Latest Posts

"L'ignoranza e lo sfregio", di Gad Lerner

Ma come sono noiosi questi ebrei. Pretendono di essere intoccabili? Non sanno stare al gioco? Perché sugli altri si può scherzare e su di loro invece no? Immagino che siano questi i pensieri che frullano per il capo di Beppe Grillo davanti alle reazioni indignate che ha suscitato il suo fotomontaggio sull’insegna del lager di Auschwitz e la sua parodia di Primo Levi tirato addosso agli avversari politici, paragonati ai nazisti.
Eppure questa non è vicenda che riguardi solo la sensibilità ebraica di fronte alla memoria della Shoah.
Bisognerebbe proprio che lo capisse, Beppe Grillo, glielo vorrei dire accoratamente: quello che lui vive come meritorio, trasgressivo assalto al conformismo dei codici del linguaggio politicamente corretto, è invece uno sfregio ai valori condivisi su cui si regge la nostra democrazia. Non è il potere, non è un regime, tanto meno è una lobby che si pretende intoccabile a imporre il divieto di paragoni storici grotteschi, l’abuso di metafore evocative di un male assoluto che tuttora ci risulta indecifrabile. No, ne sia o meno consapevole, ben altro Grillo fa traballare col suo rabbioso istinto comico distorto in messaggio politico: egli mina alla radice una regola elementare di civiltà per cui non si scherza su una tragedia storica fingendo di assimilarsi a chi ne fu vittima. Mi auguro che stavolta a sentirsene offesi siano anche molti dei suoi sostenitori, e in qualche modo riescano a farglielo capire.
La rottura di quel codice non scritto per cui su Auschwitz non si scherza, aveva già trovato non a caso il suo precedente più noto negli spettacoli antisemiti del comico francese Dieudonné, che purtroppo ha riscosso notevole successo descrivendo gli ebrei come una specie protetta, trincerata dietro al privilegio occidentale. Dieudonné persegue consapevolmente la sua provocazione calamitando le simpatie degli immigrati arabi in chiave antisraeliana, infarcendole nella subcultura di una Francia profonda che non vuole fare i conti con il collaborazionismo filonazista della repubblica di Vichy.
In Beppe Grillo, viceversa, è il complottismo la paranoia dominante, come dimostra il riferimento alla P2 premesso all’insegna del lager. Napolitano e Renzi additati come gerarchi delle SS vorrebbe funzionare come l’espressione di una polemica forte, nient’altro che questo. Sicché a colpirci è l’ignoranza di chi fa ricorso a una bestialità di tal fatta. Pensa di farci ridere? Pensa che qualcuno potesse assumere il suo come un richiamo emotivo alla gravità della situazione in cui versa il nostro paese? Se così fosse, egli avrebbe contribuito a spargere intorno a sé l’ignoranza da cui si dimostra afflitto. Mi resta difatti il timore che si trovino davvero in giro persone disturbate dalle reazioni che la sua trovata sta suscitando. Quasi che noi dovessimo, in nome della libertà di satira e del ricorso alla spiritosaggine, rinunciare a dare importanza al significato delle parole. Rinunciare alla categoria umana della gravità, al senso del tragico immanente nella nostra vicenda esistenziale. In ciò egli fa seguito a una comunicazione politica che già in Italia era degenerata attraverso l’uso scomposto della barzelletta, il ricorso impunito alla metafora bellica, all’oltraggio razzista mascherato da battuta umoristica.
Se ha potuto fare questo, Beppe Grillo, è per ignoranza. Il populismo racchiude in sé questa insidia: descrive un popolo grossolano, percorso da umori e malumori semplificati, ne assume i caratteri peggiori enfatizzandoli come genuini. È tipico del populismo, infatti, esibire l’ignoranza come virtù politica, facendone il segnale di una presunta vicinanza al comune sentire del popolo.
Quando abitui la gente dall’alto del tuo blog o del tuo palcoscenico a chiamare nazista sterminatore quelli con cui te la prendi, non solo ti sei abbruttito: abbruttisci anche gli altri. Quando storpi Primo Levi a fini di calunnia, ti trasformi in avvelenatore contagioso.
Di certo Beppe Grillo ignorava che proprio ieri sera gli ebrei celebravano in tutto il mondo il Pesach, cioè la Pasqua che commemora la liberazione della schiavitù d’Egitto. Anche la disperata rivolta del ghetto di Varsavia scoccò la prima sera di Pesach, quando abitualmente le famiglie si ritrovano nella cena in cui si spezza il pane azzimo e si rammemora — come se accadesse oggi — il miracolo dell’Esodo. Ieri sera, in Italia, questo momento sacro di festa ha subito uno sfregio. Ma a sentirsi sfregiata, stavolta, è la dignità di tutti.

