Latest Posts

"Il reato si applica già alle europee pene da 4 a 10 anni di carcere", di Liana Milella

Reato subito? Sì, questa è la notizia più importante. Il 416-ter, il voto di scambio tra politica e mafia, entrerà in vigore immediatamente. Manca solo la firma in calce del capo dello Stato e l’uscita nella Gazzetta ufficiale . Poi le polizie e i magistrati potranno monitorare la campagna elettorale per le europee. Certo, ormai manca poco più di un mese, magari gli accordi sporchi sono stati già fatti, politici e mafiosi si sono già messi d’accordo sfruttando le inspiegabili risse della politica. Ma il nuovo articolo del codice penale, checché ne dicano i suoi inspiegabili detrattori, consentirà incriminazioni fino a oggi letteralmente impossibili.
È buono o è cattivo il 416-ter votato al Senato? Hanno ragione i grillini e i malpancisti del Pd, e magistrati come il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri, oppure chi l’ha votato, l’Anm, il procuratore antimafia Roberti, il commissario anti-corruzione Cantone?
«Leggiamo il nuovo articolo del codice penale, che si chiama “ter” perché segue il 416, l’associazione a delinquere semplice, e il 416-bis, quella di stampo mafioso. Un 416-ter esiste sin dal giugno 1992, ma è considerato un’arma spuntata perché si dà voto di scambio solo se nell’accordo tra il politico e il mafioso corre del denaro. Ma la già ricchissima mafia certo non vuole denaro dal politico, ma il suo interessamento e l’appoggio a
qualsiasi sua necessità e richiesta. Ora questo gravissimo gap viene superato. Perché «chiunque accetta la promessa di procurare voti mediante le modalità mafiose in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o di altra utilità è punito con una pena da 4 a 10 anni».
Questa pena è sufficiente, è congrua, oppure è sottodimensionata ed è un regalo alle mafie e a chi ci si mette d’accordo?
«Si è litigato per settimane su questo. Col risultato di rallentare il voto finale e rischiando di perdere l’aggancio con le europee. Punire il voto di scambio con un minimo di 7 e un massimo di 12 anni, come per l’associazione mafiosa, o un gradino più sotto, da 4 a 10 anni? I fautori della prima tesi sostengono che il voto di scambio è un crimine gravissimo, e il politico ne deve
pagare più che pesantemente le conseguenze. Chi sponsorizza la pena più lieve sostiene che deve esistere una gradazione razionale tra 416-bis, concorso esterno in associazione mafiosa, voto di scambio».
È sufficiente la formula «denaro o altra utilità» per farci
rientrare i possibili accordi tra il mafioso e il politico corrotto oppure era necessario prevedere anche «la sua disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione»?
«Anche su questo la rissa è stata molto dura. Ma hanno prevalso le puntuali osservazioni di pm come Roberti (Procura nazionale Antimafia), Cantone (Anticorruzione) e Sabelli (Anm) che giudicavano il riferimento alla «disponibilità» unicamente come foriero di confusione e di possibili ostacoli nelle indagini».
Fino a che punto un magistrato potrà perseguire anche la sola «promessa» di procurare voti o la sola «promessa» di ottenere in cambio «denaro o altra utilità»?
«Non è tanto la prima, quanto la seconda “promessa” che ha scatenato le paure di Forza Italia, preoccupata di restare incastrata da mafiosi e falsi pentiti pronti a raccontare bugie per inseguire anche una semplice vendetta. Ma la novità della norma sta proprio lì, nel fatto che diventerà reato anche la semplice promessa di dare «denaro o altra utilità».
È giusto che nel testo sia scomparso l’avverbio «consapevolmente» a proposito della consapevolezza, nel caso di voto di scambio, di avere di fronte un mafioso che commette un reato?
«La “consapevolezza” è stato il primo baluardo della Destra a cadere perché chi si avvicina o si fa avvicinare dal mafioso in caccia dei voti sa bene chi ha di fronte ».
Per garantire buoni risultatimnella lotta alla mafia bisogna aumentare le pene attualmente previste per i reati?
«Il fronte dei magistrati è diviso. Per un Gratteri favorevole, si levano altre voci in dissenso pronte a dire che le pene ci sono e sono giuste ed è del tutto fuorviante ipotizzare modifiche ».

La Repubblica 17.04.14

"Franceschini dalla parte del cinema", di Gabriella Gallozzi

L’attenzione, anzi la volontà c’è. Quello che mancano sono le finanze. Con una spending review alle porte di circa due milioni di euro, quello «che farò sarà sicuramente evitare i tagli e trovare più risorse. Ce la metterò tutta, ma dentro questo quadro». È realista e concreto il ministro Franceschini che ieri ha partecipato alla presentazione annuale dei dati sul cinema italiano, messi a punto dal gruppo di analisi di Mibact e Anica. Una sorta di prevedibile cahiers de doléances che mette in luce come, nonostante i premi conquistati – Oscar compreso – il nostro cinema versi in gravissime acque con segni in negativo di fronte a quasi ogni voce, a cominciare dal 27% in meno degli investimenti nel settore.

