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"Meno di 15mila euro per un italiano su due e 180 miliardi in mano al 5% più ricco", di Roberto Petrini

E’ l’Italia dei paradossi, delle ingiustizie e della crisi quella che disegnano le dichiarazioni dei redditi. Il paradosso: i lavoratori dipendenti guadagnerebbero, secondo i dati fiscali, più di artigiani e negozianti con ditte individuali. L’ingiustizia: il 5% dei contribuenti più ricchi guadagna quasi un quarto del reddito, il 22,7%: più di 180 miliardi. La crisi: rispetto al 2008 ci sono 350 mila lavoratori dipendenti e 32 mila imprenditori in meno.

Le cifre diffuse ieri dal Dipartimento delle Finanze, relative all’anno d’imposta 2012, sono il termometro di un paese piuttosto provato, dove l’evasione fiscale non è affatto debellata e dove la ricchezza è assai mal distribuita. Complessivamente metà degli italiani guadagna meno di 15.654 mila euro lordi all’anno mentre un pugno di supericchi ha in mano un quarto del reddito.
Chi guadagna di più e chi dichiara di meno.
Il reddito medio dichiarato al fisco è di 19.750 euro. Chi sta sopra questo livello? Senz’altro il mondo del lavoro autonomo, professionisti, avvocati, notai, medici e commercianti, che guadagnano molto e hanno dichiarato al fisco in media circa 36 mila euro lordi annui anche se l’80 per cento di loro dichiara meno di 20 mila euro. Appena sopra la media i lavoratori dipendenti, vera macchina per le entrate prelevate direttamente in busta-paga: hanno dichiarato circa 20.200 euro annui. Mentre alla base della piramide ci sono i pensionati: 15.780 euro lordi.
Sotto la media c’è la schiera composita delle piccole imprese individuali e senza dipendenti, attività artigiane e commerciali, dove la tentazione dell’evasione è più forte: dichiarano in media 18.844 euro. Con una differenza: quando sono in contabilità ordinaria (nella quale devono evidenziare costi e ricavi ma anche movimenti finanziari) arrivano a 27.710 euro; quando invece hanno meno adempimenti con il fisco (contabilità semplificata) i loro guadagni scendono a 16.380 euro.
Da segnalare anche i cosiddetti redditi da partecipazione: sono i soci, un paio o pochi di più, di attività commerciali e di servizi sotto forma di srl o snc. «Pagano sugli utili e non sui ricavi e il sospetto di evasione
può esserci perché all’interno delle società possono essere occultati i ricavi o gonfiati i costi», spiega il tributarista Gianluca Timpone. Di fatto – se si escludono i professionisti che denunciano un po’ di più – i commercianti e gli artigiani con ditte individuali o organizzati in società a responsabilità limitata o società in nome collettivo, dichiarano meno dei lavoratori dipendenti.
La polarizzazione dei redditi.
Quanti sono gli italiani che possono
contare su un reddito lordo che va dai 200 mila ai 300 mila euro? Sono 45.259 euro, la schiera di questi fortunati è pari allo 0,11 per cento dei contribuenti italiani. Sopra i 300 mila ci sono invece 30.240 supericchi. Saranno di più di quelli che emergono dalle statistiche? Probabilmente sì, a causa dell’evasione. Di sicuro si può dire che i segnali di ricchezza diffusa ci sono: come le 113 mila abitazioni possedute all’estero da italiani per il valore di 23 miliardi. Ma il dato che descrive di più l’Italia dalla ricchezza polarizzata è quello che rivela che il 5 per cento dei contribuenti italiani detiene il 22,7 per cento dei redditi, circa un quarto. Una quota maggiore di quella posseduta complessivamente dalla metà dei contribuenti con i redditi più bassi. Mentre 10 milioni di italiani, perché sotto gli 8.500 euro o per via delle detrazioni per i figli, non arrivano nemmeno a pagare l’Irpef: sono i cosiddetti «incapienti».
La crisi lascia ancora vittime. Dal 2008 al 2012 si sono «persi» 350 mila lavoratori dipendenti i quali, oltretutto, in quattro anni hanno visto calare il proprio reddito del 4,6 per cento. Ci sono anche 190 mila pensionati in meno (anche per effetto delle misure normative sui pensionamenti introdotte negli ultimi anni), 32 mila imprenditori in meno e 138 mila soggetti in meno che dichiarano reddito da partecipazione a piccole società snc o srl. Al contrario si assiste ad un aumento dei lavoratori autonomi (+128mila) che hanno perso in termini reali il 14,3 per cento del reddito.

