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«Quindici anni per evitare il disastro», di Monica Ricci Sargentini

Il tempo stringe: per salvarci abbiamo appena 15 anni. È la previsione degli scienziati Onu che hanno prodotto il rapporto sulla situazione ambientale del Pianeta. L’effetto serra non solo esiste ma è in inesorabile crescita. La media delle emissioni globali è aumentata di un miliardo di tonnellate all’anno. La richiesta ai leader mondiali è dunque di ridurre da subito la dipendenza da petrolio e carbone.

L’effetto serra c’è e cresce inesorabilmente, nonostante le promesse dei governi e la crisi economica che perdura. Tra il 2000 e il 2010 la media delle emissioni globali è aumentata di un miliardo di tonnellate all’anno, a un ritmo più veloce dei decenni precedenti, raggiungendo «livelli senza precedenti». È il verdetto emesso dagli scienziati del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (Ipcc), riuniti a Berlino per presentare la terza e ultima parte del quinto rapporto sul clima, redatto sotto l’ombrello dell’Onu.
Sul banco degli accusati c’è l’uso intensivo del carbone come fonte energetica in alcuni Paesi, tra cui in primis la Cina, gli Stati Uniti e l’India. Ma anche in Europa c’è chi ha fatto dei passi indietro. Nonostante gli investimenti fatti sulle rinnovabili dal governo Merkel in Germania negli ultimi due anni le emissioni sono cresciute leggermente e questo a causa dell’abbandono progressivo del nucleare dopo il disastro di Fukushima.
A questo punto, però, il tempo stringe. Per tenere il surriscaldamento globale entro i due gradi centigradi dal livello pre-industriale, occorrerà tagliare subito, entro quindici anni, le emissioni di CO2 e gas serra per arrivare a una riduzione tra il 40% e il 70% rispetto al 2010 entro il 2050. L’obiettivo è arrivare a un valore prossimo allo zero entro la fine del secolo. La segretaria della Convenzione quadro dell’Onu sul cambiamento climatico, Christiana Figueres, che guida i colloqui, ha invitato i Paesi a innalzare le ambizioni collettive: «L’unico percorso sicuro è quello che prevede di arrivare a un mondo a zero impronta di carbonio nella seconda metà del secolo». Mentre uno dei tre co-presidenti del gruppo di lavoro Ipcc, il tedesco Ottmar Edenhofer, ha affermato che «non possiamo perdere un’altra decade».
Se, invece, non si faranno gli sforzi necessari lo scenario sarebbe catastrofico: la temperatura media del globo terrestre potrebbe crescere tra 3,7 e 4,8 gradi centigradi alla fine del secolo con le conseguente che sappiamo: aumento delle acque, incendi, cicloni, desertificazione, aria irrespirabile.
Alla fine è solo una questione di volontà politica, sembrano dire gli esperti, circa 235 autori provenienti da 58 Paesi che hanno messo a confronto oltre 10mila fonti scientifiche sull’argomento. E la strada da seguire è chiara: puntare sulle energie rinnovabili che oggi rappresentano solo il 17% del fabbisogno energetico. Il passo non sarebbe nemmeno troppo oneroso economicamente. Ridurre il riscaldamento richiederebbe investimenti pari allo 0,6% del Pil annuale. «Al mondo non costerà salvare il pianeta», ha spiegato il tedesco Ottmar. L’obiettivo è di triplicare l’uso delle rinnovabili entro il 2050.
Ci riusciranno i leader del mondo? Per ora si registra il commento positivo del segretario di Stato Usa, John Kerry, che ha parlato di «una nuova sveglia che mette bene in chiaro che ci troviamo di fronte ad una questione di volontà globale, non di capacità». Ma i nemici di un cambio di passo a livello ambientale sono tanti. E nonostante gli scienziati si dicano sicuri al 95% che è l’uomo il responsabile dell’effetto serra, c’è sempre chi è pronto a tirare fuori una nuova teoria per rimandare l’abbandono di carbone, petrolio e affini.

Il Corriere della Sera 14.04.14

"Donne, impegniamoci per cambiare l’Europa", di Sara Ventroni

L’Europa non è solo uno spazio. L’Europa è tempo: é il qui e l’ora delle nostre esistenze. L’Europa siamo noi. E ci siamo dentro fino al midollo. Non serve a nulla maledire l’austerità, abbaiando davanti allo specchio. Mordendoci la coda. Le donne lo hanno capito da tempo. La crisi economica è dentro la carne viva delle relazioni, private e politiche. Venerdì scorso, il convegno internazionale «Uno sguardo di genere per una nuova Europa», organizzato dalla Fondazione Nilde Iotti, ha disposto sul tavolo della discussione le questioni vitali. Tanto per dire: sulla crisi mondiale esplosa dal 2008, Judith Astelarra, docente di sociologia a Barcellona, è stata molto chiara: siamo obbligati – noi donne e noi uomini – a ridefinire, proprio tra uomini e donne, il triangolo economico di base: Stato-mercato-famiglia. Una triade che va rivista, sotto il profilo simbolico, ma soprattutto politico. Non ci sono alibi. Il nesso tra la mancata implementazione delle politiche di lavoro delle donne e il ripensamento della Comunità europea in una nuova ottica di genere, è essenziale per avviare l’uscita dalla crisi.

