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"Quota96. Dietro il no ragioni di bilancio, e non solo Ma così la scuola italiana continua a invecchiare", di Manuela Ghizzoni

Il personale della scuola italiana è il più maturo d’Europa, con la percentuale più alta di insegnanti ultracinquantenni e quella più bassa di under trenta. Occorre riflettere sull’invecchiamento di docenti e di personale Ata. Infatti, se è vero che possono contare su un’esperienza professionale ragguardevole, hanno sempre più difficoltà a stare al passo con il dinamismo della comunità scolastica e ad affrontarne le sfide: dall’inclusione dei ragazzi con disabilità a quella degli alunni non italofoni, dall’innovazione didattica alle esigenze dei nativi digitali, dall’apprendimento informale all’insegnamento per competenze.

Pertanto, chi può lascia e, contrariamente al passato, presenta domanda di pensionamento appena raggiunti i necessari requisiti.

Magari lo fa con rammarico, ma consapevole che a raccogliere il testimone ci saranno giovani motivati e preparati a sostenere le nuove prove della scuola. Un avvicendamento indispensabile e più urgente rispetto a qualsiasi altro settore del pubblico impiego, per ridurre la distanza anagrafica e generazionale tra docente e discente.

Ma non tutti possono lasciare: per un «errore» contenuto nella riforma Fornero – scattata il 1 gennaio 2012 – 4000 tra docenti e Ata sono rimasti impigliati nella rete delle nuove norme e il loro pensionamento, previsto per il 1 settembre 2012, è stato procrastinato di anni, in alcuni casi fino a sette. E alla porta restano 4000 giovani in attesa.

Un errore dovuto al mancato riconoscimento della specificità della scuola, riferita al fatto che i lavoratori della scuola, per le giuste esigenze di funzionalità e di continuità didattica, possono andare in pensione un solo giorno all’anno, il 1° settembre, indipendentemente dalla data di maturazione dei requisiti. Unico settore della pubblica amministrazione in cui vige tale norma. Dal gennaio 2012, sono state promosse diverse iniziative parlamentari al fine di tener conto di questa specificità, ma nessuno dei tre governi coinvolti fino ad ora è stato in grado di garantire giustizia.

Attualmente è in discussione presso la Commissione Lavoro una proposta di legge – a prima firma della scrivente, confluita nel testo base della relatrice, Antonella Incerti, sottoscritto da tutti i gruppi – che prevede che i requisiti per il pensionamento previgenti alla riforma Fornero continuino ad applicarsi ai lavoratori della scuola che li abbiano maturati entro l’anno scolastico 2011/2012. A questo proposito, presso la Commissione Bilancio, entro domani si discuterà una risoluzione – anch’essa unanime – che impegna il Governo a reperire le necessarie risorse (35 milioni per il 2014 e 100 a regime), dopo che anche l’ultima copertura ipotizzata è stata bocciata.

L’aspettativa sull’esito di questo dibattito è alta, e non solo perché attesa da oltre due anni, ma perché si registra una condivisione altissima da parte dei gruppi parlamentari frustrata dalle «ragioni di bilancio». Anche se, a bene vedere, nelle motivazioni tecniche sulle precedenti bocciature pesano valutazioni politiche, più o meno espresse: dalla mancata volontà di intervenire in favore di lavoratori attivi rispetto agli esodati – per i quali ci battiamo con la stessa intensità – alla preoccupazione di mettere mano alla riforma Fornero (sebbene l’impianto non ne venga neppure scalfito) e alla apprensione per le critiche che potrebbero giungere dagli altri lavoratori del comparto pa. Ma la scuola ha la sua specificità, che andrebbe finalmente riconosciuta: speriamo sia #lavoltabuona.

da ItaliaOggi 25.03.14

"La maschera del patriottismo", di Bernardo Valli

Il patriottismo è difensivo; il nazionalismo è aggressivo. I due giudizi, benché non sempre applicabili, sono ormai classici. Samuel Johnson diceva che «il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie», ma sbagliava, pensava in effetti al nazionalismo, espressione che al suo tempo non esisteva ancora. Il patriottismo è comunque vecchio stile. È aristocratico. Mentre il nazionalismo è moderno, sempre attuale, e populista. Marine Le Pen ha confuso i due termini. Non è la sola. Capita a tanti. La presidentessa del Front National, in queste ore ai vertici della cronaca, ha minacciato di querelare chi definisce di «estrema destra» il suo partito, e ha suggerito di chiamarlo «patriottico ».

