Latest Posts

"Scuole più sicure per un’istruzione migliore", di Manuela Ghizzoni e Raffaella Mariani

Mettere in sicurezza il patrimonio scolastico pubblico, modernizzarlo attraverso l’utilizzo di nuove tecnologie, elevarne il livello di benessere e di accessibilità. L’interesse del Partito democratico per l’edilizia scolastica nasce dalla convinzione che scuole accessibili, sicure, belle, funzionali alle nuove metodologie didattiche (dovremmo infatti parlare di architettura dell’educazione) e perno di una pianificazione urbanistica in qualità di civic centers iano condizione per una buona istruzione e, quindi, per un Paese migliore.
Oggi le nostre scuole rispondono a questi requisiti? No, se non in parte davvero residuale. Per quali ragioni? Molte, tra queste la principale sta nella scarsità delle risorse disponibili e della capacità di spesa. Anche se, invero, dovremmo precisare che le risorse sono dove non si riescono a spendere. Dal 2003 al 2013 il parlamento ha finalizzato all’edilizia scolastica oltre 4 miliardi di euro, come somma di ben 12 linee di finanziamento: ad oggi, circa un miliardo e mezzo non sono ancora stati spesi. Ad esempio, delle risorse provenienti dai fondi Fas, deliberati nel 2008 ma resi disponibili solo due anni dopo, a luglio 2013 erano state erogate solo un terzo della disponibilità (cioè 102 milioni su 358).
Mentre innumerevoli enti proprietari (province e comuni) pur in possesso di progetti esecutivi e delle risorse necessarie devono rinunciare all’intervento causa vincoli del patto di stabilità. Questa è la prima incoerenza. L’altra è l’assoluta impossibilità di pianificare una programmazione ordinaria degli interventi in assenza di finanziamenti e legislazione certi. Peraltro, gli interventi straordinari, nati sulla spinta anche emotiva di sciagure come San Giuliano di Puglia e di Rivoli, pur garantendo una significativa dote di risorse dedicate, hanno introdotto un ulteriore modello di governance che ha centralizzato le procedure gestionali e di spesa.
Come intervenire per rimuovere tali incoerenze?
Innanzitutto occorre affrontare e risolvere due questioni dirimenti: rimuovere dal vincolo del patto di stabilità gli investimenti per le scuole e rendere finalmente operativa l’Anagrafe dell’edilizia scolastica.
Mediante l’Anagrafe, le regioni e gli enti proprietari (nonché lo Stato) potranno avere la adeguata conoscenza per una programmazione che definisca le priorità di intervento, territorio per territorio. Se costantemente aggiornata ed arricchita, essa potrebbe costituire l’insieme dei fascicoli elettronici dei singoli fabbricati: cioè una memoria digitale delle caratteristiche strutturali, tecnologiche e di accessibilità oltre che di sostenibilità ambientali, a supporto di ogni intervento.
La positiva esperienza della legge 23 del 1999 (cosiddetta Masini), apprezzata dagli enti territoriali come un utile sostegno alla programmazione ordinaria in quanto finanziata con piani triennali, può dare qualche indirizzo: accorpare progressivamente le numerose linee di finanziamento (che ora coinvolgono 4 diversi ministeri) pur distinguendo tra le tipologie di interventi, come ad esempio, la costruzione di nuovi edifici, la messa in sicurezza, la manutenzione straordinaria; destinare risorse adeguate nella legge di stabilitàà, rendendole disponibili in tempi certi; per un periodo congruo (ad esempio 5 anni), al fine di attivare tutti gli interventi che residuano dalle diverse linee di finanziamento oggi esistenti, conferire ai sindaci e presidenti di provincia specifici poteri commissariali che riducono le procedure previste dal codice degli appalti a quelle essenziali, in grado di comperare trasparenza, concorrenza, celerità con gli interessi degli utenti e dei partecipanti all’appalto (nessun conferimento diretto, ad esempio).
Perno del sistema diventa la regia unica istituita presso palazzo Chigi, con l’obiettivo di raccordare esigenze territoriali ed erogazione dei fondi. Alla regia unica anche il compito di monitorare periodicamente l’efficienza del sistema e gli esiti raggiunti, anche al fine di rimuove possibili ostacoli e di emanare linee guida sui capitolati, su eventuali innovazioni tecniche (ad esempio, ancora oggi ignoriamo l’inquinamento acustico e la relativa prevenzione), su protocolli di sostenibilità.
Del resto a noi cosa interessa? Mettere in sicurezza il patrimonio scolastico pubblico, modernizzarlo attraverso l’utilizzo di nuove tecnologie, elevarne il livello di benessere e di accessibilità così che anche le esigenze didattiche e pedagogiche ne traggano un concreto vantaggio. In una scuola bella e sicura si impara meglio.