«In epoca di globalizzazione ogni economia nazionale deve individuare la propria vocazione e quella italiana è legata alla cultura e alla bellezza – aggiunge il ministro dei Beni culturali -. Credo molto in questa sfida ma so anche che non possiamo prescindere dalla crisi economica e dalla stagione di tagli che stiamo vivendo».

Per questo, nell’immediato, la «ricetta» del Ministro è puntare sulle cooproduzioni con l’estero (in calo anche quelle nel 2013) e sul tax credit (le agevolazioni fiscali) da portare oltre il limite dei 5 milioni di euro per attirare maggiormente gli investimenti stranieri. Che poi sono quelli delle grandi produzioni, altra voce col segno negativo: calano, infatti, i film ad alto budget, mentre aumentano quelli a bassissimo budget (sui 200mila euro). Priorità dei prossimi giorni sarà poi l’allargamento del tax credit all’audiovisivo e l’apertura di un tavolo con le televisioni: «Le tv – spiega Franceschini – devono dare un contributo fondamentale e occorre un intervento per correggere le norme sulle quote aumentando le sanzioni. Ringrazio la Rai perché rispetta più di Mediaset le norme sugli investimenti, ma ringrazio Mediaset perché programma più film italiani in prima serata».

Su Cinecittà, poi, resta l’impegno preso nelle passate settimane con sindacati e associazioni per promuovere una vera azione di rilancio degli storici studi di via Tuscolana, coinvolgendo in un accordo commerciale Rai e Istituto Luce. Una novità, ancora, riguarderà le commissioni ministeriali che assegnano i fondi pubblici ai film, spesso al centro di polemiche per la scarsa competenza dei membri. D’ora in avanti, spiega il Ministro «i nuovi componenti verranno selezionati in base ai loro curricula e il direttore generale, Nicola Borrelli, non voterà». Altro impegno assunto da France- schini sarà la battaglia per la difesa dell’«eccezione culturale», di cui la Francia, soprattutto, ha fatto una bandiera: «che significa tenere fuori la cultura dalle logiche di mercato». Finalmente.

E a chiudere un invito ai produttori perché mostrino nei loro film le tante «bellezze dell’Italia so- no cose che contano molto di più di una campagna promozionale. Mettete nei vostri film le nostre meraviglie, specie quelle sconosciute». Peccato però che costino un occhio della testa, ribatte dal fondo della sala proprio il produttore de La grande bellezza, Nicola Giuliano: «Girare una notte alle Terme di Caracalla costa anche 30mila euro!» Forse, quindi, si dovrà intervenire anche su questo. Ma più che assestamenti e provvedimenti ad hoc per ogni emergenza forse sarà finalmente il caso di rimettere le mani sulla tanto attesa e mai varata legge di sistema? La risposta al Ministro.

L’Unità 16.04.14

"Irpef, ai poveri bonus in percentuale al reddito", di Bianca DI Giovanni

Per gli incapienti ci sarà un bonus fiscale pari a una percentuale del reddito dichiarato. Non tutti avranno lo stesso beneficio: la platea sarà divisa per fasce decrescenti. Si lavora a ritmi forzati in queste ore a Palazzo Chigi per costruire il sistema di sgravi da scrivere nei decreti attesi venerdì, ma il meccanismo si annuncia complesso. In ogni caso fonti vicine alla presidenza del consiglio confermano che l’intervento ci sarà e sarà rivolto a tutti i redditi da zero a 8mila euro da lavoro dipendente. Quattro milioni di perso- ne in più rispetto ai 10 milioni destinatari delle detrazioni.

Alle famiglie con redditi fino a 25mila euro andrà un beneficio medio di 714 euro annui, con un vantaggio mas- simo del 3,4% del reddito per le famiglie meno abbienti, e minimo dello 0,7% di quelle più «ricche». Questa la valutazione dell’Istat durante l’audizione al Senato sul Def. Ma dalla stes- sa sede arriva anche l’allarme Bankitalia. Le risorse necessarie, infatti, potrebbero non bastare. «Nel 2015 i risparmi di spesa indicati come valore massimo ottenibile dalla spending review – dice il vice direttore generale di Banca d’Italia Luigi Federico Signorini – non sarebbero sufficienti, da soli, a conseguire gli obiettivi programmati- ci, qualora dovessero finanziare lo sgravio dell’Irpef, evitare l’aumento di entrate (previsti dalla legge di Stabilità, ndr) e dare anche copertura agli esborsi connessi con programmi esistenti non inclusi nella legislazione vigente». Nella legge di bilancio varata da Letta-Saccomanni sono già previsti dei risparmi di spesa piuttosto consistenti. L’anno prossimo si tratta di reperire 4,37 miliardi, l’anno dopo addirittura 8,87 e nel 2017 11,87 miliardi. Tagli di spesa che sono già inseriti nell’andamento dei conti, e che quindi dovranno essere effettuati per rispettare i vincoli di bilancio, riducendo lo spazio per finanziare lo sgravio fiscale. Come dire: sono risparmi già ipotecati. Una parte di quei tagli sono necessari per evitare la clausola di salva- guardia inserita da Saccomanni in bilancio per evitare il taglio delle detrazioni fiscali, che altro non è che un aumento di tasse. Insomma, se non dovessero funzionare i tagli di spesa, scatterebbe un aumento di tasse per almeno 2,4 miliardi nel 2015 e circa 3 nel 2016. Se accadesse, sarebbe una beffa: sgravio Irpef per i redditi più bassi da una parte e taglio alle detrazioni del 19% dall’altra. Un rompicapo.