La Repubblica 15.04.14

"La clessidra e l’effetto serra", di Pietro Greco

Ce la possiamo fare, ma abbiamo ancora poco tempo per agire. Meno di 17 anni. Poi tutto diventerà più difficile, se non impossibile. E saremo destinati a vivere in un pianeta con un clima mai sperimentato dall’uomo. È questo, in sintesi, lo scenario prospettato dal Working Group III dell’Ipcc nel quinto rapporto sulla mitigazione dei cambiamenti climatici redatto per conto delle Nazioni Unite. Lo scorso autunno il Working Group I aveva reso pubblico il rapporto sulla fisica dei cambiamenti del clima.

In quel rapporto si confermava che, con il ritmo attuale di emissioni di gas serra a opera dell’uomo, da qui a fine secolo la temperatura media al suolo del nostro pianeta aumenterà di una quantità compresa tra 3,7 e 4,8°C rispetto all’epoca pre-industriale. Alla fine dello scorso marzo il Working Group II ha pubblicato il rapporto sugli effetti che dovremmo attenderci a causa di un simile cambiamento del cli- ma. E ieri il Working Group III ci ha detto che possiamo sperare di contenere l’aumento della temperatura entro i 2°C rispetto all’epoca pre-industriale se utilizzeremo gli anni che ci separano dal 2030 per realizzare un drastico cambiamento nella produzione e nell’uso di energia. Questo cambiamento avrà un costo accettabile: dell’1 o 2% del Pil mondiale, se agiremo entro il 2030. Poi il costo salirebbe in maniera così accentuata (tra il 4 e il 6% del PIL) da rendere praticamente impossibile l’azione di riduzione delle emissioni di carbonio per restare entro i 2°C di au- mento della temperatura.

STILE DI VITA

A tutt’oggi la temperatura media del pianeta è aumentata di poco meno di 1°C rispetto all’epoca pre-industriale. Dunque l’obiettivo è contenere un ulteriore aumento entro un altro grado. Il che significa tentare di mantenere la concentrazione di anidride carbonica equivalente entro 430/530 ppm (parti per milione).

Sì può fare, sostiene il Working Group III. Agendo con flessibilità su diversi tasti. Il primo è certamente quello della produzione di energia elettrica, che da solo è responsabile del 25% delle emissioni globali di gas serra. Il 78% della produzione di energia elettrica è oggi affidata ai combustibili fossili. Occorre abbassare questa quota a non più del 20% entro il 2050 e praticamente a zero entro il 2100. Lo si può fare già con le tecnologie attuali: sia sostituendo i fossi- li con fonti rinnovabili e carbon free (so- lare, eolico, idroelettrico), sia utilizzando tecnologia di cattura e stoccaggio dei gas serra, sia infine utilizzando, ma solo come passaggio intermedio, il gas naturale al posto del carbone. Anche il nucleare può essere utilizzato, dicono gli esperti dell’Ipcc, anche se a esso sono correlati altri rischi.

Il secondo settore su cui bisogna agire è quello dell’agricoltura e delle foreste. L’uso dei terreni per produrre cibo e la deforestazione sono responsabili per il 24% delle emissioni attuali. Le emissioni in questo settore possono essere abbattute del 50% entro il 2050 modificando la produzione di cibo, cessando la deforestazione e attuando pro- grammi di riforestazione.

Ci sono poi i settori d’uso dell’energia. I trasporti, per esempio, che oggi sono responsabili del 14% delle emissioni totali di gas serra. Attraverso l’uso di tecnologie che abbattono l’intensità energetica (l’energia necessaria per compiere un tragitto unitario); lo sviluppo di infrastrutture a bassa emissione di carbonio, cambiamenti individuali e norme collettive, è possibile diminuire da qui al 2050 le emissioni di gas serra nel settore trasporti di un valore com- preso tra il 15 e il 40%.

