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Il piano segreto del governo per trattare con gli Usa e tagliare la metà degli F35", di Francesco Bei

F35, si cambia verso. Renzi vuole dimezzare il programma italiano, riducendo da 90 a 45 gli apparecchi da ordinare. Un cambiamento di rotta inimmaginabile fino a poco tempo fa, con il Quirinale, lo Stato maggiore e, soprattutto, gli Stati Uniti a premere per il rispetto degli impegni. E tuttavia ormai il dado è tratto, anche se l’ordine di sei aeroplani per il 2014 non verrà toccato. Del resto, come ha documentato recentemente l’Espresso, solo portando da 40 a 29 i velivoli acquistati entro il 2019, come già deciso, il risparmio atteso è circa di 2 miliardi di euro. Numeri che hanno convinto il premier a procedere senza indugi.
Renzi, venerdì scorso, ha usato un’espressione dai contorni ancora vaghi – «rimodulare il programma » – per indicare il nuovo orientamento maturato a palazzo Chigi sul discusso cacciabombardiere “stealth”. Una prudenza dettata dalla consapevolezza che non sarà facile sottrarsi alle pressioni dell’amministrazione americana, principale acquirente del caccia Lockheed Martin. Meno di un mese fa, nell’incontro a villa Madama, il presidente Usa – alludendo agli F35 – aveva messo in chiaro che «la libertà non è gratis», definendo «inaccettabile » che la spesa militare americana per la Nato assorba oltre il 3 per cento del Pil mentre quella europea sia ferma all’uno per cento. Un monito a non venir meno agli impegni presi, dopo la riduzione (da 131 a 90 caccia) già decisa dal governo Monti. Eppure qualcosa sulla strategia di progressivo sganciamento dal contratto F35, considerato troppo costoso e forse anche inutile per le necessità della difesa aerea italiana, inizia a filtrare dai piani alti del governo. Renzi, d’accordo con il ministro della Difesa Pinotti, intende infatti portare la discussione a livello politico direttamente a Washington. Per ricontrattare tutto.
Per ora di questi “prototipi” ne abbiamo acquistati effettivamente soltanto sei. Sono ancora in costruzione e ci lavorano negli stabilimenti Lockheed Martin/ Alenia Aermacchi di Cameri, dieci chilometri fuori Novara. È una fabbrica costruita dall’Italia con un mega investimento da oltre 800 milioni di euro per assemblare sia i nostri aerei che quelli della regia aereonautica olandese, oltre a servire alla produzione delle ali per le commesse di tutti gli eserciti. Nei sogni della Difesa a Cameri in futuro si rivolgeranno tutti i paesi europei, oltre a Turchia e Israele, per la manutenzione dei loro F35. Al momento ci lavorano meno di duemila addetti, ma lo stabilimento, come scrive la rivista on line “Analisi Difesa”, punto di riferimento autorevole degli addetti al lavori, dato il taglio italiano e quello olandese (37 aerei invece di 85) rischia di lavorare in perdita.
Il decreto approvato venerdì si limita invece a sforbiciare dal capitolo F35 “soltanto” 153 milioni di euro. Un’inezia. La cifra stabilita dal governo «comporterebbe la rinuncia a un F35 e qualche bullone in meno», sostengono i pacifisti di “Sbilanciamoci” e “Taglia le ali alle armi”, che chiedono la cancellazione integrale del contratto per tutti i 90 velivoli. Ma non è infatti quello che bolle in pentola, almeno non solo. Il vero obiettivo di Renzi è tagliare la metà degli aeroplani, senza tuttavia pagare i pesanti dazi politici e commerciali che il ripensamento comporta.
Intanto, per comprendere la strategia del premier, è utile ricordare che l’acquisto di un F35 è un’operazione complessa, che si articola in vari passaggi. Ogni lotto non solo deve ricevere l’approvazione anno per anno da parte del governo e del parlamento, ma ha una procedura che inizia due anni prima del “Buy year”, con un pre-ordine. È solo nel terzo anno, quello dell’acquisto vero e proprio, che in caso di rinuncia scattano le penali. È proprio in questo farraginoso protocollo commerciale che Renzi intende incunearsi per rallentare e poi dimezzare il maxi appalto italiano. La nuova pianificazione della Difesa, studiata da Pinotti con i generali, già prevede di ridurre il prossimo lotto di aerei da otto a cinque. E gli americani non ne sono stati contenti: il generale Christopher Bogdan, a capo del programma Usa F-35, ha dichiarato che ogni cancellazione delle commesse degli alleati provoca un incremento di costo del 2-3 per cento per il Pentagono. Prima dell’estate il governo farà uscire dai cassetti il libro bianco della Difesa, che conterrà le linee guide del nuovo modello italiano. Sarà quello il documento politico per giustificare nuove necessità geopolitiche e dunque la riduzione degli F35.
«Andremo dagli americani spiega una fonte qualificata della Difesa – per dire loro che non ce la facciamo. Del resto la Casa Bianca ci ha lasciato a bocca asciutta con l’elicottero di Obama che avrebbe dovuto costruire la nostra Agusta Westland e non Sikorsky. Anzi, chiederemo il loro aiuto nella trattativa con la Lockheed per evitare ritorsioni». Il problema infatti è che l’azienda americana assegna il lavoro in base agli ordini firmati dal paese. E, in caso di disdetta italiana, protrebbe prosciugare le commesse affidate alla fabbrica di Cameri (e alla quarantina di aziende dell’indotto). Per questo bisogna andarci con i piedi di piombo, rallentando al massimo gli acquisti ma senza cancellarli del tutto. Ma per carità nessuno usi il verbo «tagliare». Per Renzi è «rimodulare».