La Repubblica 27.03.14

"Le tribù dei separatisti", di Francesco Merlo

A chi le Tremiti? Se le contendono la Moldaunia libera, il Salento indipendente e persino la Repubblica del Sannio. Non c’è insomma solo il Veneto, con i suoi referendum, e non sono solo folclore i diecimila internauti che vorrebbero vendere la Sardegna alla Svizzera.
Al prezzo di 90 miliardi di euro il primo cantone marittimo, il ventisettesimo della Confederazione. C’è anche lo straziante problema: a chi le Tremiti? Forse alla Moldaunia dell’ingegnere Gennaro Amodeo a cui il Tar ha negato il referendum e che ora, arrabbiato come un dhauno, cioè un ‘lupo’, mi dice: «Lo hanno permesso in Veneto, a Piacenza, nelle Marche…,tranne qui a Foggia dove sono succubi della politica barese e della massoneria». La Moldaunia verrebbe fuori dall’unione del Molise più la Daunia, che è quel pezzo di Puglia foggiana che va da Cerignola sino alla porzione irpina di Benevento.
Alle Tremiti aspirano anche i romantici indipendentisti di quel ‘Salentu lentu lentu’ — Lecce Taranto e Brindisi — «che il traditore leccese Aldo Moro svendette a Togliatti» dice l’editore di Telerama Paolo Pagliaro. Il Salento «non è Italia e neanche Puglia / questo è un pizzo gettato in mare / è una frisella / è acqua e sale» (nu ghe Italia e nu è mancu Puglia, / quistu e nu pizzu calatu a mare / è na friseddra… ghe l’acqua e sale) canta Mimmo De Santis, il ‘De André di Tuglie’.
Come si vede, sono, come sempre, pittoreschi e umorali i separatisti italiani che al Sud e al Nord sognano la Catalogna, la Scozia e magari anche la Crimea e l’Irlanda. La grande novità è che si moltiplicano grazie all’effetto Internet. E i campanili svettano più alti nel web, dove ogni monade trova la sua finestra: la Rete espone e al tempo stesso nasconde, tutti gli estremismi hanno visibilità e impunità. Così gli econazionalisti lombardi di Domà Nunch (Solo noi), che si ispirano agli irlandesi di ‘Sinn Féin’ (la faccia politica dell’Ira) hanno sospeso l’attività ma non nel web dove si esprimono in un lombardo posticcio, proprio come i personaggi di Camilleri si esprimono in un siciliano posticcio: «Domà Nunch crede che i tòcch de Insubria che adess hinn divis fra Lombardia Piemont e Svizzera dovarian vess unificaa anmò».
E’ vero che solo al Nord i separatismi diventano danaro e far west, guardie padane, sindaci, imprenditori. Ma chi se la sente di dire che i neoborboni, che sabato scorso si sono riuniti a Civitella del Tronto in provincia di Teramo, sono più strampalati di ‘Terra Insubre’, ‘Brescia patria’, ‘300 lombardi’, ‘Confederazione ribelle’, ‘CoLoR44, ‘Tea Party Lombardia’? Certo, su Internet sembrano davvero due milioni i veneti di Gianluca Busato, quello dei referendum: «Dal Canal Grande al balcone di Giulietta un sì dal Veneto per tagliare il legame con Roma». Ma forse anche i duecento militanti di Civitella del Tronto sarebbero sembrati due milioni — un popolo, il popolo della Rete — se il loro raduno non fosse stato fisico ma virtuale. La Rete traveste da esercito anche i più piccoli manipoli, e le marcette separatiste diventano oceaniche secessioni: «Eppure ho visto — mi racconta Gaetano Marabello, attivista neoborbonico — sotto la pioggia sventolare bandiere venete, delle Due Sicilie, un paio di bandiere degli Abruzzi, dello Stato Pontificio, persino della Toscana». E’ appena nato il partito indipendentista ‘Toscana Stato’.
E però più selvatiche e combattive arrivano sino all’Adriatico e sino al Tirreno le tribù dei sanniti che si scoprirono leghisti e secessionisti nel 2010 quando i comuni di Benevento, Avellino e Caserta rifiutarono la spazzatura di Napoli e ora si dicono pronti ad espandersi sino a metà dell’Abruzzo, inghiottendo Isernia e Campobasso dove il grido di battaglia è quello del leader indipendentista Giovanni Muccio: «Chi ha spostato la statua del guerriero sannita dalla piazza della Vittoria?». Il Sannio batterà moneta, il Safinim (equivalente osco di Samnium), con il toro sannita che calpesta la lupa di Roma. Ed è il Sannio senza ambulanze e senza amministrazione, quello stesso che si affida alla Di Girolamo e a Mastella. E’ l’entroterra dei fattucchieri e dei frati, del padre Pio di Pietralcina che portò il Sannio nel Gargano (san Giovanni Rotondo). Sulla carta è una linea obliqua, una tangente d’Italia povera e mattoide: separatismo senza portafoglio. Nel Veneto il secessionismo è sonante mentre questo è patetico: il fatturato al nord e il pathos al sud.
I movimenti veneti sono almeno 12, da Plebiscito alla Liga, e poi Autonomia, Indipendenza, Repubblica Veneta, i Serenissimi, Progetto Nord-Est… Proprio come al sud, anche in Friuli e Alto Adige gli esagitati spacciano il nativismo per cultura: ”Parché a nostra cultura ve fa tanta paura?”. Ebbene, provate, nel brano seguente, a cancellare l’aggettivo inadatto (siciliano/ veneto) e a indovinare se è di Fabrizio Comencini (Liga Veneta) o di Gennaro De Crescenzo, neoborbonico: «Se Goethe nel suo viaggio in Italia descrive con ammirazione la terra (siciliana / veneta) la sua ricchezza, l’affabilità del popolo, pochi decenni più tardi, dopo l’annessione al Regno sabaudo, iniziarono tempi di tragica povertà e la grande diaspora del popolo (siciliano / veneto), con milioni di uomini e donne costretti ad espatriare: siciliani/veneti americani, siciliani/ veneti brasiliani, siciliani/ veneti argentini, siciliani/veneti cileni, siciliani/ veneti canadesi, siciliani/veneti australiani, ancora oggi, ovunque siano, innanzitutto e soprattutto sono siciliani /veneti».
Siciliano o veneto che sia, il fenomeno
tutto intero è malumore autoconsolatorio, l’identità contro la disfatta epocale, il nativismo contro la nazione che sembra morente, il calcio dell’asino all’odiata Roma. E però, nella cartografia delle micro secessioni, rimane povera e sola anche «la viziosa Bari», odiata quanto Roma dai sanniti, dai salentini e dai maldauni: «la Bari mangiasoldi», «la baia a luci rosse del sesso, della malasanità, degli scandali e delle mazzette». A parziale risarcimento, nella cartografia macrosecessionista, Bari diventa laboratorio. Aspira infatti alla poltrona di sindaco Michele Ladisa che, in questa saga della secessione, pensa di essere Frodo, l’hobbit Signore degli anelli. E’ il candidato unitario di almeno due organizzazioni distinte: ‘Insorgenza civile,’ che è un altro modo di chiamare il brigantaggio «che è brigantaggio — mi dice Ladisa — solo perché la storia l’hanno scritta i vincitori»; e il Movimento duo siciliano, che si rifà al territorio del regno delle due Sicilie, «ma non siamo monarchici e neppure necessariamente separatisti: vogliamo unire il Grande Sud e rinegoziare tutto con gli invasori». Ladisa, che di professione dice di essere «sindacalista degli inquilini», sta cercando l’accordo con il Movimento meridionale di Francesco Tassone, un ex giudice di Vibo Valentia; con l’Unione Mediterranea di Marco Esposito, ex Italia dei valori ed ex assessore della Giunta De Magistris che ha scritto il libro “Separiamoci”; con i comitati delle due Sicilie di Fiore Marro di Caserta; con Insorgenza civile di Napoli che fa capo a Nando Dicé e a Raffaele Colucci, sindaco di Sirignano, 15000 abitanti, provincia di Avellino: «Siamo stanchi di subire. Insorgere è giusto e per me non è solo uno slogan. « A Ladisa piacciono pure Adriana Poli Bortone (Io sud) e Raffaele Lombardo che però in Sicilia è stato condannato per concorso esterno alla mafia, riportando dunque il nativismo sicilianista e separatista alla sue origini di controllo criminale del territorio. I testi di riferimento della secessione sono, mi conferma Ladisa, «innanzituto i libri dei giornalisti Pino Aprile e Lino Patruno». Come si sa, sostengono che lo Stato italiano ha saccheggiato, ucciso e devastato peggio di Pol Pot.
A nord come al sud la nostalgia di fantasiosi paradisi perduti invita dunque la plebe, come sognava Bossi, a gettare il tricolore nel gabinetto e l’infelicità italiana si disperde in un inferno di sigle separatiste, movimenti, leghe… E Beppe Grillo, che in Rete prova quanto Manzoni avesse torto a difendere gli untori, diventa secessionista: « L’Italia è un’arlecchinata di popoli, lingue, tradizioni che non ha più ragione di stare insieme». Commenta l’Indipendenza.it, quotidiano leghista on line: «E Roma trema». L’effetto comico è involontario.