Ma le donne sanno anche che non si può ricominciare, ogni volta, da capo. A quarant’anni dall’esplosione del neofemminismo, è arrivato il momento di dire – fuori di retorica – che studi, dati e report devono diventare patrimonio comune per ripensare le politiche europee. L’esclusione delle donne dal lavoro, gli indici di denatalità e l’assenza di nuove forme di welfare costituiscono, senza tema di smentita, gli elementi-chiave per comprendere il tasso di depressione economica dell’Italia e, a partire da questi, per immaginare delle soluzioni efficaci.

Le carte parlano, ma non bastano. Abbiamo i papers su “Gender Equality Index”, i “Divari Retributivi di genere” mentre gli or- mai celebri cinque punti della “Strategia per la parità tra donne e uomini 2010-2015” della Commissione Europea, sembrano ancora lettera morta.

Non stiamo parlando di questioni di nicchia. Di empowerment rosa. O di strategie lobbistiche al femminile. Parliamo dello sviluppo economico del Paese in una nuova visione basata sulla differenza sessuale. I dati parlano chiaro: se ne se esce solo insieme, uomini e donne. Questo è il senso del monito di Christine Lagarde, presidente del Fondo Monetario Internazionale, all’Italia.

Il nesso tra fallimento delle politiche di austerity, come scrive Francesca Marinaro, e il mancato sviluppo di una piena promozione di gender equality (lavoro, retribuzione, welfare) indica chiaramente che il principale motivo di mancata crescita non è solo il disimpegno per una promozione strategica nazionale, ma il mancato adempimento dei programmi europei.

Libertà, uguaglianza e sicurezza sono i pre- supposti della nostra cittadinanza comunitaria. Ora, più che mai, in vista delle elezioni di maggio, è necessario ridefinire i modelli di inclusione sociale, di cittadinanza, di cura. Di quel complesso rapporto che coinvolge in modo inedito privato e pubblico, ridefinendo ruoli e responsabilità di Stati, cittadini e mercato.

Così lontana, così vicina, l’Europa è già le nostre vite. Noi apparteniamo all’Europa quanto lei appartiene a noi. Nulla è più facile che regredire a individualismi, a localismi, a frazionismi. Nulla è più facile, nella crisi, che racimolare consenso in nome del furore di chi si sente escluso da tutto, tranne che dalla rabbia.

Proprio per questo dobbiamo andare oltre la disperazione, spezzando i nessi causali tra austerità e declassamento; burocrazia e populismo; rigore e rancore. Il grande sogno politico di un’Europa di giustizia e di pace non può essere certo infranto dal conio di una moneta divenuta, suo malgrado, simbolo del nostro irreversibile decadimento.

Certo, le cose non vanno male: vanno malissimo. Ma noi siamo qui e non possiamo sottrarci. Non basta enumerare dati, affastellare glosse contro gli esiti funesti di decenni di neoliberismo. Le donne lo dicono da tempo: prima di rifare L’Europa dei numeri, occorre ripensarla dalle sue fondamenta di civiltà: in quella differenza, politica e umana, che lega i popoli e le vite quotidiane di quelle donne e di quegli uo- mini che chiamiamo, con orgoglio, cittadini europei.

L’Unità 14.04.14

«Il problema del lavoro è più grave di quel che si dice», di Bianca Di Giovanni

Le scelte fatte nel Def erano quasi obbligate, nelle condizioni date. Ma non è detto che siano sufficienti per far ripartire il Paese. «Servirebbe un intervento forte per favorire la produttività e un grande investimento negli ammortizzatori sociali, altrimenti è difficile che il paese torni a crescere in modo sostenuto». La pensa così Marcello Messori, uno dei più grandi economisti italiani, ordinario alla Luiss di Roma. Il quale avverte: il problema numero uno è la disoccupazione.

Professor Messori, il governo parla di Def per la crescita. È davvero così? «Credo che oggi sia inevitabile rilanciare la domanda aggregata nel brevissimo periodo, perché le famiglie italiane vengono dal periodo più lungo del dopoguerra di caduta di reddito disponibile e le imprese da un calo degli investimenti. Quindi è evidente che un impulso alla domanda interna sia una condizione necessaria per agganciare la ripresa. Per rispondere alla sua domanda bisogna porsi due altre questioni».

Quali?

«Primo, se questo stimolo alla domanda è sufficiente. Secondo, se basta agire su questa leva, o non occorra invece azionarne altre».

E lei cosa risponde?

«Sul primo punto, dubito che nelle condizioni date, con i vincoli di bilancio che abbiamo, si sarebbe potuto fare di più. Il taglio del cuneo fiscale per i redditi medio-bassi ha un valore economico e di equità. Inoltre si è promesso un intervento per gli incapienti e si è indicato un taglio sull’Irap. Dati i vincoli di bilancio, non si può negare che gli stimoli ci sono. Se poi si controllano le simulazioni che lo stesso Tesoro ha fatto, si vede che l’impatto di queste misure sul Pil è modesto. E questo deriva dalla seconda questione, e cioè dal fatto che per l’Italia l’intervento sulla domanda interna è necessario ma insufficiente».