da Europa Quotidiano 22.04.14

"Perché le ragazze non scelgono le materie tecnico-scientifiche?", Marta Serafini

I numeri non lasciano scampo. Il gap tra maschi e femmine sulle discipline tecnico-scientifiche nel nostro Paese è più alto del resto d’Europa. E a guardare i dati di una ricerca McKinsey-Valore D che viene presentata oggi a Roma nell’ambito di Nuvola Rosa, progetto promosso da Microsoft Italia, viene da pensare che per raggiungere la parità anche nel settore tecnologico, la strada sia davvero lunga. Le laureate in materie scientifiche sono il 9.9 per cento a fronte del 14.8 dei maschi. Una differenza che ci vede ancora una volta fanalino di coda, dopo Svezia e Finlandia. Ma anche Grecia e Portogallo.
Il rapporto «Occupazione-Istruzione-Educazione: le trappole nascoste nel percorso delle ragazze verso il lavoro» cerca però di andare oltre le statistiche e di analizzare le cause di questo divario. Come da tempo sottolinea anche la 27esima ora, blog dedicato alle questioni di genere de il Corriere della Sera , il gap deve essere fatto risalire all’infanzia. Già nelle scelte dei giochi le bambine iniziano inconsapevolmente a tracciare un solco che le separerà dai maschi per tutto il corso della loro vita. E la «colpa», a sorpresa, è delle mamme, che ricalcano gli stereotipi di genere vissuti durante la loro infanzia.
Se i papà trascorrono il tempo con i figli di entrambi i sessi facendo le stesse attività (disegno, giochi di movimento, videogiochi), il 52 delle mamme gioca con le figlie a fare i mestieri di casa mentre con i maschi disegna o fa giochi da tavola. Morale, come spiegava il sociologo Robert K. Merton già nel 1948, si tratta di una profezia che si auto avvera. Quegli stessi bambini, una volta diventati grandi, daranno per scontato che le femmine facciano i mestieri mentre i maschi costruiscono i ponti.
Passata l’infanzia, per le ragazze non va meglio. Anche il percorso di studi appare più accidentato. Se le pressioni sociali e familiari nella scelta della scuola/università si fanno sentire indifferentemente sia nel caso dei maschi sia delle femmine, le studentesse appaiono invece fortemente penalizzate quando la famiglia di origine sperimenta difficoltà finanziarie. Solo il 12 per cento dei maschi abbandona la scuola superiore a seguito di queste ragioni, a fronte del 25-27 per cento delle ragazze. Se poi in famiglia le risorse economiche sono limitate, più facilmente si punta ancora oggi sul figlio maschio rispetto alla figlia femmina (anziché sulle reali capacità e potenziale dell’uno o dell’altro). Finita l’università e il percorso di studi, la situazione peggiora ulteriormente. Già durante la prima esperienza di lavoro (stage o apprendistato che sia), se un compenso c’è, i ragazzi vengono retribuiti il doppio delle ragazze. Il che porta le donne ad essere più precarie ancora prima che si ponga il problema della conciliazione lavoro/famiglia. Il 51 per cento delle ragazze tra i 15 e 24 anni ha un contratto precario, rispetto al 40 dei maschi, incidenza