La Repubblica 27.03.14

"L’Europa vista da sinistra", di Silvano Andriani

In un suo recente articolo Martin Schulz, candidato per il Pse alla presidenza della Commissione europea, ha fatto alcune affermazioni importanti che vanno oltre la generale ripulsa della politica dell’austerità e centrano il punto chiave della differenza fra destra e sinistra in politica economica. Secondo Schulz la politica macroeconomica dell’Unione ha puntato sull’austerità «senza dall’altra parte creare uno strumento per rilanciare una domanda interna depressa e investimenti al palo» giacchè «l’Unione si è focalizzata quasi totalmente sul lato dell’offerta». La conclusione è che «la creazione di una vera politica economica a livello europeo deve essere uno dei temi centrali della prossima legislatura e di conseguenza uno dei temi centrali delle prossime elezioni europee di maggio».

Come abbiamo detto, è proprio qui che si comprende la differenza fra destra e sinistra in politica economica. Tale differenza non riguarda infatti la necessità di politiche strutturali: riguarda piuttosto il modo di in- tendere le politiche strutturali, la necessità di includere fra di esse la lotta alla corruzione e all’evasione fiscale, il buon funziona- mento dell’amministrazione pubblica e politiche industriali dirette a riorientare l’evoluzione dell’economia reale tenendo conto delle opportunità create dalla rivoluzione tecnologica, dalla globalizzazione e della necessità di una crescita più amica dell’ambiente. E riguarda il fatto che l’approccio dominante ignori che il principale problema strutturale non ha dimensione nazionale ma europea ed è la crescente divergenza di competitività tra i diversi Paesi dell’Unione.

Ma la differenza più evidente riguarda le politiche per il rilancio della domanda interna che, come sostiene Schulz, nell’approccio dell’austerità non sono contemplate, mentre sono necessarie giacché anche il motore più efficiente non funziona senza benzina e la benzina della crescita è la domanda interna (a meno che non si pensi di trasformare l’intera Europa in un enorme succhiatore di ruota che cresce aspirando la domanda di altri continenti). Ma la domanda interna si sostiene con il bilancio pubblico e con l’aumento dei redditi delle famiglie, come sta facendo il governo statunitense con risultati decisamente migliori di quelli dell’Europa.

Cambiare la politica macroeconomica per orientarla alla crescita significa concretamente abbandonare gli obbiettivi del patto di stabilità, il pareggio del bilancio e il tasso di inflazione al di sotto del 2% ed assumere, come ormai si sostiene da molte parti, come unico obbiettivo il tasso di crescita del prodotto lordo, regolando di conseguenza l’andamento del bilancio pubblico e dell’inflazione. È infatti certo che, pur in presenza di un deficit del bilancio pubblico, sarebbe possibile ridurre il rapporto debito/pil se la crescita nominale fosse consistente mentre, in una situazione di scarsa crescita o di deflazione, tale rapporto salirebbe anche in caso di pareggio di bilancio.

