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"Stretta sui compensi dei dirigenti Statali, prepensionamenti e mobilità", di Roberto Petrini

Il ciclone Marianna si abbatte sui grandi burocrati di Stato. Il tetto di tutti gli stipendi e i compensi erogati dalla pubblica amministrazione sarà totale e omnicomprensivo: nessuno potrà riscuotere, per nessun motivo, più di 311 mila euro lordi annui, ovvero la remunerazione del primo presidente della Corte di Cassazione.
Il nuovo ministro per la Pubblica amministrazione, Marianna Madia lo ha annunciato a sorpresa, nel corso di un convegno organizzato dalla Bocconi e dalla Eief: «Il tetto per gli stipendi dei manager», ha detto, «è già tarato su quello del primo presidente della Corte di Cassazione: ma io ho firmato una circolare dove si esplicita che in questo tetto debbano essere compresi anche tutti i trattamenti, compresi quelli pensionistici».
In altre parole: la circolare trasforma il tetto agli stipendi e agli emolumenti vari dei dirigenti pubblici, già introdotto dai governi Monti e Letta, in un limite «tutto compreso» nel quale vanno computate pensioni, vitalizi, indennità accessorie, collaborazioni occasionali e consulenze. Tirate le somme la nuova regola dice: a nessuno più di 311 mila euro lordi annui.
La «tagliola» blocca con effetto immediato pratiche molto diffuse tra gli «alti papaveri» della burocrazia statale: dirigenti in pensione, chiamati a collaborare con lo Stato, cumulavano l’assegno previdenziale e un congruo compenso. Altri mettevano insieme collaborazioni con vari ministeri ed enti; altri ancora stipendi e consulenze. Ora basta: scatta la norma-catenaccio.
Dall’intervento della Madia non si salva nessuno. La circolare specifica che ai limiti di remunerazione sono soggetti i dirigenti centrali e regionali, i membri dei consigli di amministrazione degli enti, delle autorità di vigilanza e di controllo. Tutti dovranno restare all’interno del tetto dei 311 mila euro, almeno fino a quando non sarà introdotto il nuovo limite, annunciato dal premier Renzi, che vuole che nessuno guadagni più del presidente della Repubblica, ovvero 248 mila euro lordi all’anno.
Gli effetti ci saranno. Gli stipendi medi lordi dei dirigenti dello Stato, secondo il rapporto della Bocconi, sono elevati: arrivano fino 243 mila euro al ministero della Salute, a 218 mila a Palazzo Chigi, a 217 mila euro agli Interni. Lo stipendio medio non incapperà nel limite, ma numerose remunerazioni apicali dovranno essere adeguate. Inoltre molti di coloro che percepiscono stipendi alti, intorno ai 200 mila euro lordi, dovranno fare i conti con collaborazioni e consulenze percepite sempre nell’ambito della pubblica amministrazione e dovranno limare i guadagni per stare all’interno del tetto.
La cura taglia-stipendi non finisce qui. Dopo la circolare sui dirigenti, è in fase avanzata anche la misura sui manager delle società e delle aziende controllate dallo Stato: la Madia ha annunciato che la «proposta» del governo è in dirittura d’arrivo Del resto la polemica sul caso Moretti, il manager delle Ferrovie che guadagna a 850 mila euro e che ha minacciato di andarsene se gli sarà tagliato lo stipendio, è ancora calda. E ieri il manager è tornato sull’argomento: «Lo stipendio? Aspetto la proposta di Renzi, farò le mie valutazioni e, come dice lui, saprà convincermi ». Intanto i tagli vanno avanti.
Cambiano verso anche le pratiche di reclutamento dei manager pubblici. Da poche ore il sito del ministero della Pubblica amministrazione ha messo in rete un «avviso per la manifestazione d’interesse» per l’incarico di presidente dell’Istat, attualmente vacante: si invia curriculum e programma di lavoro per via telematica e ci si candida. Una inedita procedura di trasparenza che bypassa segreterie politiche e relazioni personali e allarga le possibilità di scelta.
Se l’operazione-dirigenti è già scattata altre novità, più controverse, sono in arrivo: il ministro della Pubblica amministrazione ha anche annunciato un piano per incentivare i prepensionamenti degli statali per far posto ai giovani. La Madia ha minacciato una «sana mobilità obbligatoria» all’interno della pubblica amministrazione per gestire gli esuberi. Mentre ha parlato di «numeri e metodologia sbagliati» a proposito dell’esistenza, emersa dal
Cottarelli, di 85 mila esuberi tra gli statali. Dove la Madia ha toccato un nervo scoperto è tuttavia il rapporto con i sindacati. «Non è detto che ci saranno dei tavoli, perché abbiamo tempi molto stretti», ha replicato la ministra a chi le chiedeva se fosse previsto un confronto con Cgil-Cisl-Uil. «Non lo so, può anche darsi, ma non per forza», ha dichiarato.
L’atteggiamento non è piaciuto ai sindacati: per la leader della Cgil Susanna Camusso, già ai ferri corti con il premier Renzi, c’è una «gara tra ministri» per spiegare che dal sindacati «si attendono
al massimo dei consigli ma non una discussione ». «Ci rivolgeremo ai lavoratori», ha allargato le braccia il segretario della Cisl Raffaele Bonanni.