Le abitazioni e gli uffici sono responsabili del 6,4% delle emissioni globali di gas serra. È possibile stabilizzare queste emissioni e persino ridurre attraverso tecnologie che consentono di isolare gli edifici e di risparmiare energia.

C’è poi l’industria, responsabile del 21% delle emissioni globali di gas serra. L’intensità energetica (ovvero l’energia necessaria a produrre un’unità di ricchezza) può essere ridotta in questo settore del 25% già oggi semplicemente utilizzando le migliori tecnologie disponibili. Un ulteriore 20%, sostengono ancora gli esperti dell’Ipcc, può essere abbattuto mediante l’innovazione di processo. Infine buoni risultati nella riduzione delle emissioni di gas serra si possono ottenere facilmente riorganizzando la nostra vita nel luogo ove ormai vive più della metà della popolazione mondiale, la città.

I COSTI

Tutto ciò, ripete il Working Group III, è tecnicamente possibile e ha un costo accettabile: l’1 o 2% del Pil. Un costo, tutta- via, che non tiene conto dei benefici che la prevenzione dei cambiamenti climatici apporta. In un pianeta più caldo, infatti, gli effetti diretti (maggiore frequenza e intensità di eventi meteorologici estremi, migrazioni, sanità) e indiretti (opere di adattamento) comporteranno enormi costi economici. Ben superiori ai costi della prevenzione. Dunque, occorrerà considerare questi ultimi come dei veri e propri investimenti.

Il rapporto del Working Group III contiene una novità: per la prima volta ci chiama in causa individualmente, sostenendo che è anche attraverso il nostro stile di vita che è possibile dare un contributo significativo alla prevenzione dei cambiamenti climatici. Contiene anche dei limiti: non indica con sufficiente chiarezza quali sono i metodi migliori per raggiungere l’obiettivo. Ma non concede più alibi alla politica, senza la quale la mitigazione è impossibile. Indicando chiaramente qual è l’obiettivo realistico. E quali sono i tempi per raggiungerlo. Scaduti i quali consegne- remo ai nostri figli e ai nostri nipoti un pianeta dove sarà più difficile vivere rispetto a quello che abbiamo ricevuto in eredità dai nostri padri.

L’Unità 15.04.14

"L’Europa in crisi perché l’austerità uccide", di Fabio Sdogati

Sono passati ormai cinque anni da quell’infausto 2009, quando sull’Europa cominciò a spirare il vento fetido della cosiddetta “austerità”. Parola assai ben scelta per identificare un progetto politico-economico che avrebbe imposto ai popoli d’Europa una recessione mai vista prima dalla fine della seconda guerra mondiale.
Una parola che rassicurava e rassicura, perché «essere austeri» suona bene, perché non c’è neanche bisogno di dirlo, l’austerità è implicitamente, ovviamente una virtù. Ce lo hanno spiegato in tanti che essa effettivamente lo è, virtuosa, che pro- duce risultati buoni. Ad esempio, in una intervista televisiva del 26 settembre 2011 il Professor Monti ci spiegava che «chi mai si sarebbe immaginato che la Grecia, costretta ad accettare la cultura della stabilità…». Stava sprofondando in una recessione spaventosa, completiamo noi! E poi, il 29 aprile 2013 il Professor Padoan mise in evidenza, anche lui in una intervista, come «il dolore stesse producendo risultati».

Il dolore produce risultati!? Bene ha fatto Barbara Spinelli a ricordarci, il 25 febbraio scorso, di questa fede di Padoan nelle virtù curatrici del dolore. E bene ha fatto a portare alla nostra attenzione i risultati della politica dell’austerità in versione greca, riportando i risultati di una ricerca apparsa sulla rivista scientifica Lancet sul deterioramento progressivo della sanità in Grecia, delle condizioni di vita, del tasso di suicidio, delle morti per overdose, ecc. Chiediamoci: ricordiamo da dove venne questa ideologia devastante? Si disse, e si ripete tutt’oggi nonostante i risultati prodotti siano disastrosi, che occorresse ridurre i deficit «eccessivi» dei governi europei. Ma questa era una fede nuova e tutta europea, non è vero? Fino all’anno pre- cedente il mondo adottava politiche opposte per contrastare la crisi: nel novembre 2008 il G20 acclamava la scelta del governo cinese di adottare una politica fiscale espansiva finanziata in disavanzo (cioè un aumento del debito o, il che è la stessa cosa, un deficit corrente) di 576 miliardi di dollari Usa. E nel febbraio 2009, non appena il paese si era dotato di un presidente nel pieno dei suoi poteri, il congresso degli Stati uniti approvava un deficit per 787 miliardi di dollari, composto di sgravi fiscali e maggiori spese. E ancora nel dicembre 2010 il congresso approvava un deficit per 858 miliardi di dollari, composto ancora di minori entrate e minori spe- se. A fine 2010. Negli Stati uniti. E in quel- lo stesso anno il signor Trichet, presidente della Banca centrale europea, dichiara- va in un’altra intervista del 16 giugno che lui riteneva che «l’idea secondo cui le mi- sure di austerità possano produrre stagnazione è sbagliata».

