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"Perché servono candidature che funzionino", di Stefano Lepri

Se il 25 maggio sarà una bella domenica di sole, alcuni avranno la tentazione di passarla al mare o in campagna. «Tanto il Parlamento europeo ha pochi poteri» si dirà, per trovare una scusa. Ma non è così. L’assemblea di Strasburgo era senza poteri o quasi la prima volta che fu eletta a suffragio universale, 35 anni fa. Poi, piano piano, se ne è guadagnati sempre di più.

Certo non ha il potere di iniziativa legislativa, come la hanno – la devono avere – i Parlamenti nazionali di uno Stato sovrano democratico. Però le leggi europee vi vengono discusse e cambiate. Le maggioranze che vi si formano influiscono sugli eventi politici. Seppur in modo mediato, il peso dell’opinione pubblica vi si fa sentire; può correggere i compromessi di potere tra governi.

Il caso più recente è quello dell’unione bancaria: per opera del Parlamento europeo l’accordo finale è meno segnato dalle riluttanze tedesche di quanto lo fosse l’accordo originariamente raggiunto tra i ministri; rende meno opaca e meno macchinosa la procedura per impedire che le difficoltà di una singola banca provochino danni più estesi in tutta l’area.

Un altro caso importante risale al 2006: un accordo tra i due principali gruppi, popolari e socialisti, annacquò la controversa direttiva Bolkestein sulla liberalizzazione dei servizi. Per l’estrema sinistra non fu abbastanza, e ne seguirono manifestazioni di piazza in molti Paesi; per i liberisti fu al contrario un errore. In ogni caso, si cambiarono norme che riguardano la vita quotidiana di tutti.

Nel 2014 con le candidature uniche a presidente della Commissione per la prima volta si potrà scegliere di votare per una parte politica europea – centro-destra, liberali, centro-sinistra, estrema sinistra – e non soltanto un partito nazionale che poi farà mediazioni con altri partiti nazionali. I 4 candidati non entusiasmano, un buon numero di elettori non si riconoscerà in nessuno tra loro, però è un inizio.

Le sue sedute all’apparenza sono una Babele dove perlopiù ciascuno parla la sua lingua e gli altri ascoltano in cuffia. Tuttavia vi si elaborano valori comuni; come quando nel 2004 Rocco Buttiglione fu bocciato come commissario europeo a causa delle opinioni che aveva espresso sull’omosessualità come «disordine morale».

Piaccia o non piaccia, un organismo eletto dal popolo ha maggior titolo a dire la sua. Può contribuire a mutare una struttura istituzionale dell’Unione europea che ai cittadini pare lontana. Sarebbe bene che la campagna elettorale si facesse più precisa. Chi vota ha il diritto di chiedere agli eletti in che modo faranno sentire la sua voce, quali modifiche istituzionali cercheranno.

Da subito occorrerebbe essere sicuri che le candidature vengano prese sul serio. Quando da Londra è trapelato che il governo britannico potrebbe mettere il veto a tutti e tre i principali – Jean-Claude Juncker dei Popolari, Martin Schulz dei Socialisti, Guy Verhofstadt dei Liberali – da Berlino si è ribattuto che i nomi tra cui scegliere sono quelli; ma a Parigi si hanno idee diverse, l’esito è incerto.

Più difficile è inserire nella campagna elettorale la vera questione che si porrà dopo il voto. Se da una parte la Gran Bretagna è inquieta sulla propria permanenza nell’Unione, dall’altra i Paesi dell’euro sentono l’urgenza di stringere legami più solidi. Può essere razionale prendere due strade diverse, con una Unione a 28 allentata, e una area euro a 18 dotata di istituzioni proprie.

Dalla Germania pare verranno proposte in questo senso, non si sa quando. Troppo delicate per parlarne prima del voto? Ma il rischio che vadano forte i partiti antieuropei, o che cresca ancora l’astensione, è più forte se ci si limita a discorsi vaghi.