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“Il jet da 120 milioni che da vent’anni divide il Paese”, di GIAMPAOLO CADALANU

Era il 1996 quando l’allora ministro della Difesa Beniamino Andreatta decise di aderire all’invito dell’amministrazione Clinton, per partecipare al programma Joint Advanced Strike Technology. Washington voleva un caccia multiruolo altamente computerizzato, capace di penetrare nelle difese nemiche senza farsi vedere dai radar. Nel confronto fra le proposte di Lockheed-Martin (allora marcata X-35) e Boeing (denominata X-32), il Pentagono scelse la prima. Secondo alcuni analisti, i prototipi di Lockheed erano appena meno peggio dei concorrenti.
L’Italia stanziò dieci milioni di dollari, l’impegno che i tecnici non negano mai ai progetti di contenuto tecnologico. La prima firma “concreta”, con stanziamenti robusti, arrivò nel 2002, con la sigla del primo contratto da parte dell’allora segretario della Difesa, ammiraglio Giampaolo Di Paola. Il suo nome, a Segredifesa, poi al comando dello Stato maggiore Difesa e infine alla guida del ministero, seguirà per tutte le fasi l’acquisto degli F-35, indispensabili per la portaerei Cavour, da lui fortemente voluta e varata nel 2009.
Il nostro paese è “partner di secondo livello”, coinvolto nella gran parte del processo produttivo. Dopo la Gran Bretagna, partner di primo livello, autorizzata a conoscere ogni dettaglio, ci sono l’Italia e l’Olanda, che: non possono però entrare a conoscenza della tecnologia “Stealth”, considerata segreta dal Congresso Usa. Prospettiva dichiarata era quella di creare 10 mila posti di lavoro: per ora, di certo c’è solo un graduale spostamento dei lavoratori Alenia-Finmeccanica (a regime dovrebbero essere circa 2500 persone, mentre sulle linee dell’Eurofighter ne sono stati impiegati fino a 6000) dalle linee produttive del caccia europeo a quelle dell’F-35, più alcune centinaia di operai nelle imprese collegate. La stessa Lockheed si è vista ridimensionare dal Pentagono le previsioni di impiego: i 125 mila che doveva far lavorare in Usa saranno meno della metà. Nel caso italiano, il coinvolgimento nell’attività produttiva prevedeva la costruzione di un impianto nella base di Cameri: era la prima grossa spesa pari a 800 milioni di euro.
Dall’avvio, il progetto si è sviluppato fra mille difficoltà tecniche, segnalate soprattutto dai tecnici del Pentagono che hanno imposto aggiustamenti tecnici e ritocchi nei costi. Molti paesi partner hanno sforbiciato i loro programmi d’acquisto: in Italia, dagli iniziali 131 si è scesi a 90. Il caccia, che la Lockheed definisce “più economico del precursore F-16”, inizialmente sarebbe dovuto costare – a regime produttivo circa 60 milioni di dollari a esemplare, prezzo “fly away”, cioè macchina nuda e cruda, senza armamenti e senza attrezzature per l’assistenza e ricambi. In realtà, si può considerare indicativa la cifra pagata dal Pentagono per il primo lotto di caccia:
ogni aereo è costato poco più di 192 milioni di dollari, a oggi poco meno di 120 milioni di euro, senza le ultime versioni di armamento. E la cifra non è adeguata per la versione B del caccia, la Stovl a decollo corto e atterraggio verticale, che Di Paola voleva per sostituire gli Harrier della Marina, considerati obsoleti. Ma anche queste cifre, dice lo stesso Pentagono, sono ormai superate: per gli ultimi acquisti c’è già un nuovo aumento. Il costo finale per i contribuenti Usa supererà i 390 miliardi di dollari: il programma di armamenti più costoso della storia.

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L’allarme del generale “Attenti a non colpire le industrie italiane”, di VINCENZO NIGRO

«Ci sono grandi risparmi da fare in tutta la Difesa, ma parlare soltanto di numeri, di riduzioni degli aerei F-35, in questa fase è inutile e rischia di essere perfino controproducente». Il generale Vincenzo Camporini, ex capo dell’Aeronautica e poi della Difesa, oggi è il vice-presidente dell’Istituto affari internazionali. Ormai si occupa prevalentemente di politica internazionale. «Ma siccome credo che l’Italia voglia continuare ad avere delle forze armate, bisogna informare e ragionare correttamente su tutto, anche sugli F-35».
Perché dice che è inutile annunciare oggi nuovi tagli? Semplicemente perché da pilota vuole difendere gli F-35?
«No, io difendo tagli veri ed efficaci nella Difesa, sostengo un processo di razionalizzazione che ci porti a risparmiare. Ma per l’F35 dico una cosa: gli impegni economici che si prendono sono relativi ai singoli lotti anno per anno, e quindi non c’è bisogno di annunciare oggi quanti se ne compreranno alla fine. Se però oggi annunciamo un nuovo taglio drastico del numero totale, come è già stato fatto dal precedente governo Monti, ci spareremo nei piedi: avremo solamente una riduzione immediata del lavoro per le nostre industrie».
Per ragioni industriali il programma dunque è intoccabile?
«Per nulla, ma dobbiamo sapere cosa maneggiamo. Questo è innanzitutto un programma industriale in cui una volta tanto l’Italia si è mossa partendo 15 anni fa con visione. Noi non compriamo solo un aereo, ma contribuiamo a costruire un velivolo utile per le nostre Marina e Aeronautica. Con Alenia e con 50 industrie medie e piccole questo è un aereo anche italiano. Detto questo, nel modo in cui la Difesa ha impostato il programma ci sono molte economie possibili».
Ci fa degli esempi?
«I velivoli a decollo verticale che sono destinati in parte all’Aeronautica e in parte alla Marina per le portaerei possono essere acquistati più avanti, perché l’Aeronautica può iniziare ad operare con gli aerei convenzionali e la Marina ha a disposizione ancora per alcuni anni gli AV 8B ammodernati di recente. Ancora: è possibile ripensare alle due flotte separate con lo stesso velivolo create per Marina e Aeronautica. Così come avere due basi aeree principali separate per ciascuna delle forze armate. Rinunciando a questo schema, accentrando in un’unica base-madre le attività per l’F35 la Difesa avrebbe dei risparmi considerevoli. Io da mesi sostengo che nel programma F-35 noi faremmo una cosa saggia se addirittura evitassimo di etichettare gli aeroplani “Aeronautica” o “Marina” e li fornissimo a chi servono quando servono».
Sarebbe un’evoluzione concettuale notevole per le forze armate.
«Se riuscissimo a far cadere degli steccati che oggi sembrano insuperabili avremmo dei risparmi notevoli. Nel discorso di addio alla Difesa citai un mio insuccesso: non ero neppure riuscito ad unificare le 4 scuole di lingue che le forze armate tengono in piedi, inclusi i carabinieri! »