Cosa servirebbe oltre questo?

«Al nostro Paese serve più competitività. Per avviare questo processo non si può partire dal mercato del lavoro, ma da altri fattori. Secondo me bisognerebbe cambiare il sistema di incentivi alle imprese per favorire processi di innovazione organizzativa».
Ma è il momento giusto per farlo? «Credo proprio di sì. Negli anni della crisi abbiamo avuto la chiusura di moltissime piccole e medie imprese. A scomparire non sono state necessariamente le peggiori. Ora chi è rimasto si rende conto che non può continuare con le strategie del passato. E sa anche che questo è il momento di investire. Ecco, questa è l’occasione per far uscire le imprese dalla dipendenza dalle banche e per invitarle a innovare il modo di produrre».

Il governo cosa può fare?

«Il governo potrebbe avviare iniziative importanti, stimolando l’accesso delle piccole imprese al mercato dei corporate bond, e aprire un tavolo per la produttività programmata. È chiaro che questi passaggi portano a una trasformazione radicale del sistema produttivo. Ecco perché occorre tutelare i lavoratori costruendo una rete di ammortizzatori e di riavvio al lavoro per aggiornare le competenze. Cambiare il modo di organizzare la manifattura ha un alto costo sociale: senza un intervento forte del governo il paese rischia di non farcela».
L’intervento sull’Irpef avrà un effetto sui consumi, come si spera?

«Questa è una domanda a cui è difficile dare una risposta, perché nella reazione delle famiglie coesistono due forze contrastanti. Quando è iniziata la crisi gli italiani continuarono a spendere, anche intaccando il patrimonio, pensando che si trattasse di un fatto temporaneo. Poi, quando hanno realizzato che non era così temporaneo, c’è stato un crollo molto deciso. Oggi le famiglie potrebbero decidere di ricostituire il patrimonio, aumentando il risparmio, il che sarebbe una cattiva notizia. Aumentare la spesa, invece, sarebbe uno shock positivo. Ma temo che fino a quando non si risolve il problema dell’occupazione, sarà difficile che si scelga questa strada. In Italia il problema del lavoro è più grave di quanto non dica il tasso di disoccupazione, perché ci sono molti inattivi scoraggiati, che hanno smesso di cercare lavoro. Oggi è prioritario affrontare quel problema e sostenere i redditi con gli ammortizzatori».

