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"Privatizzare strada sbagliata", di Laura Pennacchi

Di fronte al rilancio delle privatizzazioni annunciato dal ministro dell’Economia Padoan è bene chiedersi – come fa Bassanini, presidente della Cassa depositi e prestiti – se non è opportuno che lo Stato mantenga il controllo delle aziende strategiche (il che renderebbe difficile usare le dismissioni per abbattere il debito pubblico in modo significativo).

Ma è bene farsi domande più di fondo, anche tenendo conto che il ministro Padoan ha esplicitamente collegato l’intensificazione delle privatizzazioni a un auspicabile (per lui) ridimensionamento del «settore pubblico» e che nella stessa direzione andrebbe l’eventuale finanziamento dei benefici fiscali promessi a milioni di lavoratori con massicci tagli di spesa (come quelli prospettati con la spending review). La più importante tra queste domande di fondo – di fronte al dilagare di un ribellismo antieuropeo che è contro un’austerità deflazionistica e privatizzatrice – è la seguente: che significato ha il lancio in corso per l’Italia e per l’Europa di una nuova ondata di privatizzazioni, la terza dopo quella della fine degli anni 80-inizio 90 e quella della metà degli anni 90? Per di più senza alcuna accurata analisi dei risultati raggiunti nelle onda- te precedenti, le quali, in verità, vedono drammaticamente peggiorati tutti gli indicatori, per occupazione, valore aggiunto, produttività, indebitamento, investimenti (si pensi in Italia al mancato decollo della banda larga connesso alla privatizzazione di Telecom).

Il punto è che il neoliberismo, di cui la crisi globale ha manifestato il fallimento costituendone una sorta di «autocritica» in diretta, non è affatto in resa, in ritirata. L’austerità deflazionistica e restrittiva nella versione della Merkel è un pilastro del neoliberismo e le privatizzazioni e l’«arretramento» del perimetro pubblico ne so- no al tempo stesso il logico compimento e il movente più autentico. Qui c’è molto impulso ideologico: lo starving the beast di bushiana memoria, sostenente – attraverso l’«affamamento» della bestia governativa mediante il taglio delle tasse – la cancellazione dell’idea stessa di responsabilità collettiva, si affida pur sempre al trinomio «meno regole, meno tasse, meno Stato». E qui ci sono molto corposi interessi che si riorientano e si riorganizzano: la finanziarizzazione – insieme alla commodification (la mercificazione di tutto, perfino del genoma umano) e alla denormativizzazione (non solo deregolazione, ma più profonda sostituzione del valore della norma e della legge con il contratto privato e la generalizzazione della lex mercatoria) – ha guidato il trentennio neoliberista. La finanziarizzazione, in fondo, ha costituito la ricerca e la conquista di nuove occasioni di profittabilità – affidate alla droga delle «bolle» finanziarie e immobiliari e dunque all’esplosione dell’indebitamento privato (assai più che di quello pubblico) – da parte di un capitalismo che dal compromesso keynesiano e dai «trenta gloriosi» prevalsi alla fine della seconda guerra mondiale aveva visto ridimensionate le proprie aspettative di profitto. Questa conquista di nuove occasioni di profittabilità, nella misura in cui è riuscita – come testimoniano la spostamento di ben dieci punti di quote del valore aggiunto dal lavoro al capitale e l’esplosione delle diseguaglianze con il balzo del- la «opulenza» dell’1% dei più ricchi verificatisi nel trentennio neoliberista -, è anche, però, deflagrata nella crisi globale. Oggi il capitalismo è nuovamente alla caccia di inesplorate occasioni di profittabilità e le cerca nelle aree in cui fin qui è prevalsa la protezione della responsabilità collettiva e in quelle «demercatizzate» e «demercificate», sottratte al dominio del mercato e della mercificazione e quindi a prevalenza di servizi pubblici. Queste sono proprio le aree dei beni pubblici, della ricerca di base, dei beni sociali, dei beni comuni, del welfare state, e ciò spiega sia l’irruzione delle problematiche di cui esse sono portatrici nel dibattito democratico contempo- raneo – per l’Italia suonano amare le vicende, ahinoi già dimenticate, dei referendum sull’acqua e sull’energia -, sia il loro tono non solo politico ma accentuatamente etico-politico, venendo richiamati gli accorati appelli (contro la mercificazione della terra, della moneta, del lavoro) del Polanyi de La grande trasformazione.