POI, ripensandoci, ha preferito non a torto «nazional-populista ». Il termine ha radici nell’Ottocento (John Lukacs), ma riesumato e ammodernato (P. A. Taguieff) serve a indicare un movimento o una corrente di pensiero che difende il particolarismo identitario (l’individuo e non il cittadino); che si dichiara per il popolo contro le élite; che denuncia il multiculturalismo; e che rifiuta la globalizzazione. Più semplicemente che invoca il ritorno alle frontiere protettrici; che è contro l’immigrazione, in particolare musulmana; che chiede l’abolizione dell’euro ed è contro l’unificazione europea.
Quella dei Le Pen è una saga, una storia di famiglia. Se si prendono le tre generazioni viventi e se ne scandiscono le idee si scopre l’evoluzione del Front National. Ed è una vicenda molto francese. Alla sua fondazione, nel 1972, il Fn era in pieno nella tradizione dell’estrema destra. Rifiutava l’eredità della Rivoluzione francese e la filosofia dei diritti dell’uomo, si richiamava più o meno apertamente alla Francia di Vichy (che aveva collaborato con gli occupanti tedeschi durante la Seconda guerra mondiale), coltivava la memoria dei conflitti coloniali, non riusciva a nascondere l’antisemitismo e al tempo stesso era contrario all’immigrazione, in particolare araba.
Con le sue provocazioni che suscitavano scandalo e attenzione, Jean-Marie Le Pen ha tenuto vivo a lungo il Front National. Era tenuto in quarantena dai partiti democratici, vale a dire fuori dall’arco costituzionale come il Movimento sociale (neofascista) da noi, ma talvolta veniva usato nelle elezioni. Nell’86 François Mitterrand, allora presidente socialista in difficoltà, istituì il sistema proporzionale per consentire al Fn di ottenere qualche seggio alla Camera dei deputati, a scapito del centro destra. Il 21 aprile 2002 accadde un miracolo politico.
Con il 16,8 dei voti Jean-Marie Le Pen superò il candidato socialista Lionel Jospin, allora primo ministro, e affrontò Jacques Chirac al secondo turno delle presidenziali. Fu un trionfo, sia pure temporaneo. Al ballottaggio il “fronte repubblicano”, in cui si erano uniti temporaneamente sinistra e destra democratiche, lo sconfisse con facilità. Fu tuttavia un momento di gloria: un colpo di fortuna dal quale Le Pen non fu però capace di cogliere l’occasione per trasformare il partito. Non gli servì l’esempio degli altri movimenti populisti impegnati in Europa ad abbandonare i vecchi temi dell’estrema destra tradizionale e ad affrontare quelli posti dalle società del XXI secolo. Nicolas Sarkozy ha occupato gran parte del suo spazio.
Nel gennaio 2011 irrompe sulla scena Marine Le Pen, la figlia, che subito si allinea sul populismo europeo e rompe con l’estrema destra fascisteggiante, antisemita, nostalgica, ideologica, animata da sentimenti di rivincita fuori dal tempo. Non rinuncia del tutto alla xenofobia, soprattutto diretta contro gli arabi e i musulmani in generale, ma rinnova radicalmente il discorso difendendo i diritti repubblicani, quali la parità tra uomini e donne, la laicità, le libertà individuali e quelle d’opinione.
I suoi bersagli sono sempre gli immigrati, che tolgono i posti di lavoro ai francesi e approfittano dell’assistenza sanitaria, ma lei prende di petto soprattutto le banche, l’Europa, l’euro che in trent’anni ha aggravato la situazione economica e che non può che peggiorarla. Denuncia anche l’industria del lusso, prova dell’abisso tra ricchi e poveri; non risparmia le grandi aree commerciali che uccidono i piccoli negozi. L’euro è la moneta del «fascismo dorato», dei ricchi e degli istituti di credito. Marine è una pasionaria borghese populista, ammantata di nazionalismo (in questo si distingue nettamente dalla Lega italiana che è secessionista e ostile alla nazione). Il 14 luglio, anniversario della presa della Bastiglia, canta gli inni patriottici. È o era di una grande vitalità notturna e quindi un’assidua frequentatrice di night club.
Il personaggio ha un carisma grezzo che non lascia indifferenti giovani, operai, piccolo borghesi, funzionari. Ha successo più nella Francia profonda e nelle periferie che nei centri delle metropoli come Parigi o Lione. I voti le arrivano da sinistra e da destra. Ne ha perduti, pur senza essere sconfitta, persino Martine Aubry, a Lilla, dove
come sindaco socialista (ed ex ministro) sembrava invulnerabile.
Louis Aliot, 45 anni, avvocato, professore di diritto costituzionale, ex giocatore di rugby, è uno dei modernizzatori del Front National. Ne è anche il vice presidente. Da anni è il compagno di Marine Le Pen. Louis Aliot fa ormai parte della famiglia. La sua autorità dipende anche da questo e ha senz’altro pesato quando si è trattato di abolire le discussioni sulla filosofia fascista e mistica di Julius Evola. A lui viene attribuito il tentativo (sembra vano) di avere rapporti con Israele. Louis Aliot vuole che si trattino argomenti concreti. In particolare la disoccupazione e la sicurezza.
Con lui lavorano studenti di legge, tutti fedeli di Marine («marinisti »), ansiosi di fare del Fn nazionale un partito moderno. Pensano di essere già a buon punto. Per loro le elezioni di domenica ne hanno fatto il terzo partito di Francia, ma soprattutto un partito «come gli altri ». Un sondaggio dava alcune settimane fa il Fn in testa (con il 24%) alle elezioni europee del 25 maggio, davanti al Ps (19%) e all’Ump, centro destra (22%). La terza generazione dei Le Pen è rappresentata dalla più giovane deputata di Francia: Marion Maréchal-Le Pen aveva 22 anni quando nel 2012 è stata eletta all’Assemblea Nazionale. Jean-Marie, il patriarca, è suo nonno, e Marine, il presidente, sua zia.