L’Unità 14.04.14

"Dalla parte del professor Lucignolo", di Elisabetta Rosaspina

Lucignolo ha fatto strada. Tanto per cominciare, si è trovato un buon avvocato: il Checco. Del quale scarseggia un’iconografia ufficiale, perché se n’è sempre restato nell’ombra, alle spalle della sua controfigura: un maturo, rispettabile professore, dal viso rotondo e cordiale, capace di scardinare in poche battute le difese del più ostico degli «adolescenti ingrati». Loro non amano i banchi di scuola? Sapessero quanto poco li ha amati lui! Loro fanno impazzire insegnanti e genitori? Bazzecole, in confronto alle imprese fanciullesche del Checco, che, per chiarire fin dal principio la sua opinione dell’autorità costituita, si presentò al mondo in posizione podalica. Sessantasette anni fa.
E se non tutti i docenti osano ammettere la loro insofferenza dinnanzi alla tirannia dei programmi scolastici ministeriali, e alla relativa, inflessibile tabella di marcia, il Checco non si fa problemi: «Che palle, li odio!». A nove anni, in quarta elementare, forse non si sarebbe azzardato a esprimersi così direttamente, ma riuscì comunque a persuadere il maestro Giorgio a organizzargli addirittura «un piano personalizzato di lavoro», per consentirgli di sviluppare il suo talento naturale per il disegno. A metà degli anni Cinquanta il suo futuro era tracciato. Il destino di molti altri Lucignoli a venire, anche.
Non sarebbe diventato un pittore di professione, ma un sagace vignettista al servizio del libero pensiero, di una bonaria irriverenza; e di una mai dominata ribellione alle imposizioni, ai dogmi e, vivaddio, ai derivati tossici del nozionismo. Due anni esatti dopo il primo successo editoriale, Cercasi scuola disperatamente (Urra, 2012), torna il professor Francesco Dell’Oro con i suoi racconti su «le ragioni del disagio scolastico e come aiutare i nostri ragazzi a superarlo». Riunite sotto un titolo che non concede dubbi quanto alla parte dalla quale il professore ha scelto di schierarsi: La scuola di Lucignolo (Urra).
Ma stavolta Dell’Oro non si limita a raccontare le sue esperienze, tristi, problematiche o — più raramente — esilaranti, come responsabile del servizio orientamento scolastico del Comune di Milano (che nel frattempo ha deciso meccanicamente di pensionarlo): dedica un capitolo anche alla «storia di Checco», che i tanti ragazzi, passati ogni anno dal suo ufficio, hanno in molti casi già appreso, almeno in parte. Di solito basta qualche capitolo, all’imprevedibile professore, per farsi aprire le porte di un territorio sconosciuto, o dimenticato, dagli adulti: «la Terra degli Adolescenti», come la definisce lui. Un pianeta che segue un’orbita tutta sua: «Lontano o, peggio, in rotta di collisione con il mondo della scuola, il mondo della famiglia e quello del lavoro», scrive, amaro, Dell’Oro.
Un pianeta che può trasformarsi, soprattutto, in una impenetrabile torre d’avorio: «I grandi — avverte il professore — usano il linguaggio delle parole. I ragazzi, quello delle emozioni. È un problema di comunicazione. Per entrare in sintonia con loro devi emozionarli, divertirli, appassionarli. Funziona. Indipendentemente dall’età. Funziona anche con gli insegnanti, quando tornano sui banchi, studenti ai corsi di formazione». Funziona con i genitori, agli incontri e alle conferenze dove Dell’Oro continua, da volontario indipendente, la sua missione: «Alla fine, una volta, mi ha avvicinato una mamma — ricorda Dell’Oro — e mi ha detto: ho riso per due ore, ma adesso sono preoccupatissima. Ero riuscito nel mio intento».
Le avventure di Checco sono sempre un buon grimaldello per far abbassare il ponte levatoio del Castello degli adolescenti, precluso ai genitori e alla maggioranza degli insegnanti. Anche lui è stato vittima di valutazioni affrettate, giudizi respingenti e deleterie bocciature. Ma anche lui ha conosciuto il sollievo di incontri felici: come «il prof. Giulio B. Un formatore con una dote rara: sapeva ascoltare e non giudicava mai».
Gli studi classici e di filosofia in un istituto religioso, il diploma in servizio sociale, con un’esperienza in un ospedale per anziani, gli studi di fisiopatologia con una tesi sull’epilessia, l’insegnamento in scuole speciali e nei corsi di alfabetizzazione, una laurea come esperto dei processi formativi: quale adolescente incerto e ondivago tra inclinazioni personali e pressioni familiari, al momento di optare per gli studi superiori, non si sente rassicurato da un simile modello di variabilità? «Ci sono buoni motivi, ripensando alla mia esperienza e a quella di molti altri adulti, per riflettere sull’imponderabilità dei processi di maturazione e di crescita professionale — scrive l’autore —. Con particolare riferimento alla difficoltà di intercettare potenzialità, attitudini e competenze di uno studente definito, troppo superficialmente e semplicemente, come uno che non studia».
Vero. Dell’Oro parteggia (quasi) sempre per loro, gli studenti difficili. O in difficoltà, che talvolta è la stessa cosa. Lo ammette. Poca comprensione per i professori che devono seguire o concludere un programma. Moderata pietà per le ansie dei genitori dalle aspettative insoddisfatte. «Ma di che scuola stiamo parlando? La scuola per quelli bravi? È questo che vogliamo? Unascuola che escluda tutti gli altri?». I voti. I voti fanno impazzire Dell’Oro: «È giusto che i ragazzi imparino a misurarsi con le frustrazioni, ma un sistema di valutazione deve avere anche un respiro pedagogico. Ognuno di noi ha un percorso di crescita». Invece per 800 mila ragazzi italiani fra i 18 e i 24 anni, ricorda il professore, quel percorso si è interrotto. Non sono andati oltre la scuola media. Fermati dai brutti voti.
«La scuola a cui pensa Dell’Oro, che molti di noi vorrebbero veder trionfare — sottoscrive un altro scrittore, Eraldo Affinati, nella prefazione —, dovrebbe essere il luogo elettivo dell’errore. Altrimenti Lucignolo non tornerà più in aula e resterà sempre nel Paese dei Balocchi». Magari resterebbe, se invece di ricevere un 4 sentisse dire, come dice Dell’Oro: «Questa cosa non la so nemmeno io. La cerchiamo insieme?».
I brutti voti, ma anche i tempi: «Negli anni Cinquanta imparavamo a leggere e a scrivere in tempi più distesi», rammenta il professore. Che pubblica, come un manifesto, il grido di dolore di Giovanni, moderno Lucignolo: «La scuola è una palla. Ho capito che è importante, ma almeno rendetela divertente!». Come? «Meno compiti a casa, e più laboratori — rivendica l’epigono di Checco —. I bambini hanno diritto di giocare».
Chissà che anche Giovanni non diventi un giorno un professore.