La Stampa 14.04.14

"Nelle urne sarà una partita a due", di Ilvo Diamanti

Non ci sono ancora dati attendibili, in vista delle Europee. Stimare in modo credibile le scelte di voto, con troppo anticipo, è difficile. E, prima ancora, rischioso. Basti l’esempio delle elezioni politiche del 2013. E fare pronostici, partendo dai sondaggi, oggi è ancor più insidioso dell’anno scorso.
UNPO’ per i limiti dello strumento. Ma soprattutto perché sono molti gli elettori indecisi, che scelgono all’ultimo momento se e per chi votare. L’anno scorso, ad esempio, secondo le indagini del LaPolis dell’Università di Urbino (pubblicate in Un salto nel voto, Laterza), oltre il 10% degli elettori del M5s (3-4 punti, in termini complessivi) maturarono la loro scelta negli ultimi due giorni. I last minute voterpremiarono largamente il M5s ai danni del Pd.
Oggi, comunque, per azzardare stime di voto — usandole come previsioni — c’è la complicazione del tempo. E del tipo di elezione. Manca ancora molto. E, soprattutto, si tratta di elezioni europee. Che gli elettori hanno sempre affrontato in modo diverso, rispetto alle altre consultazioni. Usandole, di frequente, come un test per lanciare messaggi “interni” ma anche “esterni” al Paese. Contro le forze politiche nazionali e i governi europei. Tanto più che si vota con un sistema proporzionale, senza alleanze né alleati di coalizione. In più, c’è il problema dell’astensione. La quota di chi non si reca alle urne, infatti, è sempre più ampia rispetto alle altre elezioni. Nel 2009, in Italia, votò il 65% degli aventi diritto: 10 meno delle politiche di un anno fa. Per questo è difficile cogliere tendenze attendibili, in questa fase. Anche se, per quel che mi riguarda, io mi sono fatto un’impressione, abbastanza precisa. Confortata solo in parte dai sondaggi. Personalmente, infatti, io credo che si delinei
un risultato diverso, rispetto alle elezioni politiche dell’anno scorso, quando sono emerse tre grandi minoranze. Fra loro incompatibili oppure alternative. Dopo un anno di governi di intese larghe e nebulose; un anno di frazionamento partitico, a destra, e di cambiamento di leadership — e di premiership — a sinistra: penso che molto sia cambiato, rispetto al 2013. Ritengo, in particolare, che in questa occasione le grandi minoranze, in grado di ottenere un risultato importante, siano, di nuovo, due. Renzisti e Grillini. Che il voto si concentrerà, dunque, sui due principali partiti che oggi occupano la scena politica. Il (post) Pd, unica maggioranza. E il M5s, unica forza di opposizione.
Le ragioni per cui, a mio avviso, potrebbe avvenire ciò sono diverse. Tutto sommato, prevedibili e comprensibili. Anzitutto, vent’anni di Berlusconismo hanno abituato gli italiani a personalizzare il loro voto. A votare pro o contro Berlusconi. L’anno scorso questo gioco non ha funzionato. Perché Berlusconi, ormai, è invecchiato. Più delle inchieste della Magistratura, l’hanno logorato anni e anni di governo e di promesse senza esito. Il mito dell’imprenditore e dell’individualismo possessivo. Reso in-credibile dalla crisi. Come la figura che ne è simbolo e interprete. Appunto. Certo, Berlusconi è in grado di sopravvivere alla fine del Berlusconismo. Anche perché è stato cooptato. Da Renzi. A cui garantisce sostegno per le riforme istituzionali — anche se formalmente sta all’opposizione. Ottenendone, in cambio, una legittimazione che gli permette di resistere. O, almeno, di esistere. Renzi. È lui, ormai, il leader di riferimento. Il “capo” (come scandiscono Mauro Calise e Fabio Bordignon nei loro ultimi saggi). Difficile non misurarsi pro o contro di lui. Ma contro di lui sono pochi, a potersi schierare, tra le forze politiche dell’era berlusconiana. Sel (accanto a Tsipras), i leghisti. Mentre i problemi gli giungono, semmai, dall’interno. Da quel partito incompiuto che è il Pd. Renzi, tuttavia, l’ha addomesticato. Dopo aver vinto le primarie, ha agito “come se” il partito non ci fosse. D’altronde, gli altri partiti della maggioranza senza di lui non esisterebbero. I centristi: chi li ha visti? Il Ncd: pare impossibile, in futuro, che si allei con Berlusconi. Ultimo segnale: il passaggio di Bonaiuti, storico portavoce di Berlusconi.
FI, come ho già detto, fa l’opposizione a parole, ma agisce da complemento al premier. Mentre Renzi tratta con Berlusconi per neutralizzarlo e intercettare i suoi voti, più che per restituirgli credito.
Così, non resta che Grillo. Insieme al M5s. L’unico oppositore e l’unica opposizione. L’unico canale del dissenso tematico — sulle spese della politica, le regole istituzionali e costituzionali. Ma soprattutto, del dissenso-e-basta. Contro lo Stato centrale, contro l’Europa dell’Euro, contro il ceto politico e la classe dirigente. Per questo Grillo cavalca e alimenta ogni manifestazione anticentralista. Da ultimo, in modo clamoroso, la mobilitazione per l’indipendenza regionale promossa e gestita dai “venetisti”. Condivisa da gran parte dei suoi elettori (circa il 60%, secondo Demos ma anche Ipsos). L’in-dipendenza, secondo l’interpretazione di Grillo, come non-dipendenza da Roma, dallo Stato, dall’Europa. In nome della democrazia della Rete. La democrazia diretta, senza mediazioni e senza mediatori. Salvo Grillo, Casaleggio e il loro sistema operativo.
Per questo Grillo ha, ormai, puntato le sue armi — retoriche e polemiche — con un solo, unico bersaglio. Renzi. “Colpevole” di essere visibile, anche troppo. Capace di comunicare, di usare i media. Come lui. Grillo. Veterano delle piazze, dei teatri, delle arene. Della tivù. Cerca, così, di personalizzare l’alternativa pro o contro Renzi. Di trasformarla in una contesa fra renzismo e grillismo. Un po’ come al secondo turno delle presidenziali oppure, per analogia, delle elezioni per il sindaco. Com’è avvenuto a Parma, nel 2012, quando Pizzarotti intercettò il voto della destra, determinata a battere la sinistra. Certo, le europee non sono le amministrative né le politiche. Tanto meno le presidenziali. Però, l’ election day associa il voto europeo a quello amministrativo. In molte città. Grillo non è Pizzarotti. E Renzi è un Capo capace di polarizzare il consenso e la competizione. Per cui non mi sorprenderei se, il prossimo 25 maggio, il voto si bi-personalizzasse. E i primi due partiti — Pd e M5s — e i loro Capi ottenessero, insieme, i due terzi dei voti. Riproponendo quel “bipartitismo imperfetto” che, secondo Giorgio Galli, ha segnato la storia della nostra Repubblica.