Avere una vera politica economica, come propone Schulz, significa coordinare la politica economica dell’Unione con quella dei singoli Stati e coordinare queste fra di loro. Ovviamente, questo non significa che tutti i Paesi debbano avere la stessa politica economica, giacché Paesi in attivo e Paesi in passivo di bilancia dei pagamenti dovrebbero agire con politiche economiche opposte per ridurre i divari di competitività e assicurare a livello europeo un’adeguata crescita della domanda attraverso la leva del bilancio pubblico e una politica dei redditi che ristabilisca nella media europea il rapporto tra la dinamica delle retribuzioni e quella della produttività, puntando soprattutto su una consistente crescita delle retribuzioni nei Paesi in attivo di bilancia dei pagamenti.

Una nuova politica economica non sarà possibile senza una banca centrale davvero in grado di operare con una politica moneta- ria orientata alla crescita e perciò in grado di finanziare a costo zero investimenti attraverso il bilancio pubblico o le imprese, come hanno fatto le banche centrali statunitense e inglese, o di finanziare gli squilibri delle bilance dei pagamenti fra i Paesi dell’area euro.

Queste proposte sono già sul tappeto insieme ad altre che riguardano, ad esempio, la parziale europeizzazione del debito degli Stati dell’Unione o la mobilitazione, attraverso il bilancio dell’Unione o tramite fondi specializzati, di consistenti parti degli enormi giacimenti di risparmio presenti nell’area e soprattutto nei Paesi in attivo di bilancia dei pagamenti per politiche di investimento di dimensione europea o nazionale dirette anche a ridurre le divergenze di competitività fra i vari Paesi.

Ora si tratta di sapere che tipo di campagna elettorale intenda fare la sinistra: se avanzare le proposte già sul tappeto che nel complesso delineano una strategia concretamente alternativa a quella dell’austerità e concretamente orientata a rafforzare l’unità politica dell’Unione, oppure se autocensurarsi sapendo che alcuni governi europei so- no contrari a tali proposte e che alcune di esse richiedono una modifica dei trattati.

Presentare una chiara linea alternativa è l’unico modo per impedire che la campagna elettorale si risolva in un confronto fra due linee di destra: quella dell’austerità ora in auge e quella della destra nazionalista, che al crescente malcontento verso le politiche dell’Unione offre come risposta l’annullamento dell’euro e la sostanziale riduzione del livello di integrazione economica e politica dell’Unione.

L’Unità 27.03.14

"La sfiducia nella scienza danneggia tutti", di Eugenia Tognotti

Semmai ci fosse (ancora) bisogno di verificare il peso e l’influenza della cultura scientifica in Italia, ecco arrivare, da una parte, le dichiarazioni del procuratore della Repubblica di Trani, balzato agli onori delle cronache per aver avviato un’indagine sul possibile legame tra vaccino trivalente e autismo. Dall’altra, le notizie su una prossima discesa in campo di diverse Procure, indifferenti ai pronunciamenti di esperti, autorità sanitarie, dello stesso ministro della salute, che hanno ribadito come manchi, allo stato attuale, ogni evidenza scientifica per sospettare un nesso di causa-effetto.

Ogni richiamo, ogni appello alla ragionevolezza ha avuto lo stesso ascolto delle proverbiali prediche di San Giovanni Battista nel deserto. Di certo non sembrano aver scalfito le certezze del procuratore di Trani che ha affermato di essersi basato – nientemeno – sul presupposto «che diverse sentenze del giudice del lavoro, competente per i risarcimenti, hanno accertato che esiste un nesso di probabile causalità». Aggiungendo di aver affidato la scelta dei periti ai carabinieri del Nas che si rivolgerà a «esperti di profilo internazionale e assoluta imparzialità». Affermazione che lascia indovinare, perlomeno, una mancanza di fiducia nel rigore e nell’obiettività di quelli che hanno condotto una mole di ricerche indipendenti in tutto il mondo, senza riuscire a trovare nessun legame tra vaccini e insorgenza della malattia. Continuano, intanto, a imperversare sul web i leader di movimenti anti-vaccinazioni che gridano al complotto delle multinazionali farmaceutiche. Mentre si levano le voci di avvocati che plaudono alla giustizia penale che si è «accorta» della correlazione potenziale vaccini-autismi. Spunta persino un’inedita specializzazione in «diritto sanitario minorile», qualunque cosa voglia dire.

Il caso aperto dall’inchiesta della Procura di Trani non è certo il solo a chiamare ad una riflessione su quello che è successo, su cosa sta succedendo tra scienza e magistratura, tra medicina e giustizia. Basterà ricordare alcune sentenze. Prima tra tutte quella emessa due anni fa dal Tribunale di Rimini – contro cui insorse, a ragione, la comunità scientifica – che ha condannato il ministero della Salute a risarcire la famiglia di un bambino autistico, riconoscendo un nesso di causalità tra il vaccino trivalente e la malattia. E, ancora, per entrare in un altro campo, quella con cui il tribunale di Bari ha disposto che l’Asl somministrasse gratuitamente ad un malato di tumore la controversa multiterapia «alternativa» Di Bella, sulla cui inefficacia esiste, da anni, un verdetto scientifico netto.

Che cosa dobbiamo aspettarci da sentenze che contraddicono clamorosamente lo stato dell’arte delle conoscenze su una determinata malattia? Alcuni danni, come quelli provocati dalla diffidenza immotivata nei confronti dei vaccini (i cui benefici in termini di prevenzione sono di certo superiori ai rischi di effetti avversi), possiamo già «misurarli». Altri dovremo verificarli a cominciare da una sfiducia crescente nella scienza che non promette niente di buono per il futuro di questo Paese.