Che cosa aveva indotto il signor Trichet ad esporsi con tali dichiarazioni, facendo previsioni che si sono rivelate (ovviamente) sbagliate? Occorre tener presente che, nonostante siano i soli ad aver l’orecchio dei governi europei, gli economisti austeri non sono soli al mondo. Ce ne sono molti al mondo che sono in favore della crescita, e quei molti mettevano in guardia allora, e mettono in guardia oggi, contro le politiche recessive volute dai governi europei consigliati dai chierici austeri. Questi economisti sapevano che la buona teoria economica vuole che le riduzioni di deficit, ed eventualmente di debito, vengano effettuate in periodi di crescita economica e non durante una recessione, poiché togliere ad un’economia in recessione lo stimolo della spesa pubblica vuol dire condannarla a morte: vuol dire produrre disoccupazione al 13% e in crescita, vuol dire che nel 2013 il servizio sanitario inglese ha ammesso all’uso del servizio 44.000 giovani italiani che hanno lasciato il nostro paese per trasferirsi in quello, vuol dire indurre in Italia una contrazione del reddito pro-capite di oltre l’8% tra il 2007 e il 2013, vuol dire far aumentare il rapporto debito/pil e non farlo diminuire, come gli austeri promettevano sarebbe avvenuto, vuol dire far cadere la domanda di beni e servizi al punto tale che la crescita dei prezzi prima rallenta, poi si ferma e poi, situazione pericolosissima, si inverte di segno quando i prezzi stessi cominciano a cadere: i piani di spesa a que- sto punto verranno rivisti da famiglie e imprese, e le spese verranno posposte in attesa di prezzi più bassi, il che fa cadere la domanda e, con essa, i prezzi. E sappiamo che oggi quattro paesi aderenti all’Ue so- no già in deflazione e la media dell’inflazione in area euro, così come quella in area Ue, è paurosamente vicina allo zero.

Tutto questo hanno prodotto i governi europei e i chierici dell’austerità. E ripetiamo con forza che le politiche di austerità sono sbagliate perché esse sono fondate su una pessima teoria economica, che le cosiddette spending review altro non fanno che aggravare la crisi. Da questa crisi, e dalla stagnazione secolare che alcuni grandi economisti cominciano a temere potrebbe essere di fronte a noi, possiamo uscire aumentando la spesa, finanziando- ne l’aumento con un parallelo sgravio fiscale sui redditi e sui patrimoni minori e un aumentato carico fiscale sui redditi e, in particolare, sui patrimoni, maggiori. Certo, in un paese in cui si ritiene che chi possiede un bilocale possieda un patrimonio, la parola «patrimoniale» spaventa. E chi è spaventato non vota per chi lo spaventa. Ma se il governo ci dicesse quanto vale, complessivamente, l’1% dei patrimoni più grandi? E quanto vale il minore tra questi? Un pochino più di un bilocale, crediamo.