È, dunque, molto serio e allarmante il nuovo impulso che spinge alle privatizzazioni, al ridimensionamento del settore pubblico, all’attacco al modello sociale europeo, in una ispirazione complessiva che ha molti elementi conver- genti. Avere consapevolezza di ciò non porta a escludere, ovviamente, che le liberalizzazioni e qualche privatizzazione mirata – soprattutto in termini di cessioni di patrimonio immobiliare ben strutturate – siano utili. Ma per quanto riguarda il patrimonio mobiliare – il che vuol dire Finmeccanica, Enel, Eni, ecc. – il discorso è completamente diverso. Il panorama dell’assetto produttivo e industriale italiano è oggi talmente deteriorato che Pierluigi Ciocca – curatore con Roberto Artoni di una straordinaria ricerca sulla storia dell’intervento pubblico italiano – discute apertamente della desiderabilità della ricostituzione dell’Iri. Il che non significa negare che ci sia necessità di una grande iniziativa di recupero di efficienza e qualità nell’azione pubblica. Anzi, proprio coloro che con più costernazione guardano ai drammatici effetti di impoverimento e di dequalificazione del settore e del lavoro pubblico – in termini di strutture, di progettualità, di motivazioni – provocati dal lungamente perseguito «affamamento» della complessa architettura statale, hanno in proposito il dovere della massima vigilanza e della massima incisività propositiva.

Ma bisogna avere consapevolezza della posta in gioco. E la posta in gioco è un nuovo episodio di quella che i democratici americani non esitano a definire la strong battle tra pubblico e privato, con buona pace di quanti – influenzati dall’ostilità all’intervento pubblico della Terza Via blairiana – si sono affrettati a dichiarare «logora» ed «esaurita» la dicotomia stato/mercato. In realtà, al superamento di tale dicotomia ci si deve ispirare operativamente, nel disegno di un’architettura istituzionale variegata che faccia spazio alla partnership pubblico/privato e al- la molte forme di quello che Fabrizio Barca chiama «sperimentalismo democratico». Ma questo è molto diverso dal ritenere che tale dicotomia sia stata già superata, nei fatti e spontaneamente, perché nei fatti non c’è nessun superamento e c’è, anzi, il dominio del mercato e delle grandi corporations private sul pubblico, il che è un altro modo per dire del dominio dell’economia sulla politica.

L’Unità 26.03.14

“No ai corsi anti-omofobia” A scuola l’ultima battaglia tra i laici e i cattolici, di Vera Schiavazzi

L’ultimo episodio della battaglia risale a pochi giorni fa: il 20 marzo è arrivata a tutti i dirigenti scolastici di elementari, medie e superiori una circolare del ministero dell’Istruzione che “rinviava a data da destinarsi” i due giorni di corso di formazione per insegnanti previsti per questa settimana, confermando così una voce che circolava da tempo. A denunciare l’inconfessabile desiderio di lasciar cadere l’iniziativa era stata, a Montecitorio, la deputata
Michela Marzano (Pd), con un’interpellanza, mentre Gabriele Toccafondi, sottosegretario all’Istruzione, vicino a Angelino Alfano, si impegnava da tempo contro “l’indottrinamento dei giovani” nelle scuole, remando contro l’intervento delle associazioni gay. L’interpellanza di Marzano, insieme alla pronta reazione di una parte delle associazioni impegnate per i diritti glbt hanno rotto il silenzio. Rivelando veti incrociati e lotte intestine che risalgono ai governi Monti e Letta, e all’Unar, l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni del dipartimento Pari Opportunità del governo. «Il 19 aprile del 2013 — ricorda Marzano nella sua interpellanza — il governo ha formalmente adottato una “Strategia nazionale LGBT 2013-2015”, un piano di azioni di risposta alle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere». Il 18 dicembre 2013, il Ministero dell’Istruzione ha emanato un’apposita circolare a tutti gli Uffici scolastici regionali in cui si prevede lo svolgimento di una “Settimana nazionale contro ogni forma di violenza e discriminazione”. Ne è nato un progetto commissionato dallo stesso Unar e costato, così denuncia il quotidiano cattolico “Avvenire”,
250.000 euro. Il titolo? “Educare alla diversità a scuola”, a cura del-l’Istituto Beck di Roma (una scuola di specializzazione accreditata dal Miur), che ha prodotto un kit di materiale informativo suddiviso secondo i diversi ordini scolastici. Il kit non è mai stato diffuso, il corso è stato rinviato. E la polemica si è fatta rovente, anche perché ci sono dieci milioni di euro stanziati per la “lotta al bullismo”, e dunque anche per quella all’omofobia. «Il Pd resta in silenzio — dice Enzo Cucco, presidente dell’associazione radicale “Certi diritti” — e ha firmato un patto elettorale di non belligeranza col Nuovo Centrodestra di Alfano. Ci aspettiamo un atteggiamento diverso da parte
del ministro Giannini». E la vicenda ha già registrato un lungo elenco di reazioni. «Da parte mia c’è massimo impegno contro le discriminazioni — dice Toccafondi, finito nel mirino come responsabile del rinvio — Ma non possiamo usare la scuola italiana come un campo di battaglia ideologico, dobbiamo promuovere un confronto aperto tra docenti e famiglie ». A far reagire il sottosegretario è stata anche una sitcom in cinque puntate, “Vicini”, che ha definito “di impronta culturale a senso unico”. Ed è guerra tra sottosegretari, perché Ivan Scalfarotto (viceministro alle Riforme costituzionali e ai rapporti con il Parlamento) interviene così: «L’idea di un contradditorio nelle scuole tra posizioni diverse sulla lotta all’omofobia fa a pugni con il buonsenso. Toccafondi suggerisce forse di invitare i negazionisti quando si parla di antisemitismo?». Contro il rinvio dei corsi, intanto, sono intervenuti la Rete Studenti e molte altre associazioni.