La Stampa 27.03.14

“La Ue cambi su crescita e occupazione”, di Massimo Giannini

Voglio un’Italia che cresca di più, e in modo sostenibile. Voglio una crescita che sia molto più alta di quella che abbiamo conosciuto negli anni che hanno preceduto la Grande Crisi. E soprattutto voglio una crescita che sia ricca di lavoro, di nuova e buona occupazione, in un Paese che sia finalmente in grado di far funzionare l’economia e lo Stato in modo di gran lunga più semplice rispetto al passato. Abbiamo tre anni di tempo per cambiare l’Italia: possiamo e dobbiamo farcela». Nel solito ufficio che fu di Quintino Sella, Pier Carlo Padoan riassume così la sua «visione» dell’Italia che, renzianamente, «cambia verso». Un’Italia stretta tra i vincoli europei, «che rispetteremo tutti», e le resistenze corporative, «che non possono e non devono fermarci». Il ministro dell’Economia non nasconde le difficoltà, «che sono tante», ma si concentra sulle «opportunità», «che ci sono e vanno colte». Padoan è preoccupato dallo scossone populista che scuote l’Europa.
Le elezioni europee sono a un passo, l’onda antieuropeista cresce ovunque. Come si può arginare?
Come deve cambiare il paradigma europeo? «In Europa – risponde Padoan – abbiamo conosciuto diversi stadi di aggiustamento. L’aggiustamento fiscale, che ha dato risultati importanti sulla finanza pubblica, da non rimettere in discussione. L’aggiustamento competitivo, che ha aiutato il riequilibrio delle partite correnti, soprattutto in Paesi come la Spagna. L’aggiustamento del sistema finanziario, che ha prodotto ‘Asset Quality Review” e nuova vigilanza bancaria. Quella che è completamente mancata finora è la fase della crescita e dell’occupazione. E qui l’Europa è a un bivio. Dalla recessione può uscire in due modi. Il primo è quello che gli inglesi definirebbero ‘muddling through’: cioè vivacchiare, tra bassa crescita e deflazione. Il secondo è l’opposto: cioè crescita sostenuta, rilancio dello sviluppo e del lavoro. Ora la scelta che abbiamo di fronte è tra queste due opzioni. E la differenza tra le due la fa l’agenda di politica economica, che può cambiare radicalmente le prospettive dell’intero continente».
L’INTERVISTA
MINISTRO, questo lo dicono in molti. Ma cosa significa, in concreto?
«In un’Europa fatta di tanti Paesi, ognuno con i suoi problemi, significa adottare una strategia che, mentre contiene la crisi, affronta e risolve i problemi ‘strutturali’. So che questo termine abusato non piace a molti, ma è così. Vanno riformati mercato del lavoro, mercato dei beni e sistema fiscale, vanno semplificate norme e strutture di governance, vanno sconfitte le burocrazie e riscritte le regole elettorali. Per un Paese come l’Italia, che si accinge ad assumere la presidenza del semestre europee, queste e non altre sono le vere priorità».
Su queste priorità, obiettivamente, l’Europa ha fallito.
«In parte è così. La prova è che il Continente ristagna ormai da vent’anni, e che la crescita era molto bassa già prima che esplodesse la crisi del 2008. Ma ora finalmente qualcosa si muove. È interessante notare che nemmeno Jens Weidmann, considerato da molti il falco della Bundesbank, esclude interventi di ‘quantitative easing’ della Bce».
Nel frattempo le amministrative in Francia sono un allarme per tutti. L’Unione monetaria è davvero convenuta solo alla Germania?
«La Germania ha reagito meglio degli altri alla crisi dell’euro, perché ha fatto le riforme prima che la crisi esplodesse. Ma ha cominciato a sua volta a fare alcune concessioni. Un graduale processo di mutualizzazione delle risorse è cominciato, e basti pensare al Fondo di risoluzione delle crisi bancarie. Certo, vorrei che quel processo fosse più esteso e più veloce».
A due mesi dalle europee, Grillo e le destre lanciano la campagna contro l’euro.
«Argomento pericolosissimo. La richiesta di uscire dall’euro è la classica scorciatoia che illude i popoli. Purtroppo, visto il disagio sociale in cui vivono milioni di persone, questo messaggio fa breccia. L’unico modo per combatterlo
è riavvicinare l’Europa al suo popolo, riscrivendo l’agenda europea. Ne parlo in un libro scritto con Michele Canonica e consegnato all’editore prima di assumere questo incarico».
Renzi rilancia l’ipotesi di un uso dei fondi cofinanziati dalla Ue al di fuori del calcolo del deficit.
«Stiamo verificando. Le anticipo fin da ora che le risorse residue su cui operare sono importanti, ma non di dimensioni gigantesche».
Il premier è tornato dal suo tour europeo convinto che anche «l’Europa cambia verso», Squinzi obietta che la Merkel ci ha strapazzato. Ci dica lei, com’è andata?
«Guardi, posso dirle che nel mio incontro con il collega Scheuble, che non è certo considerato una colomba, la nostra agenda di riforme strutturali, dal lavoro alla semplificazione e alla giustizia civile, ha colpito nel segno».
Non dubito. Ma dopo gli incontri di Renzi a Bruxelles non è chiara la natura dei nostri impegni con l’Europa.
«Per quanto mi riguarda è chiarissima. Gli impegni vanno rispettati, tutti. Per noi stessi, non perché ce lo chiede l’Europa. Noi non siamo vincolati solo a Maastricht, ma anche al Fiscal compact. Dunque tutti gli scostamenti eventuali dal sentiero di risanamento strutturale programmato vanno approvati dal nostro Parlamento prima ancora che dalla Commissione europea. Per un Paese con un debito gigantesco e una crescita zero come il nostro i risultati fin qui raggiunti con tanti sacrifici vanno difesi. Aggiungo che siamo sotto osservazione continua dei mercati, che oggi ci scrutano con sguardo benigno, ma domani potrebbero cambiare atteggiamento, tra una crisi esplosiva come quella ucraina e una politica monetaria americana che potrebbe riportare in alto i tassi di interesse».
Si continua a ripetere «l’Italia rispetterà gli impegni», con riferimento a Maastricht e al 3% di deficit/Pil. Ma i vincoli più severi per noi riguardano proprio il Fiscal Compact, cioè l’abbattimento del deficit strutturale e il rientro di un ventesimo l’anno della quota di debito che eccede il 60% del Pil. Rispetteremo anche questi?
«Lo ripeto: rispetteremo tutti gli impegni. Faremo l’aggiustamento strutturale, che riguarda deficit e debito. Ma questo è il punto: ‘strutturale’, cioè con misure che riflettono l’andamento sottostante dell’economia. Questo vuol dire che, con l’effetto concreto e al tempo stesso ‘segnaletico’ della nostra agenda riformatrice, siamo convinti di far ripartire crescita, che è la via maestra per l’aggiustamento fiscale».