La Repubblica 26.03.14

Alluvioni, la Camera ha approvato mozioni per Emilia e Veneto

Deputati Pd “E’ stata riconosciuta la specificità di un’area colpita da alluvione e sisma”. Il Governo riconosce la specificità di un territorio colpito, nel giro di 20 mesi, prima dal sisma e poi dall’alluvione: la Camera ha approvato oggi una mozione Pd, presentata per l’Emilia dal deputato modenese Davide Baruffi e sottoscritta da tutti i parlamentari modenesi ed emiliani, che chiede all’Esecutivo un intervento specifico per il nostro territorio martoriato dalle emergenze. “Chiediamo di fare presto – spiega l’on. Baruffi – giorni e non settimane per intenderci. Ci aspettiamo immediatamente un provvedimento per Modena che affronti tutte insieme le questioni poste, assegnando ad Errani e ai sindaci tutti gli strumenti e le risorse per poter fare presto e bene”.

La Camera ha approvato alcune mozioni parlamentari che impegnano il Governo al sostegno delle popolazioni di Emilia e Veneto colpite tra gennaio e febbraio dall’emergenza alluvione. In particolare la mozione del Pd, presentata dai deputati Sara Moretto per il Veneto e Davide Baruffi per l’Emilia e sottoscritta da tutti i deputati Pd delle due regioni, chiede al Governo un intervento specifico per i territori della provincia di Modena, colpiti nel giro di 20 mesi dalla doppia calamità del sisma e dell’alluvione, riconoscendo la specificità di questa situazione e l’urgenza di interventi già indicati la scorsa settimana dai parlamentari modenesi. In particolare la mozione impegna l’Esecutivo ad indennizzare i danni provocati dall’alluvione al patrimonio pubblico e privato; a sostenere l’economia fortemente danneggiata con interventi mirati per l’agricoltura, le piccole e piccolissime imprese, i centri storici; a sbloccare dai vincoli della finanza pubblica (patto di stabilità e spending review) i bilanci dei Comuni affinché possano provvedere alle opere di ricostruzione necessaria e ai servizi indispensabili per il sostegno alla popolazione. Si chiede anche di sbloccare immediatamente le risorse già stanziate per intervenire in modo strutturale sul nodo idraulico modenese. “Si chiede infine, più in generale, – spiegano i deputati modenesi Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Cécile Kyenge, Edoardo Patriarca, Giuditta Pini e Matteo Richetti – che il Governo ponga mano a due provvedimenti di sistema: da un lato una legge quadro per la gestione delle emergenze che non costringa ogni volta a ripartire da zero ma che assicuri procedure e risorse certe per gli interventi in caso di calamità; dell’altro costituire un fondo adeguatamente finanziato per le opere di prevenzione del dissesto idrogeologico e la messa in sicurezza del territorio, come il Governo ha già annunciato nei giorni scorsi”. “Gli impegni assunti dal Governo sono piuttosto importanti e vincolanti – conclude Davide Baruffi – in particolare per quanto riguarda la situazione modenese di cui si è riconosciuta l’oggettiva specificità. Ora chiediamo al Governo di fare presto, giorni e non settimane per intenderci, affinché cittadini, imprese e Comuni abbiano risposte adeguate ai problemi che abbiamo posto. Ci aspettiamo immediatamente un provvedimento per Modena che affronti tutte insieme queste questioni, assegnando ad Errani e ai sindaci tutti gli strumenti e le risorse per poter fare presto e bene”.