La Repubblica 22.04.14

"Preoccupati e disoccupati", di Nicola Cacace

Alla vigilia dell’approdo in Parlamento del decreto lavoro, dopo qualche modifica migliorativa in commissione soprattutto per quanto riguarda i contratti a tempo determinato, siamo di fronte all’ennesimo dato shock sfornato dall’Istat, un milione e 130 mila famiglie vivono, meglio non vivono, senza alcun reddito da lavoro. Non è tanto il numero che colpisce chi conosce i dati sulla povertà, quanto la dinamica: +18% in un anno (tra 2012 e 2013) e addirittura + 56 % in due anni. Nessun Paese civile può ignorare dati di questa gravità. Il governo ha cominciato a muoversi nella giusta direzione scegliendo una precisa categoria, i lavoratori dipendenti ma sa bene che non può e non deve fermarsi a questi. Dopo un primo provvedimento utile a dare un po’ d’ossigeno a dieci milioni di lavoratori dipendenti a basso reddito e quindi alla domanda interna, ricomincia una difficile navigazione per superare molti altri scogli. Ci sono ancora più di una decina di milioni di cittadini che, per la loro condizione, meritano attenzione, tra cui i pensionati con meno di 1000 euro, i lavoratori dipendenti “esentati” che hanno salari minimi, le partite Iva individuali ed i precari che la crisi ha impoverito ancor più dei dipendenti, oltre ai milioni di disoccupati ed inattivi.
Di fronte a questi numeri – e alle immani sofferenze che sottendono – il compito del governo Renzi non è facile dopo quasi un decennio di recessione. Si sa bene che il peso delle sofferenze non è stato distribuito in modo uniforme dalla crisi, con i poveri e la classe media che hanno dovuto pagare il conto più salato. Nel Paese a più alta diseguaglianza d’Europa, dove il 10 % delle famiglie possiede il 50 % delle ricchezze e metà delle famiglie possiede poco o niente, è bene e giusto che tra i provvedimenti annunciati non siano mancati quelli ispirati ad un abbassamento dei tetti retributivi dei top manager pubblici e dei dirigenti dello Stato. Perciò hanno impressionato molto sfavorevolmente certe proteste, tra cui quelle di alcuni magistrati, che non hanno resistito alla tentazione di gridare alla “lesa maestà” piuttosto che accettare con dignità, anzi plaudire, provvedimenti di riequilibrio imposti da regole economiche oltre che morali. Senza andare al «denaro sterco del diavolo» caro a papa Francesco, basterebbe scorrere gli ultimi studi sulle cause della crisi, tra cui quelli del Fondo monetario internazionale, che hanno individuato nella “diseguaglianze eccessive” le principali cause della crisi dirompente.
La situazione drammatica del Paese, più che dai tassi di disoccupazione totale e giovanile, comunque alti, è descritta dal suo tasso di occupazione, di 10 punti inferiore all’Europa e di ben 20 punti inferiore al Nord Europa. Il tasso di disoccupazione è inficiato dalle procedure particolari di calcolo che spostano «un disoccupato che non ha cercato attivamente lavoro nella settimana precedente l’indagine» nella categoria degli «inattivi». È quello che succede da anni. Perciò il reale panorama economico-sociale è determinato dal tasso di occupazione, cioè la quota di occupati sulla popolazione in età da lavoro. È il dato che rende meglio la realtà. Due Paesi agli antipodi del Pil unitario, l’ultimo ed il primo, cioè Romania e Svezia, hanno tassi di disoccupazione quasi eguali intorno al 7 % ma tassi di occupazione distanti anni luce. In Romania, come in Italia, lavorano appena 55 cittadini su 100 in età da lavoro, in Svezia ne lavorano 75.
Che significano questi dati? Che l’Italia, per avere un livello di occupazione europeo dovrebbe avere ben 4 milioni di occupati in più e ben 8 in più per essere come gli svedesi (10 punti o 20 punti in meno, su 40 milioni di cittadini in età da lavoro). Sono vette difficili da raggiungere, ma in un decennio si potrebbero difendere, con accorte politiche industriali, i 5 milioni di occupati in agricoltura e industria manifatturiera e cercare di colmare il buco dei servizi, dove abbiamo 7 punti in meno dei Paesi industriali (il nostro terziario pesa il 68% contro il 75 % dei Paesi industriali), cioè recuperare almeno un paio di milioni di occupati che ci mancano nei settori in turismo e cultura, istruzione e ricerca, trasporti e logistica, servizi alle imprese e alle famiglie, senza contare salute e benessere. Speriamo che il governo, oltre agli 80 euro ad alcuni che ne hanno davvero bisogno, inizia a pensare sul serio anche agli altri.

L’Unità 22.04.14

"Renzi: ora aiuti alle famiglie", di Claudio Tito

Io voglio ridare fiducia all`Italia. Voglio che a Bruxelles e nelle altri capitali dell`Unione si dica: “Ecco, finalmente l`Italia è tornata in Europa”». Matteo Renzi traccia un bilancio di questi primi 58 giorni di governo. E rilancia. Mette nero su bianco la road map del suo esecutivo nei prossimi sei mesi. Da un nuovo intervento sulle tasse con il “quoziente familiare” da inserire nella delega fiscale alla riforma della giustizia, civile e penale. Mai più leggi ad personam. Ma anche interventi sui Tar perché «il loro sistema non funziona».

Il bonus Irpef “è stato solo l`antipasto” il presidente del Consiglio annuncia nuovi tagli alle tasse, dagli incapienti alle partite Iva. “Le banche protestano? Pagano le stesse imposte di tutti gli italiani”.

Dalle misure per la pubblica amministrazione con «l`identità digitale» che consentirà a tutti il disbrigo delle pratiche burocratiche da casa all`introduzione del principio della “total disclosure”: la desecretazione dei documenti di alcune delle vicende più drammatiche della storia d`Italia come le stragi di Piazza Fontana, dell`Italicum e di Bologna. La base restano le modifiche alla Costituzione e la legge elettorale, per le quali il premier vuole rispettare i tempifissati. Perché «vorreiunPaese moderno». Per questo «serve una rivoluzione» e soprattutto tempo: «Al voto ci torneremo nel 2018. Anche Berlusconi lo sa».

Intanto in molti sospettano che ci siano problemi di copertura al decreto Irpef approvato venerdì scorso.
«E` un falso problema. Siamo stati molto rigorosi. Merito di Padoan e Delrio aver seguito una linea prudenziale. Abbiamo abbassato la stima di crescita del Pil dall`1,1 del precedente governo allo 0,8%. Se non lo avessimo fatto avremmo avuto 5 miliardi in più».

Eppure il nodo delle voci una tantum resta.
«Ci sono misure una tantum ma sono indicate anche quelle strutturali. Dopo accese discussioni sull`Iva e sull`evasione abbiamo sottostimato gli introiti ragionando in modo scrupoloso».