La Repubblica 25.03.14

"Parità di genere, la sfida viene dall’Onu", di Valeria Valente e Pia Locatelli

L’umanità è composta da donne e uomini. Rispettarne l’uguaglianza riconoscendone la differenza è un segno di civiltà, che conduce alla condivisione del governo dei processi politici, culturali, economici e sociali. Si tratta di una scelta fondamentale, profonda, cui consegue chiaramente che le donne, al pari degli uomini, sono indispensabili per lo sviluppo economico e sociale dell’umanità e che la parità di genere e le politiche concrete di pari opportunità non sono il punto di vista di una parte o l’obiettivo proprio delle donne ma temi che riguardano tutti.

A mettere nero su bianco che le donne sono «soggetto politico che vuole e deve partecipare ai processi di crescita e di sviluppo» indispensabili per consentire agli Stati e ai governi di raggiungere gli obiettivi del Millennio è l’Onu, in particolare la Commissione sulla condizione femminile alla cui 58esima sessione abbiamo partecipato in rappresentanza del Parlamento italiano. Da quel punto di osservazione, in cui ci siamo trovate per qualche giorno, il voto della Camera che ha bocciato gli emendamenti all’Italicum sulla rappresentanza di genere, è apparso ancora più amaro. Mentre lì, nel quartiere generale dell’Onu, donne ed uomini provenienti da tutto il mondo si confrontavano su come sbloccare il potenziale delle donne spezzando, ove necessario, anche le catene «invisibili» o meno evidenti, e cioè quelle formate da rapporti di potere sbilanciati, norme sociali, prassi e stereotipi discriminatori consolidati, in Italia si sprecava un’opportunità storica, quella di rispondere cioè con i fatti ad una delle maggiori preoccupazioni indicate proprio dalla Commissione nel suo documento finale: la presenza ancora troppo bassa delle donne nei Parlamenti nazionali.

L’amarezza per i fatti italiani, però, non ha cancellato la straordinaria ricchezza degli incontri e dei dibattiti fatti in quei giorni che ci hanno dato la spinta per continuare con maggior impegno e determinazione, sulla stessa identica strada. Partecipare ai lavori della Commissione ci ha permesso di entrare in contatto con tante realtà, distanti dalla nostra e tra loro.