che scende al 26 nella fascia d’età 25-34 anni, rimanendo tuttavia superiore di 11 punti percentuali rispetto ai maschi. La ricerca di un lavoro coerente con il proprio percorso di studi è tuttavia molto più ardua per le ragazze. A fronte di un 18 per cento di maschi che non ha trovato un impiego coerente con il proprio ambito di studi, la percentuale sale di oltre dieci punti nel caso delle femmine. La verità, seppur scomoda, è che gli indirizzi scolastici e universitari privilegiati dalle ragazze risultano essere spesso disallineati rispetto alle opportunità offerte dal mondo del lavoro.
Alcuni ambiti formativi, tradizionalmente ad alta intensità e presenza femminile, come quello letterario, linguistico, giuridico, chimico-farmaceutico, geo-biologico e dell’insegnamento, presentano tassi d’impiego più bassi, remunerazioni più contenute, e un gap salariale tra maschi e femmine più elevato. Altri, come il comparto medico-psicologico ed economico-statistico evidenziano un migliore equilibrio, mentre la formazione tecnico-scientifica appare decisamente sottovalutata nelle preferenze delle ragazze, nonostante offra maggiori possibilità di collocamento e migliori salari.
In sintesi, come spiega Roberta Marraccino, non c’è da sorprendersi se un contesto lavorativo già impreparato ad affrontare le sfide della neutralità di genere sin dalle prime fasi di inserimento in azienda, si riveli incapace di superare quelle barriere culturali e organizzative che ostacoleranno successivamente la crescita e la valorizzazione professionale delle donne che desiderano raggiungere mete professionali ambiziose.
La strada per uscirne? Gli input devono arrivare da famiglia, università e aziende. Dice Marraccino: «Il percorso delle ragazze verso il lavoro deve essere da una parte più consapevole e informato, dall’altra supportato dalle famiglie, che devono essere le prime ad agire con maggiore cognizione delle influenze socio-culturali avverse alle ragazze». Quindi autostima, capacità e competenze vanno costruite nel tempo in modo coerente, tenendo conto delle preferenze individuali delle ragazze ma indirizzandole verso quei percorsi formativi che ne valorizzino le attitudini e risultino anche appetibili dal punto di vista lavorativo. Ma non solo. Le aziende hanno l’obbligo di realizzare una cultura di neutralità di genere sin dall’ingresso nel mondo del lavoro. Un punto di vista confermato anche da Silvia Candiani, direttore Marketing & Operations di Microsoft Italia, che sottolinea: «In Italia i Neet — acronimo inglese per Not in education, employment or training — ovvero i giovani tra i 15 e i 29 anni che non sono iscritti a scuola né all’università, che non lavorano e che nemmeno seguono corsi di formazione o aggiornamento professionale, sono ormai quasi 1 milione. Sapere che la maggior parte di questi è donna rende questo dato ancora più sconfortante. E lo dico da manager prima ancora che da donna. Ma non possiamo più permetterci di rinunciare al valore e alle potenzialità delle nostre ragazze» .