"La sinistra deve ritrovare l’anima", di Michele Prospero

Non è una generica politica ad essere graffiata dal populismo, che in molti paesi d’Europa si aggira come un avvoltoio. E al blasfemo lessico della rivolta contro le tecnocrazie, premiato con il successo annunciato delle truppe di Le Pen figlia alle amministrative francesi, non si può rispondere invocando la correttezza della politica normale.
Quella politica che con i suoi lumi deve tornare al governo del continente, come se non ci fosse una precisa scelta politica anche dietro l’egemonia dei signori dell’austerità, del rigore, della finanza. Nata urlando a squarciagola la miracolosa parola d’ordine della libera concorrenza dei mercati, come sigillo di una splendida età di progresso illimitato per individui ridotti a imprenditori di loro stessi, e scagliandosi contro le arcaiche clausole costituzionali novecentesche dell’eguaglianza e dell’inclusione sociale, l’integrazione europea non è stata affatto una esperienza senza politica, ma è stata piuttosto un laboratorio succube di una cattiva politica. La battaglia per arginare la deriva cognitiva del populismo, che crea inimicizie di comodo per non attaccare le fonti reali dei conflitti di classe, non è quindi tra un mercato rimasto senza politica (impossibile evenienza: anche il liberismo più sfrenato suppone una decisione, diceva già Gramsci) e il ritorno in gioco della politica dopo il letargo, come se ci fosse da colmare una pura assenza. La politica c’è stata, eccome. Solo che ha indossato gli abiti della politica di servizio, con governi (spesso anche quelli di centrosinistra) alle dipendenze di una visione angusta del potere che privilegiava gli interessi della valorizzazione del capitale (delocalizzazioni incentivate, regimi fiscali leggeri) e colpiva le residuali conquiste del lavoro (flessibilità, precarietà, attacco al ruolo delle rappresentanze sociali organizzate). Scossa nelle fondamenta dalla grande contrazione economica globale, la politica, che non è fuggita ma è rimasta insediata al potere con un paradigma omogeneo che sfuma le grandi differenze di un tempo, ha ben presto tramutato gli apostoli della libera concorrenza in alfieri inflessibili del governo dell’austerità che, in nome della asettica tecnica del risanamento, dirottava le scarse risorse pubbliche a sostegno delle banche, a tampone di un sistema finanziario in grave fibrillazione. È la politica che ha consentito che la crisi sociale venisse pagata dal lavoro con le scene abituali della disperazione delle piazze spagnole o gli incendi nelle strade greche o ha imposto come dogma incontrovertibile il pareggio di bilancio, autentico suicidio della democrazia in tempi di recessione. Se il populismo lievita nei consensi, e miete sostegno proprio nei ceti popolari, ciò accade non già perché non ci sia più la politica ragionevole e sobria al posto di comando, ma perché la sinistra europea ha smarrito la sua mappa concettuale e non è percepita più come una grande tradizione capace di riformulare le istanze di una radicale critica del capitalismo contemporaneo che lucra profitto solo obbligando al sacrificio delle libertà, delle aspettative, dei progetti di vita.
Se la politica europea è solo uno stanco esercizio di scrittura delle regole, non ha nulla da dire in risposta al disagio odierno. E la speranza degli esclusi passa attraverso lo choc di movimenti di protesta che in realtà rafforzano la alienazione, la marginalità sociale e offrono un sostegno alla riproduzione degli egoismi dei governi nazionali. Per questo, un assembramento europeo di tutti i partiti populisti come quello invocato da Le Pen, è un insultante ossimoro in quanto ognuno di essi si mobilita per ragioni nazionali esclusive e opposte a quelle di ciascun altro. Se la sinistra vuole dare un segno visibile di presenza deve cambiare alla radice la propria cultura. La politica è conflitto sui valori, lotta per fini collettivi tra loro in antitesi, non la riverenza ad asettiche tecniche affidate nella loro scrittura agli interpreti di una governance multilivello che, sulle sabbie mobili di un ibridismo pubblico-privato riduce i territori a mero spazio di mercato, occulta ogni ragione del pubblico, calpesta qualsiasi sensibilità per i beni comuni.
Sancire, come è accaduto sinora, che prima viene l’arida moneta e solo dopo seguirà la compatta sovranità (e forse un giorno persino lo spazio sociale acquisterà un ruolo accanto alla sacra fiducia degli investitori) non significa rinunciare alla politica ma equivale piuttosto ad affidare alla politica il compito di obbediente sentinella dei mercati e della finanza che rivendicano una autonoma potestà normativa. È giusto, come invoca il giurista tedesco E-W. Bockenforde, condurre «una lotta per ristabilire il primato della politica in spazi dominabili». Purché non si creda però che il liberismo sia un’arena senza politica, e quindi un mero spazio di mercato autoreferenziale senza responsabilità accertabili dei governi. La sinistra intende scacciare dalla vecchia Europa lo spettro del populismo? E allora ritrovi in fretta la sua anima sociale aggredendo il Fiscal compact, denunciando i patti di stabilità che annunciano sciagure, riformuli insomma la sua identità di forza di liberazione in perenne lotta contro le nuove esclusioni e nemica giurata dello sfruttamento che riappare in infinite maniere nel cuore di pietra del postmoderno.