Il Corriere della Sera 14.04.14

Napolitano va in tv “Gli euroscettici non fermano la Ue”, di Umberto Rosso

L’euroscetticismo alle prossime elezioni europee non vincerà. Giorgio Napolitano, per la prima volta nei panni di ospite in una trasmissione tv, ne è convinto: preoccupazioni ce ne sono ma «l’Europa non tornerà indietro». E lo spiega a Fabio Fazio, che è andato a intervistarlo nello studio alla Vetrata al Quirinale. Certo, se a Strasburgo dovesse far breccia una forte ondata anti-euro «il timore è che nel Parlamento il cammino diventi più faticoso». Ma il capo dello Stato non crede appunto ad un’Europa che innesti la retromarcia, pure «con tutti coloro che arrivassero appunto da euroscettici». Anzi, forse «qualcuno sarebbe conquistato da una conoscenza diretta, da una partecipazione diretta» all’avventura fra i banchi dell’europarlamento. Potrebbe finire arruolato alla “causa”. Il messaggio del capo dello Stato sembra indirizzato soprattutto a Grillo e grillini (e al variegato arcipelago anti-Ue), e alla sbandierata convinzione di far man bassa di voti il prossimo 25 maggio, nella speranza di mandare all’aria in un colpo solo Renzi, il governo, il Pd e l’intera legislatura. Scenario in cui evidentemente il capo dello Stato, pur senza farne diretto riferimento, non crede affatto. I partiti però in campagna elettorale «non devono sfuggire al tema» dell’Europa. «Quello che si è costruito nei rapporti tra le economie, le società, tra le culture e anche i sistemi giuridici, non può essere distrutto nemmeno da parte di chi lo voglia accanitamente». E così rilancia l’ipotesi anche dell’elezione diretta di un Presidente europeo, «è una prospettiva da tenere aperta». Ricorda Kissinger, che polemicamente chiedeva “voglio un numero di telefono per parlare con l’Europa”: quel numero, dice ora il capo dello Stato, sarebbe più capace di rispondere alla telefonate «se fosse quello di un Presidente eletto dai cittadini o anche un Presidente il cui nome scaturisca dai risultati delle elezioni europee».
Tutto bene allora nella Ue? Nient’affatto, come ha spiegato anche nel librointervista “La via maestra” di Federico
Rampini (e che fa da spunto alla puntata di “Che tempo che fa” di ieri sera): se la delusione e lo scetticismo montano è colpa anche di Bruxelles. Rispetto ai colpi pesantissimi della crisi «l’Unione ha reagito tardi, tra molte difficoltà e in modo anche discutibile». Di più. Dal vertice della Ue «non sono riusciti a stabilire un rapporto più diretto con i cittadini ». In termini di informazione, comunicazione, coinvolgimento sulle scelte che venivano fatte. «Questo è un grosso tema che oggi è all’ordine del giorno». Ma non c’è solo Europa e non c’è solo l’ufficialità. Perché nel “debutto” tv in prima serata, Napolitano apre pure l’album dei ricordi personali. Dal suo primo viaggio all’estero a Praga nel ‘46, ma come fu «sensazionale» scoprire Parigi tre anni dopo. Kissinger che non gli concede il visto per gli Usa nel 1975, «poi però abbiamo avuto uno straordinario recupero di rapporti amichevoli». E quell’incontro in Germania col cancelliere tedesco Brandt mentre stava cadendo il muro di Berlino, solo che nè l’uno né l’altro ne percepirono nulla: «Fummo sfiorati dal vento della storia senza rendercene
conto». Oggi, che sensazione provoca in Napolitano, chiede Fabio Fazio, la frase “ce lo chiede l’Europa”? «Non è una cattiva parola però suscita molti equivoci. Fu adoperata da uomini di governo italiani europeisti per sbloccare certe situazioni, una richiesta, una frusta dall’Europa».
E tuttavia ci sono macigni che il nostro paese deve riuscire a togliersi non perché lo vuole l’Europa ma perché si tratta di una necessità vitale: il debito pubblico, strettamente intrecciato al destino dei giovani. «Questo fardello — ammonisce Napolitano — pesa soprattutto su di loro. Paghiamo ogni anno 80 miliardi di interessi sui titoli. Non solo dobbiamo aprire prospettive di lavoro ma garantire di non pagare per il debito contratto dalle generazioni più anziane». Senza mettere in pericolo i diritti sociali. La stagione della “velocità” e della “competitività” deve legarsi allo Stato sociale, «non è tanto la questione della velocità che li mette a rischio quanto il costo che alcuni dicono non più sostenibili: ma ciò che sta scritto nei nostri trattati è qualcosa di irrinunciabile».