Beppe Grillo ha messo nel suo mirino lei e proprio il provvedimento di venerdì.
«E` divertente come un tempo. Fino a una settimana fa mi accusava di essere il governo delle banche e oggi le sue dichiarazioni sono andate a braccetto con quelle dell`Abi. Fino a una settimana fa mi accusava di aver fatto inciuci con Berlusconi e oggi ripete le cose che dice Forza Italia. Lui urla, noi ragioniamo. Lui punta sulla rabbia,noi sulla speranza».

Le banche in effetti non hanno preso bene il decreto.
«Pagano le stesse tasse di tutti gli altri italiani, i1 26%. Chiediamo solo di pagare le tasse come tutti. Nessuna crociata demagogica: io so che la banche sono importanti. Ma le regole valgono per tutti: non c`è qualcuno più uguale degli altri. Noi andiamo avanti ma per rendere tutto attuabile abbiamo bisogno di una condizione preliminare».

Ossia?
«Mantenere credibilità sui mercati. Sarà possibile se resta alta l`attenzione sulle riforme. Su tutte le riforme. Se ci riusciamo, allora, presto potremo allargare il taglio delle tasse agli incapienti, alle partita Iva e ai pensionati ad esempio. Ma per il momento faccio notare a chi mi accusava di fare solo televendite che abbiamo mantenuto le promesse. Come diceva Franco Califano, tutto il restò
è noia».

Abbassare le tasse ulteriormente? Come? Già con la prossima delega fiscale?
«Piano piano sarà tutto più chiaro. Abbiamo messo la cornice del puzzle, per i tasselli abbiamo bisogno di qualche settimana. Ma la rivoluzione è appena iniziata, gli 80 euro (e l`Irap) sono l`antipasto. E mi fa ridere chi mi accusa di aver approvato quest`ultimo decreto per motivi elettorali. I soldi nelle buste paga degli italiani, arrivano dopo le elezioni, non prima. In ogni caso, la delega serve per cambiare il nostro Fisco ma – so che qualcuno si stupirà- la priorità non è il semplice abbassamento delle imnoste. E lo dice uno che ha sempre tagliato le tasse, in Provincia con l`Ipt, in Comune con l`addizionale Irpef più bassa d`Italia e ora al governo con il bonus. No, la priorità è fare le cose semplici:dare certezze di tempi e procedure. La priorità fiscale è semplificare il sistema».

Scusi, ma questi sono slogan.
«Altro che slogan. Manderemo a casa di 32 milioni di italiani un modulo precompilato e con un clic faranno la dichiarazione dei redditi. Non è pensabile che per pagare le tasse ci voglia un esperto».

Quindi non una revisione delle aliquote?
«Non credo. Però, già nella delega, vorrei provare ad entrare in una nuova logica. Negli 80 euro che noi daremo da maggio, c`è un elemento di debolezza. Ottanta euro dati ad un single hanno un impatto diverso rispetto ad un padre di famiglia monoreddito con 4 figli. Dobbiamo porci questo problema».

Parla del quoziente familiare?
«Qualcosa del genere. Ne discuteremo con gli esperti e con la maggioranza. Ma l`Italia non si può permettere il lusso di trattare male chi fa figli».

Per qualcuno è una battaglia di destra.
«È un ritornello cui ormai sono abituato. Ma non sono d`accordo. È di destra dare più soldi a chi ha meno? Nessun rinnovo contrattuale sindacale ha mai dato ai lavoratori quello che abbiamo dato noi con il decreto Irpef. È di destra lavorare per la parità di genere? È di destra innovare la Pubblica amministrazione? È di destra stanziare 3,5 miliardi per la scuola e approvare le risorse per gli alluvionati? E se ero di sinistra che dovevo fare? L`esproprio proletario? La verità è che l`impronta del Pd in questa manovra è evidente. Compreso l`elemento etico di porre un tetto agli stipendi. L`equità sociale non si fa con i convegni, ma con le scelte di governo».

Anche la lotta all`evasione fiscale,però, presenta un carattere etico.
«Si ma non la si combatte con nuove norme. Serve la volontà politica. Ci si riesce se c`è la voglia di incrociare i dati, perseguire i colpevoli. Altrimenti si cade come spesso accade in Italia nel “benaltrismo”. Lo spazio per contrastare l`evasione è ampio. Serve un uso massiccio della tecnologia».

Magari anche più controlli
«È una logica parziale. Rafforza l`idea che l`Agenza delle Entrate è il nemico. E invece deve essere un partner, un amico. Naturalmente chi imbroglia e froda deve essere punito. Anche pesantemente. Ma per il resto l`Agenzia deve aiutare. La lotta all`evasione non si fa con i controlli spettacolari sul Ponte Vecchio. Siamo nel 2014. Lo Stato, se vuole, sa tutto di tutti rispettando la privacy, vogliamo finalmente fare sul serio? C` è solo bisogno di invertire la logica in tutta la Pubblica amministrazione».

In che senso?
«Lo Stato deve essere al servizio del cittadino. Troppi enti fanno troppe cose e male. Vanno ridotti e questo non vuol dire licenziare i dipendenti. Abbiamo ridotto le auto blu come nessuno ha mai fatto prima e gli autisti tornano a fare i poliziotti. Lo stesso criterio vale per gli altri».

Quando si parla di riforma della Pubblica amministrazione non si capisce mai cosa ci guadagna il cittadino.
«Entro un anno daremo una “identità digitale” a tutti. Per capirci: daremo un pin a ogni italiano e userà quel codice per entrare in tutti gli uffici della pubblica amministrazione restando a casa. Tutti gli enti avranno un unico riferimento. Gli italiani non dovranno più fare file al comune o in circoscrizione o in un ministero per risolvere questioni banali. Cerco di spiegarmi con una metafora. È come se oggi funzionasse così: ciascuna amministrazione parla una lingua diversa e il cittadino deve pagare i costi di traduzione. Noi costringeremo tutti a parlare con una lingua sola».

Si potrà pagare una multa o prenotare una visita alla Asl?
«Tutto. Con quel pin potranno pagare le multe o le tasse, prenotare unavista all`Asl o disbrigare le pratiche della giustizia. Non si dovrà più perdere la testa dietro i burocrati. Ma c`è di più vorrei introdurre il principio della “total disclosure”».