Marta Serafini

"La rimozione del Segreto di Stato sulle stragi", da ilpost.it

Domenica 20 aprile in una intervista pubblicata su Repubblica, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha annunciato che il suo governo insieme con il Comitato per la sicurezza nazionale (COPASIR) ha deciso di togliere il “segreto di Stato” – iniziativa giuridica introdotta formalmente in Italia con una legge del 1977 – da numerosi atti e documenti, un’operazione che ha definito di “total disclosure”: «Per essere chiari: tutti i documenti delle stragi di piazza Fontana, dell’Italicus o della bomba di Bologna. Lo faremo nelle prossime settimane». La notizia è stata molto discussa nei giorni seguenti e lo è tutt’ora, perché non è del tutto chiaro se i documenti secretati resi pubblici potranno effettivamente portare chiarezza su alcune delle vicende più controverse nella storia recente dell’Italia.
In un articolo di martedì 22 aprile, sempre su Repubblica, Benedetta Tobagi ricostruisce i passaggi precedenti, e meno noti, che hanno permesso ora al governo Renzi di annunciare la rimozione del Segreto di Stato da numerosi documenti, presenti negli archivi di molti ministeri, da quello dell’Interno a quello della Giustizia, passando per quello degli Esteri. Il primo passo verso la pubblicazione degli atti avvenne sette anni fa, quando fu approvata la riforma dei servizi segreti e del Segreto di Stato. La legge, che è la 124/2007, introduceva per la prima volta il concetto di trasparenza nella gestione dei documenti e riduceva a un massimo di 30 anni la durata del Segreto di Stato.
Ma come molte leggi complesse e di riforma di un intero sistema, anche quella del 2007 aveva bisogno di un regolamento per essere applicata. La sua preparazione richiese quasi quattro anni di lavoro e il documento fu diffuso agli organismi statali interessati solamente nel 2011, grazie a un decreto del governo Monti che si occupava sia del Segreto di Stato vero e proprio sia delle “informazioni classificate”. Queste ultime, spiega Tobagi, sono il vero problema:
Il famigerato segreto di stato fu opposto alla magistratura in pochissimi casi, mentre sono molti i documenti “classificati”, cioè sottoposti a un vincolo di segretezza variabile entro la pittoresca (e ridondante) scala “riservato – riservatissimo – segreto – segretissimo”, accessibili in caso di inchieste giudiziarie, ma non ai ricercatori. Gli ostacoli alla consultazione sono polverizzati in un mare di documenti prodotti da soggetti diversi. Solo gli enti produttori sanno quali e quanti documenti riposano nei loro armadi, loro pongono il vincolo, a lo spetta, trascorsi i termini (in teoria non più di 10 anni, ma sono possibili deroghe a discrezione), dire se il segreto può essere tolto o chiedere una proroga.
Sempre il governo Monti si era ripromesso entro inizio 2012 di fornire un elenco completo, e ordinato, di tutti gli elementi che riguardano il segreto di stato. Il documento non fu presentato ed è probabile che il governo Renzi riparta dal lavoro fatto dal governo Monti per rendere pubblici i documenti sottoposti a segreto di stato.
I documenti che saranno trasmessi all’Archivio di Stato, diventando quindi liberamente consultabili, potrebbero dare qualche informazione in più sui casi di cronaca della nostra storia recente, ma non è detto che porti a grandi rivelazioni per quanto riguarda le stragi. Come ha spiegato al Corriere della Sera Felice Casson, parlamentare del Partito Democratico e segretario del COPASIR: «Non c’è nessun segreto di stato sulle stragi. Ma ci sono ancora una serie di atti che possono riguardare polizia o carabinieri che, se pubblici, possono contribuire a fare luce su fatti del passato». Altri documenti erano stati comunque resi inaccessibili alla magistratura e potrebbero dare qualche nuovo dettaglio.
I ministeri interessati e i servizi segreti non renderanno comunque pubblici tutti gli atti. I passaggi che riguardano persone ancora in vita, ex informatori e collaboratori dello stato, conterranno gli opportuni omissis per tutelare l’incolumità di chi ha collaborato a vario titolo con lo stato.

"Denominazione d’origine Ue. Una battaglia vinta", di Patrizia Toia

Dal 2008 in Europa, nel settore industriale, sono 4 milioni i lavoratori che hanno perso il proprio impiego e la produzione ha subìto un crollo del 10%. Ora il processo di ripresa è ancora timido, ma uno spiraglio si è aperto. Puntare sulla qualità e, per alcuni, anche restare su un mercato di nicchia è una delle caratteristiche principali delle imprese europee che scelgono di non emigrare all’estero. Ma questa strada, purtroppo, è ancora in salita per molte piccole e medie imprese europee.Quello che davvero potrebbe aiutare e tutelare molti imprenditori di settori a volte anche «inaspettati» (non solo, infatti, la moda o l’alimentare, ma anche il settore dei materiali edili) è l’introduzione, in Europa, di un vero marchio d’origine obbligatorio.

Nell’ultima sessione plenaria di questa legislatura il Parlamento europeo ha infatti approvato il Regolamento per la Sicurezza dei Prodotti al Consumo, incluso l’attesissimo Articolo 7 che impone la denominazione di origine obbligatoria. La battaglia sul «made in» in Europa è stata lunga e ha subito più volte battute d’arresto, sia in Parlamento che in Consiglio, dove ancora oggi permane una forte opposizione di alcuni Stati, soprattutto del Nord, a fronte invece di un movimento molto ampio di cittadini e imprese che chiedono da tempo questa misura a tutela della sicurezza, della trasparenza e per inasprire la lotta alla contraffazione.