Palazzo Koch lancia anche un altro allarme, che stavolta riguarda il debito e il rispetto della clausola del fiscal compact a partire dal 2016. «Se gli andamenti macroeconomici dovessero discostarsi, anche di poco, dalle previsioni contenute nel Def – dichiara il vi- ce direttore generale della Banca d’Italia Luigi Federico Signorini – o se non si realizzassero integralmente le dismissioni programmate, il rispetto del- la regola sarebbe messo a repentaglio». Quanto al piano di privatizzazioni, annunciato proprio per limare lo stock di debito, Signorini lo definisce «ambizioso», ma chiede anche che sia «rapido». Per la banca centrale comunque «l’equilibrio finanziario non si deve perseguire con strategie miopi. Le procedure europee consentono alcuni margini di flessibilità che posso- no essere sfruttati, in accordo con le autorità europee, a patto di avere al tempo stesso una strategia di riforme credibili e una bussola certa per le decisioni sulla finanza pubblica».

La crescita è il pilastro su cui Pier Carlo Padoan ha costruito il Def. Il ministro ripete che «la ripresa è arrivata, ma va sostenuta perché è ancora fragile». E ribadisce in audizione che «a giorni arriveranno le misure fiscali a favore di famiglie e imprese». In ogni caso il ministro si lancia in previsioni ottimistiche. «Stiamo uscendo da questa fase recessiva, il Pil è entrato in territorio positivo già dall’ anno precedente. La nostra previsione è dello 0,8%, un numero più basso di quello proposto e che è in linea con le previsioni dei principali organismi internazionali e del consenso generale – spiega – In ogni caso ritengo che è necessario un atteggiamento prudenziale: non sarei sorpreso se il risultato fosse migliore di quanto previsto adesso ma questo viene lasciato come prospettiva perché la stima dell’anno rimane quella». La crescita sarà sostenuta dalle riforme, che avranno un effetto positivo pari allo 0,3% del Pil. Novità an- che sul semestre di presidenza italiana: al centro del dibattito l’Italia porterà l’accesso al credito, uno dei capitoli più pesanti per la crisi italiana.

MERCATO DEL LAVORO

Importante il riferimento di Palazzo Koch al mercato del lavoro, che potrà riprendere fiato solo con una crescita robusta. «La ripresa non si è nessun modo riflessa sull’andamento del mercato del lavoro – spiega Signorini – questo è naturale perché l’occupazione tende a reagire con un certo ritardo, ma sono opportuni provvedimenti che accelerino la risposta delle impresa alla ripresa economica». Secondo Signorini, «misure che agevolino l’assunzione sono da salutare positivamente: gli interventi che il governo prevede nei vari campi, come i contratti a tutele crescenti siano coerenti e orientati nel lungo termine portino a rapporti tra lavoratori e impresa i più stabili possibile».

Via Nazionale aggiorna anche le stime sui debiti della Pa. I 90 miliardi in- dicati al 31 dicembre 2012 si riferivano a esposizioni anche a breve, cioè non scadute. 90 giorni è il periodo di paga- mento indicato nei termini contrattuali e quindi in quel caso non si può parlare di debiti scaduti.

L’Unità 16.04.14

"Governo, il rodaggio è finito", di Mario Deaglio

Per una sorta di convenzione non scritta, si dice che i capi di governo possano disporre di cento giorni iniziali di «luna di miele», un periodo in cui vengono comunque loro perdonati errori e «gaffes», indecisioni e contraddizioni. Per Matteo Renzi, presidente del Consiglio dal 22 febbraio, si può parlare di una «luna di miele» dimezzata: appena cinquantun giorni separano l’entrata in carica dalle nomine dei nuovi vertici delle principali imprese controllate dallo Stato, che il suo governo ha deciso la sera del 14 di aprile.

Queste nomine, infatti, segnano il passaggio da un semplice «effetto annuncio» di provvedimenti – che si sono rivelati, come c’era da aspettarsi, tecnicamente ben più difficili da scrivere e da far approvare di quanto il nuovo governo prevedesse – a un cambiamento concreto non solo di persone ma anche di tipologia dei massimi dirigenti di queste imprese, pur non del tutto immuni da conflitti di interesse.

Allo scardinamento e alla «rottamazione» del vecchio modo di fare politica, a un vero e proprio diluvio di dichiarazioni del presidente del Consiglio e dei suoi ministri ha fatto seguito un atto concreto di «incardinamento» del nuovo in alcuni dei principali gangli del potere economico italiano. Si tratta di un vero e proprio salto di qualità che segna la fine dell’inizio di questa esperienza di governo, la sua entrata in una fase di maturità.

Se tutto andrà secondo le previsioni del presidente del Consiglio, i prossimi cinquanta giorni dovrebbero portargli un’importante vittoria alle elezioni europee, determinata da un elettorato grato per il primo sgravio fiscale, a carattere generalizzato. Di qui dovrebbe derivare una spinta inarrestabile a ulteriori mutamenti di tipo costituzionale, riguardanti la legge elettorale e i compiti del Senato e un definitivo consolidarsi degli impulsi di ripresa che si cominciano a intravedere chiaramente nell’economia anche se, per ora, il loro effetto generale continua a rimanere incerto.