Cioè trasparenza.
«Totale. Venerdi al Cisr – il Comitato per la sicurezza nazionale – accogliendo un suggerimento del sottosegretario Minniti e dell`ambasciatore Massolo, responsabile del Dis, abbiamo deciso di desecretare gli atti delle principale vicende che hanno colpito il nostro Paese e trasferirli all`Archivio di Stato. Per essere chiari: tutti i documenti delle stragi di Piazza Fontana, dell`Italicum o della bomba di Bologna. Lo faremo nelle prossime settimane. Vogliamo cambiare verso in senso profondo e radicale».

Forse, però, è il momento di una riforma della giustizia.
«A giugno, dopo le elezioni. Ascolteremo tutti e la faremo con la massima serietà. Lo spread che ci divide su questo versante con gli altri paesi è enorme. Iniziamo allora con il processo civile telematico».

Va bene la riforma della giustizia civile, ma ammetterà che quella politicamente più sensibile riguarda il processo penale.
«Anche quello, senza interventi ad personam che hanno segnato la sconfitta della politica in questi anni. C`è anche la giustizia amministrativa. Il sistema dei Tar non funziona come dovrebbe. Dobbiamo fare un riflessione anche su questo».

Ha cominciato tagliando gli stipendi ai magistrati.
«Stimo e rispetto la stragrande maggioranza dei magistrati. Sono dei servitori dello Stato, spesso straordinari. Ma continuo a non capire perché in fase di discussione di una legge, alcuni di loro debbano intervenire con un tono superficiale e minaccioso. Se vale il principio sacrosanto per cui le sentenze si rispettano e non si commentano, con quale logica loro intervengono sulla formazione delle leggi? Non è indispensabile che un giudice o un pm guadagni più di 240 mila euro l`anno. Non è un disastro sociale. Se l`Anm ci attacca per questo sono preoccupato per loro. Resta incredibile che chi guadagna 20 volte più dello stipendio medio degli italiani, si lamenti. È un attacco preventivo e ingiustificato. Mi hanno detto: guai ad attaccare i magistrati. Infatti non li attacco. Ma difendo il mio governo e la dignità dei dipendenti pubblici. Cosa dovrebbe dire un professore che guadagna 1300 euro al mese?».

Per fare tutto questo serve tempo.
«E infatti questa legislatura durerà fino al 2018. Ci scommetto».

Berlusconi mica tanto.
«Forse non in pubblico, ma secondo me lo sa anche lui. In ogni caso nel nostro Paese sta tornando la speranza. Adesso se riusciamo a sbloccare l`incantesimo, accadrà una cosa straordinaria: in Europa torna l`Italia autorevole e combattiva. A quel punto, le assicuro, ci divertiremo».

La Repubblica 21.04.14

"Il voto di scambio e l'atteggiamento del M5S", di Walter Verini

Le nuove norme per contrastare il voto di scambio politico-mafioso sono entrate in vigore proprio in concomitanza con la presentazione delle liste per le prossime elezioni europee, regionali (Abruzzo e Piemonte) e amministrative (migliaia di comuni). Grazie ad una iniziativa dei parlamentari Pd alla Camera, infatti, era stato approvato un emendamento che stabiliva l’entrata in vigore della legge contestualmente alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, senza attendere i quindici giorni di vacatio legis previsti. Già questa decisione rappresenta un segno inequivocabile della volontà di non perdere un giorno per combattere efficacemente quella vera e propria piaga rappresentata dalla contiguità e dalla complicità tra politica e affari, e in particolare tra politica e organizzazioni criminali mafiose.
Ho ancora sotto gli occhi quelle scene dell’aula del Senato, quelle scene dei senatori di Grillo, quando la legge ha avuto l’approvazione definitiva. Così come ho ancora vive nella memoria le cose dette alla Camera dagli stessi 5 Stelle lo scorso 3 aprile, quando l’assemblea approvò di nuovo la legge con le modifiche chieste dalla parte più attenta e sensibile delle forze (non solo magistratura) impegnate nel contrasto alla criminalità mafiosa.
Sono state scene e cose che in molti non avremmo voluto vedere.
Meno di un anno fa, alla Camera, quegli stessi parlamentari che nei giorni scorsi ci hanno insultato, avevano approvato in prima lettura la riforma del 416 ter insieme a tutti i deputati. Il tabellone – lo ricordo ancora con emozione – era completamente verde. E quella norma era quasi identica a quella che poi è stata la stesura definitiva. Quei parlamentari 5 Stelle si alzarono in piedi insieme con tutti noi, per salutare con emozione quel primo, significativo passo che andava nella direzione chiesta e sottoscritta da tanti di noi “braccialetti bianchi” e soprattutto attesa da vent’anni per combattere davvero lo scambio tra mafie e politica.
La norma entrata in vigore contiene innanzitutto, come ormai noto, la grande novità del concetto di “altra utilità”, colpendo così non solo lo scambio di denaro (in vent’anni di precedente formulazione i processi si contano sulle dita di una mano) ma anche altre forme di scambio (appalti, assunzioni, varianti ai PRG, consulenze, etc.). Si colpisce anche la “promessa” di scambio, fornendo così alla magistratura uno strumento in più di indagine e azione penale. E’ vero, nella definizione delle pene si è ritenuto di graduare diversamente (come nella proposta iniziale che prevedeva da 4 a 10 anni) rispetto al reato di associazione mafiosa (da 7 a 12), venendo incontro a ragionevoli obiezioni e suggerimenti emersi nelle audizioni e nel confronto pubblico.
Ma, come è stato detto, se nel corso dell’applicazione si ritenesse di elevare le pene, credo che Parlamento e Governo abbiano tutte le possibilità di poterlo fare.
Questi sono fatti. Inequivocabili. E l’appello che Don Ciotti e Libera hanno rivolto al Senato nei giorni scorsi, chiedendo di approvare subito questa norma (rimandando in futuro eventuali innalzamenti di pena) è la conferma di quanto stiamo affermando.
Per questo vorrei rivolgere qualche domanda polemica ma sincera ai parlamentari di 5 Stelle.
Può bastare questa modifica (obiettivamente marginale rispetto alle conquiste ottenute) per tenere quell’atteggiamento, per lanciare insulti di collusione con le mafie, per evocare inesistenti patti scellerati?
Non si rendono conto che è entrata in vigore una norma che in sostanza è la stessa approvata anche da loro un anno fa?
Se il Procuratore nazionale Antimafia Roberti parla di norma “perfetta”, se un magistrato come Raffaele Cantone la definisce “efficace ed equilibrata”, se personalità come Caselli e Gratteri (pur tra auspici di ulteriori miglioramenti) parlano di “importanti modifiche” e di strumento più efficace per combattere le mafie e la politica collusa, non viene in mente che insultare e denigrare chi ha votato la legge significa anche insultare queste personalità? Anche queste sono colluse?
Non parlo poi di noi del Pd, che siamo in prima fila in Parlamento per combattere battaglie di legalità. No, mi riferisco ad altri: se uno che si chiama Claudio Fava si alza per difendere la legge, non viene in mente che forse la cosa migliore da fare sarebbe quella di togliersi il cappello e votarla?
Quello che intendevo dire è che abbiamo provato davvero amarezza nel vedere come la deriva del Movimento 5 Stelle abbia riguardato anche temi come questo. Tra i quasi 500 “braccialetti” bianchi c’erano anche molti di loro. Diversi ne conosco e mi è capitato di apprezzare il loro personale impegno per la legalità. Perché, per un modesto interesse elettoralistico, si cerca di incrinare il fronte che si batte contro le mafie?
Certo, sappiamo bene che il Movimento di Grillo teme una Politica che riesce a rinnovarsi, a cambiare se stessa, le istituzioni e il Paese e per questo esercita con “geometrica potenza” il tentativo di delegittimare e impedire ogni possibile cambiamento.
Ma esistono dei temi, ci sono dei terreni su cui ci si dovrebbe fermare. Quello della lotta efficace alle mafie è uno di questi. Beppe Grillo non lo ha fatto, così come non si è fermato neppure davanti all’orrore e alla memoria della Shoah. Ma tanti dei parlamentari di 5 Stelle potrebbero almeno ricordarselo e ricordarglielo.