La Repubblica 26.03.14

"Ricoverata 15 volte per le botte Non denuncia ma lui va dentro", di Andrea Galli

Morso terzo dito mano destra. Perforazione traumatica del timpano. Contusioni multiple. Infezione dei tessuti molli della mano sinistra da morso. Sospetta infrazione delle ossa nasali. Contusione anca destra. Distorsione del collo.
Per quindici volte la 47enne Donatella, picchiata dal compagno Enrico Massimiliano Pedrazzini, è stata ricoverata al pronto soccorso. Per quindici volte non l’ha denunciato. E nonostante i referti medici sopra soltanto parzialmente elencati, per quindici volte nessuno dagli ospedali (di solito l’ospedale Guido Salvini di Garbagnate Milanese) ha pensato bene di avvisare polizia o carabinieri. Magari forzando la situazione. Donatella infatti aveva il terrore di fare il nome dell’uomo, prigioniera com’era della paura di nuove sevizie e dell’amore per quel folle picchiatore. Raccontano dal commissariato di Rho-Pero, guidato da Carmine Gallo, che ora, pur naturalmente sollevata per la fine del massacro, un poco le siano dispiaciuti l’arresto e il trasferimento in prigione del compagno. Io davvero ho una forte passione, io davvero sono innamorata, ha ripetuto.
Se il caso è chiuso è merito della celerità delle indagini, coordinate dalla Procura di Busto Arsizio, e della recente legge contro le violenze domestiche: le forze dell’ordine possono procedere anche senza querela di parte. Più volte glielo avevano chiesto, e sempre Donatella era stata irremovibile: no, niente denuncia. Ma quanto ancora doveva andare avanti?
La signora Jessica è una vicina di casa della coppia. Siamo in un palazzo di Rho, hinterland nordovest di Milano. Jessica ha raccontato ai poliziotti alcuni episodi. Una notte di settembre del 2013. «La signora ha suonato di casa in casa piangendo. Quando l’abbiamo soccorsa aveva il labbro spaccato, il setto nasale rotto, i lividi ovunque, la casa era piena di sangue. Lei insisteva di non voler chiamare né forze dell’ordine né il 118». Un pomeriggio di fine novembre 2013. «Ho visto lui sul pianerottolo che prendeva la rincorsa e le tirava un pugno sul volto». La vigilia di Natale 2013. «Dopo una feroce discussione lui le ha rotto il naso e ha lanciato fuori dalla finestra una bottiglia di spumante, stoviglie e cibo». Un giorno Jessica avvicinò Donatella. Due donne. Da sole. L’intimità. Jessica che insistette affinché chiamasse un’ambulanza; Donatella che rifiutò con decisione, «aveva il terrore che quello la uccidesse». Ma certamente resta una domanda: perché Jessica non ha mai dato l’allarme?
Donatella e Pedrazzini non hanno figli. Vivevano soli. E di nuovo pare difficile capire per quale motivo, a fronte della seguente anamnesi, gli ospedali non abbiano voluto vederci più chiaro. Era abbastanza ovvio che fosse Pedrazzini quando Donatella riferiva una «aggressione da persona nota nel proprio domicilio»; o quando la donna giungeva «in seguito ad aggressione da parte di persona nota, colpita da oggetto lanciato (telecomando) alle labbra e presa al collo e alla mandibola con successiva caduta a terra, e colpita da ombrello sulla schiena».
Questo Pedrazzini, 41 anni, ha sempre campato in opposizione alle regole. Pregiudicato per reati contro il patrimonio, negli ultimi tempi si dedicava alle truffe. Quali truffe? Truffe di ogni genere, su internet e per strada. L’importante era fregare il prossimo. Davanti ai poliziotti, non ha proferito verbo. Era sicuro che Donatella non l’avrebbe mai abbandonato. Una volta l’aveva aggredita con calci partiti dagli anfibi; un’altra volta l’aveva colpita in viso con una gomitata. Non era ubriaco. Non si drogava. Picchiava e basta. Si sfogava come un animale.
Durava da due anni, dall’inizio della loro storia. Donatella lavorava alle poste, poi aveva smesso. Il volto tumefatto, le ecchimosi, i lividi, le difficoltà motorie: aveva ormai perso il coraggio perfino di uscire e camminare in strada. In passato aveva provato a fare il numero della polizia e aveva subito chiuso la comunicazione. Il primo e il quindici febbraio scorsi aveva iniziato e proseguito il dialogo con il commissariato di Rho-Pero. Aveva buttato lì qualcosa, ma l’ansia l’aveva divorata alla richiesta se volesse o meno formalizzare una denuncia. E Donatella aveva riattaccato.