Con l’ok al Regolamento sulla sicurezza dei prodotti, alla fine di questa legislatura abbiamo ottenuto un risultato importantissimo: i consumatori europei saranno più protetti e le aziende italiane che producono beni di alta qualità, con materiali di ottima fattura, saranno finalmente tutelate e, soprattutto, l’Europa riesce a compiere un primo passo per allinearsi a Cina e Stati Uniti, due giganti commerciali che da tempo utilizzano il marchio d’origine obbligatorio per i prodotti importati.

Questa semplice etichetta costerà poco o nulla agli imprenditori (lo ribadiamo per sfatare alcuni falsi studi), ma garantirà dalla concorrenza sleale e dalla contraffazione, assicurando reciprocità e rispetto degli standard minimi per l’ingresso delle merci provenienti dai Paesi terzi nel mercato dell’UE. Secondo i dati diffusi dal Sole 24 Ore, l’entrata in vigore di questo provvedimento vale 110mila posti di lavoro in più e 13,7 miliardi di euro di produzione aggiuntiva.

Noi del gruppo Socialisti & Democratici possiamo essere molto soddisfatti: nonostante la forte opposizione di molti Paesi del Nord Europa, grazie alla battaglia condotta dalla relatrice S&D Schaldemose e alla compattezza che il gruppo ha dimostrato in tutte le votazioni (a differenza del PPE che ha visto gli italiani uniti, ma incapaci di portare la maggioranza del gruppo sulle loro posizioni), si conclude positivamente un lungo e difficile percorso iniziato nel 2005. Ora ci auguriamo che il Consiglio europeo, fin qui incapace di prendere posizione e a cui spetta ora di adottare il testo, confermi in tempi rapidi questa decisione. Siamo certi che il governo italiano, anche durante la nostra presidenza, saprà far valere il voto del Parlamento.

*vicepresidente commissione Industria, Ricerca ed Energia

L’Unità 22.04.14

"Acqua, rifiuti ed energia sogniamo città verdi", di Antonio Pascale

Il punto di gravità del mondo si è spostato, dalla campagna alla città. Per dire, alla fine del Seicento tre su quattro abitavano e lavoravano in campagna. Poi è cambiato tutto. Nel XX secolo la popolazione complessiva delle città è cresciuta da 250 milioni a 2,8 miliardi di persone. Nel 2050 i residenti in città saranno 6 miliardi. Immaginiamo le città del futuro come isole verdi: edifici ad alta efficienza energetica, solo auto a idrogeno o elettriche, cibo prodotto da fattorie biologiche costruite nelle vicinanze, elettricità generata dalla brezza marina, treni sotto vuoto, biciclette intelligenti. Io ci tengo: è lo slogan coniato per festeggiare la giornata mondiale della terra, quest’anno dedicata al tram e alle città verdi. Il punto di gravità del mondo si è spostato, dalla campagna alla città. Prima della rivoluzione neolitica la terra ospitava quasi dieci milioni di nostri simili che però avevano altre abitudini. Praticavano caccia e raccolta, mangiavano più di 180 specie diverse e pare che non se la passassero nemmeno male. Dopo la rivoluzione del neolitico le cose sono parecchio cambiate. Ci siamo cibati con 4 specie di cereali, e poi vita sedentaria. È calata l’altezza, sono arrivate le carie, l’osteoporosi, insomma il nostro sistema metabolico ancora non si è ripreso dall’insana idea di coltivare un pezzo di terra. Oltre all’incresciosa abitudine di cominciare a vivere tutti insieme, in città villaggio. Ci siamo presi un sacco di malattie.
Certo nei millenni il rapporto tra campagna e città era sbilanciato, tanto per dire, alla fine del Seicento tre su quattro abitavano e lavoravano in campagna. Poi è cambiato tutto. Conviene dare alcuni numeri. Nel XX secolo la popolazione complessiva delle città è cresciuta da 250 milioni a 2,8 miliardi di persone. Nel 2050 i residenti in città saranno 6 miliardi. Se prima tanti osservatori del fenomeno dell’urbanizzazione erano critici e vedevano nella città povertà, sottosviluppo, crimine e malattie a iosa, ora si è capito una fondamentale verità: anche una periferia degradata e povera offre benefici che i villaggi e le campagne non possono dare.
Spostarsi dalla campagna alla città è vantaggioso soprattutto per le donne. Come ha detto Kavita N. Ramdas del Global Fund for Women «in un villaggio, tutto quello che può fare una donna è obbedire al marito e ai parenti, macinare miglio e cantare. In città invece può trovare un lavoro, cominciare un’attività e dare istruzione ai figli».