L’Unità 15.04.14

"Scatti e assunzioni, nulla di fatto", di Alessandra Ricciardi

Una primavera intesa, per la scuola. Perché tra annunci fatti e impegni (ancora) non mantenuti da parte del governo, sale lo scontento tra i dipendenti del settore. A cui in questi giorni, mentre nel Def si annunciava un nuovo blocco del rinnovo del contratto per tutti gli statali, la ministra dell’istruzione, Stefania Giannini, è tornata a promettere a breve misure di «valorizzazione del lavoro…

Contratto bloccato, per il Mef non è detto. ItaliaOggi ne aveva parlato sul numero di mercoledì scorso: nel documento economico e finanziario approvato dal governo, si prevede che «a legislazione vigente» le retribuzioni dei dipendenti pubblici resteranno ferme fino al 2018, quando saliranno di uno 0,3% annuo per il triennio 2018-2020 per la corresponsione dell’indennità di vacanza contrattuale. Insomma, il governo ha previsto che, finito il blocco attualmente in vigore, anche nel 2018 non ci siano rinnovi, per cui scatta l’indennità. Una notizia su cui poi è intervenuto il ministero dell’economia: le previsioni contenute nel Def, ha precisato la nota del dicastero guidato da Pier Carlo Padoan, «sono elaborate sulla base della legislazione vigente…e quindi costruite tenendo conto solo degli effetti economici conseguenti da leggi o norme già in vigore». Le risorse per i contratti, che devono essere stanziate con la legge di Stabilità, ancora non ci sono, per cui non si potevano prevedere nel Def. E dunque parlare di blocco dei contratti è «privo di fondamento». Una smentita che è stata accolta con grande cautela se non scetticismo dai sindacati: «É una smentita tecnica, non politica…Se il governo ha intenzione di rinnovare i contratti pubblici, allora ci convochi», è la risposta di Cgil, Cisl e Uil (si veda ItaliaOggi di sabato scorso).Siamo partiti dal mettere in sicurezza i tetti, ora tocca ai docenti». Intanto, ci sono i nodi non sciolti del passato che continuano a pesare. Dagli scatti di anzianità alle assunzioni di nuovi insegnanti. Dossier lasciati nel limbo dal passaggio di governo e i cui ritardi però rischiano di compromettere da un lato la generalizzazione del pagamento dell’anzianità di servizio, e, dall’altro, le immissioni in ruolo per il prossimo anno scolastico. Una situazione di disagio che i sindacati a breve potrebbero canalizzare in un’azione di mobilitazione. Sarebbe la prima del pubblico impiego contro il governo Renzi. A viale Trastevere invece si dicono fiduciosi che, una volta messe in fila tutte le priorità, e andata a pieno regime la macchina amministrativa, le soluzioni arriveranno.

Scatti, la legge c’è, la direttiva no. Il governo di Enrico Letta aveva approvato un decreto legge per evitare che ci fosse il recupero dei 150 euro circa di aumenti già pagati a fronte degli scatti di anzianità maturati da docenti e Ata. Il decreto prevedeva che, per garantire i pagamenti a tutti coloro che scattavano nel 2013, ci fosse una trattativa tra Aran e sigle sindacali. L’obiettivo è di reperire le risorse aggiuntive rispetto a quelle disponibili dai risparmi di spesa. A tre settimane dalla pubblicazione della legge in Gazzetta ufficiale, il 24 marzo scorso, e a due mesi dalla scadenza ultima prevista e chiudere la trattava, il 30 giugno, della direttiva non vi è traccia. Nel caso in cui la trattativa non dovesse andare in porto, chi ha maturato lo scatto dopo il decreto legge rischia di non avere l’aumento. Intanto l’Aran, l’agenzia per la contrattazione nel pubblico impiego, compare nella Spending review di Carlo Cottarelli tra gli enti da sopprimere. Non è però detto a chi andranno le competenze in materia di contrattazione.

Piano assunzioni, ancora in alto mare. L’altro nodo riguarda il piano delle assunzioni triennale, con decorrenza dal prossimo settembre. Previsto dall’esecutivo Letta, con il decreto legge di settembre 2013, subordinava le nuove immissioni in ruolo a una specifica sessione negoziale per garantirne le coperture. Anche in questo caso la partita è sospesa.