Il governo è partito col turbo. Ma in un mese è stato varato un solo decreto legge. A che punto siete con il Def?
«Di carne al fuoco ne abbiamo messa tanta. Stiamo lavorando alle misure concrete, che saranno il ‘cuore’ del Def e del Piano Nazionale delle Riforme. Voglio tranquillizzare chi teme che non ce la faremo con i tempi. Entro la prima metà di aprile sarà tutto fatto».
Resta ancora oscuro il tema delle coperture, a partire dal taglio del cuneo fiscale per 10 miliardi. Sono davvero coperti? E come, se non a colpi di una tantum?
«Su questo voglio dire una cosa, con assoluta chiarezza: è mia convinzione che i tagli fiscali permanenti, come quelli previsti sull’Irpef, debbano essere finanziati da coperture permanenti, cioè da tagli di spesa. E se entrate una tantum ci saranno, le destineremo ad altri impieghi, e non certo alla copertura di sgravi permanenti».
Ce la farete a far scattare il beneficio nelle buste paga di maggio? E come, detrazioni Irpef o bonus?
«Onoreremo la promessa. E lo strumento sarà quello delle detrazioni Irpef, che è appunto uno sgravio permanente».
Si è discusso a lungo se privilegiare le famiglie o le imprese. Lei è soddisfatto di com’è finito il derby Irpef-Irap, secondo la definizione di Renzi?
«Più che un ‘derby’, questa è una ‘amichevole’. In base alle simulazioni di medio termine, gli sgravi Irpef o gli sgravi Irap danno risultati simili, in termini di sostegno alla crescita e all’occupazione. Ma al di là di questo mix, l’intera politica economica del Governo è costruita per benefici a svariati segmenti della popolazione».
Non è una partita di giro finanziare il taglio dell’Irap con un aggravio sulle rendite finanziarie? E dopo la «patrimonialina » degli ultimi due governi non si penalizza troppo il risparmio?
«La nostra ipotesi di tassazione delle rendite ci allinea alla media europea. Capisco che per coprire lo sgravio Irap aggraviamo un’altra imposta. Ma c’è evidenza empirica che, anche a parità di gettito complessivo, se si tassano più le rendite e meno l’impresa e il lavoro l’economia cresce di più. È quello che vogliamo».
Eppure sindacati e Confindustria vi attaccano. Le parti sociali sono davvero il «fronte della palude»?
«L’azione di un governo si giudica nel suo insieme. Promuoverla o bocciarla per un singolo aspetto è davvero ‘unfair’. Noi lavoriamo per tutti, non per una singola parte della società italiana. Certo, nel disegnare l’azione del Governo non si ignorano le parti sociali, ma queste non potranno essere un fattore di blocco ».
Il documento Cottarelli sulla spending review affonda la lama nella carne viva della spesa pubblica. Ma persino il presidente della Repubblica dice ‘basta ai tagli immotivati’. Lei che ne pensa?
«Sul tavolo non ci sono tagli lineari, come nel passato. La revisione della spesa non è un elenco di misure-spezzatino, ma un quadro organico di risparmi. L’operazione funziona se lo sforzo è ben distribuito. Ed è significativo, e perfino simbolico, che il presidente del Consiglio abbia spostato a Palazzo Chigi la funzione della Spending Review».
Intanto i ministri stanno smontando pezzo per pezzo il piano Cottarelli…
«Mi rendo conto che questa sia l’impressione. Ma abbiamo avviato una ricognizione con i singoli ministeri e le singole amministrazioni, per definire i risparmi di spesa da inserire nel Def. Anche qui, quello che conta è il metodo: la Spending Review funziona solo se è un’operazione strutturale che mira a cambiare stabilmente i meccanismi di spesa».
Sulle pensioni interverrete o no?
«No. Su questo punto il presidente del Consiglio si è già espresso. E non c’è altro da aggiungere».
Ma di questo passo cosa resterà dei 34 miliardi di tagli «a regime» previsti di qui al 2016?
«Il piano indica un tetto massimo. Noi cercheremo di essere conservativi, per garantirci il risultato finale. Ma abbiamo anche individuato nuove fonti di risparmio».
C’è chi dice che Cottarelli è sempre più isolato. A quando l’hashtag #carlostaisereno?
«No, Cottarelli non è affatto solo. Le dirò di più: quando lavoravamo insieme al Fondo monetario giocavamo a squash, e spesso vinceva lui…».
Altra promessa, altro rischio-flop: la restituzione dei crediti della PA alle imprese. Il ddl sembra già arenato. Come farete a estinguere tutti i debiti entro luglio?
«Con il provvedimento a cui stiamo lavorando puntiamo a mettere in piedi meccanismi che accelerano il pagamento dei debiti pregressi, e a costruire un sistema per evitare che in futuro si riproducano questi ritardi. Valuteremo il tutto all’interno del Def. Ma voglio smentire che abbiamo accantonato il ddl. Non è così».
Lavoro: il decreto legge sui contratti a termine rende ancora più precaria l’occupazione. Il Jobs Act è affidato a una legge delega, che richiederà due anni di discussione. Lei non vede una contraddizione?
«Attenzione: la parola chiave della nostra manovra sul lavoro non è ‘flessibilità’, ma semplificazione. E chiarezza sugli incentivi. Quanto alla legge delega, è uno strumento che ha costi e benefici. Non possiamo intasare il Parlamento di decreti. E mi rendo conto che la delega richiede più tempo, ma è anche vero che garantirà un consenso parlamentare più ampio ».
Non le tremano i polsi, a dover attuare tante cose in così poco tempo? Non state creando troppe aspettative?
«Dobbiamo farcela. So che è retorica, ma uso sempre la formula gramsciana sull’ottimismo della volontà. Non posso non farlo, dopo che una sera di febbraio ho preso al volo un aereo da Sidney per venire qui a Via XX Settembre…».
Se ne è pentito? Già si parla di dissidi tra lei e Renzi. E non le da fastidio che a Palazzo Chigi il premier abbia creato una sorta di ministero ombra dell’Economia’?
‘Sono chiacchiere stucchevoli. I miei rapporti con Renzi sono ottimi. Qualcuno ci descrive così: lui è Mandrake, io sarei Lothar. Mi sembra una rappresentazione efficace… Ma satira a parte, auspico che a Palazzo Chigi ci sia una struttura che aiuta, perché questo aiuterebbe anche il nostro lavoro qui a Via XX Settembre. E se glielo dico io, che sono stato consigliere economico di due presidenti del Consiglio, mi deve credere».