La Repubblica 14.04.14

"Il sangue e il cuore", di Adriano Sofri

Di colpo, affascinati, spaventati e ignoranti come siamo, i più, di bioingegneria, siamo costretti a chiederci con che sentimenti, con che orientamento morale e con che coraggio umano accoglieremmo la notizia che la nostra creatura, le nostre creature, non sono biologicamente nostre, bensì di nostri simili che hanno affrontato la nostra stessa trafila medica per il desiderio di diventare madri e padri. Le adozioni ci hanno preparati, ma fino a un certo punto
PER un padre, l’orgoglio umanissimo e anche un po’ losco, di vedersi continuato nel proprio sangue, in qualcuno che gli somigli, e comunque di non esser padre per un equivoco terribile, sarebbe messo a dura prova. Ma un uomo non ardisce di figurarsi che cosa voglia dire averla dentro di sé, a diventare parte e prender possesso del proprio corpo, la nuova creatura figlia d’altri: le due nuove creature dell’avvenimento romano. Il film di Hirozaku Koreeda che ha commosso il pubblico, Father and Son, racconta soprattutto le due paternità diverse, il come si diventa padri. Come si diventi madri, non proviamo nemmeno a immaginarlo. Di neonati scambiati in culla sono piene la mitologia, la letteratura, il cinema, la cronaca e la vita. Nella vicenda di Mazara del Vallo (2000), genitori coetanei – e poveri– vollero mettersi alla prova di una affettuosa convivenza dopo aver scoperto che le loro bambine di tre anni erano state scambiate, per risarcirle con una sorellanza speciale. Ora la scelta, se così è, dei genitori romani di accogliere i loro figli gemelli merita non solo rispetto – rispetto meriterebbe anche un’altra decisione – ma ammirazione e augurio. E intanto ci si chiede a quale inesplorata casistica espongano le nuove frontiere della scienza e gli errori di percorso della loro attuazione. Il diritto dovrà occuparsi delle ipotetiche rivendicazioni dei titolari originari degli embrioni scambiati? E le coppie reciprocamente coinvolte si interrogheranno sull’eventualità di “restituirsi” i figli una volta venuti alla luce? E che cosa rende più figli, oltre che genitori: la costituzione genetica, o l’essere stati accolti e portati in seno e amati?
Dopo il primo sbalordimento e sbigottimento, anche, l’avvenimento romano mette alla prova, certo, l’accuratezza e la responsabilità delle strutture sanitarie, le procedure, l’informazione trasparente di chi vi ricorre: temi cui siamo, i più, impreparati, e dobbiamo dunque disporci a un capitolo così delicato dell’educazione permanente. Alla prova del cuore e dell’intelligenza siamo invece alla pari. Ho cercato in fretta in rete i precedenti del caso romano: ce ne sono, naturalmente. A Hong Kong, in un famoso centro per il trattamento dell’infertilità, «i responsabili della clinica – dice troppo seccamente la notizia – accortisi dell’errore, hanno provveduto immediatamente all’espianto degli embrioni, che non sono più stati utilizzati: in altri termini, la donna ha dovuto abortire». Un caso americano, dell’Ohio, divenuto celebre perché la signora coinvolta, Carolyn Savage, ha scritto un libro, è così riassunto dalla protagonista: «Nel febbraio 2009, attraverso il processo denominato trasferimento dell’embrione congelato, gli embrioni di un’altra coppia sono stati trasferiti per errore nel mio corpo. Otto mesi dopo ho dato la nascita a un bambino che abbiamo restituito
ai suoi genitori biologici, Shannon e Paul Morell, pochi minuti dopo il parto». Dice ancora la signora, a nome proprio e del marito, Sean: «Noi crediamo che la tecnologia della fertilizzazione in vitro sia un dono di Dio, proprio come la cardiochirurgia, la chemioterapia e gli antibiotici. Sappiamo anche che la scienza della riproduzione medicalmente assistita pone questioni etiche che esigono una profonda riflessione. Sono in molti a condannare i trattamenti disponibili per le coppie infertili perché sono convinti che “interferiscano con la natura” o “trasgrediscano il ruolo di Dio nella creazione”. Sean e io dissentiamo pienamente. Quei trattamenti ci hanno consentito di mettere al mondo nostra figlia, e non abbiamo dubbi che lei interferirà positivamente con la vita delle persone che incontrerà. Indipendentemente dall’opinione di ciascuno sulle tecniche riproduttive assistite, è nel miglior interesse di professionisti e pazienti che i protocolli garantiscano la sicurezza della paziente; che le comunicazioni attorno agli embrioni umani siano chiare e concise; e che ci sia trasparenza completa nelle procedure».
Anche i coniugi Morell hanno scritto un libro. Meno di due anni dopo aver “restituito” il piccolo Logan, frutto dello scambio di embrioni, Sean e Carolyn Savage hanno avuto un nuovo parto, una coppia di gemelle passate attraverso il grembo di una madre surrogata, Jennifer.