Il Corriere della Sera 26.03.14

"Matematica è cultura", di Michele Emmer

«I cambiamenti nell’educazione non produrranno miracoli. La divisione della nostra cultura ci renderà più ottuso di quello che potremmo essere; non porteremo alla nascita di donne e uomini che capiranno il nostro mondo come Piero della Francesca fece con il suo, o Pascal, o Goethe. Con un po’ di fortuna però, possiamo educare una larga parte delle nostre menti migliori, in modo tale che non siano ignari delle esperienze creative sia nell’arte che nelle scienze».
Il 6 ottobre 1956 veniva pubblicato sul New Statesman un articolo di Charles Percy Snow che poneva un problema che sarebbe poi stato sviluppato in una conferenza ed un libro tre anni dopo. Il libro era intitolato The Two Cultures («Le
due culture») e metteva a confronto la cultura scientifica e quella umanistica. Toccava temi molto sentiti, tanto che il libro scatenò una lunga polemica che spinse Snow qualche anno dopo, nel 1963, a pubblicare una appendice al libro che si conclude con le parole citate all’inizio.
Nella introduzione alla edizione del 1993 Stefan Collini, professore di letteratura inglese all’università di Cambridge scrive: «Dobbiamo incoraggiare la crescita di una capacità intellettuale equivalente al bilinguismo, una capacità non solo di esercitare la lingua delle nostre rispettive specializzazioni, ma anche di ascoltare, imparare e contribuire eventualmente a più am- pi approcci culturali». Insomma stiamo parlando di interdisciplinarietà, termine che indica un argomento, una materia, una metodologia o un approccio culturale che abbraccia competenze di più settori scientifici o di più discipline di studio.
Da anni si svolge a Venezia un incontro dal titolo ambizioso «Matematica e cultura». Un incontro al quale nel corso degli anni hanno partecipato filosofi ed architetti, medici e scrittori, registi teatrali e di cinema, musicisti ed artisti ed ovviamente matematici. Ma cosa diavolo c’entra la cultura con la matematica? Non scriveva Croce che «le scienze naturali e le discipline matematiche hanno ceduto alla filosofia il privilegio della verità, ed esse rassegnatamente, o addirittura sorridendo, confessano che i loro concetti sono concetti di comodo e di pratica utilità, che non hanno niente da vedere con la meditazione del vero»?
Negli stessi anni, nel 1953, scriveva Morris Kline nel volume Mathematics in Western Culture: «La matematica è una forza culturale di primo piano nella civiltà occidentale. La matematica ha determinato la direzione e il contenuto di buona parte del pensiero filosofico, ha distrutto e ricostruite dottrine religiose, ha costituito il nerbo di teorie economiche e politiche, ha plasmato i principali stili pittorici, musicali, architettonici e letterari, ha procreato la nostra logica ed ha fornito le risposte migliori che abbiamo alle domande fondamentali sulla natura dell’uomo e del suo universo…Infine, essendo una realizzazione umana incomparabilmente raffinata, offre soddisfazioni e valori estetici almeno apri a quelli offerti da qualsiasi altro settore della nostra cultura». Si dirà, parole di un matematico!
Non ci sono dubbi che negli ultimi anni, oltre ad un travolgente utilizzo di idee e strumenti matematici in tutti i campi del sapere e delle tecnologia, i rapporti tra la matematica e la cultura hanno visto una grande ripresa. Dal teatro al cinema, all’arte, alla musica, alla letteratura, all’architettura come fonte di ispirazione di nuove forme e nuove idee.
Di tutto questo si è parlato negli anni scorsi e si parlerà al nuovo convegno che si svolge dal 28 al 30 marzo all’Istituto Veneto di Scienze, Lette- re ed Arti. Ci sarà un omaggio al grande artista Max Bill, 20 anni dopo la morte. Tra i temi i rap- porti tra la matematica e la musica, il teatro, l’architettura, il design, la letteratura, il cinema, sarà proiettato il film rumeno Quot Erat Demonstrandum, premio speciale della Giuria al Festival di Roma 2013. Storia di un matematico all’epoca di Ceausescu. Non poteva mancare la presentazione di un modello matematico che vuole contribuire a risolvere il problema del movimento delle grandi navi nella laguna.
«La matematica è la struttura regale studiata dall’uomo per avvicinarlo alla comprensione dell’universo. Afferra l’assoluto e l’infinito, il comprensibile e l’eternamente ambiguo… si entra e ci si trova in un altro regno, il regno degli dei, il luogo che racchiude la chiave dei grandi sistemi». Parole di Le Corbusier.
Il programma completo al sito http://www.mat.uniroma1.it/venezia2014