da ItaliaOggi 15.04.14

"Biblioteche pubbliche nuove piazze del sapere", di Paolo Di Stefano

La cultura, la lettura hanno bisogno di silenzio. Come la scrittura. Anche per questo esistono le biblioteche. Non c’è luogo più raccolto e rassicurante. La velocità dei tablet non riuscirà, probabilmente, a intaccare questa esigenza umana di quiete e di concentrazione: anzi, può darsi che la accresca come forma di compensazione. Va detto però che le biblioteche pubbliche, da ambienti di studio e di lettura, si stanno trasformando in spazi socio-culturali. Non è un caso se un po’ ovunque si costruiscono nuove biblioteche: l’elenco sarebbe lungo, dalla Danimarca agli Stati Uniti, dall’Austria all’Inghilterra, dalla Francia a Taiwan, dalla Finlandia al Giappone.
In Italia sono numerosi, in questi ultimi anni, i progetti di ristrutturazione, e non mancano i nuovi edifici, tra cui quelli di Melzo, Chivasso, Pisa. Negli ultimi due anni undici inaugurazioni, secondo quanto riferisce Antonella Agnoli nel recentissimo La biblioteca che vorrei (Editrice Bibliografica). La Agnoli è una delle più tenaci fautrici dell’istituzione bibliotecaria, collabora con architetti ed enti locali per progettare spazi e per formare il personale. Crede nella biblioteca pubblica come «piazza del sapere» utile al cittadino che voglia informarsi, discutere, partecipare, accrescere la propria cultura. «La biblioteca deve essere parte di una mobilitazione culturale che realizzi una collaborazione, e quando è possibile una convergenza, con scuole, teatri, musei, altrimenti è inutile (…): chi si rassegna alla routine quotidiana rimarrà vittima della prossima spending review ». È proprio questo il punto dolente. I piani di risparmio dei vari governi colpiscono per primi, tradizionalmente, gli enti culturali del Paese: occorre invece, secondo la Agnoli, un piano nazionale per le biblioteche, non più intese unicamente come custodi della memoria libraria, ma come punti di riferimento per la comunità (la città, il quartiere, il rione), opportunità di partecipazione e di scambio di informazioni.
Un ampio articolo uscito qualche giorno fa sul Guardian illustrava come in America lo sviluppo delle biblioteche pubbliche, con il contributo attivo dell’ALA (American Library Associaton), sia diventato una priorità assoluta, da quando si è constatato che sono diventate veri e propri crocevia a cui il cittadino si rivolge per essere aiutato per la compilazione di moduli, per la ricercadel lavoro, per la formazione e l’apprendimento, per la formazione, anche per l’apprendimento delle nuove tecnologie. Sono spazi in cui nascono persino iniziative imprenditoriali, grazie all’incontro di giovani ingegni. La Princeton Public Library in New Jersey è diventata un luogo di ritrovo tra imprenditori del digitale tramite eventi, i Tech Meetup , che promuovono la ricerca. Nella contea di Howard (Maryland), la biblioteca scientifica ha organizzato per migliaia di bambini corsi di robotica e di nanotecnologia. L’Italia deve farne di strada, per arrivare a questi risultati: ma si tratta soprattutto di mettersi in testa che l’ecosistema culturale vale almeno quanto quello economico.

Corriere della Sera 15.04.14

S. Croce di Carpi (MO) – Festa di primavera PD – Inaugurazione

Da venerdì 18 aprile torna, a Santa Croce di Carpi, la Festa di primavera promossa dai Circoli Pd della zona sud di Carpi (1° maggio, Aldo Moro, Carpi Ovest, Centro storico, Gargallo – Santa Croce). Il taglio del nastro è fissato per le ore 19.00 di venerdì alla presenza del candidato sindaco del centrosinistra per Carpi Alberto Bellelli. A seguire cena con i parlamentari modenesi ed i candidati al Consiglio comunale di Carpi. “La nostra Festa di primavera – spiegano i segretari dei Circoli Pd della zona sud di Carpi Agnese Aldrovandi, Marco Bagnoli, Viola Baisi, Francesco Lodi e Benedetta Pecchini – alla vigilia delle elezioni europee e soprattutto amministrative, rappresenta un importante strumento con il quale il Partito democratico può far conoscere le sue idee per il futuro di Carpi che sono state affidate ad Alberto Bellelli, il nostro candidato sindaco della coalizione di centrosinistra”. Tra le iniziative politiche segnaliamo quella programmata la sera stessa di venerdì 18 aprile con i parlamentari modenesi del Pd e quella di mercoledì 30 aprile con il responsabile nazionale economia del Pd Filippo Taddei. La sera di venerdì 2 maggio, invece, si parlerà di sanità con il candidato sindaco Bellelli, il direttore dell’Unità operativa di Medicina oncologica dell’ospedale di Carpi e Mirandola Fabrizio Artioli e i neurologi Mario Santangelo e Gabriele Greco. La Festa rimarrà allestita fino a domenica 4 maggio e sarà regolarmente in funzione, sia a pranzo che a cena, anche le domeniche e le giornate festive di questo periodo: domenica e lunedì di Pasqua, 25 aprile, 1° maggio. Come sempre, nel programma, oltre alle iniziative politiche, buon cibo e buona musica.