E tuttavia, su un punto tutte le partecipanti e partecipanti dei lavori della Commissione sono stati d’accordo: se molto è stato fatto in termini di equality gender nel mondo, tanto ancora resta da fare. Ecco perché crediamo che l’appuntamento dell’anno prossimo con la Commissione, quello in concomitanza con il Ventennale della conferenza delle donne di Pechino (piattaforma del 1995 che parlò di mainstreaming e empowerment ) sia un’occasione da non perdere, anche per il Parlamento italiano. Come rappresentanti dell’Italia vogliamo e dobbiamo dare un contributo forte all’agenda degli impegni post 2015. E da questo punto di vista è indispensabile che Camera e Senato si aprano all’esterno, recependo indicazioni da tutti quegli enti, soggetti e associazioni che operano quotidianamente per la costruzione delle condizioni per la libertà femminile, la parità e le pari opportunità.

In tal senso, è molto importante e dirimente che sempre più uomini si assumano la propria parte di responsabilità nel riconoscere il valore della differenza di genere e nel sentire come propria la sfida della parità. Una sfida per un nuovo e più moderno patto tra don- ne e uomini per una umanità e una comunità più rispettosa del valore e della dignità di ognuno e di ognuna. È una sfida impegnativa, ma a cosa serve la politica, se non anche a tentare strade e percorsi mai battuti?

L’Unità 24.03.14

Ferrara – I professionisti dei beni culturali: nuovi protagonisti delle politiche culturali del Paese

Salone del Restauro di Ferrara – 29 marzo 2014, h. 10,00

I PROFESSIONISTI DEI BENI CULTURALI, NUOVI PROTAGONISTI DELLE POLITICHE DEL SETTORE
Un incontro per favorire il confronto tra i professionisti dei beni culturali, archivisti, archeologi, bibliotecari, demoetnoantropologi, restauratori ed archeologi per stimolare la riflessione su quali politiche siano necessarie per le professioni del settore. Al dibattito parteciperanno i rappresentanti delle associazioni professionali ed esponenti del mondo politico e sindacale.
Promuovono: Associazione Nazionale Archeologi ANA, La Ragione del Restaturo ARR., MAB Musei Archivi Biblioteche (ICOM Italia, ANAI, AIB)
Con la partecipazione di: Archivisti in Movimento (ARCHIM), Associazione Bianchi Bandinelli, Assotecnici, Confederazione Italiana Archeologi (CIA), Storici dell’Arte in Movimento (St.Art.Im)

In una fase in cui il patrimonio culturale italiano comincia ad assumere sui media e nel dibattito politico il ruolo che merita e in cui si fanno strada nuove proposte di gestione integrata dei beni culturali, appare particolarmente opportuno promuovere iniziative di confronto tra le principali associazioni dei professionisti del settore. La recente normativa in materia di professioni non organizzate (L. 4/2013 e Dlgs. 13/2013) e l’approvazione alla Camera dei Deputati di un provvedimento legislativo per il riconoscimento dei professionisti, attualmente in discussione al Senato (s. 1249), apre infatti nuove prospettive professionali. La capacità delle realtà associative di misurarsi con i nuovi scenari e di proporre soluzioni condivise sarà decisiva per il rilancio del patrimonio culturale e per rivendicare un ruolo da protagonisti nella definizione delle politiche culturali del Paese. Al dibattito parteciperanno esponenti del mondo politico e accademico.

"Gli Usa e l’Ue volti in crisi dell’Occidente", di Gianni Riotta

Quanto tempo è passato dall’aprile 2009 quando il presidente Barack Obama, entusiasta per l’elezione, proclamava a Praga di volere «un mondo in pace, sicurezza e senza armi nucleari»? E quante stagioni son passate dall’aprile 2010, quando nella stessa capitale Ceca, Obama parlava con al fianco l’allora presidente russo Medvedev, definendolo «amico e partner…che condivide l’impegno di cooperazione»? Quanto in fretta America, Europa e Russia hanno logorato le speranze del dopo Guerra Fredda, mentre la crisi Ucraina vede la prima violazione di confini in Europa dalla caduta del Muro di Berlino.