L’Unità 26.03.14

"La lobby di Big Pharma", di Michele Bocci e Fabio Tonacci

«Egregio onorevole… ». Comincia così la lettera che deputati e senatori italiani si sono ritrovati nella posta elettronica 24 ore dopo la batosta della maxi multa da 180 milioni di euro inflitta dall’Antitrust a Novartis e Roche per lo scandalo Avastin. «Tengo a condividere con Lei, nell’attesa di poterlo fare di persona, che ci troviamo in forte disaccordo con i presupposti di quell’inchiesta… ». Big Pharma aveva bisogno di parlare, di spiegare, di convincere. E il Parlamento è solo uno dei luoghi dove “premere”. Forse il più importante, ma non l’unico.
Corsie degli ospedali, ambulatori, convegni, aule di università: ogni luogo è utile quando si deve promuovere un nuovo flacone, una molecola innovativa, una lozione.
Basta individuare le persone o gli enti la cui voce ha un certo peso al momento degli acquisti. Prima di tutto i medici. Dalla borsa di studio pagata per dare uno stipendio al professore associato all’appuntamento scientifico in estate in località turistica. «I dottori vengono tutti studiati e schedati — racconta a Repubblica, con la garanzia dell’anonimato, un dirigente di una delle più grandi aziende del settore — per individuare quelli su cui fare pressione. Ci sono gli “autorevoli”, che hanno capacità di persuasione sugli altri, “gli inutili”, i “sensibili alle novità”, che basta presentargli le stesse gocce con un nome diverso e li hai già convinti ». Poco male se, come nella vicenda Avastin-Lucentis ,ci sono studi che ne hanno dimostrato l’eguale efficacia.
«Egregio onorevole…», scrive Novartis. Due cartelle firmate dall’amministratore delegato Georg Schroeckenfuchs per dire che «il nostro operato è sempre stato corretto» e che è «a disposizione per dare tutte le risposte necessarie ». Arrivando addirittura al mite consiglio di evitare ogni riforma della prassi dell’off label «fatta su basi emotive». Proprio così, su basi emotive. Insomma, una vistosa
excusatio non petita.
Diretta ai parlamentari, acquista un sottotesto che suona più o meno così: avete affossato quel comma 3 del decreto Balduzzi che modificava il regime dell’uso “fuori etichetta” dei medicinali, eccone le conseguenze. La lobby del farmaco lo sa. Chi votò quegli emendamenti, pure.
L’Avastin, per esempio. Prodotto dalla Roche per alcune forme di cancro del colon. Dal 2005 gli oculisti di tutta Europa cominciarono a utilizzarlo off label, cioè fuori dall’indicazione dell’etichetta, perché funzionava anche per le maculopatie. La legge lo permetteva. Oltretutto costava poco, 80 euro a dose. Poi però arrivò sul mercato il più costoso Lucentis della Novartis, 1.000 euro a fiala, specifico per quella patologia.
Il Parlamento si accorse che qualcosa non andava già nel 2007, quando cioè — come riporta il quotidiano La Notizia—
una senatrice dell’Udc, Sandra Monacelli, presentò una dettagliata interrogazione all’allora ministro della Salute Livia Turco per chiedere di autorizzare ufficialmente l’uso di Avastin per gli occhi. Si discusse, si fecero prospetti, si snocciolarono dati. Sembrava fatta, ma l’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, il 18 ottobre del 2012 decise di escludere il prodotto della Roche dall’elenco di quelli rimborsabili dal sistema sanitario. Paradossalmente su spinta proprio della Roche che, come testimoniano le decine di email interne recuperate dall’Antitrust e alla base della sua sanzione, aggiornava costantemente Novartis sullo stato della pratica.
Ma di maculopatie, in quello stesso periodo, si parlava anche nella commissione Affari Sociali della Camera, dove era in discussione il decreto Balduzzi. Il comma 3 dell’articolo 11, infatti, permetteva l’uso off label