La fortuna, diceva Virgilio, aiuta gli audaci, o, come più probabilmente direbbe il toscano Renzi, chi non risica non rosica. Renzi ha sicuramente «risicato» abbastanza, continuando a mettere sulla bilancia il proprio ritiro in caso di sconfitta con un coraggio che non appartiene alla classe politica italiana: riuscirà ora a «rosicare», ovvero a raggiungere quell’insieme di cambiamento istituzionale, rilancio economico e successo politico che persegue con grande energia?

A questo interrogativo naturalmente nessuno è in grado di rispondere con un sì o con un no. L’aver portato a termine l’operazione nomine, in ogni caso, gli renderà più facile portare a termine il cambiamento istituzionale in un clima di recupero economico. L’operazione nomine, infatti, rappresenta un chiaro segno di discontinuità nei rapporti, spesso al limite della regolarità, tra mondo politico e imprese pubbliche. La realtà di queste imprese non cambierà dall’oggi al domani e non è neppure necessario che ciò avvenga. Diventeranno però, quasi certamente, imprese più trasparenti e, come tali, più adatte al sistema di mercato. Il loro valore di mercato aumenterà, che le si voglia davvero privatizzare o no, e controbilancerà più efficacemente il debito pubblico.

In questa prospettiva, la possibilità che la ripresa attecchisca diventa più consistente, soprattutto se la convinzione di trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo e di dinamico indurrà gli italiani a modificare i loro comportamenti timorosi e quindi a dar vita a nuove iniziative, di investimento e di consumo, che rinvigoriscano la domanda interna. Per citare ancora Virgilio, Renzi si è collocato nella posizione di quelli che «possunt quia posse videntur», hanno potere perché (e potremmo aggiungere finché) questo potere ha una manifestazione visibile.

Perché il suo potere continui a essere visibile, e quindi a produrre cambiamenti effettivi sulla società e sull’economia, il presidente del Consiglio dovrebbe però evitare alcune cadute di stile. A cominciare dalla «scivolata» nel populismo che l’ha portato a far pagare alle banche la parte maggiore degli ottanta euro in più che dovrebbero arrivare, entro un tempo brevissimo, nelle buste paga degli italiani: le banche non sono vacche da mungere, specie in fase di ripresa, e di latte alla finanza pubblica ne stanno già dando tanto. E continuando con la dichiarazione di venerdì di una «violenta lotta» alla burocrazia: la burocrazia ha molti difetti ma non è tutta bacata e la violenza semplicemente non può avere spazio nel suo progetto di rinnovamento.

La Stampa 16.04.14

"La riforma dell’apprendistato: quali i rischi di effetti negativi (inattesi)?", di di Ugo Ascoli ed Emmanuele Pavolini

In attesa di altri provvedimenti per ora solo annunciati (fra cui ad esempio la creazione di strumenti di welfare a copertura universale per chi è senza lavoro e senza reddito), l’attuale governo ha ritenuto di dover intervenire con celerità su questioni relative al mercato del lavoro con un decreto legge, il n° 34 del 20 marzo 2014, onde modificare la regolazione di alcune importanti forme di contratto: l’apprendistato (incidendo soprattutto su quello più praticato, ovvero quello ‘professionalizzante’) ed il contratto a tempo determinato. Rispetto a un dibattito politico che si è iniziato a concentrare sul secondo di tali strumenti, riteniamo in questa sede sia importante svolgere una riflessione sui cambiamenti apportati al primo, che ha rappresentato fino ad oggi il contratto su cui maggiormente si sarebbe dovuto teoricamente puntare, qualora si fosse voluto investire sul ‘capitale umano’ dei giovani: l’elemento qualificante di tale strumento è, infatti, quello di dare rilevanza contemporaneamente sia all’inserimento effettivo nel mercato del lavoro che alla formazione durante il periodo iniziale di tale investimento. La nuova normativa proposta dal governo Renzi interviene sul funzionamento di alcuni meccanismi fondanti dell’apprendistato in Italia. Le riflessioni riportate in queste pagine, oltre che a partire dalla letteratura recente sull’argomento, si basano in particolare, da un lato, sull’esperienza di amministratore di uno dei due autori di questo articolo, che è stato per vari anni Assessore regionale al Lavoro, dall’altro sui risultati di una ricerca condotta nell’ultimo biennio all’interno di un progetto di ricerca del MIUR (PRIN) sui temi del welfare, in cui una parte specifica è stata dedicata al funzionamento dell’apprendistato. Accanto ai due autori del presente articolo, hanno avuto un ruolo attivo in questa attività di ricerca Clementina Villani (Università di Roma “La Sapienza” e Comune di Roma), Giustina Orientale Caputo e Sara Corradini (Università di Napoli “Federico II”).