L’Unità 20.04.14

"La sfida da vincere della realizzabilità", di Alberto Quadrio Curzio

«Per un’Italia coraggiosa e semplice» ovvero «Misure per la competitività e la giustizia sociale» sono le qualificazioni date dal Governo al decreto legge appena varato. Sappiamo che il coraggio è una condizione necessaria per governare e riformare l’Italia ma non è una condizione sufficiente perché ci vuole anche un programma nazionale solido e realizzabile. Speriamo che lo sia il Def inviato il 16 aprile alla Commissione europea che sullo stesso si pronuncerà entro il 2 giugno. In attesa del responso consideriamo i principali autori e due caratteristiche del decreto.
Coraggio, solidità e realizzabilità. Sono queste le sfide su cui devono misurarsi le tre personalità di governo della conferenza stampa dopo il Consiglio dei ministri. Il Presidente Renzi sta esprimendo coraggio politico, il sottosegretario alla Presidenza del consiglio Delrio dovrebbe darsi come obiettivo di garantire la solidità esecutiva, il ministro dell’Economia Padoan ha il compito di assicurare la realizzabilità fiscale. Questo trio potrebbe rappresentare nella complementarietà la forza del governo. Renzi ha la presa del comunicatore e il coraggio di difendere le sue scelte anche contrastando chi alla stesse si oppone. Speriamo che sappia però sempre distinguere tra le critiche motivate da proposte alternative (come sono di norma quelle delle parti sociali) da quelle demagogiche e antagonizzanti (che provengono spesso da alcune parti politiche). Delrio ha alle spalle l’esperienza di presidente dell’Anci con la consapevolezza che le promesse vanno pensate prima e mantenute poi così come deve fare un buon sindaco al quale ogni giorno i concittadini chiedono conto del suo operato. Padoan ha le competenze per vigilare sulla realizzabilità e la sostenibilità (europea) in termini di finanza pubblica delle scelte politiche del governo. Speriamo infine che queste tre caratteristiche reggano nella convinzione che la crescita e l’occupazione italiana ed europea vadano rilanciate con le riforme.

Dato questo sfondo consideriamo due aspetti del decreto guardando più alla qualità che alle cifre.
Lavoro e imprese. Il bonus di 80 euro più al mese da maggio per i redditi tra 8 mila e 24 mila euro lordi dei lavoratori dipendenti è una misura di equità condivisibile anche se incompleta. Il suo importo è 6,7 miliardi di euro che se andasse tutto sulla domanda interna darebbe un discreto impulso. Ciò dipenderà molto dall’effetto fiducia dove «il fattore Renzi» può giocare molto. La misura sull’Irap con la riduzione del 10% e con un risparmio per le imprese di 700 milioni nel 2014 è qualitativamente importante (ma quantitativamente debole) come segno di un cambiamento di tendenza per il rilancio della competitività e dell’occupazione ed è in linea con “La svolta buona” prefigurata da Renzi il 12 marzo.
Più importante è l’incremento nel pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni che dovrebbe aumentare di 13 miliardi in aggiunta ai 47 già stanziati dai precedenti Governi di cui 23,5 pagati. Purtroppo il pagamento procede lentamente in quanto la stima totale dei debiti si aggira sui 90 miliardi ed è perciò molto importante che il meccanismo confermato dal decreto per la cessione del credito delle imprese agli istituti finanziari con garanzia dello Stato e con l’intervento della Cassa Depositi e Prestiti entri pienamente a regime. Il tutto viene rafforzato nel decreto con sanzioni per le Pa che devono contestare o certificare le fatture e pagarle in tempi prestabiliti e con l’obbligo di pubblicare sui siti istituzionali e attraverso un portale unico i dati relativi alla spesa e l’indicatore della tempestività dei pagamenti. Non crediamo però che tutto ciò basterà a portare entro luglio al pagamento dei 68 miliardi come prefigurato da Renzi in marzo.
Efficienza pubblica. Varie sono le misure previste e tra queste due spiccano per importanza non solo per i risparmi di spesa pubblica ma anche per l’aumento della efficienza pubblica e per la compressione del circuito degli incarichi di tipo politico. La prima riguarda la spesa di funzionamento delle Pa per l’acquisto di beni e servizi. Al fine di stabilire condizioni standard di acquisto vengono individuati “soggetti aggregatori” (tra cui Consip e una centrale di committenza per ogni Regione) che non potranno superare un totale nazionale di 35. Più in generale è prevista (in parti eguali tra Stato, Regioni ed enti locali) una riduzione della spesa per beni e servizi pari 2,1 miliardi. Vi è infine il tetto retributivo per tutti i dirigenti della Pa a 240 mila euro annui lordi (pari cioè a quella del Capo dello Stato) e il taglio alle auto blu che non basteranno a risanare le finanze pubbliche o a coprire la riduzione del cuneo fiscale ma certo saranno apprezzate dall’opinione pubblica. Laddove questi risparmi non avessero corso l’intervento del commissario alla spending review provvederà a tagli lineari sulla base dei costi standard.
La seconda riguarda la riduzione delle aziende, istituzioni e società controllate dalle amministrazioni locali con riferimento alla quali il Presidente Renzi ha detto in conferenza stampa che le stesse dovranno scendere in tre anni da 8mila a mille. Il commissario Cottarelli dovrà preparare entro fine anno un programma di razionalizzazione con misure di liquidazione o fusione o incorporazione in funzione delle dimensioni e degli ambiti ottimali per lo svolgimento delle rispettive attività e per l’efficienza gestionale attraverso la comparazione a livello nazionale e internazionale, per la cessione di rami d’azienda o anche di personale ad altre società anche a capitale privato, con il trasferimento di funzioni e attività di servizi. Se ciò accadrà, si tratterà di una vera e propria rivoluzione anche perché un potente “sottogoverno” verrebbe smantellato.
Una conclusione. Non ci soffermeremo sulla copertura delle misure prefigurate dal decreto e su altri aspetti dello stesso già trattati molto bene su queste colonne da ottimi commentatori. Le competenze di Padoan ci lasciano peraltro abbastanza tranquilli sulle coperture stesse. Vogliamo invece concludere con un riferimento al prefigurato recupero della evasione previsto dal decreto che, oltre ai 300 milioni già recuperati da inizio anno, punta a 2-3 miliardi entro il 2015. Questa azione deve associarsi alla riforma fiscale per la quale il governo ha ottenuto in febbraio la delega che dovrà esercitare entro 12 mesi. È un’urgenza che con la spending review serve alle coperture finanziarie e all’equità ma anche all’efficienza perché l’evasione e gli spechi alterano la concorrenza aumentando l’onere sui contribuenti leali. Con un recupero della evasione fiscale stimata sopra i 100 miliardi e con possibili risparmi di spesa stimati intorno ai 60 miliardi in tre anni si potrebbe ridurre ampiamente la pressione fiscale dall’attuale 44% e il total tax rate sulle imprese dall’attuale 65,8%, contro il 49,4% di quelle tedesche. Diversamente è difficile che i sistema Italia diventi competitivo e attrattivo. Ecco un altro obiettivo la cui realizzabilità richiede coraggio e solidità.