«qualora il farmaco sia in possesso del medesimo profilo di sicurezza di quello autorizzato e ci sia una convenienza economica». Un passaggio disegnato apposta per l’Avastin che avrebbe permesso al ministero di risparmiare qualche centinaio di milioni di euro, con buona pace degli interessi di mercato — legittimi, naturalmente — della Novartis, che del costoso Lucentis detiene il brevetto. Ma un emendamento proposto da Laura Ravetto e Giancarlo Abelli, allora entrambi nel Pdl, e passato con i voti di Pdl, Lega e Udc, lo cancella del tutto. «Il trionfo delle lobby», commentò un’infuriata Livia Turco, che di quel testo era relatrice.
Qualcuno resiste, nonostante tutto. E fa di testa propria. Alfredo Pazzaglia, oculista della oftalmologia del Sant’Orsola di Bologna, racconta: «Avremo fatto 9-10 mila iniezioni di Avastin e non abbiamo mai visto complicanze nei pazienti. Così per chi è già in trattamento firmo un foglio di assunzione di responsabilità e continuo ad usarlo».
Altra leva per convincere i medici, da sempre, sono i convegni. Silvio Zuccarini, oculista fiorentino della clinica privata Villa Donatello è un professionista che ha usato l’Avastin «migliaia di volte». E racconta: «Ai congressi trovavo luminari dei trattamenti della retinopatia che attaccavano violentemente chi continuava ad usarlo, sostenendo che era illegale. Sono sicuro che hanno le spalle coperte da gruppi potenti».
Big Pharma, del resto, sa come farsi amici quelli che contano. Non è un caso che l’unica donna imprenditrice accanto al presidente del consiglio Matteo Renzi durante l’ultimo vertice bilaterale italo-tedesco di Berlino fosse Lucia Aleotti, capo di Menarini, colosso da 3,27 miliardi di fatturato all’anno, che con il premier condivide le origini toscane. Una delle donne più potenti dell’economia italiana, però, è anche un’imputata. Nel giugno scorso è stata rinviata a giudizio insieme al fratello Giovanni e al padre Alberto Aleotti, che di Menarini è il patron storico. Per 20 anni l’azienda — sostengono i pm fiorentini — avrebbe sistematicamente gonfiato il prezzo dei suoi farmaci, causando un danno di 860 milioni di euro allo Stato. In questa faccenda, Lucia Aleotti deve rispondere di evasione fiscale, riciclaggio e corruzione (quest’ultimo reato insieme al padre). Al processo si sono costituite parte civile tutte le Asl d’Italia.
«Il sistema pubblico deve emanciparsi dall’industria, avviando ricerche autonome». Lo pensa e lo dice Pier Giuseppe Pelicci, il condirettore dell’Istituto oncologico europeo di Veronesi. Oncologo e farmacologo, ha un’idea ben definita sui rapporti perversi che possono nascere tra le multinazionali e il sistema pubblico. «Il caso Avastin — spiega — insegna che le leggi le devono rispettare tutti, indipendentemente dal loro potere. Ma la domanda fondamentale che dobbiamo porci è un’altra: come è possibile che i farmaci costino così tanto?». Esatto, come è possibile? «Ci fanno pagare anche i fallimenti delle ricerche. Possiamo uscirne solo in un modo, facendo anche noi ricerca sui medicinali. Non siamo innocenti, abbiamo delegato gli studi in questo campo a Big Pharma e non si può pensare che loro lavorino senza orientarsi al profitto. Contemporaneamente però il pubblico investe poco in ricerca e finiamo in una situazione di sudditanza». La strada, secondo Pelicci, è segnata. «Ci costa di più comprare i farmaci o investire per produrli? Secondo me acquistarlo, per questo lo Stato deve aumentare gli investimenti nella ricerca: in prospettiva risparmierà per l’acquisto dei farmaci, perché se li farà da solo». Una maggiore autonomia scientifica potrà portare anche a emancipare la politica dall’attività di lobby e dagli interessi delle case farmaceutiche.