Come quasi tutti i governi dalla seconda metà degli anni novanta ad oggi, anche quello Renzi, tramite il decreto “Poletti”, interviene sul contratto di apprendistato. Nel corso degli ultimi decenni si è ripetutamente intervenuto sui limiti di età per avere accesso a tale strumento: seguendo una direzione di progressivo innalzamento di tale limite nel 1997 si elevò l’età dell’apprendista fino a 24 anni; nel 2003 si portò tale limite fino a 29 anni e si elevò il periodo possibile dell’apprendistato ‘professionalizzante’ a sei anni; nel 2011 venne approvato il Testo Unico che riportava la durata massima a tre anni; nel 2012 si rivedevano gli sgravi contributivi a favore del datore di lavoro (fino al 100% per un impresa con meno di nove addetti). Da un punto di vista degli strumenti per facilitare l’inserimento sul mercato del lavoro dei giovani, il valore e l’importanza del contratto di apprendistato risiedono nell’essere un contratto ‘a causa mista’: la doppia attenzione su inserimento lavorativo e formazione ne costituiscono l’essenza e la forza. La formazione è sostanzialmente distribuita fra ‘formazione professionale in senso stretto’ (on the job) e ‘formazione trasversale’, onde incrementare l’occupabilità dei giovani nel mercato del lavoro, dal momento che non c’è alcun obbligo di assunzione a tempo indeterminato da parte del datore di lavoro. In realtà l’idea di coniugare esperienza in azienda con attività formative, spendibili in un contesto più ampio di mercato del lavoro, si è andata affievolendo nel corso del tempo. Dieci anni fa le ore della ‘formazione trasversale’ erano 120 annue. Si è giunti successivamente a 120 in tre anni. Con il decreto Poletti l’obbligo è stato praticamente azzerato. Per essere più precisi il decreto del marzo 2014 rende facoltativa e non obbligatoria la formazione trasversale. In aggiunta a ciò non si vincola in alcun modo la possibilità da parte imprenditoriale di accendere nuovi contratti di apprendistato: nell’ambito della normativa vigente tale possibilità era collegata in qualche modo all’esito di una parte dei precedenti.

L’esperienza di uno degli scriventi in qualità di amministratore porta ad interpretare il passaggio dall’obbligatorietà alla discrezionalità come il voler venire incontro alle lunghe e reiterate pressioni del mondo imprenditoriale, specialmente delle piccole e medie imprese, interessate soprattutto a mantenere dentro l’apprendistato solo la formazione tecnica di mestiere. Sarà, infatti, molto improbabile che, venuto meno il vincolo obbligatorio, le stesse imprese, che fino ad ora avevano spinto per l’abrogazione della formazione trasversale, decideranno di investirvi. Naturalmente, sarebbe errato descrivere il prima ed il dopo del decreto Poletti come il mondo magnifico prima e la decadenza poi della formazione trasversale.

Il nodo della formazione ha da sempre rappresentato una questione spinosa nell’ambito dei rapporti fra datori di lavoro, organizzazioni sindacali e soggetti pubblici, spesso responsabili dei percorsi formativi ‘esterni’: in nessuna regione italiana si è mai riusciti a mettere in formazione più di un terzo dei giovani in apprendistato e tutte le ricerche hanno mostrato un funzionamento profondamente insoddisfacente per le modalità dei percorsi attivati. Tuttavia erano in molti a pensare che occorresse ridisegnare tale formazione, facendone veramente una leva per migliorare la capacità dei giovani di ricollocarsi efficacemente in un’altra attività lavorativa, dopo la conclusione di un periodo di apprendistato, piuttosto che abdicare nella sostanza all’aspirazione di investire in tale direzione. Contemporaneamente buona parte dei datori di lavoro l’ha sempre considerata come ‘una perdita di tempo’ che riduce il monte ore investito nel lavoro e quindi un costo per l’impresa: il trade-off fra sgravi contributivi e retributivi (rilevanti) per la parte imprenditoriale e necessità di formazione per gli apprendisti è stato spesso posto in secondo piano. Accanto a questo rischio, quindi, di ridisegnare l’istituto di apprendistato in un contratto sempre meno “misto” e sempre più strettamente legato al posto di lavoro specifico in cui il lavoratore viene a trovarsi, alcune altre elaborazioni compiute sulla banca dati dell’Inps che abbiamo svolto per la ricerca PRIN sopra indicata, ci permettono di comprendere meglio come abbia effettivamente funzionato in questi anni tale istituto. Innanzitutto risulta come il numero di lavoratori in apprendistato in Italia sia diminuito fra il 2005 ed il 2011 quasi del 14%, passando da 841.321 a 726.276 (2011), dopo aver raggiunto il picco più elevato (906.677) nel 2007. Il titolo di studio più diffuso fra i giovani apprendisti è il diploma superiore, mentre per quanto riguarda l’inquadramento professionale c’è una netta prevalenza di professioni di tipo operaio per gli uomini e di ruoli di impiegate qualificate nei servizi per le donne. Ben l’83,7% degli apprendisti dichiara di non aver effettuato alcuna attività formativa negli ultimi dodici mesi. In oltre un terzo dei casi il contratto di apprendistato non ha superato i sei mesi e solo nel 31,5% ha superato i due anni.