L’Unità 25.03.14

"Le sfide dell'Europa dopo il voto francese", di Nadia Urbinati

La vittoria della destra ultra-conservatrice e anti-europeista al primo turno delle elezioni amministrative francesi era annunciata. E non è semplicemente una questione nazionale. Riguarda la sconfitta del Partito socialista francese, un pezzo importante dell’establishment politico continentale. Come non leggere in questa sconfitta il segno dell’erosione di uno degli ideali europei più vitali del ventesimo secolo? E da dove cominciare per comprendere le ragioni di questa erosione?
La storia politica del «Nuovo vecchio mondo», come ha definito l’Unione Europea Perry Anderson, è stata caratterizzata da quello che studiosi e opinionisti hanno denominato “deficit democratico”. Ora, fino a tempi recenti, questo deficit ha riguardato le istituzioni comunitarie non il progetto europeo. Infatti, sul piano della rappresentazione di sé ai suoi cittadini e al mondo, l’Europa ha personificato “valori universali” condivisi e si è proposta come un faro per i «diritti umani inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto», come recita con orgoglio il Preambolo del Trattato di Lisbona. Su questo nucleo di valori democratici è nata l’utopia europeista di estendere i diritti fondamentali e sociali oltre i confini nazionali, per riuscire a governare la globalizzazione economica e proteggere la democrazia. Oggi però il “deficit democratico” va ben oltre la gestione burocratica. Esso coinvolge i valori stessi. Le destre che si federano in tutti i paesi europei per dare l’assalto all’utopia europeista e conquistare il Parlamento di Strasburgo alle prossime elezioni di maggio sono il segno evidente di questo deficit complessivo di legittimità.
La responsabilità prima è da imputarsi all’incompiuta integrazione politica dell’Unione per cui, mentre le competenze burocratiche si sono irrobustite, gli organi politici di accountability sono rimasti allo stato di crisalide. Una conseguenza accertata dell’interruzione del processo di integrazione politica è stato il consolidamento di una “dominazione esecutivista” (rubricabile nella categoria del dispotismo illuminato) che, in concomitanza con la crisi economica, si è rivelata essere uno dei fattori scatenanti dell’anti- europeismo populista. Una dirigenza europea distante, non controllabile per vie democratiche e in aggiunta espressione sempre più marcata dello squilibrio di potere tra gli Stati membri, e poi specchio degli algoritmi degli esperti di finanza che governano le banche e vogliono governare le politiche sociali: sono queste le accuse rivolte all’Ue che rischiano di minare il consenso sugli ideali. Che infiammano i populismi e i nazionalismi in tutti i paesi.
Dominazione esecutivista e ideologia antieuropeista stanno in un rapporto osmotico. Con la conseguenza che all’opinione pubblica la proclamazione della fedeltà ai principi rischia di apparire come una costruzione ideologica falsa, funzionale allo statu quo e smentita dai comportamenti politici della dirigenza europea. La sedimentazione di questa opinione anti-europeista (non più solo euro-scettica) è l’aspetto più temibile della politicizzazione dell’agenda europea che dominerà questa campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento, perché il suo linguaggio attraversa l’intero spettro politico e non è confinato ai partiti e movimenti di destra. E infine, perché si coniuga con mutamenti spettacolari nella politica internazionale europea.
Nel suo recente messaggio alla Spd, pubblicato su Repubblica, Jürgen Habermas ha messo in evidenza come a mettere in discussione l’Europa dei popoli non siano solo i militanti delle destre xenofobe ma anche i partiti europeisti come la Spd, responsabile di non contrastare la retorica anti-europeista e pensare di sfruttarla a proprio vantaggio mettendo l’interesse nazionale al primo posto. Una storia che ci fa ricordare quanto successo nel 1914, quando i partiti socialisti ruppero l’alleanza internazionalista per schierarsi con gli interessi dei loro rispettivi paesi, alimentando la crescita prepotente dei nazionalismi, poi confluiti con straordinaria celerità verso plebiscitarismi di massa, fascisti e populisti. In Europa, a partire almeno dal Settecento, i fallimenti dei progetti continentali di emancipazione secondo ideali universalisti hanno generato mostri.
Non vi è nulla di che consolarsi, nemmeno affidandosi all’illusione per cui sembra difficile uscire dall’Euro senza mettere a repentaglio il benessere degli Stati membri. Ma, si legge nei proclami dei partiti di destra, meglio sacrificarsi per i propri che per gli altri. Il mito della convenienza della moneta unica si erode insieme agli ideali europeisti, mentre vecchie politiche otto-novecentesche rinascono a oriente come a occidente. L’annessione della
Crimea alla Russia e la politica imperial-nazionalista del Cremlino sanciscono la riapertura di un capitolo che il Trattato di Roma del 1957 sembrava aver chiuso. Tutti i tasselli del nazionalismo sembrano convergere: la vittoria parigina della destra ultra-antieuropea accade mentre la Duma della reggenza Putin propone alla Polonia di spartirsi l’Ucraina. L’Unione Europa sta come un equilibrista sul filo teso su un baratro, senza rete protettiva.
La politicizzazione dell’agenda europea trova conferma nel carattere ideologico e identitario di questa campagna elettorale per il Parlamento di Strasburgo, cominciata di fatto con le elezioni francesi di domenica scorsa. La lotta ideologica verterà essenzialmente sul significato dell’Unione Europea, andrà cioè ai fondamenti del patto che ha segnato la rinascita democratica del secondo dopoguerra. Che le destre nazionaliste e anti-europeiste siano state le prime a scaldare i muscoli è indicativo dell’alta posta in gioco simbolica di queste consultazioni elettorali: la tensione tra i “valori universali” di libertà e democrazia e quelli identitari, il potenziale risvolto anti-democratico della mancanza di lavoro, una vera piaga per l’integrazione europea e la stabilità politica del continente.
Prendendo sul serio il paradigma della politicizzazione, c’è da augurarsi che per contenere questa ideologia nazionalista si formi un fronte capace di convogliare il malcontento nei confronti della dirigenza di Bruxelles verso un programma alternativo riconoscibile a tutti. Per ora, i partiti dello schieramento di centro-sinistra si astengono dal posizionarsi in questo senso e si stanno anzi rendendo responsabili di aiutare la propaganda anti-europea blandendo il sentimento nazionalista nel tentativo di attrarre voti. Il paradosso è che mostrandosi tolleranti verso il linguaggio anti-europeista rischiano di incrementare la popolarità delle idee rivali nel tentativo di sfruttarle a loro vantaggio. Perché, quando si vota con argomenti identitari come in questo caso, gli elettori sanno riconoscere chi offre loro il prodotto originale da chi commercializza imitazioni.