La Repubblica 14.04.14

"Abilitazione scientifica serve subito chiarezza", di Manuela Ghizzoni

L’abilitazione scientifica nazionale (ASN) è un requisitio indispensabile per partecipare ai concorsi banditi dalle singole università per reclutare/promuovere i docenti. Mira a contemperare due diverse, legittime esigenze: quella delle comunità disciplinari nazionali di valutare i candidati per escludere dai concorsi coloro che non raggiungano uno standard accettabile per la fascia accademica richiesta; quella degli atenei di reclutare i professori in base alle proprie necessità didattiche e scientifiche. L’Asn era stata inizialmente apprezzata da coloro, come i ricercatori precari, che speravano in valutazioni di maggiore obiettività per la presenza di commissioni nazionali sorteggiate e di parametri quantitativi da rispettare.
Si è però ingenerato l’equivoco che l’Asn sia una sorta di mega-concorso di reclutamento e non una verifica ad personam della maturità scientifica raggiunta. Non v’è intervento, anche in Parlamento, che non utilizzi la parola «concorso» parlando dell’abilitazione! L’equivoco abilitazione=concorso ha portato addirittura a scandalizzarsi per l’indicazione preventiva dei futuri abilitati quando è evidente che la qualificazione di ciascun ricercatore è già ben nota a tutti i membri di comunità disciplinari relativamente piccole. Non si tratta di purismo lessicale. Senza superare questo equivoco sarà impossibile affrontare le criticità che l’Asn ha mostrato fin dal suo avvio e che ora arrivano a valle come un’onda di piena che rischia di travolgere l’intero sistema.

La prima tornata di Asn si è conclusa da poco nonostante la cadenza «inderogabilmente» annuale prevista dalla legge tre anni fa. In alcuni settori sono state denunciate mancate abilitazioni di candidati di riconosciuta autorevolezza. Numerose, poi, le critiche tecnicamente fondate sugli indicatori numerici prescelti, la cui normativa costituisce un esempio di irritualità e altalenanza.

Basta citare quel documento informale dell’Agenzia di Valutazione Anvur (un saggio scientifico più che un atto normativo!) che nel luglio 2012 ha indicato come calcolare gli indicatori personali dei candidati, difformemente però da quanto deliberato formalmente dalla stessa Agenzia solo un mese prima. Sei mesi dopo una nota ministeriale ha cercato, peraltro senza successo, di ripor- tare chiarezza sulle delicate responsabilità culturali affidate alle commissioni. Molte di esse, infatti, hanno proceduto a «verificare» la maturità scientifica di un candidato controllando che i suoi indicatori – peraltro calcolati su enormi basi di dati inevitabilmente affette da moltissimi errori e pervicacemente univoci anche per settori concorsuali molto differenziati al loro interno – superassero i valori «mediani» forniti dall’Anvur. Molte altre sono state indotte a valutare comparativamente i candidati e a stabilire standard scientifici sproporzionati o criteri quantitativi ciecamente dirimenti, dando così gran lavoro agli avvocati di molti non abilitati. I ricorsi al Tar Lazio assommano già a più del 10% dell’intero contenzioso annuo e molte commissioni sono state riconvocate in autotutela per rimediare a giudizi frettolosi.

In questo scenario tormentato è appena partita la seconda tornata. Che fare allora? La ministra Giannini ha dichiarato la propria disponibilità a semplificare la procedura di abilitazione: un impegno apprezzabile. Nell’attesa un gruppo di deputati Pd ha presentato una risoluzione di indirizzo al governo con cui si chiede di porre l’Asn, sin dalla tornata in corso, su basi normative più chiare e sicure, perfezionate in base all’esperienza. Si chiede anche che i parametri valutati- vi siano definiti con il contributo anche del Consiglio universitario nazionale, del Comitato nazionale di esperti per la politica della ricerca e delle società scientifiche settoriali, in modo da consolidarne significatività e consenso.

Si chiede ancora di trasformare l’Asn in procedura «a sportello» con domande presentabili dai candidati in qualunque momento e valutate singolarmente nell’ordine di presentazione. Si chiede infine di consentire che le commissioni esaminino anche i candidati della seconda tornata che hanno appreso successivamente alla domanda di non aver conseguito l’abilitazione nella prima – spesso proprio a causa di errori di calcolo sugli indicatori personali – e dovrebbero essere esclusi. Sarebbe anche un modo di sfiammare un contenzioso che rischia di mettere in crisi l’intero sistema universitario.

L’Unità 13.04.14

"Volti giovani e voglia di vincere: a Torino il nuovo Pd", di Maria Zegarelli

Ci sono tanti ragazzi e tante ragazze. E questa è la prima cosa che si nota arrivando nel grande catino che è il Palaolimpico di Torino, loca- tion scelta per aprire la campagna elettorale delle elezioni di maggio. Giovani che spingono e avanzano per il selfie con il presidente del Consiglio Matteo Renzi e poi lo rilanciano velocissimi su twitter e facebook, mentre arrivano alla spicciolata le donne candidate, alle comunali, alle regionali, all’europarlamento. Tante e per la prima volta.

Il parterre vede schierati il sindaco di Torino, Piero Fassino, il capogruppo della Camera, Roberto Speranza, i ministri Maria Elena Boschi e Andrea Orlando, la nuova classe dirigente renziana, ma anche l’ex ministro Cesare Damiano, che qui è di casa, i bersaniani Nico Stumpo e Davide Zoggia, arrivati a Tori- no mentre a Roma Gianni Cuperlo riunisce la minoranza e Massimo D’Alema invita a lavorare sodo per tornare a esse- re maggioranza. A Torino vanno in scena il volto nuovo del Pd, i suoi slogan e le sue nuove liturgie, la svolta buona e il cambiar verso, ma soprattutto la voglia di tornare a vincere, partendo da qui, dal Nord e dal Piemonte dove Roberto Cota ha perso la credibilità appeso a un paio di mutande verdi e la poltrona a causa delle liste truccate. Acclamato e coccolato il candidato alla Regione, Sergio Chiamparino, che quando sale sul palco scalda la platea e poi la infiamma quando annuncia che prenderà la tessera del Pd, quando saluta con quel «compagni e compagne» che ormai si usa po- co, «ma io sono d’antan». Mentre il palazzo dello sport si riempie il responsabile Comunicazione, Francesco Nicodemo, manda in onda la playlist, un’ora e mezza di brani scelti con i suggerimenti della community dem, prepara le slide e dice che «finalmente si trasmette un messaggio di speranza, si torna a guardare al futuro e siamo noi a dettare l’agenda. Gli altri sono lì che rincorrono». Più o meno nello stesso momento Damiano sta spiegando davanti alle telecamere che sul decreto lavoro la minoranza Pd non arretra, è pronta a dar battaglia e non è questione di disciplina di partito, «quel provvedimento va miglio- rato» e sono già più di 40 gli emenda- menti presentati dal gruppo Pd. Un Pd che ritrova la sua cifra, anche al suo interno, con una minoranza che lavora per non finire nella riserva.