Nel 2011 la quota dei lavoratori in apprendistato di 15-29 anni si è attestata sul 14,4% del totale degli occupati della stessa fascia di età (mentre nel 2009 ne rappresentava il 15,9%), con grandi differenze fra i due estremi Sud (9,2%) e Centro (18,3%). In oltre quattro quinti dei casi (85,8%) siamo inoltre in presenza nel 2009 di una risoluzione anticipata, prima cioè del termine stabilito: la vasta diffusione di un tale fenomeno non depone a favore di una interpretazione di tali percorsi lavorativi quali modalità in grado di migliorare le doti di formazione e competenza di chi li intraprende. Se poi si considera il totale delle attivazioni di rapporti di lavoro nel 2011, l’apprendistato rappresenta non più del 3% delle attivazioni totali, a fronte di un massiccio utilizzo del contratto a tempo determinato, che ha raggiunto nello stesso anno il 68,2% del totale delle attivazioni. In definitiva ci troviamo in presenza di un contratto di lavoro che: non mantiene le sue caratteristiche di contratto a causa mista (formazione e lavoro) a tutto svantaggio dei lavoratori e delle loro chance di occupabilità al di là della singola esperienza in un’azienda; viene scelto sempre meno dai datori di lavoro; presenta durate spesso (molto) brevi; è utilizzato assai meno nelle regioni meridionali, proprio dove, invece, la disoccupazione giovanile raggiunge i suoi picchi più elevati. Di fronte alla crisi dello strumento così come disegnato fino al marzo 2014, si poteva provare ad intervenire in varie maniere. Non è detto, però, che la scelta di rendere questo contratto ancora più appetibile per i datori di lavoro, rinunciando all’obbligatorietà della formazione ‘esterna’ e rimuovendo ogni ‘paletto’ per l’assunzione di nuovi apprendisti, incrementerà il numero di apprendisti. Potrebbe rischiare, invece, di eliminare ogni forma (tentativo) di ‘investimento sociale’ anche formativo su questi giovani onde aumentarne l’occupabilità. La competizione con il contratto a tempo determinato, in cui, grazie al nuovo decreto, sarà possibile arrivare a otto proroghe fino a 36 mesi senza ‘causalità’ e senza periodi vuoti fra un periodo e l’altro, sarà ‘dura’ e rischierà di aprire una gara ‘al massimo ribasso’. Difficilmente tutto ciò, in assenza di una ripresa della domanda, potrà ridurre significativamente la disoccupazione giovanile. Lo scenario che si apre è chiaramente complesso ed è difficile in questo momento prevederne le traiettorie e gli esiti con una certa sicurezza. Il rischio appare, però che il nuovo apprendistato finisca per affiancarsi alle (false) partite iva ed alle varie forme di lavoro a collaborazione. Se ciò si dovesse verificare, occorrerà domandarsi fino a che punto la maggiore flessibilità si tradurrà in maggiore precarietà.