IL Corriere della Sera 22.04.14

"Siamo tutti populisti", di Ilvo Diamanti

C’è un fantasma che si aggira in Europa e in Italia. Inquietante e opprimente. Il populismo. Una minaccia diffusa, che echeggia in questa confusa campagna elettorale, in vista delle Europee. Eppure “mi” è difficile spiegare di che si debba avere “paura”.
Il populismo, infatti, associa forze politiche diverse e, talora, opposte fra loro, ma “unite” contro l’Unione Europea e contro l’Euro. Il termine, ad esempio, viene applicato al Front National, in Francia, e alla Lega, in Italia. Insieme ad altri partiti, di altri Paesi, fuori dall’Euro. Come l’Ukip, in Inghilterra. Anche se il Fn e l’Ukip si oppongono alla Ue in nome della sovranità, rispettivamente, della Francia e dell’Inghilterra. La Lega, invece, in nome dell’indipendenza dei popoli padani e contro la sovranità dell’Italia. Fino a poco più di vent’anni fa, al contrario, era a favore dell’Europa — delle Regioni. Ma la Lega è abituata a cambiare idea, in base alle convenienze. Come ha fatto nei confronti dei veneti(sti). Nel 1997, al tempo dell’assalto al campanile di San Marco, i Serenissimi, secondo Bossi, erano «manovrati dai servizi segreti italiani». Oggi, invece, sono perseguitati dall’imperialismo romano.
Ma la lista dei populisti va ben oltre. Coinvolge gli antieuropeisti del Nord Europa e quelli dell’Est. Per tutti e fra tutti, il Fidesz di Viktor Orbán che ha trionfato di recente in Ungheria (dove Jobbik, movimento di estrema destra, ha superato il 20%). Oltre ad Alba Dorata, in Grecia. In Italia, però, il populismo è un’etichetta applicata senza molti problemi. Riguarda, anzitutto, il M5s e Beppe Grillo. Per il loro euroscetticismo ma, soprattutto, per l’esplicita opposizione alla democrazia rappresentativa. In nome del “popolo sovrano” che decide da solo. Senza rappresentanti. Grazie al referendum che ormai si può svolgere in modo permanente nella piazza telematica. La Rete. Naturalmente, il Popolo, per potersi riconoscere come tale, ha bisogno di riferimenti comuni. Così si rivolge a un Capo. Che comunichi con il Popolo direttamente. Senza mediazioni e senza mediatori. Attraverso i Media. La Rete, ma anche la televisione. Dove il Capo parla con me. Direttamente. In modo “personale”.
Non a caso, il Grande Populista del nostro tempo è stato Silvio Berlusconi. Il Berlusconismo, in fondo, è proprio questo: partito e Tv riassunti nella persona del Capo.
La Rete ha moltiplicato il dialogo personale. Perché tutti possono parlare con tutti. Con il proprio nome, cognome, account e alias. Associato a un’immagine, una fotina, un marchio, un profilo. Naturalmente, c’è bisogno di un blogger, che orienti il dibattito e che, alla fine, tiri le somme. Ma che, soprattutto, dia un volto comune a tanti volti (oppure un “voto” comune a tanti “voti”). Che fornisca una voce comune a un brusio di messaggi fitto e incrociato. Senza Grillo, il
M5s non sarebbe un MoVimento. Ma un’entità puntiforme priva di “identità”. Grillo, d’altronde, sa usare la Tv, oltre che la Rete (guidato da Gianroberto Casaleggio). La maneggia da padrone. C’è sempre senza andarci mai. È la Tv che lo insegue, nelle piazze e, ora e ancora, nei teatri. Riprende e rilancia i suoi video, prodotti e postati nel suo blog.