Simona Bonafé, Pina Picierno, Alessia Mosca e Alessandra Moretti, capilista alle europee, arrivano in jeans giacca, emozionate e cariche. «Un mese di tempo e una marea di preferenze da conquistare», sono un’impresa da far tremare i polsi, confessa Picierno prima di salire sul palco. C’è anche la quinta, Caterina Chinnici, a capo della lista Isole, ma resta in platea perché non è anco- ra arrivata l’aspettativa che il Csm do- vrà deliberare a ore e quindi al momen- to è ancora un magistrato a capo di un Dipartimento della Giustizia. A condur-

re due parlamentari, Marco Di Maio e Alessia Rotta, «effetto del taglio al finanziamento ai partiti» dice scherzando il segretario Renzi mentre sotto il palco il tesoriere Francesco Bonifazi annuisce pensando al Bilancio Pd.

Il filo rosso che lega tutta la manifestazione è «la prossimità», per dirla con Nicodemo. È questo segnale che il Pd vuole lanciare agli elettori: più vicini a chi lavora, più vicini alle imprese, più vicini agli ultimi. È anche un altro il segnale, affidato alle slide: fatti. Come gli 80 euro in busta paga per chi guadagna 1500 euro al mese «e solo chi è ricco può fare spallucce», sottolinea Chiamparino. O i tagli alla politica, con l’abolizione delle province, il superamento del Senato degli eletti, gli stipendi ai manager. Renzi rivendica la svolta e chiede ai candidati di andare avanti su quella strada, al Comune, come a Bruxelles. «Dobbiamo portare il Mezzogiorno in Europa, il Mezzogiorno è una riserva straordinaria e noi proveremo ad attraversare questa bellezza nella campagna elettorale e soprattutto dopo», dice Picierno». «Vogliamo un’Europa di tutti non di pochi, vogliamo essere protagonisti del cambiamento», aggiunge Mosca. Moretti, che durante le primarie, quando era portavoce di Bersani, ha attaccato più volte Renzi, ma oggi lo ringrazia perché «ha fatto quello che ha promesso». «Andare in Europa non per chiedere ma per cambiare», è la promessa di Bonafè, renziana della prima ora, chiamata a capeggiare la lista per la circoscrizione Centro.

Scalda la platea il candidato sindaco di Bari, Antonio Decaro, cantante per diletto, che parte citando i 99 Posse «tutto doveva succedere niente sembrava possibile», e invece, dice a Bari tutto ciò che sembrava impossibile è successo, come restituire il centro storico alla sua bellezza liberando dalle auto, rifacendo partire una città che sembrava immobile. Fassino nel suo intervento dice che Chiamparino è il miglior candidato e guarda oltre il campo del centrosinistra, «perché è il presidente migliore per i piemontesi», mentre Stefano Bonaccini, responsabile Enti locali, invita alla massima mobilitazione da qui alle elezioni. Perché la consapevolezza è che saranno proprio queste a racconta- re quale sarà il nuovo quadro politico. E anche le riforme, in buona parte, dipenderanno da quel risultato.

