una lezione per tutti", di Pietro Greco

La Procura di Torino ha chiuso l’inchiesta sul caso Stamina. I reati contestati sono gravi. Si va dall’associazione a delinquere finalizzata alla truffa, alla somministrazione di medicinali guasti e pericolosi per la salute, fino all’esercizio abusivo della professione medica. Come ha dichiarato il Ministro della Salute, Beatrice Lorenzin: ce lo aspettavamo. Anche se la presunzione di innocenza vale per tutti e potranno essere solo i giudici a verificare la fondatezza di queste accuse, non certo lievi.
Noi possiamo – anzi, dobbiamo – chiederci: com’è potuto accadere? Com’è potuto accadere che una presunta terapia senza alcuna base scientifica sia stata somministrata in un (prestigioso) ospedale pubblico e, a un certo punto, su ingiunzione della magistratura? Com’è potuto accadere che il «metodo Stamina» sia stato applicato nello scetticismo e, anzi, contro il parere della comunità scientifica internazionale?
Le risposte possibili a queste domande sono molte. Alcune sono hanno una natura, per così dire, culturale. In fondo siamo il Paese del «siero Bonifacio» e del «metodo Di Bella». E già due secoli fa il giovane Giacomo Leopardi ammoniva sui pericoli associati alle superstizioni e agli errori popolari non solo degli antichi, ma anche dei moderni. C’è una specificità italiana nella coazione a ripetere questi errori. Va detto, però, che nessun Paese può dirsi immune da simili peccati.
La ricerca delle cause seconde, tuttavia, ci porterebbe troppo lontano. Meglio fermarsi alle cause prime che hanno consentito per così tanto tempo a così tante persone di dare credito a una proposta terapeutica senza basi scientifiche. Non corriamo dietro alle colpe individuali, che pure ci sono e non sono marginali. Ma cerchiamo di individuare le cause di sistema. Quelle che, appunto, da Bonifacio a Vannoni, fanno cadere il Paese con periodica sistematicità nei medesimi errori.
Possiamo individuare almeno tre di queste cause prime. Una è la mancanza di un’istituzione tecnico-scientifica che sia – e, soprattutto, sia riconosciuta come – un ente terzo, autorevole e indipendente, cui demandare, in maniera automatica, la soluzione di problemi medici controversi, quando essi sorgono. Non assolvono a questo compito né l’Agenzia nazionale del farmaco (Aifa) né il Comitato Nazionale di Bioetica (Cnb), né una sovrapposizione tra i due. Non solo e non tanto per limiti intrinseci. Ma anche e soprattutto per mancanza di chiarezza giuridica. Occorre che il legislatore apprenda dallo studio del caso Bonifacio, del caso Di Bella, del caso Vannoni e indichi con chiarezza (con assoluta chiarezza) chi è titolato a fare cosa. E lo doti degli strumenti necessari.
Una seconda causa risiede certamente nella tendenza, piuttosto diffusa nel nostro Paese, a quella che potremmo definire «esondazione istituzionale». Enti, strutture, ordinamenti, poteri dello Stato che confliggono tra loro e – in mancanza di chiarezza o (le due cose non sono affatto in contraddizione) per un ipertrofico e perverso intreccio di leggi e leggine – tendono a occupare il terreno altrui. Non è possibile che siano dei magistrati a decidere se una terapia può essere somministrata o no. Ma non è possibile neppure che i magistrati non abbiano un interlocutore certo e obbligato quando si trovano a dover assumere decisioni in campi così delicati. Non è possibile neppure che un ospedale si trovi a dover decidere se e come applicare una terapia non validata senza poter (dover) interloquire con un organismo scientifico terzo e autorevole. Occorre, in definitiva, trovare canali di comunicazione istituzionale oleati e obbligati. Occorre, in altri termini, che il Paese e, in particolare, lo stato si doti di una robusta cultura medico-scientifica.
Tuttavia anche la comunità medica allargata e la comunità scientifica devono fare uno sforzo. Uno sforzo organizzato. Non è possibile – non è giusto – che le famiglie siano lasciate sole ad affrontare drammi di portata immensa, qual è quello di avere un bambino malato grave in casa. Nessuno di noi, se lasciato solo, è in grado di prendere decisioni laceranti. Queste famiglie hanno bisogno della massima solidarietà. Non solo di quella spontanea di amici o volontari. Ma di una solidarietà organizzata. Che si faccia carico di tutto il loro disagio e fornisca tutto l’aiuto possibile per gestire ciò che non è gestibile. Queste famiglie hanno bisogno di amore. Anche dello Stato. Anche della comunità medico-scientifica. Senza amore c’è solo disperazione. E con essa l’umana disponibilità ad affidarsi al primo che passa, se quel primo che passa spaccia qualcosa che somiglia alla speranza e, appunto, all’amore.