Obama ritorna in Europa, leader ridimensionato dalla forza della Storia, non più Dioscuro infallibile, «anatra zoppa» in minoranza nei consensi, accolto con diffidenza dagli alleati –che hanno detestato la sua performance nel caso dei metadati segreti Nsa-, con preoccupazione dai sauditi, che vedrà in chiusura della missione, delusi dalla Casa Bianca su Siria e Iran. E il Cremlino di Vladimir Vladimirovich Putin gioca sempre lo stesso bluff, mettere alla prova la risolutezza di Usa e Ue, come ai tempi di G.W. Bush in Georgia, scommettendo che l’Occidente reagirà con burocratica impotenza, mascherata da «saggezza diplomatica».

L’annessione della Crimea a Mosca non ha solo offerto agli storici la data finale del «dopo Guerra Fredda», ha anche svelato la debolezza strategica di Washington e Bruxelles. Che hanno sottovalutato la Russia, crollata con il castello di menzogne dell’Urss, l’«Impero del Male» criticato da Reagan, pensando di poter allargare la Nato, dialogare con Pechino, ignorare storia e orgoglio slavo senza timori. In un libro edito da La Stampa nel 1987, che varrebbe la pena di pubblicare online, «Caro Gorbaciov, caro Natta», il grande columnist ex comunista Frane Barbieri discute del giudizio del premio Nobel Solgenitsin: L’Occidente sarà sconfitto, perché insiste nel confronto diplomatico con l’Urss, non comprendendo come il popolo russo, ostile al Pcus e al Cremlino, sia il vero interlocutore. Barbieri è scettico sul messianismo dell’autore di «Arcipelago Gulag», ma il dilemma resta irrisolto. America ed Europa non sanno ingaggiare né «il popolo russo», né il Cremlino. O sopravvalutano Mosca, come la Cia che nel 1978, mentre la studiosa Hélène Carrère d’Encausse già parlava di «esplosione dell’impero sovietico», ancora sfornava cifre mirabolanti su produzione e armamenti Urss, o prendono sottogamba l’orso, come con Putin, scontandone poi la reazione rabbiosa.

Né Obama, né gli europei, né la Nato sanno in realtà come reagire all’attacco di Putin in Ucraina. Obbligati dal Memorandum di Budapest 1994 ( http://goo.gl/d0OSrP) a preservare l’integrità territoriale ucraina (è il patto firmato da Kiev, in cambio della cessione dell’apparato nucleare sovietico), americani ed europei pendolano invece tra un gradasso minacciare sanzioni dal poco effetto, a un pavido richiedere la tutela di contratti e provviste di energia da Mosca, come fanno gli industriali tedeschi, senza pudore, con la Cancelliera Merkel (del resto l’ex premier Schroeder lavora oggi come lobbista per Putin). Il capo militare Nato, generale Breedlove, avverte che Putin ammassa truppe e mezzi corazzati al confine con la Transnistria, altri osservatori parlano di manovre ai confini ucraini, ma l’esperto di sicurezza europea Christopher Chivvis conferma al Council on Foreign Relations: è impossibile una reazione militare per sostenere Kiev, il Pentagono da anni non lascia neppure discutere piani simili per non irritare Mosca.

È dalla caduta del Muro di Berlino che europei e americani non hanno una comune strategia. Nel 2004 la Commissione Esteri della Camera dei Deputati Usa mi invitò con altri analisti, c’era Radek Sikorski oggi ministro degli Esteri polacco, per discutere di intesa atlantica, dopo la rottura in Iraq. A rileggere quel dibattito al Congresso ( http://goo.gl/Lw3lLd) sgomenta la distanza che s’è aperta. Gli europei sognano di prolungare lo status quo perduto dopo il 1945, gli americani, illusi di poter fare «pivot», guardare all’Asia anziché all’Europa, non sanno coprire le due opposte frontiere.

Quel che resta della scialba intesa Washington-Bruxelles si estenua nella trattativa Ttip, il patto di commercio e investimenti atlantico che non si firma mai, non per intoppi su tariffe e dazi, superabilissimi, ma per opposizione culturali su produzione, scuola, mercato. In Italia il blog di Beppe Grillo considera Ttip «pura follia» e lo dipinge come una piovra con cilindro e sigaro Avana che opprime il mondo; negli Usa la leader «no global» Lori Wallach è certa che «con il Ttip vogliono ucciderci»; in Francia il filosofo Pierre Manent spiega che «il libero commercio impigrisce».