L’Unità 13.04.14

"Il ritorno a casa del made in Italy", di Maurizio Ricci

A volte ritornano. Dalla Cina, dal Bangladesh, dalla Romania, eccoli di nuovo sulla Riviera del Brenta, sull’Appennino tosco-emiliano, intorno a Firenze, come se il vento della globalizzazione fosse girato di colpo. Soprattutto dopo la crisi del 2008, un numero crescente di imprese italiane sta rinunciando alle strategie di delocalizzazione e rimpatriando
intere linee produttive.
IL FENOMENO è mondiale, dall’America all’Europa. Negli Stati Uniti, fa addirittura parlare di rinascita dell’industria manifatturiera nazionale. Forse, gli americani esagerano. I numeri, però, cominciano ad essere indicativi, dice Luciano Frattocchi, dell’università dell’Aquila. Insieme a colleghi di Catania, Udine, Bologna, Modena e Reggio, Frattocchi ha costruito un gruppo di ricerca — UniCLUB MoRe — che tiene il conto. Negli Usa, sono ormai 175 le decisioni di rimpatrio, totale e parziale, di produzione. Ma dopo gli Usa, la classifica mondiale dei ripensamenti vede le aziende italiane, con un’impennata a partire dal 2009. Sono 79 unità produttive, che coinvolgono una sessantina di aziende. Circa il doppio di quanto si registra in Germania, in Gran Bretagna o in Francia. In un momento di diffusa paralisi del sistema industriale italiano, le condizioni a cui questi rimpatri avvengono, le loro motivazioni, le scelte strategiche che sottintendono riescono a dire molto, già oggi, di come potrà essere la ripresa prossima ventura dell’economia italiana.
Sulla Riviera del Brenta, non lontano da Verona, Gianni Ziliotto è sul punto di lanciare un progetto ambizioso per la B. Z. Moda. Produce scarpe da donna di fascia media (100-150 euro al paio) che esporta al 100%, soprattutto in Nord Europa. L’azienda è piccola — circa 11 milioni di euro il fatturato — ma Ziliotto pensa in grande. Rimpatriare il grosso della produzione dal Bangladesh e dalla Cina e puntare sui robot. «Si tratta di automatizzare 6-7 operazioni ripetitive, che oggi fanno solo gli extracomunitari » precisa. «Avremmo, invece, bisogno di periti e ingegneri ». É un investimento che si mangia, da solo, l’8-10% del fatturato e, per questo, Ziliotto si muove con i piedi di piombo. Ma è questa la strada maestra che sembrano indicare le ristrutturazioni che, nel mondo, America in testa, accompagnano il rimpatrio delle aziende. Il differenziale fra i salari cinesi e quelli occidentali non è più ampio come qualche anno fa e l’automazione consente di abbatterlo anche in patria. Insieme ai costi di trasporto è una delle motivazioni principali che spinge le imprese al “back-reshoring”, come lo chiamano Frattocchi e colleghi. «L’effetto netto sull’occupazione è che i posti di lavoro che si recuperano — conferma Frattocchi — non sono uguali, né per
quantità, né per professionalità, a quelli che si erano persi originariamente con la delocalizzazione ». Del resto, i consulenti della McKinsey, la bibbia delle aziende, calcolano che, entro dieci anni, fra il 15 e il 25% dei posti di lavoro operai saranno occupati dai robot.
Eppure, se questo è un asse del futuro vicino, non è l’unico. Ce lo spiega la stessa bibbia McKinsey:
i robot sono dietro l’angolo, ma «le strategie manifatturiere costruite sul risparmio di costo del lavoro stanno diventando fuori moda». Le variabili in gioco sono di più e sono più complesse. Lo indica lo stesso fenomeno del back-reshoring italiano. A scappare erano state soprattutto le aziende del ciclo tessile-abbigliamento-calzature, colpiti al cuore dalla concorrenza dei salari cinesi o vietnamiti. Ma anche il grosso delle imprese italiane che tornano — quasi la metà — sono di quel settore. E meno del 14% motiva il cambio di strategia con i parametri di costo del lavoro. In media, nel mondo, quelli sono, invece, i fattori decisivi in quasi il 20% dei casi. Cosa spinge, allora, le aziende italiane dei jeans, delle borse e delle scarpe a ritentare l’avventura italiana?
Piquadro, 60 milioni di euro di fatturato negli accessori e nella pelletteria, oggi realizza l’80% della sua produzione in Cina e il 20% in Italia. Recentemente, tuttavia, ha deciso di riportare in Italia i prodotti della gamma più alta. «Li abbiamo affidati, come sempre — spiega l’amministratore delegato, Marco Palmieri — a terzisti, ma stiamo pensando di aprire, in collaborazione con loro, una vera e propria fabbrica nostra, qui nella nostra zona tradizionale, l’Appennino tosco-emiliano». Il motivo si può riassumere nella qualità della produzione artigianale più sofisticata che, in Italia, raggiunge la massima espressione e che è impensabile di trovare in Cina. É la stessa molla che, l’anno scorso, ha convinto un’altra azienda di accessori, la Nannini di Pontassieve a riaffidare a fornitori italiani tutta la propria linea in pelle. La qualità, però, non è l’unico elemento su cui insiste Palmieri. «Noi — dice — vogliamo avvicinarci alle esigenze del cliente. Oggi, uno, sul nostro sito, si può costruire un prodotto tutto per sé, secondo il proprio particolarissimo gusto. E sempre più queste vendite tailor-made online si faranno in futuro. Ora, noi abbiamo sempre usato, per i nostri prodotti, pellami italiani. Cosa facciamo? Prendiamo il pellame, lo spediamo in Cina e poi, quando la borsa è pronta, la reimportiamo in Italia? Magari il cliente si stufa». Quelli della McKinsey ne parlano come di corsa all’“in-time delivery” ed è un altro dei motivi centrali del rimpatrio di molte aziende. Il 42% delle aziende censite da UniCLUB dichiara come decisivo per il rimpatrio l’effetto “made in”, made in Italy, nel caso. Una forma di “branding” nazionale, per dirla alla McKinsey, che schiude porte e spiana strade ed è una delle carte decisive della ripresa. Frattocchi racconta di un’azienda, ANDcamicie, che produce camicie in Cina e che è stata avvicinata da un imprenditore cinese che vorrebbe distribuire i prodotti AND in 40 diversi centri commerciali. Ad una condizione, però: che siano certificate come prodotte in Italia. A vendere camicie italiane made in China non ci pensa neanche.