L’Unità 24.04.14

"La falsa scienza di Stamina e quei malati usati come cavie", di Umberto Veronesi

La chiusura delle indagini sul caso Stamina con venti indagati, su cui pesano accuse gravissime, era inevitabilmente scritta nella storia perché la terapia proposta non ha mai dimostrato di avere alcuna base
scientifica. Tuttavia io per primo — e tanti medici con me — non ci siamo scagliati contro Davide Vannoni, pur avendo sommessamente ma chiaramente espresso il nostro parere, perché era in gioco la speranza dei malati, un valore che la medicina dovrebbe tutelare sempre, anche nelle situazioni più drammatiche.
Il dibattito profondo su Stamina è, per la medicina, come trovare il punto di equilibrio fra le ragioni della scienza e le ragioni della pietà, nel senso latino di pietas, che significa empatia e amore compassionevole nei confronti dei sofferenti. Riuscire a infondere fiducia e coraggio al paziente è una forma di amore che è parte integrante della cura e per questo credo che il medico non possa e non debba mai spegnere prima del tempo la fiammella della speranza, anche remota, di poter guarire. Le mie posizioni laiche sono note, ma se un malato mi chiede se è giusto andare a Lourdes per implorare la guarigione, io non mi sento di dire di no. Lo invito a farlo, se capisco che questo gesto lo aiuta a rasserenarsi. E soprattutto a sperare ancora. Ripeto sempre che in alcune situazioni gravi anche un tentativo giudicato inutile dalla scienza appare preferibile alla perdita totale di speranza.
Se pensiamo al caso che ha fatto scalpore nella vicenda Stamina, non possiamo non capire le reazioni emotive dell’opinione pubblica. Una piccola creatura di tre anni e mezzo, Sofia, viene colpita da una malattia genetica degenerativa per cui oggi non c’è cura — la leucodistrofia metacromatica — ed è condannata ad attraversare un deserto di dolore fino a una morte precoce. Qualcuno dice che la può salvare: come scegliere fra un infausto destino già segnato e una pratica che promette una guarigione, pur se definita non scientifica, non efficace e addirittura pericolosa dalla medicina? Penso che in questi casi bisogna affiancare al sentimento del dolore, la razionalità della scienza.
L’emozione non deve oscurare il giudizio lucido che ci permette di proteggere Sofia e tutti gli altri ammalati di malattie ancora senza cura. E la scienza ha delle regole, che sono fatte per garantire a tutti i cittadini la massima efficacia, trasparenza e sicurezza delle terapie. In particolare le regole per l’uso “compassionevole” di una terapia sono contenute nel decreto ministeriale dell’8 maggio 2003, che indica due condizioni fondamentali: che la terapia sia già oggetto di studi clinici sperimentali in corso o conclusi, che i dati disponibili su queste sperimentazioni siano sufficienti per formulare un favorevole giudizio sulla efficacia e la tollerabilità del farmaco.
La terapia proposta da Stamina non rispetta nessuna delle due condizioni. Anzi la sua validità è stata recentemente confutata da Nature, una delle riviste scientifiche più autorevoli al mondo. Si capisce allora come ci sia un bella differenza fra il somministrare cure compassionevoli a un malato gravissimo, che non ha altre alternative terapeutiche, e usare questo stesso malato come cavia, dandogli farmaci potenzialmente dannosi.
Per evitare nuovi casi Stamina occorre recuperare un equilibrio di giudizio che eviti di considerare l’applicazione delle regole della scienza come azione persecutoria e limitante della libertà di cura e lo Stato come un nemico che ci opprime. In Italia abbiamo uno dei migliori sistemi sanitari pubblici del mondo, e disponiamo di centri di eccellenza di standard internazionale, che permettono l’accesso alle migliori cure disponibili a tutti i cittadini.