L’Europa erede di De Gasperi, Adenauer, Schuman, democrazia, mercato, pace, era sicura dei propri valori condivisi, l’America erede di Roosevelt, Kennan, Kennedy, democrazia, mercato, sicurezza, altrettanto radicata nella propria tradizione. Oggi l’Occidente non è sicuro di se stesso, non ha coraggio morale, spirito di sacrificio, orgoglio culturale. Per questo Putin gioca d’azzardo, per questo la Cina sta a guardare, diffidente, mentre Usa ed Ue si baloccano tra diplomazia inane e mobilitazione militare impossibile, nell’angoscia di una mossa spericolata del Cremlino che li riporti, di botto, a Cuba 1962, così lontani dalla Praga magica di Obama 2008.

La Stampa 24.03.14

"Europa, è arrivato il momento dell’autocritica", di Paolo Soldini

L’avanzata del Front National di Marine Le Pen alle elezioni amministrative francesi non è certo una sorpresa, pur se essa pare aver assunto dimensioni peggiori delle più previsioni più nere. Così come appariva largamente pre- vedibile la stangata elettorale che ha colpito i socialisti del presidente Hollande, i quali hanno affrontato questa tornata elettorale con la zavorra di un malcontento per l’operato del governo che non era mai stato tanto alto.
Il segnale che arriva dalla Francia è inquietante. Lo è tanto più perché arriva a due mesi da elezioni europee sul- le quali grava già la minaccia di una affermazione di partiti e movimenti populisti pronti a portare nell’unica istituzione europea diretta espressione della volontà democratica dei cittadini la massiccia testimonianza del rifiuto dell’Europa che si sta facendo strada in larghi settori dell’opinione pubblica in tutti i Paesi dell’Unione.
Non è il momento delle recriminazioni, ma la sinistra e più in generale tutte le forze democratiche e europei- ste non possono non riflettere, con urgenza, sui motivi che stanno al fondo di questa deriva. È evidente che molti di quei motivi affondano nelle scelte che le istituzioni di Bruxelles (i «burocrati che nessuno ha eletto» nella vulgata purtroppo non del tutto infondata della destra) e tutti i governi dell’Unione, anche quelli che erano espressione del centrosinistra, hanno compiuto di fronte alla crisi dell’euro e dei debiti sovrani.
L’austerity ha provocato danni enormi non perché fosse sbagliata in sé, perché è vero che il disordine delle finanze pubbliche e le galoppate dei debiti andavano e vanno frenate, ma perché la si è imposta a colpi di trojka, sulle baionette delle insensibilità sociali e di una fede insensata nelle virtù autoregolative dei mercati. Gli ayatollah del neoliberismo – come Jacques Delors definiva la signora Thatcher e i suoi epigoni negli anni 80 – hanno stravinto. E in un certo senso continuano a vincere perché il populismo sfrenato dei vari Le Pen, xenofobi alla Geert Wilders, leghisti e beppigrilli in fondo sono l’altra faccia della loro medaglia. I primi hanno mostrato che si può uccidere la politica pensando agli interessi delle banche invece che a quelli delle persone, i secondi ora infieriscono sul cadavere.
È tardi per rimediare ai danni? Ci sono molti segnali di una presa di coscienza del fatto che il pensiero unico
economico praticato almeno dal 2008 in poi ha prodotto solo disastri, o che almeno non è più praticabile con le durezze che abbiamo sperimentato. Certamente qualcosa è cambiato nei partiti della famiglia socialista. Lo si è visto al recente congresso del Pse a Roma, nelle proposte avanzate dalla Spd in Germania, nelle riflessioni in atto tra i laburisti britannici e anche dai propositi del nuovo governo di Roma (pur- troppo in Francia non lo si è visto affatto).
Una certa consapevolezza forse va facendosi strada anche tra le forze moderate del centro. Ma dobbiamo considerare che c’è anche il rischio che proprio le forze conservatrici reagiscano alla possente concorrenza che si va formando alla loro destra con l’illusione di poter blandire l’antieuropeismo di pancia così tanto diffuso.
Mai come adesso è necessaria una battaglia di idee, una crociata di chiarezza su che cosa è veramente l’Euro- pa. Perché deve essere diversa, certo, ma deve essere più integrata, con istituzioni più forti e una grande attenzione alla propria legittimazione democratica.