La Repubblica 13.04.14

"Il codice della mezza mafia", di Francesco Merlo

Il mezzo mafioso si sente un mafioso e mezzo, e dunque Dell’Utri è patacca pure nella fuga proprio perché è un uomo di mezza mafia, uno dei tanti rovinati dal film il Padrino dove il vecchio satrapo (Hyman Roth) se la gode in Florida e nella Cuba di Battista. Dell’Utri voleva godersela nella Beirut a 5 stelle, con carte di credito e telefonino, e non infilarsi nella botola dei mafiosi veri come il Malpassoto e Provenzano, e neppure in un’altra vita comeBuscetta e forse Matteo Messina Denaro. La mezza mafia, nel codice penale, si chiama concorso esterno. Prima che un reato è un’antropologia fatta di mafiosità (che è diversa dalla mafia) e di narcisismo. Dell’Utri è di quelli che si mettono in posa con i libri al posto delle pupe, e ora la sua fuga è sgangherata come i diari finti di Mussolini che storici autorevoli accreditarono mentre il mezzamafia li definiva «presunti veri» con il sigaro della sbruffoneria al posto della cicoria di Provenzano.
E fu presunzione da mezza mafia ridurre il boss Mangano a corpo scelto di Silvio e poi dirgli al telefono: Berlusconi «non suda», non sgancia. Pensava di prendere a servizio la mafia senza mettersene a servizio, credeva di avere più corna del diavolo. Raffaele Lombardo, per esempio, governava con l’antimafia a Palermo mentre a Catania trafficava (dall’esterno) con la mafia sempre esibendo un sicilianismo fatto di baffi, riportino e “sgruscio di carrettu”. L’antropologia da mezza mafia è la stessa di Cuffaro che, dopo l’orgia di baci e di cannoli, teneramente fu l’unico ad infilarsi in carcere. Ed è quella di Mannino, che esibiva il latino e il greco come prezzo che il vizio paga alla virtù: è stato assolto perché l’antropologia non esclude l’innocenza penale.
Solo in Dell’Utri la mezza mafia diventa paradigmatica , a partire dal gessato e dalla scriminatura “come te l’aspetti”, l’incedere con la spalla “sciddicata”, gli odori di barbiere – allume, Prep e Floid – e quel parlargli all’orecchio e il suo rispondere a occhiate che da “Fortunato al Pantheon”, tra Pera, Previti, Verdini, Jannuzzi e Micciché, lo rendevano capotavola di un tavolo rotondo: tutti gli occhi a lui mentre Fortunato (buonanima) grattava una razione doppia di tartufo al predatore alfa. Finché arrivava Silvio e, per stare al gioco, gli faceva il baciamano e lo chiamava “don Dell’Utro” .
Nessuno ha mai capito chi, tra loro, era il doppio, chi il servo e chi il padrone, ma solo che l’uno era l’autenticità dell’altro. L’uno portava “la Sicilia come metodo”, la sostanza di un “saperci fare”, e l’altro lo copriva d’oro
sino ai 21 milioni di euro con cui gli ha comprato la villa Comalcione che ne valeva 9: «Mi arrivava un busta anonima in ufficio con dentro delle banconote». E la casa? «Un giorno mi disse: “vedo che ci stai bene, tienila, è tua”».
Senza sottovalutare il dettaglio dell’allegro “concierge” Bonaiuti che lascia Forza Italia «perché sono un moderato» , è l’arresto di Beirut che seppellisce l’epoca dei consigliori di Berlusconi ormai sostituiti dalla Pascale e dalla Rossi, due sorelle Materassi che, come le “sanguette”, controllano l’eccesso di liquidi nella decomposizione. Dell’Utri è letteratura non solo perché rimanda all’ideologia delle mezze cose, alle mezze porzioni, alla consapevolezza nascosta di essere mezzi uomini ma perché il concorso esterno, che neppure il Libano conosce, è una vera specialità italiana, un Paese fuori e dentro la modernità, la laicità, il capitalismo e la legalità; il Paese dove è stato condannato il mezzo poliziotto e mezzo mafioso Contrada, il Paese del mezzo statista e mezzo mafioso Andreotti.
E scappano sempre nei “non luoghi” i ceffi italiani. Il Brasile-paradiso di Battisti è come la Beirut di Dell’Utri: lì spacciano rivoluzione, qui corruzione. La sua geografia ulteriore, i suoi “altrove” di bengodi sono Santo Domingo, le Bermuda, la Guinea-Bissau e il Libano. Nella mappa che, direbbe Benjamin, è il suo curriculum vitae, c’è anche la terrazza dell’Eden (alle spalle di via Veneto) e la via Giulia del ristorante “Assunta Madre” dove tutti sembrano comparse del film “Terapia e pallottole”, proprio come Dell’Utri quando disprezzava la tv asservita: «Io vado solo da Santoro». Già nella scenografia nera e nell’esagerazione delle bollicine e dei vassoi di pesce ci sono la posa, il codice, il posizionamento del concorso esterno, di chi non potendo avere i galloni della piena appartenenza lascia intendere di essere il pupo che controlla il puparo e assume su di sé anche il folclore: «Persino io – diceva Dell’Utri – guardando me stesso dall’esterno, mi riconosco come mafioso… ». E forse è un furbo il proprietario che si chiama Gianni ma si fa chiamare Johnny, regalando un brivido di mezza mafia in più agli avventori, tutti squadrati dagli agenti dell’Antimafia che ha sede poco più in là.
C’è, infine, il dettaglio shakespeariano: Alfano ha voluto dare l’annuncio della cattura. Il giorno prima aveva dichiarato: «In politica non ci sono nemici da combattere». Silvio ha commentato a mezza voce: «Perché per lui in politica ci sono solo amici da tradire». Ecco,
appunto, il codice della mezza mafia.

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Tutti i segreti di don Marcello, di ATTILIO BOLZONI

Se un giorno dovesse ricordarsi — e finalmente parlare — della Milano degli anni ‘70 e di quei «signori» impomatati che venivano da Palermo, quanti segreti potrebbe raccontare? Lui, che è stato il custode dell’avventura del Cavaliere fin dagli inizi?