Ma se il populismo è comunicazione personale diretta senza mediazione, allora va ben oltre la Lega, Berlusconi e Grillo. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi, politicamente. Perché deve saper usare la Tv e i nuovi media. Diventare protagonista di quella che Georges Balandier ha definito «La messa in scena della politica». Come ha fatto Matteo Renzi. Capace, meglio di ogni altro, di parlare direttamente al “popolo”. Di lanciare sfide simboliche e pratiche. In Italia, d’altronde, ogni riforma promessa è rimasta tale. Imbrigliata da mille difficoltà, mille ostacoli. Renzi, per questo, va veloce. E parla direttamente al popolo. A ciascuno di noi. Guarda dritto nella macchina da presa. E ci chiama per nome. È per questo che Grillo lo ha preso di mira, come il suo principale, vero “nemico” (politico). Perché il popolo ha bisogno di un capo che gli indichi i suoi nemici. Gli “altri” da cui difendersi. L’Europa, la globalizzazione, le banche, i mercati. Gli “stranieri”. Gli immigrati, i marocchini, i romeni, i veneti, i romani, gli italiani. E, ancora, le élite, la
classe politica, i partiti, i giornalisti, i giornali, i manager, le banche, i banchieri.
Così il catalogo dei populismi si allarga, insieme all’elenco dei populisti. Berlusconi, Grillo, Marine Le Pen (per non parlar del padre), Renzi. Ma anche Vendola, con il suo parlar per immagini e il suo partito personalizzato. Lo stesso Monti, bruciato dal tentativo di diventare pop, con il cagnolino in braccio (che fine avrà fatto Empy?).
Uscendo dal “campo” politico, Papa Francesco è, sicuramente, il più bravo a parlare con il suo “popolo”. Il più Pop di tutti di tutti. D’altronde, alle spalle, ha esempi luminosi, come Giovanni Paolo II e, ancor più, Giovanni XXIII. E poi è argentino, come Perón. Scivola sull’onda di una lunga tradizione. Non è un caso, peraltro, che la fiducia nei suoi confronti sia molto più alta di quella della Chiesa. Perché Francesco, sa toccare il cuore dei fedeli (e degli infedeli). E supera ogni confine. Ogni mediazione. Va oltre la Chiesa. Parla al suo popolo, senza distinzioni (visto che la fiducia nei suoi riguardi viene espressa da 9 persone su 10).
Per questo, diventa difficile dire chi sia populista. O meglio, chi non lo sia. Perché tutti coloro che ambiscano a imporsi sulla scena pubblica debbono usare uno stile “populista”. E lo ammettono senza problemi, mentre ieri suonava come un insulto. Echeggiando Jean Leca: «Quel che ci piace è popolare. Se non ci piace è populista». Oggi invece molti protagonisti politici rivendicano la loro identità populista. Grillo e Casaleggio, per primi, si dicono: «Orgogliosi di essere insieme a decine di migliaia di populisti. (…) Perché il potere deve tornare al popolo». Mentre Marine Le Pen si dichiara «nazional-populista», in nome del «ritorno alle frontiere e alla sovranità nazionale».
Meglio, allora, rinunciare a considerare il “populismo” una definizione perlopiù negativa e alternativa alla democrazia. Per citare, fra gli altri, Alfio Mastropaolo, ne fa, invece, parte. Come il concetto di “popolo”. Il quale, quando ricorre in modo tanto esplicito e frequente, nel linguaggio pubblico, denuncia, semmai, che qualcosa non funziona nella nostra democrazia “rappresentativa”. Perché il “popolo” non trova canali di rappresentanza efficaci. I rappresentanti e i leader non dispongono di legittimazione e consenso adeguati. Perché il governo e le istituzioni non sono “efficienti” e non suscitano “passione”. Così non resta che il populismo. Sintomo e al tempo stesso diagnosi del malessere democratico. Meglio non limitarsi a scacciarlo con fastidio. Per guarire dal populismo occorre curare la nostra democrazia.