«Non accetteremo ricatti dalle banche», di Andrea Ducci

Scintille a distanza tra banche e governo. A fare scattare il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, è un passaggio del direttore generale dell’Abi, Giovanni Sabatini, durante l’audizione sul Def di ieri davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato. Delrio si è detto «allibito» dal potenziale ricatto che il mondo bancario muove quando, per bocca di Sabatini, sostiene che l’aumento dal 12 al 26% delle imposte sulle quote di Bankitalia «sottrarrebbe oltre un miliardo di liquidità» alle banche italiane. Una frase che ha spinto il sottosegretario a replicare con toni accesi, «sono allibito della dichiarazione dell’Abi. Hanno preso mille miliardi dalla Bce e li hanno impiegati facendo di tutto, ma non aumentando i prestiti», ha detto Delrio. Una minaccia di restrizione nell’erogazione del credito che a Palazzo Chigi non pare, insomma, ricevibile.
Intanto il governo, in vista del decreto legge di venerdì sulla riduzione del cuneo fiscale, ha tenuto una riunione nel pomeriggio di ieri per vagliare le possibili soluzioni da adottare. In ballo c’è il bonus per i redditi inferiori agli 8 mila euro annui, rimasti finora esclusi dal provvedimento che stabilirà l’incremento di 80 euro netti al mese per circa 10 milioni di lavoratori dipendenti. Nelle ore in cui si definivano gli ultimi dettagli per le nomine nelle società pubbliche, il premier Matteo Renzi ha affrontato il tema bonus per i cosiddetti incapienti con Delrio e i ministri Pier Carlo Padoan (Economia) e Maria Elena Boschi (Riforme). La quadratura del cerchio mira sia a individuare le coperture per altri 4 milioni di lavoratori, che non presentano dichiarazione dei redditi, sia la modalità con cui garantire lo sconto fiscale. L’ipotesi valutata ieri è quella di predisporre un meccanismo che riduca le trattenute previdenziali, liberando così i circa 80 euro, o forse meno, destinati a questa fascia di lavoratori. L’altra ipotesi è quella di un anticipo in busta paga da parte del datore di lavoro che poi riavrebbe i soldi dal Fisco compensandoli con l’F24.
In attesa delle decisioni del governo ha preso il via il percorso parlamentare del Def (Documento di economia e finanza), che ieri è stato oggetto di una lunga serie di audizioni delle parti sociali davanti alle commissioni Bilancio. Oltre all’Abi, sono sfilati nella sala del Mappamondo di Montecitorio i segretari di Cgil, Cisl, Uil e Ugl. Tutti hanno chiesto visibilità sulle misure previste dalla spending review . Raffaele Bonanni (Cisl) ha ribadito che il bonus per gli incapienti è «ineludibile», Danilo Barbi (Cgil) ha chiesto all’esecutivo di aprire una vertenza con l’Europa. Confindustria, con il direttore generale, Marcella Panucci, ha spiegato di non condividere la scelta «di concentrare le risorse sulla riduzione dell’Irpef destinando solo una parte limitata al taglio dell’Irap».
In serata a Montecitorio è stato sentito anche il commissario alla spending review, Carlo Cottarelli. «Non tutto è stato recepito nel Def di quanto da me proposto, sono scelte politiche. Anche i risparmi che sono previsti sono del tutto coerenti con le raccomandazioni, 4,5 miliardi nel 2014, 17 miliardi nel 2015 e 32 miliardi nel 2016: sono obiettivi fattibili che richiedono però anche un notevole impegno». L’audizione di Cottarelli è servita anche a ribadire che le riforme per la riorganizzazione della presenza territoriale dello Stato, «richiedono un ulteriore lavoro e approfondimento nel corso dell’estate, ma dovrebbero essere pronte per la legge di Stabilità per il 2015 e 2016». Il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Renato Brunetta, ha invece scritto al presidente della Repubblica, accusando il governo di «truccare i conti per vincere le elezioni europee».

Il Corriere della Sera 15.04.14