MENTRE organizzava incontri con i boss, lui che ha partecipato alla nascita di Forza Italia, quanti dettagli inconfessabili nasconde ancora nei suoi armadi?
La storia della mafia e dei suoi territori contigui è ricca di tradimenti e risentimenti, doppiezze, infedeltà, interessi. Perché dovrebbe fare mai eccezione proprio don Marcello Dell’Utri, ex impiegato di banca in una cassa rurale di Belmonte Mezzagno (provincia di Palermo, abitanti 11.244, altitudine 356 metri) e vent’anni dopo uno degli uomini più potenti d’Italia al fianco di un milanese che per tre volte sarebbe diventato Presidente del Consiglio?
Forse basta ricordare come – solo un anno e qualche mese fa – parlava Dell’Utri. Erano i giorni in cui bisognava decidere le candidature per le elezioni politiche del febbraio 2013, il “problema” era Marcello già condannato a 7 anni di reclusione per concorso esterno.
Dichiarazione di Berlusconi: «Temo che gli chiederemo un grande sacrificio perché una sua candidatura porterebbe critiche, nonostante le sue straordinarie qualità morali». Risposta di Marcello: «Dico solo che basta ricordarsi dove sto io, dove sono sempre stato…Continuerò a candidarmi, non lo farò più solo da morto… ». Seconda dichiarazione di Berlusconi: «Vedremo». Seconda risposta di Marcello: «Io non sono un amico acquisito nella stagione politica, sono un amico di vecchia data… la mia storia è la stessa di Berlusconi. Se Berlusconi mi vuole escludere l’unico modo è di rinnegare il mio passato». E poi: «Forse Silvio di soldi me ne deve ancora…». Tutto chiaro? Gli aveva mandato a dire con il suo stile: stai attento, un onorevole muto è molto più ragionevole di un imputato che rischia la galera, se finisco male io finisci male anche tu.
Il collegio blindato — nel 2013 — Dell’Utri non l’ha avuto e, qualche giorno fa, è stato costretto a fare rotta verso Beirut alla vigilia di una sentenza.
E ora cerchiamo di elencare quali segreti custodiscono uno dell’altro, in quali pieghe della vicenda italiana si nascondono antichi patti tra i due, quali personaggi (assassini, trafficanti, mandanti di delitti eccellenti) hanno incrociato l’(ex) Cavaliere all’inizio della sua spericolata scalata.
Sono 25 gli anni della «vicinanza» di Marcello Dell’Utri con la mafia. Prima con l’aristocrazia criminale palermitana, poi con i Corleonesi di Totò Riina. E dietro, dietro c’è sempre l’ombra di Berlusconi. I nomi: si comincia con Antonio Virgilio e Salvatore Enea detto «Robertino », con Jimmy Fauci e Francesco Paolo Alamia. A quel tempo Marcello è segretario particolare di Silvio. È il 1970. Solo frequentazioni pericolose. Poi, il salto. Con certezza è nel 1974. Arriva ad Arcore Vittorio Mangano, uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova che fissa la sua dimora fino all’ottobre del 1976 in via San Martino 42. È in quel momento che il legame fra i palermitani del boss Stefano Bontate e la coppia siculo-milanese diventa più strutturato.
In quei mesi tutto si fa alla luce del sole. I capi di Cosa Nostra salgono a Milano per incontrare Berlusconi in via Larga («Alla riunione eravamo presenti io, Tanino Cinà, Stefano Bontate, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi», rivelerà il pentito Francesco Di Carlo), pranzi, cene, soldi che passano di mano. Avrà pensato a questo Dell’Utri, l’anno scorso, quando ricordava a Silvio che erano amici di «vecchia data»? Dalla metà degli anni ‘70 alla fine degli anni ‘80: antenne (gli interessi di Bontate nel settore televisivo) e palazzi (il risanamento del centro storico di Palermo), i rapporti con il finanziere Filippo Alberto Rapisarda e quelli con i soci dell’ex sindaco Vito Ciancimino, le telefonate al commercialista (Giuseppe Mandalari) di Totò Riina, gli intrecci con le cosche catanesi. Tutto è dentro le carte su Dell’Utri, la mafiosità dell’ex segretario di Silvio accertata al cento per cento.
Fino al 1992. Poi, è un altro discorso. Poi nasce Forza Italia e Dell’Utri diventa «meno» mafioso, ci sono le stragi Falcone e Borsellino e Dell’Utri allenta il suo abbraccio con quelli di laggiù, una mezza dozzina di pentiti (creduti per tutto il resto) non vengono dichiarati attendibili sulla «disponibilità» di Cosa Nostra a sostenere Forza Italia dopo la fine dei vecchi partiti. Questo certificano gli atti giudiziari in nome del popolo italiano.
Di sicuro, qualche altro dettaglio Marcello Dell’Utri lo conoscerà. Più di quanto abbiano scoperto fino ad ora i giudici. Sul denaro che ha viaggiato da Palermo a Milano, su quell’altro che negli ultimi mesi è arrivato a Santo Domingo (c’è un’indagine per verificare se, per caso, Berlusconi stia restituendo soldi a prestanome di boss nel centro America), sui vincoli con alcune consorterie calabresi.
Di tutta questa melma, una volta, è stato chiesto conto a Berlusconi. Era il 26 novembre del 2002 e i pm di Palermo domandarono al Presidente del Consiglio: ha qualcosa da dire? Lui, Berlusconi, si avvalse della facoltà di non rispondere.

La Repubblica 13.04.14