La Repubblica 25.03.14

"Elogio delle Università Statunitensi. Conservano la memoria nel Paese fragile", di Dacia Maraini

In volo, di notte, in una cabina afosa, tengo fra le mani un diario di Albert Camus sul suo viaggio in America nel 1946. La prima notte di viaggio, lo scrittore francese si trova in una cabina di nave con diverse cuccette. Ed è preso dal panico. «Ho impressione di respirare il respiro degli altri e mi viene una voglia furiosa di andare a dormire sul ponte». Ma lo dissuade il freddo. Si rintana nel suo lettuccio con in mano Guerra e pace , «come sarei stato innamorato di Natacha!» scrive desolato. Il viaggio, ogni viaggio, che sia in nave o in aereo, è una piccola scomoda avventura dentro un tempo e uno spazio che ci sono estranei e a volte ostili. Andiamo avanti o indietro? E cosa significa trovarsi con un corpo che conserva tenacemente una memoria temporale diversa da quella in cui ci troviamo a respirare e camminare?Eppure eccomi a passeggiare per i vialetti innevati di una università americana, consapevole che il cuore pulsante di tutto questo sapere sta in una costruzione dall’aria imponente, di vago stile ateniese, che si chiama Library ed è una biblioteca. In un Paese che basa la sua cultura sulla mobilità e il provvisorio, colpisce e commuove la cura che le università dedicano a una memoria conquistata con fatica e tenuta viva con amorevole cura.
Tutto, in questa America, parla di fragilità e mobilità. Le case fatte di legno e cartone che basta un forte vento per mandarle all’aria come un castello di carte, interi quartieri di camper posteggiati sul terreno accidentato, pronti a spostarsi appena necessario, verso nord o verso sud. Un Paese nomade per vocazione e per necessità, in cui ogni persona si accinge a trasferirsi, per lavoro, per amore, per vocazione. Un Paese che fa dell’automobile la sua casa, portandosi dietro di tutto, dalla culla del bambino alla cuccia del cane, dal frigorifero mobile alla televisione. Pronti a fare la fila, senza uscire dall’abitacolo dell’auto, per pagare un conto in banca, per vedere un film all’aperto, o per prendere un panino e un caffè, direttamente serviti da una giovane in maniche di camicia, che si sporge rapida e gentile dallo sportello di una banca o dal finestrino di una caffetteria.
Le università sono le grandi conservatrici di una cultura che si vuole universale e stabile, forse anche onnipotente. Fragilmente onnipotente, però, perché in quello stesso potere sta la consapevolezza di una inquietante gracilità. Eppure nessuno si sottrae al difficile compito di difendere il privilegio della conservazione, in una terra in cui tutto viene rapidamente distrutto e ricostruito senza rimpianti per il passato. Nelle università che portano nomi prestigiosi come Princeton, Cornell, Wheaton, Ithaca, Mount Holyoke, Holy Cross, il tempo viene fermato e fissato al muro, in forma di locandine che annunciano convegni, incontri, presentazioni, mostre, avvenimenti culturali di ogni genere.
Le sei università che ho nominato sono proprio quelle in cui sono stata invitata in questo scorcio di un inverno freddo e ventoso. Per fortuna le tempeste di vento sono finite quando arrivo, ma i mucchi di neve sporca sono ancora lì a rammentare le furiose nevicate, il traffico aggrovigliato, i voli cancellati, le scuole chiuse, l’acqua e la luce saltate, gli alberi caduti. Ho incontrato centinaia di studenti che parlano italiano e sanno tutto sulla letteratura, il cinema e la musica italiana. Ne ho incontrati altre centinaia, che pur non parlando italiano, sono interessati al nostro passato e al nostro presente.
Il cittadino medio americano è generalmente ignorante del mondo. Spesso non sa nemmeno dove si trovi l’Italia. Ma appena metti piede in una università, tutto diventa chiaro e lungimirante. Machiavelli e Dante sono amici da interrogare, Natalia Ginzburg e Anna Maria Ortese sono amiche di cui si consultano gli scritti.
Ed eccomi alla Holy Cross University a parlare di mappe con il canadese Mark Abley, l’indiana Gupi Ranganathan e l’inglese Harry Stuart, il quale,con dolce impassibilità, ci rivela che le mappe non sono quasi mai una definizione oggettiva della realtà, ma una interpretazione del mondo. Insomma la cartografia è relativa, dice Stuart girando faticosamente la testa fasciata — l’anziano professore è caduto scivolando sul ghiaccio ed è stato in ospedale dove gli hanno messo dieci punti —, non sancisce verità ma stabilisce regole.