******

Pazienti usati come cavie minacce e soldi sottobanco “Ecco l’inganno di Stamina”, di MICHELE BOCCI e SARAH MARTINENGHI

Davide Vannoni ha creato un’associazione a delinquere per truffare centinaia di persone colpite da gravi malattie somministrando, talvolta a pagamento, farmaci guasti e pericolosi. E in più, anche se dotato solo di un laurea in psicologia, si è spacciato per medico. Il pm di Torino Raffaele Guariniello ha chiuso le indagini dei Nas su Stamina scaricando accuse pesantissime sul guru del discusso metodo e su altre 19 persone, tra suoi collaboratori, dirigenti e primari del Burlo Garofolo di Trieste e degli Spedali Civili di Brescia, e pure su un funzionario dell’Aifa, il responsabile dell’ufficio ricerca e sperimentazione Carlo Tomino. L’inchiesta potrebbe essere la pietra tombale su una cura al centro di polemiche da anni. Anche se Vannoni annuncia di avere molte carte per difendersi dalle accuse.
CELLULE SCONOSCIUTE
«Pazienti trattati come cavie ». Non usa mezzi termini la procura per raccontare come lavorava quella che è ritenuta essere un’associazione a delinquere. «Somministravano preparati senza conoscerne natura, implicazioni, potenzialità, rischi e senza eseguire test necessari prima dell’impiego del prodotto sull’uomo, così indebitamente trasformato in cavia». I pazienti rischiavano eventi avversi, in molti casi ci sono state infezioni, crisi epilettiche, emorragie e traumi midollari. I malati non erano informati sulla natura dei trattamenti. Inoltre il metodo, su cui si vantavano brevetti inesistenti, veniva tenuto segreto, cosa vietata dal codice deontologico dei medici. Anche per questo cinque dipendenti degli Spedali Civili di Brescia (il direttore sanitario Ermanna Derelli, l’oncologo pediatrico Fulvio Porta, la coordinatrice della ricerca clinica Carmen Terraroli, la responsabile di laboratorio Arnalda Lanfranchi, il direttore di anestesia Gabriele Tomasoni) sono finiti nell’indagine: hanno accettato che pazienti del loro ospedale fossero sottoposti a cure segrete, oltre ad aver, a vario titolo, fatto tra l’altro certificazioni false per dire che il metodo era sicuro. Derelli è anche accusata di essersi spesa per far utilizzare il metodo sul cognato.
IL BUSINESS MONDIALE
Nel 2012 Vannoni non si accontenta più di chiedere somme fino a 48mila euro a paziente, ma comprende che Stamina può diventare un business mondiale. Si appoggia a un nuovo socio, Gianfranco Merizzi (noto imprenditore del settore parafarmaceutico) con cui crea la Medestea Stemcells e altre due società svizzere. Vengono investiti oltre 4 milioni di euro «finalizzati alla commercializzazione nazionale e mondiale della cosiddetta terapia Stamina». E la procura sequestra una nota di bilancio in cui si sostiene che «il 2013 è previsto ancora come anno di investimenti, mentre per il 2014 si prevedono i primi importanti introiti generati dall’attività delle Cells Factories». Si parla di «contatti avanzati» in corso «in Messico, Hong Kong e Svizzera». Per il pm, Vannoni «tentava di eludere i divieti imposti dalle norme sanitarie italiane ed europee anche grazie all’aiuto di un farmacista sedicente medico e di una hostess attrice che si qualificava come infermiera, con ambasciatori e consoli per ottenere il permesso di somministrare la cura a Capo Verde». Vannoni aveva messo in atto una campagna mediatica: all’estero spacciando Stamina per una terapia accreditata e legale, in Italia «inducendo un clima di tensione sociale e di falso allarme mediante conferenze e interviste, ma anche criticando le istituzioni. Sosteneva che potevano morire fino a 18mila persone se il metodo non fosse stato