La repubblica 14.04.14

"Laureati, disoccupati e scoraggiati", di Carlo Buttaroni

Nella prima metà degli anni Cinquanta, per le strade circolavano poco più di 400mila automobili e c’erano 4 apparecchi televisivi ogni 1.000 abitanti. Per vedere Febo Conti, Settenote o la Domenica sportiva comodamente seduti nel salotto di casa, bisognava spendere una cifra che corrispondeva a circa dodici mensilità di un reddito medio, vale a dire il costo attuale di un’utilitaria di fascia media. Dieci anni dopo, le auto circolanti in Italia erano 2,5 milioni e gli apparecchi televisivi quasi 6 milioni. Erano gli anni di una crescita non solo economica ma anche sociale. Gli italiani guardavano Non è mai troppo tardi, un programma d’insegnamento elementare condotto dal maestro Alberto Manzi che ha aiutato milioni di italiani ad affrancarsi dall’analfabetismo. Le grandi trasformazioni avvenute in quegli anni alimentavano l’idea che in Italia, come in altri paesi occidentali, la rigida divisione in classi appartenesse ormai al passato. E, in effetti, il cambio di struttura economica iniziato negli anni Cinquanta con il processo d’industrializzazione prima e di terziarizzazione poi, hanno segnato una rapida crescita della classe operaia urbana e della classe media impiegatizia, insieme all’affermarsi di una borghesia legata alla piccola industria e al commercio, registrando tassi elevati di mobilità sociale ascendente. Erano anni in cui a crescere era il numero di posizioni sociali più elevate, e non si poteva fare altro che abbandonare la classe di origine e salire, determinando l’ascesa sociale dei figli delle classi economiche più svantaggiate. Una mobilità che ha consentito non solo a milioni d’italiani di raggiungere condizioni di benessere individuale, ma a tutto il Paese di crescere e acquistare fiducia in se stesso, dando corpo a un ceto medio sempre più diffuso e dinamico.

MOBILITÀ SOCIALE
È stato questo il grande potere della mobilità sociale: non solo il recupero di efficienza economica legata a una gamma più ampia di opportunità, ma il diffondersi di un sentimento di fiducia che ha spinto a investire per migliorare la propria condizione e a guardare avanti. Questo imponente processo di mobilità sociale ha avuto il suo apice negli anni Sessanta per rallentare progressivamente nei decenni successivi. E mentre diminuivano le possibilità di ascesa sociale, crescevano contestualmente i vantaggi determinati dalla posizione di partenza ereditata della famiglia. Con il risultato che, dagli anni Ottanta, gli eredi delle classi medie e superiori riuscivano con minore frequenza a ricalcare la dinamica ascendente dei padri, e assai più fatica dovevano fare i figli delle classi inferiori per emanciparsi dalle loro origini. Già negli anni Novanta, le possibilità che avevano i figli d’imprenditori, liberi professionisti, dirigenti di accedere ai vertici della gerarchia sociale superavano di dodici volte le possibilità su cui potevano contare i giovani provenienti da famiglie di classi inferiori. Non solo: le classi più elevate riescono anche a garantire una protezione più elevata contro i rischi di discesa verso posizioni inferiori, riducendo, quindi, le opportunità di ricambio ai vertici della piramide sociale. Questo fenomeno si accentua ancora di più nel decennio successivo fino a quando, a cavallo tra il nuovo secolo e i giorni nostri, le traiettorie sociali invertono la direzione. Gli ascensori sociali si bloccano in salita, mentre aumentano le frequenze delle discese e l’Italia sperimenta, complice anche la crisi economica, una radicale discontinuità storica rispetto agli ultimi cinquant’anni. Gli individui tra i 25 e i 40 anni rappresentano la prima generazione del dopoguerra a rivelarsi impossibilitata a migliorare la propria posizione rispetto a quella dei propri genitori. E questa condizione non riguarda soltanto l’ascesa verso i livelli superiori dei figli delle classi più svantaggiate, ma anche l’accesso dei figli delle classi medie e alte alle posizioni già occupate dai genitori. Non solo si accentua, cioè, la posizione di vantaggio derivante dalla provenienza familiare ma i posti disponibili nelle posizioni apicali, complice la crisi economica, si sono notevolmente ridotti, col risultato che molti giovani, pur provenienti da classi elevate, sono costretti ad accontentarsi di essere collocati in posizioni economicamente e socialmente meno prestigiose. Paradossalmente, ad aggravare gli effetti del blocco della mobilità sociale ascendente è la crescita dei livelli d’istruzione dei giovani. A parità di titolo di studio, infatti, i figli si collocano in posizioni professionali meno qualificate rispetto a quelle dei loro genitori, rendendo inevitabilmente meno produttivo il loro capitale umano.

A UN ANNO DAL TITOLO
La fotografia di questo fenomeno è nell’indagine che ogni anno il consorzio Almalaurea realizza sulla condizione occupazionale dei laureati. A un anno dal conseguimento del titolo, il tasso di disoccupazione dei laureati di primo livello è cresciuto di oltre 11 punti in soli 4 anni, passando dal 15,1% del 2008 al 26,5% del 2012. E mentre è cresciuta la difficoltà a trovare un lavoro, per gli occupati si sono ridotti i guadagni netti mensili, inferiori di un quinto per i laureati nel 2012 rispetto ai colleghi che hanno conseguito il titolo nel 2008. Un fenomeno che inevitabilmente induce a ritenere la laurea meno efficace rispetto al passato. Difficile, quindi, pensare che sia un caso il fatto che l’Italia si colloca in fondo alla classifica europea per numero di giovani tra i 30 e i 34 anni che ha conseguito un titolo di studio universitario. La straordinaria crescita delle economie occidentali, che ha preso avvio nel dopoguerra, ha corrisposto a un ampliamento delle possibilità degli individui di elevarsi dalla condizione di partenza, a una rimozione delle barriere di ceto, a un rafforzamento dei sistemi di protezione sociale, a una crescita generale dei livelli d’istruzione. Per questo il tema della mobilità sociale è centrale nel momento in cui si è impegnati collettivamente nello sforzo di uscire dalla lunga fase recessiva di questi anni. Un tema che non riguarda soltanto il «quando» si tornerà ai livelli pre-crisi ma anche il «come», visto che il deterioramento delle opportunità di accesso ha fatto tornare gli indici di mobilità sociale indietro di sessant’anni.