Il Sole 24 Ore 20.04.14

"L’Europa e il gioco del silenzio", di Luca Landò

Ma l’Europa esiste ancora? Perché, a cinque settimane tonde dal voto più importante per il futuro dell’Unione, così ci hanno detto e così probabilmente sarà, colpisce la straordinaria ostinazione con cui riusciamo a parlare di tutto tranne che di questa campagna elettorale. Con effetti francamente curiosi, come quelli di un’Europa lontana, ma di una Cina vicina. Non è un gioco di parole: oggi sappiamo più delle polveri di Pechino e dei miasmi di Shanghai che dell’inquinamento record in Francia e Belgio mentre, al contrario, nessuno accenna al miracolo della Ruhr, ex bacino di acciaierie e veleni che, bonificato e riconvertito, oggi richiama più visitatori di Pompei.

Fa più notizia lo sciopero degli operai cinesi della Yue Yuen di Dongguan (producono scarpe per Nike, Timberland, Adidas e Asics) che il blocco totale dei treni che fra tre giorni paralizzerà la Romania o i ripe- tuti scioperi in Spagna e Grecia di cui nessuno parla al di fuori dei diretti interessati e dei rispettivi confini.

Certo, la cronaca è la cronaca, ma il risultato è che tra i neuroni della nostra me- moria in questo momento circolano le immagini di una casa di riposo di Cesano Boscone e di un ospedale di Beirut, mentre le sedi del Parlamento europeo di Bruxelles e Strasburgo (ci sono uffici anche in Lussemburgo, ma pochi lo sanno) potrebbero tranquillamente andare da Federica Sciarelli a Chi l’ha visto?

Il guaio è che nel gran silenzio generale, il sogno dell’Europa unita rischia di rovesciarsi come la Concordia sullo scoglio del Giglio. Con conseguenze devastanti. Ecco perché da qui al 25 maggio, come dice la pubblicità di Isoradio, sarebbe bene viaggiare informati. Ad esempio segnalando il patto antieuropeo siglato tra il Fronte Nazionale di Marine Le Pen e il Pvv, il Partito per la Libertà dell’olandese Geert Wilders. Oppure ricordando la riunione dello scorso 15 novembre all’Hotel Bristol di Vienna a cui parteciparono, oltre i rappresentanti di quei due movimen- ti, anche esponenti del Partito per la libertà austriaco (Fpo), Interesse fiammingo (Vlaams Belang), Partito nazionale slovacco e Lega nord. Tema dell’incontro? Realizzare, come è stato detto, «un’alleanza antieuropea per liberare l’Europa dal mostro di Bruxelles»: un patto tra demolitori a cui potrebbero presto aderire il Partito per l’indipendenza del Regno Unito (Ukip) del «grillino inglese» Nigel Farage, il Partito popolare danese e i «veri finlandesi» del Finns party. Ed è vero che Grillo, a differenza di Salvini, ha detto subito no alle avance di Marine le Pen, ma non è da escludere, una volta in Parlamento, la possibilità di «larghe intese» franco-grillo-olandesi sui temi più caldi e antieuropei.

Qualcuno ha definito questi gruppi co- me i cugini europei di Sarah Palin, gli emuli di quei Tea Party che hanno tenuto per qualche anno in fibrillazione la politica americana finendo in realtà per danneggiare più il Partito repubblicano che non i Democratici e tantomeno il Paese. Come scrive Mark Leonard, direttore dello European Council on Foreign Relations e autore di un interessante intervento su ItalianiEuro-

pei, gli euroscettici dell’Hotel Bristol potrebbero essere più dannosi dei Tea Party perché, «mentre la destra americana non mette in discussione l’esistenza stessa dell’Unione e del Congresso, i partiti euroscettici non sopportano l’esistenza della Ue».

Il pericolo, tanto per esser chiari, è quello di un sabotaggio democratico dell’Europa realizzato con i poteri ottenuti dal voto. Se gli euroscettici dovessero diventare uno dei principali blocchi politici avremmo il singolare e triste spettacolo di «un Parlamento che odia se stesso» e che punta alla propria abolizione. E non solo quella. Come ricorda Leonard: «Il primo Parla- mento sovranazionale del mondo ha oggi il potere di bloccare l’agenda della Com- missione europea, di porre il veto alla maggior parte della legislazione europea, di impedire la firma dei trattati internazionali e tenere in sospeso il bilancio annuale della Ue».