Gli studenti sono affascinati. Ma lo saranno ancora di più quando un macellaio italiano, Andrea Falaschi, mostrerà loro la mappa di un corpo di maiale squartato: testa, spalla, scamerita, arista, filetto, pancetta, guanciale, prosciutto, con relativi metodi di cottura. Chissà cosa avrebbe detto Chatwin che raccontava le strade cantate dei nativi australiani! L’indiana Gupi, che è pittrice, ci mostra invece le mappe della memoria di una nonna malata di Alzheimer. Grovigli di pensieri, di immagini, sfilacciate e perse in un cielo cupo.
Mark Abley chiede provocatorio: ma chi credete che stabilisca i confini nelle mappe? Il cartografo, o i politici che vincono le guerre? E ricorda i territori dei nativi americani, le mappe delle riserve che perdevano continuamente territori di cui si appropriavano i conquistatori.
Mentre racconto del mio viaggio di bambina disegnato dalla mano affettuosa di una madre giovanissima, mi vengono in mente le mappe del cielo. Tante stelle, catalogate, legate le une alle altre da un disegno mitologico. Quelle stelle che ammiravo, chiarissime e solide come pietre preziose seminate nel buio, mentre me ne stavo a naso in su sul ponte della nave. Ma chi tiene conto delle profondità? E di quel mistero nero che è il tempo?
Il mio viaggio fra le sapienti università americane, dove incontro persone amabili e colte, conquistate dell’Italia, finisce alla New York University, dove mi trovo a parlare di Chiara di Assisi con la studiosa del Medioevo Jane Tylus, che ha scritto un libro su Caterina da Siena e sa tutto sui nostri secoli cosiddetti bui, che poi non sono affatto bui ma pieni di luminose contraddizioni. «Hanno qualcosa da dirci ancora oggi queste mistiche?» chiede una ragazza dal pubblico. Forse sì. In un clima di mercato, in cui tutto si vende e si compra, in cui il possesso rivela e dà valore alla persona, il richiamo alla povertà evangelica, alla sobrietà, alla commiserazione creaturale sembra attualissimo. Basta pensare alla pratica sempre più frequente di ragazze giovanissime che vendono il proprio corpo, come se fosse una piccola cosa da nulla, una proprietà da contrattare per un piatto di lenticchie. E non può essere che un’altra pratica, quella del digiuno, chiamata oggi anoressia, possa essere interpretata come il rifiuto di una mentalità diffusa che umilia e mortifica l’idea stessa di un corpo felice?
New York mi sembra involgarita, tutta tesa verso un turismo di massa, disseminata di negozi dai gadget rozzi, fabbricati in Cina; sempre più tappezzata di gigantografie del corpo femminile che promettono sogni erotici legati a qualche impresa economica: l’acquisto di una macchina lucida e potente, la visita a un supermercato, la partecipazione a un evento. E se accendi la televisione vieni assalito da un fiume di immagini di gente che spara: di giorno, di notte, da una macchina all’altra, dentro una scuola, per le strade di una pacifica città, in un aeroporto, in una stazione. Tutti sparano, anche i bambini. Solo qualche volta un giovane generoso si trasforma in corpo volante, con tanto di maschera e tuta azzurra o rossa. Vola per salvare una ragazza che sta per essere schiacciata da un mostro di acciaio sprizzante scintille di fuoco. La ragazza, bellissima e discinta, si salverà, ma la gente intorno a lei morirà uccisa da quei fucili che ormai sparano anche da soli, per la gloria di armi sempre piu efficienti e micidiali.
Eppure questo è il paese della meritocrazia. Forse la piu grande virtù in tempi di corruzione. Una virtù continuamente minacciata dalle grandi lobby, come quella delle armi, o dell’energia o delle banche. Stefano Vaccara, un giornalista italiano che vive a New York, ha scritto un libro (Editori Internazionali Uniti) per dimostrare che è stata la mafia di New Orleans, di origine siciliana, e precisamente Carlos Marcello, un potentissimo e astutissimo capomafia, a fare uccidere i due fratelli Kennedy, perché si erano messi in mente di ripulire l’America dalla criminalità organizzata che corrompeva i poliziotti e i giudici.
Le università si tengono lontane da questi orrori. E difendono, con le unghie e coi denti, la pratica della meritocrazia. Perché hanno capito che il segreto dello sviluppo sta proprio nella capacità di utilizzare i cervelli, di qualsiasi colore siano, da qualsiasi parte provengano, maschi o femmine, non importa, cristiani o mussulmani va bene, purché entrino nel sistema. Pur sapendo che, una volta dentro, possono anche cercare di farlo a pezzi. Ma il rischio vale la candela e la ricchezza che ne deriva, giova a tutti.