La Repubblica 27.03.14

"Cari ragazzi difendete la vostra libertà", di Barack Obama

Questo è un momento di dura prova per l’Europa e gli Stati Uniti, come pure per l’ordine internazionale che ci siamo adoperati a costruire per generazioni. È proprio qui in Europa che, in secoli di conflitto, tra guerre e Illuminismo, repressioni e rivoluzioni, ha iniziato a prendere forma e affermarsi un insieme specifico di ideali, il principio che il potere deriva dal consenso di chi è governato, e che per tutelare questo principio si devono stabilire leggi e istituzioni. Questi ideali, però sono stati minacciati da una visione del potere più antica e più
tradizionale.
Questa visione sostiene che gli uomini e le donne comuni siano di vedute troppo corte per poter badare ai propri affari, e che ordine e progresso possono esserci soltanto quando i singoli rinunciano ai propri diritti a vantaggio di una potente sovranità collettiva.
Sotto molti punti di vista, la storia dell’Europa nel XX secolo ha rappresentato lo scontro di queste due categorie di ideali. Questa mattina nei campi delle Fiandre mi è tornato in mente come la guerra tra i popoli abbia mandato un’intera generazione incontro alla morte nelle trincee e per i gas della Prima guerra mondiale. A distanza di soli vent’anni l’estremismo nazionalista fece ripiombare ancora una volta questo continente nella guerra — con popoli schiavizzati, grandi città ridotte in macerie e decine di milioni di persone trucidate, compresi coloro che persero la vita nell’Olocausto. È in reazione a questa tragica storia che, all’indomani della Seconda guerra mondiale, l’America si alleò con l’Europa per respingere le oscure forze del passato ed edificare un nuovo edificio di pace. Da un lato all’altro dell’Atlantico abbiamo abbracciato una visione condivisa di Europa; una visione che si basa sulla democrazia rappresentativa, i diritti dell’individuo, e il principio che le nazioni possono soddisfare gli interessi dei loro cittadini con il commercio e il libero mercato; una rete di sicurezza sociale e il rispetto per chi professa una religione diversa o ha origini diverse.
Per decenni, questa visione è rimasta fortemente contrastante con la vita dall’altra parte della Cortina di Ferro. Per decenni si è combattuta una battaglia che alla fine è stata vinta, non con i carri armati e i missili, ma soltanto perché i nostri ideali hanno sollevato gli animi degli ungheresi che hanno fatto scoppiare la scintilla di una rivoluzione; i polacchi nei loro cantieri navali si sono schierati dalla parte di Solidarnosc; i cechi hanno combattuto la Rivoluzione di velluto senza sparare un solo colpo; e i berlinesi dell’Est hanno marciato oltre le sentinelle e alla fine hanno abbattuto il Muro.
Io oggi sono qui per sottolite che non dobbiamo mai dare per scontato il progresso che si è riusciti a ottenere qui in Europa, e che ha fatto passi avanti in tutto il mondo. È proprio questa la posta in gioco oggi in Ucraina. La leadership russa sta sfidando verità che soltanto fino a poche settimane fa parevano palesi: che nel XXI secolo i confini dell’Europa non possono essere ridisegnati con la forza; che il diritto internazionale ha la sua importanza; e che i popoli e le nazioni possono prendere le loro decisioni al riguardo del loro futuro.
Negli ultimi giorni Stati Uniti, Europa e i nostri partner di tutto il mondo si sono uniti nella difesa di questi ideali, si sono uniti a sostegno del popolo ucraino. Insieme abbiamo condannato l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e abbiamo respinto la legittimità del referendum in Crimea. Insieme abbiamo isolato politicamente la Russia, sospendendola dal novero delle nazioni del G8, e abbiamo circoscritto i nostri rapporti bilaterali. Insieme stiamo imponendo alla Russia e ai responsabili dei recenti avvenimenti uno scotto da pagare tramite sanzioni che hanno lasciato il segno. Non fraintendetemi: né gli Stati Uniti né l’Europa hanno interesse alcuno a controllare l’Ucraina. Noi non abbiamo spedito lì i nostri soldati. Quello che vogliamo per il popolo ucraino è che esso riesca a prendere le sue decisioni, proprio come qualsiasi altro paese libero nel mondo. Sia chiaro: non stiamo entrando in una seconda Guerra fredda. Dopo tutto, a differenza dell’Urss, la Russia non guida un blocco di nazioni o un’ideologia globale. Né gli Stati Uniti né la Nato hanno intenzione di entrare in conflitto con la Russia. In verità, per oltre 60 anni all’interno della Nato non abbiamo rivendicato le terre altrui, ma insieme abbiamo lavorato per mantenere libere le nazioni. Quello che faremo — e lo faremo sempre — è mantenere il nostro obbligo solenne, il dovere prescritto dal nostro Articolo 5, di difendere la sovranità e l’integrità territoriale dei nostri alleati. Le nazioni della Nato non si troveranno mai sole.
Naturalmente, l’Ucraina non è membro della Nato, in parte a causa della sua storia complessa con la Russia. La Russia non sarà estromessa dalla Crimea o fermata nell’escalation dalla forza militare. Ma col tempo, se rimarremo uniti, il popolo russo si renderà conto di non poter raggiungere con la forza bruta quella sicurezza, quel benessere e quello status ai quali aspira. Questo è il motivo per il quale per tutto il tempo di questa crisi abbineremo sempre le nostre forti pressioni sulla Russia a un approccio diplomatico, tenendo le porte aperte. Io credo che sia per l’Ucraina che per la Russia una pace stabile sia raggiungibile tramite un’inversione dell’escalation, con un dialogo diretto tra Russia, governo ucraino e comunità internazionale, con supervisori che garantiscono che i diritti di tutti gli ucraini sono tutelati.
Noi americani ricordiamo benissimo gli inimmaginabili sacrifici compiuti dal popolo russo durante la Seconda guerra mondiale e abbiamo reso loro onore. Dalla fine della Guerra fredda, abbiamo collaborato per allacciare rapporti culturali, commerciali e con la comunità internazionale. Insieme, abbiamo messo al sicuro dai terroristi armi e materiali nucleari. Abbiamo accolto la Russia nel G8 e nell’Organizzazione mondiale del commercio. Dalla riduzione delle testate atomiche fino all’eliminazione delle
armi chimiche in Siria l’intero pianeta ha tratto beneficio quando la Russia ha deciso di collaborare sulla base dei reciproci interessi e del mutuo rispetto. Il mondo è interessato a una Russia forte e responsabile, non a una Russia debole. E noi vogliamo che il popolo russo viva in sicurezza, prosperità e dignità come qualsiasi altro, fiero della propria storia. Ma ciò non significa che la Russia può invadere e calpestare i propri vicini. Solo perché la Russia ha radici storiche profonde in comune con l’Ucraina non significa che deve poter imporre a suo piacere il futuro all’Ucraina.
Gli ideali che ci uniscono hanno la medesima importanza per i giovani di Boston e di Bruxelles, di Giacarta e di Nairobi, di Cracovia e di Kiev. Noi sappiamo che ci sarà sempre intolleranza. Ma invece di temere l’immigrato, possiamo accoglierlo. Invece di prendere di mira i nostri fratelli gay e le nostre sorelle lesbiche possiamo utilizzare le nostre leggi per tutelarne i diritti. Invece di definirci in opposizione agli altri possiamo affermare le aspirazioni che possediamo in comune. È questo a renderci forti. È questo a renderci chi siamo.
( Dal discorso tenuto ieri davanti alla Gioventù Europea a
Bruxelles)
Traduzione di Anna Bissanti