adottato».
LA RETROMARCIA DEGLI ESPERTI
Per accreditare la sua terapia, Vannoni si è fatto aiutare da 15 medici (non indagati) che però «erano privi di una effettiva conoscenza della terapia Stamina ». Il pm li ha interrogati e quasi tutti hanno fatto retromarcia. Un neurologo milanese, Massimo Sher, ha scritto una letteraconfessione per esprimere il suo senso di colpa. «Mi vergogno di aver avuto la leggerezza di poter alimentare false speranze nella falsa terapia di Vannoni che con la sua abilità truffaldina pensa tuttora di approfittare della vulnerabilità dei pazienti». «Mi sono lasciato ingannare da una cornice di apparente legalità — ha spiegato ieri il medico — ma Vannoni è un cialtrone e io sono finito nella sua rete. Sono pentito: non voglio che succeda ad altre persone». «Non conosco nulla del metodo Stamina» e «non ho rilevato nessun miglioramento concreto» sono invece alcune ritrattazioni degli altri medici che hanno firmato certificazioni per i pazienti che si rivolgevano ai vari tribunali del lavoro in Italia per ottenere l’accesso alle cure. E che avrebbero indotto in errore i giudici che in 180 casi avevano dato il consenso all’uso della terapia.
IL COMITATO NON SI RIUNISCE
«Non ci siamo ancora riuniti, aspettiamo indicazioni dal ministero, non detto io i tempi». Lo dice Michele Baccarani, il presidente del comitato nominato all’inizio di marzo per decidere se fare una sperimentazione pubblica del metodo Stamina. Il fascicolo da valutare è quello presentato ai tempi del primo comitato da Vannoni che, in base alla ricostruzione di Guariniello, è stato scritto da una studentessa fuori corso di Medicina a Torino. Dentro, come noto, ci sono interi paragrafi presi da Wikipedia. Il ministro alla Salute Beatrice Lorenzin ieri ha sottolineato che il lavoro del comitato andrà comunque avanti: «Si tratta di un percorso diverso da quello della procura».
IL BLOCCO DELLE INFUSIONI
A Brescia è tutto fermo, da mesi non si fanno più infusioni e a non è possibile dire se riprenderanno. Prima di tutto c’è la questione di Erica Molino, cioè l’unica biologa in Italia (fino a poco fa neppure iscritta all’ordine) disponibile a lavorare con Vannoni e dunque insostituibile. Anche lei è finita nell’indagine. Dai primi di marzo ha sospeso la sua attività. Vannoni ha scritto all’azienda bresciana che Molino sarà in servizio «presumibilmente » il 5 maggio. Non basterà per ripartire: dieci medici dell’ospedale, tra cui gli indagati, hanno detto che non vogliono più prestare attività di supporto alle infusioni. «Non mi risulta che abbiano cambiato idea», commenta il direttore Ezio Belleri. L’azienda deve anche prendere una posizione sul futuro basandosi sul lavoro di Guariniello. Potrebbe esserci una sospensione.