L’Unità 14.04.14

"Delrio: parità di genere anche nelle nomine Oggi il governo decide", di Goffredo De Marchis

Tutto pronto per le nomine delle grandi aziende pubbliche Enel, Eni, Finmneccanica e probabilmente per Terna e Poste. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio annuncia il rispetto della parità di genere anche nella scelta dei manager. A Repubblica, Delrio spiega anche come verrà finanziato il bonus da 80 euro per i redditi più bassi. Il capo dello Stato, intervistato da Fazio, dice che bisogna ridurre il debito «per i figli e non per la Ue: non si può lasciare ai giovani un fardello da ottanta miliardi all’anno d’interessi».

Con le nomine delle grandi aziende pubbliche il governo si propone «una rivoluzione culturale» attraverso la promozione di manager uomini e donne in egual misura. «Una sostanziale parità di genere – annuncia il sottosegretario a Palazzo Chigi Graziano Delrio – per colmare un ritardo dell’Italia che è di almeno 30 anni». Oggi Matteo Renzi sceglierà i vertici di Eni, Enel, Finmeccanica e Poste. Ma questa è anche la settimana del decreto sul taglio dell’Irpef, gli 80 euro in busta paga da maggio, con le relative coperture. «Taglieremo gli incentivi ai settori improduttivi dice Delrio – e faremo anche un intervento sulla sanità. Le Regioni più efficienti non hanno nulla da temere dalla spending review. Le altri sì. Con loro useremo il bisturi perché l’inefficienza di qualcuno non può essere pagata da tutti gli italiani». Alla minoranza che prepara la battaglia contro l’Italicum, il sottosegretario risponde: «E’ giusto discutere, ma non ripetiamo gli stessi errori che abbiamo commesso ai tempi di Prodi e dell’Ulivo. Non è vero che il Pd può fare da solo. In questo modo il centrodestra ci consegnò il Porcellum, una norma incostituzionale che abbiamo usato per otto anni. Il dialogo con l’opposizione è indispensabile».