Il Corriere della Sera 25.03.14

"Il decreto sugli scatti diventa legge n. 41", di R.P. da La tecnica della scuola

E’ stata pubblicata nella G.U. del 24 marzo ed entra in vigore il 25. Adesso non ci sono più motivi per aspettare ancora: nei prossimi giorni dovrà prendere avvio la contrattazione fra Aran e sindacati per chiudere la vicenda.
Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 24 marzo il testo della legge n. 41 che recepisce, con modifiche, il decreto n. 3 del 23 gennaio scorso in materia di disposizioni temporanee e urgenti in materia di proroga degli automatismi stipendiali del personale della scuola,
Il provvedimento di legge, come è ormai noto, dà soluzione alle difficoltà intervenute dopo l’entrata in vigore del DL 122 (il cosiddetto “decreto D’Alia”) che aveva prorogato di un anno il blocco della progressione di carriera legata all’anzianità di servizio previsto dal “vecchio” decreto 78 del 2010.
In sede di conversione in legge il decreto ha subito una importante modifica in quanto è stato inserito un comma che impedisce il recupero delle somme erogate al personale Ata destinatario delle cosiddette “posizioni economiche”.
La copertura finanziaria per questa disposizione normativa arriva da un taglio di quasi 39milioni di euro al fondo per il funzionamento amministrativo e didattico delle scuole che è ormai ridotto a poca cosa e che lo sarà ancora di più quando il Parlamento approverà il decreto sugli appalti di pulizia (anche in questo caso è previsto un taglio di circa 20milioni di euro).
La legge 41 entra in vigore subito e cioè il 25 marzo.
A questo punto il Governo dovrà necessariamente trasmettere all’Aran l’atto di indirizzo per l’avvio della contrattazione nazionale, prevista dalla legge stessa, finalizzata alla conclusione definitiva della vicenda; per il riconoscimento degli aumenti stipendiali è infatti indispensabile reperire ulteriori risorse: Aran e sindacati dovranno quindi trovare un accordo per ridurre gli stanziamenti del fondo di istituto (FIS e MOF). Accordo che dovrà essere necessariamente concluso entro il 30 giugno, in caso contrario i 120milioni di euro messi a disposizione dalla legge 41 rientrerebbero nella piena disponibilità delle casse del Stato.
Vedremo nei prossimi giorni quali saranno gli sviluppi della vicenda.