LA Repubblica 22.04.14

Chiara Saraceno «Aumento drammatico, il tenore di vita è in picchiata», di Marco Ventimiglia

«Sì, ho letto questi ultimi dati diffusi dall’Istat. Si tratta, purtroppo, degli ennesimi numeri drammatici, anche se ho visto che l’enfasi maggiore viene posta sul numero di famiglie prive di reddito da lavoro che ha ormai superato il milione. Su questo occorre intendersi, poiché all’interno di questi nuclei possono anche esserci dei pensionati che in qualche modo alleviano la condizione di disagio. Piuttosto è l’aumento percentuale nell’ultimo anno a spaventare di più». Chiara Saraceno, sociologa ed esperta in problemi della famiglia, cerca subito di guardare oltre la crudezza dell’indagine statistica, peraltro ennesima fotografia di una crisi che non molla la presa.
Dunque è la crescita del 18% delle famiglie senza reddito a meritare maggiore attenzione?
«Sì, nel senso che rappresenta il numero che più degli altri segnala un deterioramento della situazione, una tendenza ancora molto forte nel 2013. Un dato che purtroppo non mi sorprende, e che anzi va di pari passo con il calo dei consumi e la continua crescita della disoccupazione, specie quella giovanile. In quest’ultimo caso, poi, siamo di fronte ad un’autentica emergenza generazionale che non riguarda soltanto la fascia degli under 24, dove c’è comunque una rilevante percentuale di studenti, ma soprattutto coloro che sono compresi fra i 25 ed i 34 anni d’età, per i quali spesso non esiste alcuna prospettiva occupazionale».
Ma qual è il costo sociale di questo incremento della povertà?
«Occorre distinguere, a cominciare da chi si trova nello stato di disoccupazione. Se a venir meno è un reddito secondario del nucleo familiare, in Italia spesso garantito dalle donne e in misura minore dai figli rimasti ancora a casa, l’impatto è talvolta più nei comportamenti delle persone che non sul tenore di vita vero e proprio. Se invece a perdere il lavoro è il principale percettore di reddito della famiglia, allora l’emergenza è innanzitutto economica, con la conseguente grande fatica ad affrontare i problemi della quotidianità, dal carrello della spesa al sostentamento scolastico dei figli. Per fortuna, a vari anni dall’inizio della crisi, ancora sono in atto dei fenomeni che danno un po’ di sollievo alle famiglie più in difficoltà»
A che cosa si riferisce?
«Penso al ruolo degli anziani nei nuclei familiari, che a volte può persino emergere in modo curioso a livello statistico. Mi riferisco, ad esempio, ai dati che hanno più volte segnalato una tenuta dei consumi da parte delle persone più avanti con gli anni a fronte del marcato calo complessivo. Salvo scoprire, andando nel dettaglio, alcuni acquisti singolari, come quello dei pannolini… Insomma, l’anziano si trova sempre più spesso a consumare per conto terzi».
Fenomeni che in qualche modo confermano una convinzione diffusa, quella delle famiglie italiane più capaci di altre nel fare quadrato di fronte alla crisi.
«Questo è vero fino a un certo punto. O meglio, lo abbiamo visto chiaramente nella prima fase della crisi mentre adesso la situazione è purtroppo diversa. Infatti, nei primi due/tre anni di difficoltà non si è assistito ad un aumento significativo della povertà, piuttosto a diminuire era la capacità di risparmio delle famiglie. Si metteva mano al salvadanaio nella convinzione che l’emergenza non sarebbe durata a lungo. Convinzione peraltro alimentata anche da chi governava il Paese».
Poi, che cosa è cambiato?
«È via via subentrata la consapevolezza dell’estensione temporale della crisi, mentre ad essere falcidiati sono stati sempre più i redditi principali delle famiglie piuttosto che i secondari, venuti meno nella fase iniziale. Da qui il balzo molto forte di tutti gli indicatori della povertà. Una fase che purtroppo è ancora in atto».
Se anche ritornasse improvvisamente il tempo sereno da un punto di vista economico, quanto tempo sarebbe necessario per riparare i danni sociali?
«Molto, molto di più. E questo essenzialmente per tre ragioni. Intanto ricordiamoci che negli anni pre-crisi, prima del 2008, la crescita italiana era già asfittica, inferiore a quelle delle altre nazioni europee. Poi, c’è un motivo strutturale: in questi anni sono state distrutte delle tipologie d’impiego che comunque non ritorneranno più, indipendentemente dall’andamento del Pil, con il materializzarsi di una crescita senza occupazione. Infine, c’è un evidente problema generazionale. I giovani che così tanto stanno patendo, nel momento di una ripartenza economica rischiano di scoprirsi già vecchi, scavalcati dalle successive generazioni».

L’Unità 22.04.14