La Repubblica 27.03.14

5000 cantieri per la buona scuola

Il 28 marzo a Rivoli la Conferenza Nazionale sull’edilizia scolastica. Si terrà venerdì 28 marzo a Rivoli (Torino) presso il centro congressi del comune in corso Francia 98, la conferenza Nazionale del Partito Democratico sull’edilizia scolastica.
La Conferenza Nazionale vedrà la presenza dei protagonisti dei processi decisionali e realizzativi del patrimonio di edifici che sono dedicati all’istruzione. Anche per questo sono previsti quatto gruppi di lavoro che avranno il compito di proporre indicazioni e misure, anche di carattere legislativo, per edifici sempre più accoglienti e capaci di corrispondere alle nuove esigenze della didattica. Il primo si occuperà degli investimenti in sicurezza, il secondo della sostenibilità ambientale, il terzo affronterà il delicato tema della responsabilità e il quarto quello della concezione dei nuovi spazi.

Interverranno il Sindaco di Rivoli Franco DESSI’, Umberto D’OTTAVIO, Parlamentare PD, Commissione Istruzione Camera dei Deputati, Davide FARAONE, Deputato PD, Responsabile Scuola Segreteria nazionale PD, Vanessa PALLUCCHI, Responsabile nazionale Scuola e Formazione Legambiente, Paolo BUZZETTI, Presidente nazionale ANCE Associazione Costruttori Edili, Manuela GHIZZONI, Parlamentare PD, Vicepresidente Commissione Istruzione Camera dei Deputati, Elena FERRARA, Parlamentare PD, Commissione Istruzione Senato della Repubblica, Antonio SAITTA, Presidente nazionale UPPI Unione Province Italiane, Sandy ATTIA, consulente Fondazione Giovanni Agnelli, Adriana BIZZARRI,Coordinatrice nazionale della Scuola di Cittadinanzattiva.

Interverrà alla fine della mattinata di relazioni Roberto REGGI, Sottosegretario Ministero Istruzione Università Ricerca. I lavori saranno conclusi, nel pomeriggio da Simona MALPEZZI, Parlamentare PD, Commissione Istruzione Camera dei Deputati.