La Tecnica della scuola 25.03.14

"Nel paese dei nomòfobi", di Franco Cordero

Etimologia greca: nómos (da némein, spartire) significa regola, limite, misura; sopra Zeus, legislatore celeste, vigono norme fondamentali, perché nel cosmo regna la Moira, un equilibrio impersonale. Molti italiani sono nomòfobi, sordi all’idea d’una razionalità normativa, e smaniano seminando disordine. Il fenomeno esplode un secolo fa, contro Giolitti, colpevole d’essere democratico, impoetico, non eroico. Appartengono allo stesso ceppo estetismo dannunziano, retorica imperialista (l’Italia proletaria, in pectore signora del Mediterraneo), freddo cinismo reazionario (officia Alfredo Rocco, consulente d’industrie covate dallo Stato), impresa futurista (Tommaso Marinetti, uomo da mercato e vaudeville).
Scoppiata quasi dal niente una guerra europea, l’impasto virulento innesca febbri interventiste. Le infiorano profeti in cattiva giornata, vedi Gaetano Salvemini. Quel laconico cuneese tentava d’impedirla: l’Italia non ha motivo d’entrare nel mattatoio fumigante, né pare serio colpire gli alleati d’un trentennio; a parte gli aspetti morali, rischia l’osso del collo; bene che vada, uscirebbe stravolta. Lo pensano anche Senato e Camera ma fascisti ante litteram gli saltano addosso: manca poco che l’ammazzino, istigati dal poeta; era pronta la scala con cui espugnare l’appartamento. Lo salva un reparto a cavallo. Sapeva quanto poco valgano i generali: l’inetto e feroce Luigi Cadorna, venerato dal
Corriere, dissangua due armate sull’Isonzo, finché una controffensiva tattica senza pretese scardina il fronte. Aveva lasciato la porta aperta lo junior Pietro Badoglio, stella nascente, e anziché risponderne (materia gravissima, da corte marziale), sale ai vertici, presunto mago d’arte militare. Fossimo soli, sarebbe partita chiusa. Cadorna infama le truppe e scarica l’affare sul governo ventilando ipotesi d’armistizio (abietta lettera avvocatesca).
La guerra italiana finisce dopo tre anni e cinque mesi. Avevamo l’Aquila bicipite in casa. Restano un’industria bellica non convertibile, debiti, inflazione, tanti pescicani. Esplodono tensioni sociali. Imperversa il movimento violento condotto dall’ex socialista anarcoide Benito Mussolini: fornisce squadre ai padroni, applaudito dalle destre perché restaura l’ordine; e Luigi Albertini aspetta che, compiuta l’opera, restituisca gentilmente lo Stato. Se lo tiene 20 anni, 8 mesi, 25 giorni. Che sia un lungo incubo, senza cause organiche, è favola narrata da Benedetto Croce. Le ha, grosse come case. Trascinato dagli scherani, il condottiero smaltisce l’omicidio Matteotti, avendo favorevoli monarchia, gerarchie militari, Chiesa, capitalisti, magistratura, burocrati, una piccola borghesia rancorosa. Al pubblico piace come riempie la scena: rotea gli occhi; parla e scrive scolpendo nel marmo; bombarda Corfù; sostiene la lira, guida l’aereo; trebbia, scia, balla, batte il passo romano; nel cuore della notte forgia i destini d’Italia (un lume alla finestra segnala l’insonne al tavolo); e dal balcone annuncia d’avere rifondato l’Impero.
Bei tempi: i rimpianti dicono che sbornia collettiva fosse; divise, sfilate, ugole radiofoniche bellicosamente maschie, film Luce convertivano i credenti in guerrieri invincibili. Gli esperti vedono le cose nella misura reale, ma l’interesse corporativo genera un animale umano poco raccomandabile: scaltro, sicofante, servile, ipocrita, codardo, borioso, torpido, cannibale, sornione; l’archetipo è Badoglio. Il Sim gli ha fornito un informatissimo rapporto sulla Panzerwaffe (luglio 1940); e dall’alto lui commenta: «lo studieremo a guerra finita» (McG. Knox, Mussolini Unleashed, bel titolo, debolmente tradotto in La guerra di Mussolini, Editori Riuniti, Roma, 1984, 39). La dottrina sta in due righe: le macchine valgono meno dell’uomo; e gl’italiani hanno qualità sovrane d’intelletto, fibra morale, eroismo nativo. In pratica tale dogma richiede caserme piene, affinché siano tanti gli ufficiali nei gradi alti: ridotte da 3 a 2 reggimenti, le 40 divisioni diventano 70. Ipertrofia oziosa.
Siccome mancano persone abili e risorse, l’addestramento rimane a livelli primitivi. Combattere è affare tedesco: quando abbiano vinto, interverremo; così sognano gli affascinati dal Duce. I rapporti polizieschi davano fredda l’opinione pubblica durante la drôle de guerre, ottobre 1939-aprile 1940, ma venerdì mattina 10 maggio scatta l’offensiva e una falce dalle Ardenne alla Manica insacca le armate francoinglesi: allora la vox populi invoca guerra finta; cosa diavolo aspetta l’Onnisciente? Spettatori entusiasti misurano il bottino con occhi più larghi dello stomaco: Nizza, Savoia, Corsica, basi atlantiche, Algeria, Tunisia, Sudan, Kenya, Egitto, Medio Oriente; Dio sa come potessero immaginare un Hitler così idiota, sedotto dall’Infallibile.
L’epopea finisce in piazza Loreto, festa macabra. La guerra partigiana era evento d’alto valore ma sfuma l’occasione politica. Nel profondo l’anima collettiva resta qual era. Avere in casa un Pci diretto da Mosca implicava l’egemonia democristiana. Sopravvengono tempi comodi a bassa tensione morale. Quarantasette anni dopo, l’Italia scopre d’essere corrotta. Ne passano ancora 22. Era appena visibile l’affarista d’origini oscure, ciarlone in stile da commesso viaggiatore: politicanti corrotti gli vendono l’etere; monopolista del trash televisivo, regola i cervelli, disinnescando pensiero, sentimenti, gusto, e fosse due dita più alto (statura intellettuale), saremmo suoi sudditi, perché gli avversari stavano rispettosi, cappello in mano, inclini alle sciagurate “larghe intese”. Fortunatamente governava male guastandosi il gioco ma gli restano sette milioni d’elettori, più quanti voteranno l’ala separatista, pseudoripulita, pronta alla genuflessione appena lui chiami. Versiamo in uno stato liquido, surreale, dove quasi tutto può avvenire, ed è questione capitale sapere fin dove gl’italiani siano ancora vulnerabili dall’ipnosi.

La Repubblica 25.03.14