Oggi è il giorno delle nomine. Siete pronti o ci sarà un rinvio?
«Siamo pronti per Enel, Eni e Finmeccanica i cui vertici scadono adesso. Renzi vuole fare anche le Poste, per dare il segnale di un governo che affronta subito i nodi».
Fra i criteri per il cambio dei manager c’è anche quello del rinnovamento totale?
«Queste aziende producono utili, lavoro e alcune fanno politiche energetiche. Sono fra le più importanti del Paese. Le scelte devono essere improntate a una vera e seria competenza».
E il ricambio? E le donne che finalmente scalano i vertici?
«Il desiderio è quello di proporre volti nuovi, ma ciò che cerchiamo di fare non è la rottamazione generazionale. È piuttosto una rivoluzione culturale. Per questo, sì, è vero che puntiamo a promuovere le donne, fino ad arrivare a una sostanziale parità di genere nelle nomine. Lo facciamo per colmare un ritardo italiano che è di almeno 30 anni rispetto ad altri Paesi. Così com’è successo con la scelta di 8 donne ministro. Una sostanziale parità farebbe avanzare l’Italia nella concretezza molto più di tanti proclami ».
Al momento della formazione dell’esecutivo, Renzi ricevette alcuni no. Stavolta?
«C’è stata una ricerca delle migliori intelligenze. Renzi da tempo ascolta tantissime persone eccellenti. Vogliamo dirigenti capaci e che siano orgogliosi di guidare aziende che sono un patrimonio dell’Italia. Come accade in Francia».
E i no?
«Sono stati pochissimi. Più che altro erano dei “sì ma”, dei “vorrei ma non posso”».
Vittorio Colao, amministratore delegato di Vodafone?
«Al di là di Colao, i rifiuti non ci sono quasi stati. Del resto, un manager fa più volentieri l’ad di una grande azienda pubblica anziché il ministro o il parlamentare. È una situazione oggettivamente diversa».
Nelle società quotate in Borsa girano stipendi 10 o 20 volte superiori a quelli che avete fissato per la Pubblica amministrazione. Taglierete anche lì?
«Sono società che stanno sul mercato. Ma esiste la direttiva Saccomani. È seria e impegnativa.
Prevede un intervento molto robusto: una diminuzione del 25 per cento rispetto agli emolumenti dei precedenti amministratori ».
Si parla di un passaggio di Mauro Moretti dalle Ferrovie a Finmeccanica. Non è un favore a Italo, il concorrente di Trenitalia, che ha chiesto la testa dell’ad?
«Non parlo di nomi neanche sotto tortura. Ma non ci facciamo influenzare da nessun tipo di concorrenti. Con tutto il rispetto per chi esprime certi giudizi, se per caso dovesse realizzarsi una simile ipotesi non succederebbe perché qualcuno ha chiesto la testa di qualcun altro».
Ce la farete a varare il decreto che taglia l’Irpef, i famosi 80 euro in busta paga, questa settimana?
«Sicuro».
Quindi è il momento in cui i 4,5 miliardi di spending review prenderanno corpo. Sono previsti tagli agli incentivi?
«Nel senso di quei settori che supportiamo in maniera inutile, ovvero dei settori parassitari, la risposta è sì. Ma noi miriamo a una spending che sia vera, cioè via i soldi a comparti totalmente improduttivi, ma niente tagli lineari a settori strategici o che servono all’economia italiana. Fare un serio risparmio sulla spesa pubblica sarà una grande fatica collettiva e tutti devono comprendere che ogni euro dello Stato speso male è un euro in meno che entra nelle tasche degli italiani. Saremo maniacali nel cercare questi sprechi. E non ci piegheremo ad alcun interesse di parte. Le lobby sono avvertite ».
Ma la sforbiciata su beni e servizi tocca i cittadini, non le lobby.
«Se dico taglio i beni e servizi, dalla sanità alla scuola, non voglio dire che tolgo la carta igienica ai bambini o che non compro un ecografo alla Asl. Sto parlando invece di Regioni, enti locali e Stato che hanno contratti di servizio da rivedere. Fino ad oggi il pubblico pagava a 380 giorni e il fornitore in pratica metteva una sovrattassa sul prezzo per compensare il ritardo. Noi adesso garantiamo il pagamento in 60-70 giorni, ma le aziende fornitrici firmeranno un nuovo patto con lo Stato rinegoziando le tariffe. Su 60-70 miliardi di forniture complessive, ci sono spazi dell’1 o 2 per cento di risparmi. Ossia, 1,4 miliardi. È più faticoso dei tagli lineari ma dobbiamo farlo».
Taglierete il trasporto pubblico?
«È un settore non all’altezza di un grande Paese. Per questo, si può fare molto di più di una riduzione degli incentivi su benzina e biglietti. Lo sforzo principale è che le aziende si aggreghino, trovino partner privati e rispettino costi standard che abbiamo già individuato».
Spariranno gli incentivi all’autotrasporto?
«Il tema è molto delicato. Per certi settori in difficoltà bisogna fare un discorso complessivo».
Si parla di un taglio nella sanità di 1 o 2 miliardi. C’è una bella differenza.
«Abbiamo concluso l’analisi dei costi standard e si prevedono diversi miliardi di risparmio. Il ministro Lorenzin sta scrivendo il nuovo Patto della Salute e i risultati si avranno anche nel breve periodo».
Serviranno anche per gli 80 euro?
«Sì. La mia idea è che le Regioni dovrebbero essere orgogliose di rimettere i soldi in tasca ai loro cittadini riducendo le addizionali Irpef. Ne avranno un vantaggio politico. La maggiore efficienza si tradurrà in 1,5 miliardi di tagli nel 2015. Sono tagli non al sistema sanitario ma realizzati con il recupero di funzionalità. Le Regioni che sono già efficienti non devono temere nulla dalla spending. Le altre sì. Con loro useremo il bisturi, per restare in argomento. Non possiamo rimanere con settori della Pubblica amministrazione dove si pensa che la propria inefficienza verrà comunque pagata da altri. E le Regioni che faranno più progressi avranno l’impegno dello Stato ad aumentare i fondi comunitari per gli investimenti».
La minoranza del Pd annuncia battaglia sulle riforme e soprattutto sulla legge elettorale. È finita la tregua?
«Esistono opinioni differenti. La sinistra però ha perso le sue sfide per dividersi e guardarsi l’ombelico. Io ricordo la lezione dei grandi socialisti italiani come Camillo Prampolini: uniti si è tutto, divisi si è nulla. È giusto discutere, è folle riportare indietro il Pd ai contrasti intorno all’Ulivo e a Prodi».
Bersani dice che sono cambiati i rapporti di forza e non ci si può far imporre l’Italicum da Berlusconi. Non ha ragione?
«Non è così. Sarei molto più prudente nel dire facciamo da soli. Il centrodestra fece da solo con il Porcellum e ci siamo tenuti una norma incostituzionale per otto anni. Non è la legge migliore del mondo, ma nella scrittura delle regole il dialogo con l’opposizione è indispensabile».
La minoranza vuole tornare maggioranza.
«Auguri. È un’ambizione lecita quando si è sconfitti. L’ha avuta anche Renzi. L’importante è che non venga scalfita l’unità rispetto ai problemi del Paese, come fece Matteo durante la campagna elettorale. Forse il contributo di idee la minoranza poteva darlo in un giorno diverso dalla presentazione delle candidature per le Europee. Ma è più un problema di opportunità che di sostanza.

La Repubblica 14.04.14