L’Unità 16.04.14

"Se questa è persecuzione", di Massimo Giannini

Quattro ore a settimana in un centro anziani a due passi da Villa San Martino. Cioè sedici ore al mese. Cioè centosessantotto ore totali, l’equivalente di una settimana, spalmate su dieci mesi e mezzo. Eccolo qui, il risultato della «persecuzione giudiziaria » che la «magistratura politicizzata, metastasi della democrazia », ha osato infliggere all’Unto del Signore. Eccolo qui, l’esito della «guerra dei vent’anni» che le odiate «toghe rosse», al servizio dei comunisti, hanno condotto contro lo Statista di Arcore. L’affidamento ai servizi sociali, definitivamente irrogato nei confronti del pregiudicato Berlusconi Silvio, è una pena ridicola. Non è una critica verso i giudici che l’hanno decretata. I modi e i tempi di esecuzione della «misura restrittiva» rispettano la norma del Codice penale, e riflettono la prassi del Tribunale di sorveglianza. Ma se si pensa a come ci si è arrivati, non si può non restare colpiti. Nell’agosto 2013 l’ex Cavaliere è stato giudicato colpevole in via definitiva, come «ideatore iniziale» ed «utilizzatore finale», per una frode tributaria gigantesca. Oltre 7 milioni di euro sottratti al Fisco, su un totale di 370 milioni che tre corti hanno dichiarato parte di una «provvista» in nero, lucrata sui diritti tv gonfiati da Mediaset ed usata per pagare tangenti a magistrati, pubblici ufficiali e politici.
LA CONDANNA prevedeva quattro anni di carcere. Grazie all’indulto i quattro anni sono diventati uno. Grazie agli sconti premiali un anno è diventato 10 mesi e 15 giorni. Grazie al beneficio delle «misure alternative» il carcere è diventato affidamento ai servizi sociali. Dunque, un pomeriggio a settimana alla Sacra Famiglia. Ecco cosa rimane, di tanto scempio delle leggi dello Stato. Constatare questa banale evidenza non significa affatto rammaricarsi per non aver visto Berlusconi «finalmente dietro le sbarre», «liquidato per via giudiziaria ». Non lo abbiamo mai sperato, anche se abbiamo sempre invocato il principio di legalità, che vuole tutti i cittadini uguali davanti alla legge.
Non c’è alcun compiacimento giustizialista, nel vedere un essere umano varcare la soglia di una prigione. Ma il fatto che questo non sia accaduto, pur in presenza di un reato grave accertato «al di là di ogni ragionevole dubbio», significa almeno riconoscere che l’intera «narrazione» propinata dall’ex Cavaliere nel Ventennio è stata scandalosamente falsa. Berlusconi non è stato «vittima » di nessuna «caccia all’uomo », ma solo dei suoi vizi pubblici e privati. Non ha mai patito alcun «martirio», ma ha sempre beneficiato di un trattamento favorevole da parte della magistratura giudicante, costretta ad applicare le almeno 12 leggi ad personam dal ‘94 in poi. Non ha mai rischiato «l’arresto immediato », come ha ripetuto ossessivamente, per alimentare la leggenda del Terrore ordito ai suoi danni dai Robespierre in toga sparsi per la Penisola.
La verità è che il capo della populista ha potuto godere di uno status particolare, meta-politico e pre-giuridico. Questo status non lo ha reso del tutto legibus solutus, ma gli ha conferito una «specialità » sconosciuta a qualunque altro cittadino comune. La costituzionalizzazione della gigantesca anomalia di cui è portatore (e che ha più volte provato a far introiettare al sistema) non gli è per fortuna riuscita. Ma lo «stato di eccezione permanente», al dunque, ha fatto breccia. Qualcosa, di quel virus micidiale auto-prodotto nel laboratorio di Arcore, alla fine è pur filtrato nel corpo sfibrato delle istituzioni, se è vero che oggi la pena per le sue malefatte non è poi così «afflittiva », e appare quasi una «formalità ».
I giudici della Sorveglianza riconoscono «l’insofferenza del colpevole alle regole dello Stato». Ma poi aggiungono che «ha pagato le spese processuali e il risarcimento danni », e si è messo «a disposizione dell’Uepe per l’attività rieducativa ». Sarebbe questo ad evidenziare la sua «volontà di recupero di valori morali perseguiti dall’ordinamento». Ora i suoi comportamenti «dovranno mantenersi nell’ambito delle regole della civile convivenza, del decoro e del rispetto delle istituzioni». E questo è tutto, secondo gli standard dei tribunali di sorveglianza. Ma sembra davvero poco, se si confronta la pena «iniziale» stabilita ad agosto e quella «finale» eseguita oggi. Rimane la sensazione di una «denegata giustizia». Altro che Aung San Suu Kyi, secondo il paragone usato da Brunetta con il consueto sprezzo del ridicolo.
In vista del voto europeo, e con Forza Italia ridotta a un cumulo di macerie, Berlusconi potrà ora tentare la «rimonta ». Potrà andare a Roma, potrà tenere comizi, potrà rilasciare interviste, potrà usare le sue bocche di fuoco televisive. La famosa «agibilità politica », che ha reclamato impunemente dal Quirinale, è tutto sommato garantita. Del resto, non poteva essere altrimenti, nel momento in cui gli è concesso un posto da «padre della Patria» al tavolo delle riforme. Una scelta complicata ma quasi obbligata per Renzi, che per fare quelle riforme non ha un’altra maggioranza possibile, ferma restando la «fuga sui tetti» dei grillini.
Reggerà, adesso, questo patto? La risposta è nella testa del pregiudicato. Probabilmente non romperà, ma alternerà strappi e ricuciture. Per lui l’«abbraccio» con Renzi (descritto da Toti alla Gelmini nel noto fuorionda) è «mortale » perché lo tiene inchiodato ad una linea di responsabilità che gli è aliena, tanto più in una campagna elettorale. Ma è anche «vitale», perché lo tiene agganciato a un circuito costituente al quale non avrebbe alcun titolo per partecipare. Solo finché dura questo abbraccio Berlusconi può dire, al Palazzo e al Paese: mi avete condannato, mi avete fatto decadere da senatore, mi avete interdetto dai pubblici uffici, mi avete affidato ai servizi sociali, ma senza di me non potete riscrivere la legge elettorale, né votare il Senato federale. Per il Cavaliere è una polizza vita, che gli deve durare un anno. Per il premier è una cambiale in bianco, che gli può costare cara.

La Repubblica 16.04.14

Piazza della Loggia “Ignorate le prove contro i neofascisti”, di Benedetta Tobagi