La Repubblica 24.04.14

“Non confondiamo valori e fatti o la libertà muore”, di Gabriele Beccaria

«Gli italiani devo fidarsi di più dei loro scienziati! Non dimenticate che avete una grande storia scientifica, non solo artistica». John Harris, direttore dell’«Institute for Science, Ethics and Innovation» dell’Università di Manchester, confessa di avere un debole per i monumenti e i cibi italiani e a Roma – al terzo incontro del Congresso mondiale per la libertà di ricerca scientifica organizzato dall’Associazione Coscioni – ha spiegato in che cosa sbagliano i suoi amici italiani, quando affrontano le sfide e i dilemmi della scienza. Titolo della lezione: «Esiste una scienza della moralità?».
Professore, in Italia molti sono rassegnati all’idea che la scienza generi scontri continui e insanabili. Esiste una soluzione?
«Penso che, se si vuole che l’opinione pubblica cambi idea ogni volta che sbaglia, sia fondamentale che la scienza diventi più comprensibile».
E gli scienziati devono impegnarsi di più, spiegando meglio le loro scoperte?
«Assolutamente sì. Prendiamo il caso degli embrioni e di cosa succede al loro interno. È un processo così sofisticato che non è plausibile credere - come molti fanno – che nelle fasi iniziali siano una mini-versione di noi e abbiano quindi gli stessi diritti di un individuo. La natura, infatti, è incredibilmente sprecona, visto il numero minimo di embrioni che diventano feti e bambini. Dio stesso butta via embrioni in proporzioni colossali! Solo se lo si capisce si disinnesca una forma sbagliata di reverenza. Più si comprende la scienza, più sappiamo quali valori applicare».
Quali sono questi valori?
«Iniziamo dalla distinzione tra moralità ed etica: la prima – detto in modo un po’ platonico – è la scienza del giusto e dello sbagliato, del bene e e del male, la seconda è lo studio di questa scienza. Sono quindi due realtà diverse, anche se per molti appaiono intercambiabili. Ed è a causa di questa confusione che si ritiene che il bene e il male e le questioni etiche siano solo questioni di valori: si assume che siano materia di opinioni e non di fatti. A Roma ho spiegato, invece, che ciò che è buono per la collettività è sempre basato sui fatti».
Quindi qual è la conclusione?
«La mia idea è che le proposizioni morali – i valori – sono come le affermazioni della scienza. Tendono a essere oggettive e quindi ben comprensibili».
Molti, però, ribatterebbero che si tratta di concetti di «bene» o di «male» diversi, a volte addirittura incompatibili: cosa risponde?
«Che non è così. Il mio concetto è che tutti sappiamo qual è questa differenza, come dimostra l’esperienza di allevare i figli. E, oltre gli individui, lo sanno – o dovrebbero saperlo – anche i governi, sebbene spesso tendiamo a dimenticarlo».
Purtroppo siamo lontani da questa chiarezza di idee: c’è bisogno di nuove regole?
«Non c’è dubbio che ci siano problemi su come gestire ciò che possiamo fare e su ciò che facciamo nel nome del “public interest”, l’interesse collettivo: ci sono cose “buone” per alcuni e non per altri. Non nego certo queste complicazioni. Ma i calcoli di valore che richiedono sono come i calcoli scientifici sulle variabili in gioco. E, invece, si tende a esagerare i toni e arriviamo a invocare gli scontri di principi, trascurando le priorità autenticamente razionali».
Com’è riuscita la Gran Bretagna a diventare un caso esemplare di gestione delle grandi questioni scientifiche, dalla sperimentazione sugli embrioni all’eutanasia?
«Abbiamo evoluto un sistema che ha alle spalle i terribili conflitti religiosi del passato e si basa su due principi che non tutte le nazioni hanno. Il primo è che non è consentito appellarsi a considerazioni di tipo settario. La conseguenza è che la Chiesa cattolica, a differenza di quanto accade in Italia, non ha titolo per dominare la discussione pubblica. Il secondo elemento è la predisposizione a instaurare lunghi e approfonditi dibattiti pubblici. Ci sono molti esempi».
Uno clamoroso?
«Pensiamo alla possibilità di riprogrammare le cellule della pelle in uova e spermatozoi: significa poter essere, allo stesso tempo, sia madre sia padre del proprio futuro figlio. È una prospettiva che fa paura, ma con applicazioni riproduttive davvero straordinarie. È anche un esempio di come la natura sia mutevole».
La libertà di ricerca dev’essere assoluta o no?
«Non si deve tentare di controllare la ricerca, ma, quando individua qualcosa di potenzialmente pericoloso, si deve regolarla meglio, il che significa capirla meglio, dato che la scienza può avere utilizzi e applicazioni multipli. Cancellare un settore di studio potrebbe significare anche eliminare soluzioni future, oltre che potenziali pericoli. La scienza è nata per soddisfare la curiosità della nostra specie. E io sono molto felice che siamo così curiosi. Ma la scienza – non dimentichiamolo – è anche ciò che ci permette di ridurre il male e accrescere il bene di cui parlavo all’inizio».