La Repubblica 26.03.14

"Emilia, sgravi fiscali per attirare le imprese", di Andrea Bonzi

Ostacoli e penali per chi delocalizza nei Paesi extraeuropei, sgravi fiscali – due anni di Irap abbonati – per chi crea lavoro con nuove imprese innovative. Oltre a sconti sul costo degli oneri di urbanizzazione per chi costruisce su zone già “compromesse”, provvedimenti contro le inadempienze e i ritardi delle Pubbliche amministrazioni, garanzie tramite Consorzi fidi e assistenza – da parte degli enti locali, ma anche dell’Università – per le aziende che decidono di fare in- vestimenti sul territorio. In sintesi, è questo il contenuto della «Legge sull’attrattività» che la Regione Emilia-Romagna licenzierà già domani in giunta e che dovrebbe essere approvata dall’Assemblea legislativa entro l’estate.

SCOMMETTERE SULLA VIA EMILIA

Negli ultimi mesi, la voglia di scommettere sulla via Emilia da parte delle gran- di imprese non è mancata: nel Bolognese, Philip Morris punta 500 milioni di
euro per uno stabilimento da 600 posti, a regime nel 2016, Toyota studia la trasformazione in senso ecologico i carelli prodotti in Cesab e Ducati Motor investe 15 milioni nella fabbrica di Borgo Panigale; a Ferrara la Luis Vuitton sta ridisegnando la Manifattura Berluti; in fila per un incentivo di viale Aldo Moro (fino a 4 milioni per chi prevede l’assunzione di 300 addetti) ci sono nomi come Lamborghini, Vm Motori e Liu Jo.

Bene, la Regione vuole continuare a incentivare questo trend, gli investimenti e i posti di lavoro collegati, un po’ come hanno scelto di fare territori quali la Carinzia, in Austria, verso cui sono tentati di emigrare molti imprenditori italiani. «Il nostro obiettivo è promuove- re l’Emilia-Romagna, contribuendo, da un lato, alla ripresa e, dall’altro, aumentando la competitività e il tasso di innovazione delle imprese. Crediamo che tutto questo creerà un’occupazione qualificata e duratura», spiega Giancarlo Muzzarelli, assessore regionale alle Attività produttive, in queste settimane impegnato anche come candidato sindaco alle amministrative di Modena.

Se il limite principale dell’iniziativa è il budget a disposizione, che al momento ammonta a 2 milioni di euro per la seconda parte del 2014 e a 7 milioni per il 2015, al netto ovviamente delle facilitazioni fiscali previste, i punti qualificanti sono diversi.

ACCORDI PER LO SVILUPPO

Il fulcro della norma (in bozza) sono gli «Accordi per l’insediamento e lo sviluppo» che prevedono stimoli per le imprese tecnologicamente più avanzate. «È un sistema intero che si mette a disposizione dell’impresa», chiarisce Muzzarelli. Ecco dunque che vengono fissati – coinvolgendo le parti sociali e gli enti locali – l’ammontare degli investimenti, il sostegno attraverso i Consorzi fidi e i tempi in cui effettuare i lavori per il progetto, nonchè le penali a carico delle parti inadempienti, anche se il ritardo fosse imputabile alla Pubblica amministrazione.