I neofascisti che si ritroveranno nuovamente imputati per la strage di piazza della Loggia del 28 maggio 1974 a Brescia, che uccise otto persone, erano stati assolti per un «ipergarantismo distorsivo». Lo spiega la Corte di Cassazione nelle 84 pagine di motivazioni in base alle quali sono stati annullati i proscioglimenti per Carlo Maria Maggi, ex Ordine Nuovo, e Maurizio Tramonte, che ora viene descritto come un «reticente» e «intraneo» della destra eversiva, più che come un presunto infiltrato dei servizi. I due tornano rinviati a giudizio come mandanti e forse anche come esecutori materiali della strage a dispetto della sentenza di assoluzione del 2012 che, secondo i giudici supremi, ha prodotto conclusioni «assolutamente illogiche ed apodittiche». Per la Cassazione sono stati «sviliti» i numerosi indizi raccolti contro di loro, come il sostegno allo stragismo eversivo di destra di cui Maggi, ad esempio, era un «propugnatore».
Secondo i giudici, un dato di fatto importantissimo, che muta il quadro indiziario, è che «l’ordigno esplosivo sia stato confezionato utilizzando la gelignite di proprietà di Maggi e Digilio, conservata presso lo Scalinetto». Le conclusioni assolutorie per Maggi sono, secondo la Corte, «ingiustificabili e superficiali». (s.b.)
Lo scorso 20 febbraio, l’avvocato di parte civile Sinicato (un “veterano” dei processi per strage celebrati a partire dagli anni Novanta), concludendo l’arringa all’udienza in Cassazione per la strage di Brescia (undicesimo grado di giudizio), aveva osservato che, dopo tanti don Abbondio, c’era da augurarsi che qualcuno prendesse esempio dalla coraggiosa fermezza di fra’ Cristoforo, anche nel formulare i giudizi e motivarli. La prima impressione ricavata dalla lettura delle 84 pagine di motivazioni della decisione della Suprema Corte, è che il suo desiderio sia stato esaudito.
Ci consegnano infatti parole dure e nette. Appare difficile la posizione dei due imputati che presto torneranno a giudizio presso la Corte d’Appello di Milano, il leader di Ordine nuovo Maggi e il suo “soldato” Tramonte, al contempo informatore del Sid. I ricorsi hanno colto nel segno, ripetono più volte: troppe illogicità viziano le motivazioni della sentenza d’appello bresciana del 2012 «affetta prima di tutto da un’erronea applicazione della legge penale, con riferimento alle modalità di valutazione degli indizi». Nella ricostruzione, con apprezzabile sforzo, l’appello aveva messo molti punti fermi. La Cassazione conferma, per esempio, come l’ordigno che uccise otto cittadini che manifestavano pacificamente «sia stato confezionato utilizzando la gelignite di proprietà di Maggi e Digilio [il defunto armiere di Ordine nuovo, coinvolto sia nella preparazione della strage di piazza Loggia che in quella di piazza Fontana], conservata presso lo “Scalinetto”, una trattoria veneziana a due passi da San Marco, al tempo ritrovo di neofascisti, covo e santabarbara di Maggi, e il defunto ordinovista Soffiati ha aiutato nel trasporto.
Un «dato di fatto importantissimo », alla luce del quale vanno valutati tutti gli altri, numerosissimi, indizi a carico di Maggi. La sua assoluzione è stata motivata in modo «congetturale e poco plausibile», è «caratterizzata da valutazione parcellizzata e atomistica degli indizi…» scartati nella loro potenzialità dimostrativa
senza una più ampia e completa valutazione. È stato così distrutto il «valore probatorio che il nostro sistema giudiziario attribuisce alla valutazione complessiva di tali mezzi di prova».
La Cassazione dedica molte pagine a spiegare, con chiarezza encomiabile — così che ogni cittadino, pur inesperto di legge possa capire — che se sono gravi precisi e concordanti, gli indizi non valgono meno della prova diretta: un’importante lezione di metodo, di onestà intellettuale e di diritto, nel Paese dove i processi per le stragi della “strategia della tensione”, i cui esecutori,
la galassia dell’eversione neofascista, con complicità di militari italiani e americani e dei servizi segreti (la Cassazione ribadisce anche questo), sono stati quasi sempre processi indiziari, perché tali li ha resi la sistematica attività di depistaggio (nel caso di Brescia, l’interferenza del Sid nel sottrarre documenti scottanti è stata fatale). È dura, la Cassazione, coi giudici di appello «perché, pur avendone promesso una valutazione sistematica» dei tanti indizi a carico di Maggi (e rimproverando ai giudici d’Assise di aver mancato al loro dovere in questo senso!) «ne ha poi condotto, in concreto, un’indagine atomistica, svalutandone la portata». Gli elementi fattualmente accertati, rimessi in fila inesorabilmente dalla Cassazione rendono, ad oggi, illogica l’assoluzione. E poi, capo indiscusso di un’organizzazione gerarchica come On, come sostenere che il suo sottoposto Digilio, quadro coperto, esperto d’armi ma politicamente “debole”, abbia agito, con esplosivo di Maggi, a sua insaputa e di propria iniziativa, per fare un attentato come quelli che il capo caldeggiava, di cui disse «non deve restare un fatto isolato»? La Cassazione rivaluta anche il valore della collaborazione di Digilio, il più importante “pentito nero”.
Si aggrava moltissimo, poi, la posizione di Maurizio Tramonte. La Cassazione mette in discussione persino il suo alibi per la mattina della strage. L’allora giovane fascista disse di Maggi “questo è pazzo”, uscendo da una riunione ristretta ad Abano Terme, tre giorni prima della strage: «La Corte d’appello non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi che gli appunti», dettagliate note informative in cui Tramonte racconta al Sid in presa diretta la riorganizzazione della destra eversiva nella dannata primavera ‘74 «non contengano alcun cenno alla strage perché Tramonte non voleva rischiare di autoaccusarsi». Tramonte ha fatto impazzire gli inquirenti per anni con la sua “collaborazione”, prima accumulando fandonie, poi ritrattando in dibattimento quanto era sopravvissuto al vaglio dell’inchiesta. Per assolverlo, sarà necessario motivare (finora non è stato fatto) se e come possa essere considerato un semplice infiltrato dei servizi, quindi non punibile, e approfondire il suo ruolo nella preparazione dell’attentato «alla luce della sua palese reticenza». C’è da aspettarsi, quindi, che il nuovo processo approfondirà la pagina, nerissima, dei depistaggi dei servizi segreti.

La Repubblica 16.04.14