La Stampa 23.04.14

"Adesso Renzi apre gli archivi sulle stragi ", di Adriana Comaschi

Niente più atti riservati o segreti se relativi alle stragi che hanno insanguinato il Paese, come quella di piazza Fontana o della stazione di Bologna, o a episodi oscuri anche recenti, vedi l’assassinio della giornalista Ilaria Alpi a Mogadiscio. La direttiva annunciata dal presidente del Consiglio Matteo Renzi per portare alla luce documenti su bombe e attentati che hanno segnato la storia repubblicana tra il 1969 e il 1984 è stata firmata ieri. E promette di riportare sotto lo sguardo pubblico dell’Archivio di Stato materiali finora off limits.
Quanti? Non lo sa nemmeno il governo, proprio perché come racconta chi da decenni si è battuto per abbattere muri di gomma, diradare nebbie e veleni quello che anzitutto manca per costruire una memoria completa di quegli avvenimenti è una “mappa” delle centinaia di archivi in cui possono essere depositate informazioni utili. Quel che conta è che «una mole enorme di documenti sarà presto a disposizione degli studiosi, degli organi di informazione, di tutti i cittadini», rivendica il premier.
COSA CAMBIA E COME
Con buona pace poi di Beppe Grillo che su Fb prima dei dettagli sul provvedimento insorge contro «Renzi e e il segreto di Stato. L’abbiamo smascherato in mezzo secondo, basta balle» non c’è in gioco tanto il segreto di Stato, che non può mai essere opposto per reati di strage e terrorismo. Piuttosto una marea di atti per la maggior parte catalogati come «riservati», e per il resto «riservatissimi» «segreti» e «segretissimi »: quattro classificazioni che di per sé non hanno scadenza. Il segreto di Stato può durare invece al massimo 30 anni, dopo la riforma varata nel 2007 che mancava però ancora dei decreti attuativi e che ora «trova concreta attuazione rivendica il sottosegretario Marco Minniti in un aspetto rilevante come quello del riconoscimento degli archivi dell’intelligence come patrimonio a disposizione di tutti». Si parla di carte in mano a tutti i gangli della pubblica amministrazione: Servizi segreti ma anche ministeri, degli Interni come degli Esteri, che potrebbero essere determinanti in casi come quello di Ustica. Le carte verranno trasferite all’Archivio di Stato e ancora prima a una commissione ad hoc, incaricata di fare ordine in questo magma ancora indistinto, secondo un criterio cronologico (dal più antico ai tempi più recenti), «superando l’ostacolo posto dal limite minimo dei 40 anni previsti dalla legge », si legge nel provvedimento twittato in parte dallo stesso premier.
La direttiva firmata da Renzi dopo il Comitato Interministeriale per la Sicurezza di venerdì dispone la «declassificazione » degli atti relativi a «piazza Fontana (1969), Gioia Tauro (1970), Peteano (1972), Questura di Milano (1973), piazza della Loggia a Brescia e Italicus (1974), Ustica e stazione di Bologna (1980), rapido904 (1984)». Il presidente del Consiglio rivendica «trasparenza e apertura come uno dei punti qualificanti del nostro governo» e lo presenta la svolta come «un dovere verso i cittadini e i familiari delle vittime di episodi che restano una macchia oscura nella nostra memoria comune». La mossa dell’esecutivo in effetti riporta sotto i riflettori drammi nazionali che troppo spesso hanno conosciuto depistaggi, verità parziali e magari solo giudiziarie, mentre sono rimasti nell’ombra mandanti e ispiratori, il ruolo della destra eversiva e massonica, quello di apparati deviati dello Stato.