L’Unità 24.03.14

«Via Fani, gli 007 proteggevano le Br», di Massimo Solani

Trentasei anni dopo la strage di via Fani e con una nuova commissione di inchiesta che potrebbe vedere la luce presto, l’agguato in cui venne rapito Aldo Moro e trucidati i cinque uomini della scorta, si arricchisce di un nuovo mistero. Rivelazioni che sollevano nuove ombre su un presunto coinvolgimento di uomini dello stato e su coperture di cui le Brigate Rosse avrebbero goduto. Un mistero che ruota attorno alla misterioso moto Honda blu presente sulla scena dell’agguato la mattina del 16 marzo del 1978 e i suoi due passeggeri che aprirono il fuoco contro l’ingegnere Alessandro Marini, uno dei testimoni della strage. Due persone che secondo i brigatisti Mario Moretti e Valerio Morucci non avrebbero avuto nulla a che fare con le Br. A sollevare i nuovi dubbi è Enrico Rossi, ispettore di Polizia in pensione per anni all’antiterrosimo. È lui, dopo un lungo silenzio, a raccontare all’Ansa la nuova «verità». «Tutto è partito da una lettera anonima scritta dall’uomo che era sul sellino posteriore». Secondo Rossi i due appartenevano ai servizi segreti, e avevano il compito di «proteggere» l’azione delle Br. «Dipendevano dal colonnello del Sismi Camillo Guglielmi – prosegue Rossi – che era in via Fani la mattina del 16 marzo 1978». Secondo la ricostruzione tutto nasce da una lettera anonima inviata a un quotidiano nell’ottobre 2009. Que- sta la lettera, diffusa dall’Ansa, che l’anonimo avrebbe lasciato ordine di consegnare dopo la sua morte per un cancro: «La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br da disturbi di qualsiasi genere». L’anonimo, a sostegno delle sue affermazioni, aveva fornito anche elementi utili a rintracciare quello che sarebbe stato il pilota della moto. Fra questi il nome di una donna e l’indirizzo di un negozio di Torino. «Tanto io posso dire – concludeva – sta a voi decidere se saperne di più».
Quella lettera, racconta oggi Rossi, fu inoltrata dal quotidiano alla procura per poi finire casualmente nel febbraio 2011 sulla sua scrivania all’antiterrorismo. Non ha un numero di protocollo e nessuno sembra essersi preso la briga di fare ulteriori accertamenti. Rossi li fa, o almeno così racconta, e in poco tempo identifica il presunto guidatore della Honda di via Fani. Quello che, secondo il racconto fatto da Alessandro Marini agli inquirenti subito dopo l’eccidio (i proiettili esplosi contro di lui avevano colpito il parabrezza del suo motorino), era un giovane di 20-22 anni, molto magro, con il viso lungo e le guance scavate, che a Marini ricordò «l’immagine dell’attore Edoardo De Filippo». Seduto dietro invece, secondo le parole dell’ingegnere che dopo la sua testimonianza ricevette minacce per anni prima di trasferirsi in Svizzera, un uomo con il passamontagna nero che sparò con un mitra (forse la misteriosa ottava arma che avrebbe aperto il fuoco a via Fani) verso di lui perdendo poi il caricatore durante la fuga. Su chi fossero quei due sino ad oggi tante ipotesi (due autonomi romani, uomini della ‘ndrangheta o gente dei servizi, come ipotizzò il pm romano Antonio Marini) e una sola certezza: «non c’entrano con noi», dissero i vertici brigatisti nel corso dei processi.
«Non so bene perché ma questa inchiesta trova subito ostacoli – spiega oggi Rossi – Chiedo di fare riscontri ma non sono accontentato. L’uomo su cui indago ha, regolarmente registrate, due pistole. Una è molto particolare: una Drulov cecoslovacca, pistola da specialisti a canna molto lunga, di precisione. Assomiglia ad una mitraglietta. Per non lasciare cadere tutto nel solito nulla predispongo un controllo amministrativo nell’abitazione. L’uomo si è separato legalmente. Parlo con lui al telefono e mi indica dove è la prima pistola, una Beretta, ma nulla mi dice della seconda. Allora l’accertamento amministrativo diventa perquisizione e in cantina, in un armadio, ricordo, trovammo la pistola Drulov poggiata accanto o sopra una copia dell’edizione straordinaria cellofanata de La Repubblica del 16 marzo». «Nel frattempo – continua Rossi – erano arrivati i carabinieri non si sa bene chiamati da chi. Consegno le due pistole e gli oggetti sequestrati alla Digos di Cuneo. Chiedo subito di interrogare l’uomo che all’epoca vive in Toscana. Autorizzazione negata. Chiedo di periziare le due pistole. Negato. Ho qualche “incomprensione” nel mio ufficio. La situazione si “congela” e non si fa nessun altro passo, che io sappia». «Capisco che è meglio che me ne vada – conclude Rossi che ha deciso di rompere il silenzio su questa storia soltanto oggi – e nell’agosto del 2012 vado in pensione a 56 anni. Tempo dopo, una “voce amica” di cui mi fido m’informa che l’uomo su cui indagavo è morto dopo l’estate del 2012 e che le due armi sono state distrutte senza effettuare le perizie balistiche che avevo consigliato di fare. Ho aspettato mesi. I fatti sono più importanti delle persone e per questo decido di raccontare l’inchiesta “incompiuta”». Una inchiesta che, secondo quanto trapelato, al momento potrebbe essere arrivata alla procura di Roma dove è tutt’ora aperto un fascicolo sul caso Moro.