Questo, più o meno, è quello che potrebbe cominciare ad avvenire tra cinque settimane e un giorno, che non è il remake mal riuscito di Nove settimane e mezzo, ma il film che rischiamo di vedere nei prossimi mesi sugli schermi di tutta Europa se nessuno romperà il pericoloso gioco del silenzio a cui stiamo allegramente partecipando, soprattutto in Italia.

Gli eurottimisti (qualcuno c’è ancora) credono che un simile scenario sia esagerato e che gli euroscettici non andranno oltre il 15% dei seggi. Premesso che non sarebbe affatto poco, esiste il fondato so- spetto che quelle previsioni siano sbagliate o, per l’appunto, ottimistiche. Per due motivi. Il primo è la scarsa affluenza che ha sempre accompagnato questo tipo di consultazioni, ma che è andata peggiorando di volta in volta: se alle prime elezioni del 1979 ha votato il 63% degli aventi diritto, a quelle del 2009 siamo rimasti ancora- ti a un 43% triste, ma probabilmente non solitario né final. A differenza delle elezioni nazionali, percepite come lo strumento per scegliere un governo (in Italia attraverso l’elezione di un Parlamento, ma il risultato alla fine è quello) gli effetti delle elezioni europee sono avvertiti come troppo lontani nello spazio e nel tempo: più uno sfogo personale che un voto che decide e cambia, qui e ora. In questo senso le dinamiche emotive, e quelle rilevate dai sondaggi, potrebbero riservare autentiche sorprese.

Il secondo motivo per non esagerare con l’eurottimismo è legato alla crisi dell’euro e alle politiche di austerità. Perché il risultato è una popolazione in gran- de difficoltà economica e sociale, dove i venti del populismo anti-euro e del qualunquismo anti-tutto soffiano su strati politi- ci che, per i motivi detti prima, potrebbero seriamente essere tentati dal voto di sfogo.

Piaccia o meno, è arrivato il momento di rovesciare la clessidra e, dando un occhio alla sabbia che corre, spiegare con chiarezza e voce che quello del 25 maggio non è, non sarà un atto emotivo, ma un voto profondamente politico. Perché non si tratterà di applaudire chi la spara più grossa, ma di scegliere a quale impresa affidare la costruzione difficile di una casa importante. Evitando, magari, di chiamare un demolitore.

L’Unità 20.04.14

"La sfida di Renzi è agganciare un po’ di ripresa", di Federico Geremicca

Una palla di neve che rotola e diventa valanga. Un’auto spinta in discesa e il motore che finalmente si sblocca e parte. E’ in un effetto così, adesso, che spera Matteo Renzi, il premier che «ha mantenuto la promessa» ma che sa che l’impegno assunto con gli italiani – e alla fine rispettato – potrebbe non bastare. Il giorno dopo il bagno d’orgoglio e d’ottimismo, insomma, il quadro si fa più chiaro per tutti, e il giovane segretario-premier non nasconde nemmeno a se stesso il persistere di zone d’ombra e di preoccupazioni.

Quella che riserva agli uomini a lui più vicini, infatti, è un’analisi che per una volta – forse la prima volta – mischia assieme serenità e timore: la serenità di chi ritiene di aver fatto quanto possibile, insomma, ed il timore che anche questo – alla fine – possa non bastare. Sono tante, infatti, le cose che si possono rimproverare a Renzi: ma non l’essere un ingenuo, e neppure il cavalcare l’ottimismo a ogni costo.

«Credo che si sia fatto il massimo di quel che si poteva fare – ha spiegato, così, ai suoi collaboratori -. L’obiettivo, si sa, era doppio: iniettare fiducia e ottimismo nelle vene di un Paese deluso e provato, e metterci nelle condizioni di agganciare quel po’ di ripresa che si profila all’orizzonte. La speranza è che entrambi gli obiettivi vengano centrati – ha annotato – che i consumi ripartano, che la gente torni a spendere e gli imprenditori ad investire. Se la ricetta è giusta, lo si vedrà solo tra qualche mese. I conti li faremo in autunno, e se saranno in rosso…».

Matteo Renzi sa che se saranno in rosso sarà difficile sfuggire all’epilogo profetizzato da Silvio Berlusconi nel giorno del suo ritorno in tv: si voterà tra un anno e mezzo. In caso di fallimento della ricetta proposta, infatti, l’effetto-valanga potrebbe prendere una direzione precisamente opposta a quella sperata, e resistere diventerebbe impossibile per chiunque. Da qui ad allora, però, tempo per fare ed agire ce n’è: ed il premier è già pronto a ripartire con la fase due, della quale ha chiari tempi, tappe e obiettivi.

Il punto di ripartenza sono le riforme, quella elettorale e quella del bicameralismo cosiddetto perfetto. La tappa intermedia sono le elezioni europee di maggio, che secondo ogni sondaggio potrebbero riservare al Pd ed al suo segretario un risultato così buono da esser letteralmente impensabile ancora un paio di mesi fa. La volata finale verso la «sentenza d’autunno», invece, è il semestre italiano di presidenza Ue, occasione unica per raggiungere notorietà e consacrazione internazionale, e per tentare di correggere per quanto possibile meccanismi decisionali e rotta europea.

E’ un percorso dall’esito non scontato, ma Renzi conta molto sul successo dei primi passi: le misure varate per rilanciare consumi ed economia, passi avanti per l’Italicum e per la trasformazione del Senato, e infine un risultato elettorale – a maggio – che lo metta al riparo prima di tutto dalle evidenti voglie di rivincita che animano più e più anime del suo Partito democratico. Nel Pd, infatti, coltelli e polemiche sembrano temporaneamente accantonate e riposti: ma il premier non si illude che la quiete (assai recente, del resto) possa durare all’infinito.

D’altra parte, i nemici – come da tradizione per qualunque Presidente del Consiglio – aumentano, e Matteo Renzi non fa fatica a snocciolarne l’elenco: le grandi banche colpite dalla manovra; i magistrati ed i manager pubblici cui è toccata uguale sorte; i sindacati troppo spesso snobbati; i dipendenti pubblici, forse, e certamente pezzi importanti del cosiddetto mondo politico, sempre più insofferenti di fronte agli affondo del «rottamatore». Molti nemici molto onore, si sarebbe detto un tempo. Ma quel tempo è cambiato: e di questa piccola folla che attende e affila i coltelli, diciamo la verità, Renzi farebbe onestamente a meno…

La Stampa 20.04.14