UN PUZZLE DA RICOMPORRE
L’operazione appare dunque tanto ambiziosa quanto complessa. Si partirà subito. Manon si speri in rivelazioni sconvolgenti aprendo qualche cassetto o «armadio della vergogna», la partita è più articolata e richiederà mesi, chiarisce lo stesso esecutivo. «È come dover mettere insieme i pezzi di un puzzle. Ma intanto questa è un’ottima novità» premette Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione parenti delle vittime di Ustica che della campagna per una verità completa per quanto scomoda sugli 81 morti del Dc9 Itavia ha fatto una ragione di vita. Contro tutta una serie di apparati, che per decenni hanno negato quello che la sentenza della Cassazione del gennaio 2013 ha invece riconosciuto: la sera del 27 giugno 1980 nel cielo di Ustica c’erano diversi aerei che hanno dato vita a uno scontro di guerra in tempo di pace, il volo Palemo-Bologna fu abbattuto da un missile di provenienza non ancora identificata.
«Per anni abbiamo chiesto che al di là della verità giudiziaria la politica, il governo si facessero carico di tutto il materiale ricorda allora Bonfietti ancora non messo a disposizione nè dei magistrati né degli storici. Ricordo un convegno proprio sul tema degli archivi che abbiamo organizzato nel 2011 a Bologna: Massimo D’Alema, allora alla guida del Copasir, ci disse di aver trovato oltre cento archivi mai aperti. La direzione insomma è questa, le difficoltà saranno moltissime ma è la volontà politica il fatto importante e nuovo, finora solo le associazioni e chi era più vicino a questi fatti si era posto il problema ».
Il punto insomma è anzitutto recuperare quanto disperso, «solo così potremo scacciare i fantasmi che da decenni schiacciano il nostro Paese. La trasparenza da Renzi è un fatto molto, molto positivo», così lo saluta il deputato Pd Paolo Bolognesi, guida dei parenti delle vittime della strage alla stazione di Bologna. «Ancora l’anno scorso in un’audizione parlamentare un alto graduato dei Carabinieri negava che l’Arma avesse un archivio su certi fatti continua Bolognesi -, occorre invece bussare anche alla loro porta». E una volta avuto accesso a tutte le fonti, il passo successivo dovrebbe essere quello di «digitalizzare tutto: si può fare anche senza costi eccessivi, abbiamo già presentato un progetto in questo senso al Guardasigilli».
Forte della sua lunga esperienza l’ex magistrato Libero Mancuso tra l’altri pm nel processo contro Mambro e Fioravanti per la bomba del 2 agosto a Bologna e giudice degli assassini di Marco Biagi invita comunque a non trascurare i casi in cui è stato opposto il segreto di Stato (ultimo quello sul rapimento dell’iman Abu Omar da parte della Cia, nel 2003 a Milano): «Si dovrebbe prevedere una sanzione per chi l’abbia imposto senza ragioni adeguate, ma solo per coprire alcuni personaggi, altrimenti non verremo mai del tutto fuori da dinamiche che hanno bloccato la nostra democrazia». Chiede chiarezza su questo nodo anche il senatore Pd Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti umani, con un’interrogazione proprio a Renzi per sapere «in quali casi e in quali date è stato apposto il segreto di Stato e per quali di questi è tuttora valido».

L’Unità 23.04.14