Incentivi a chi non consumerà nuovo territorio per le strutture: «Saranno ab- battuti gli oneri di urbanizzazione, raddoppiati invece se l’impresa dovesse decidere di sfruttare aree “ vergini”», puntualizza Muzzarelli. Inoltre, nel capitolo dedicato alle agevolazioni fiscali, spicca «l’esenzione per due anni dal pagamento dell’Irap per le imprese particolarmente innovative». Tramite Lepi- nnda, poi, la Regione si mette a disposizio- nnne per colmare il digital divide, favoren- nndo la copertura della banda larga.

Ultima, ma non per importanza, la clausola anti-delocalizzazioni: se l’impresa che “scappa” verso uno Stato extra-Ue e taglia di almeno il 50% il personale dovrà restituire i contributi eventualmente ricevuti nei tre anni prece- denti. E se dovesse sradicare lo stabili- mento, non otterrà il cambio di destinazione d’uso per l’area su cui insisteva.

L’Unità 26.03.14

Lavoro, stop alle dimissioni in bianco. Pd e Sel: "E' una norma di civiltà", da repubblica.it

Un piccolo passo per la politica ma un grande passo per i lavoratori. Basta dimissioni in bianco. L’Aula della Camera ha approvato la proposta di legge che pone fine alla pratica sulla base della quale al lavoratore, e più spesso alla donna lavoratrice, si chiede di firmare una lettera di dimissioni al momento dell’assunzione. Una lettera che può essere successivamente utilizzata dal datore di lavoro: il più delle volte in caso di gravidanza, ma anche per una malattia prolungata o per la partecipazione ad uno sciopero. Il testo, approvato a Montecitorio con 300 sì, 101 no e 21 astenuti, passa ora al Senato. Tuttavia il consenso a quella che Pd e Sel salutano come una norma di civiltà non è stato unanime: mentre la Lega si è astenuta, Ncd, M5S e SC hanno votato contro.

In base al testo approvato, la lettera di dimissioni volontarie deve essere sottoscritta, pena la sua nullità, dal lavoratore su appositi moduli resi disponibili gratuitamente dalle direzioni territoriali del lavoro, dagli uffici comunali e dai centri per l’impiego. La nuova normativa si riferisce a qualsiasi contratto: dai rapporti di lavoro subordinato a quelli di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, ai contratti di collaborazione di natura occasionale, alle associazioni in partecipazione, ed al contratto di lavoro instaurato dalle cooperative con i propri soci. La nuova disciplina assicura una semplificazione degli oneri amministrativi connessi alla risoluzione del contratto per dimissioni volontarie,
salvaguardando, tuttavia, l’esigenza di garantire la certezza dell’identità del lavoratore richiedente e il rispetto del termine di validità del modulo di dimissioni.

Qualora la lavoratrice o il lavoratore si assentino dal lavoro, senza fornire comunicazioni, per oltre sette giorni, il rapporto si intende risolto per dimissioni volontarie anche senza sottoscrizione dei moduli previsti dalla proposta di legge.

Entusiasti Pd e Sel, che hanno applaudito dopo il voto finale. “Si tratta di una norma di civiltà a tutela del lavoro e dei lavoratori, a prescindere dal loro sesso”, ha dettoChiara Gribaudo mentre Marina Nicchi di Sel ha rilevato che la legge “risolve non solo un problema culturale ma anche di diritti e doveri”. Anche la presidente della Camera Laura Boldrini ha espresso soddisfazione, ponendo l’accento sulla tutela dei diritti delle donne lavoratrici: “E’ stata dimostrata attenzione alla condizione delle lavoratrici e, al di là di alcune specifiche questioni sulle quali le forze politiche si sono divise, si è discusso di come porre fine ad una pesantissima violazione dei diritti delle donne. E’ una questione di civiltà”.

Contro il testo si sono espressi Ncd e M5S, attaccati da Renata Polverini di Fi, che ha contestato a quei partito “una contrarietà a una norma che abbiamo contribuito a migliorare”. “E’ solo campagna elettorale”, tuona la Cinque Stelle Gessica Rostellato, mentre Sergio Pizzolante di Ncd osserva: “E’ un provvedimento figlio di una cultura formalistica che, legiferando sulle patologie, indebolisce e debilita il nostro tessuto imprenditoriale con norme, vincoli, procedure burocratiche. Fa impressione come Forza Italia, tra la Cgil e le imprese, scelga la Cgil”. Ma critica è anche Scelta Civica, con Irene Tinagli: “Si colpiscono in cento per educarne uno, facendo danni a imprenditori che mai si avvarrebbero di questo escamotage”, sostiene.

La Repubblica 26.03.14