L’Unità 24.03.14

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Altre rivelazioni sul caso Moro e il solito depistaggio dei Servizi”, di MIGUEL GOTOR

UNA nuova rivelazione – l’ennesima – cade sul cosiddetto caso Moro, ma non si tratta di un fulmine a ciel sereno. Infatti, ciò avviene alla vigilia dell’istituzione di una nuova Commissione di inchiesta parlamentare sulla tragica vicenda ed è verosimile aspettarsi che altri segnali di questo tipo si susseguiranno nei prossimi mesi.
Con senso di responsabilità e doverosa prudenza bisognerà verificare l’attendibilità di queste informazioni. E, anche in questo caso, siamo sicuri che la magistratura non mancherà di accertarne la fondatezza.
A quanto è dato conoscere ci troviamo davanti a un ispettore di polizia in pensione il quale sostiene che sulla moto Honda presente in via Fani c’erano due agenti segreti al servizio del colonnello dei carabinieri Camillo Guglielmi (effettivamente presente sulla scena dell’agguato pochi minuti dopo il fatto) con il «compito di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere». I due agenti, però, non possono essere ascoltati perché sono entrambi defunti e l’arma che avrebbero utilizzato nella circostanza, seppure ritrovata dal signor Rossi in anni recenti, sarebbe andata nel frattempo distrutta.
La prima sensazione è quella di trovarsi davanti a un classico tentativo di disinformazione che mescola il vero al falso: da un lato, indirizza e sottolinea, invitando i futuri membri della Commissione Moro a concentrare la propria attività sulla presenza di una moto Honda con a bordo due passeggeri non identificati; dall’altro, orienta e depista perché sposta l’attenzione sui servizi segreti nostrani (quelli militari legati al Sismi) potendo contare su un orizzonte d’attesa della pubblica opinione incline alla dietrologia o al più totale scetticismo.
L’impressione è che continui a svolgersi un’annosa battaglia fra reduci e i rispettivi mondi di riferimento: ex agenti dei servizi civili e militari, ex membri dell’Ufficio affari riservati della polizia, ex carabinieri che con i loro ultimi colpi di coda alzano la sabbia sul fondale della grotta dei misteri del “caso Moro”. L’obiettivo è quello di intorbidire le acque, in modo da intrappolare quanti (studiosi, giornalisti, politici, cittadini) ritengono doveroso sul piano civile raggiungere una verità credibile su quella drammatica vicenda.
Proviamo a diradare quel fango, facendo il punto della situazione. A distanza di 36 anni dalla strage di via Fani, il numero di quanti vi parteciparono è incompleto. Da una serie di testimonianze oculari convergenti è possibile dedurre che presero parte all’agguato perlomeno altri due individui, i quali agirono a bordo di una moto Honda di colore blu. Il testimone principale, l’ingegnere Alessandro Marini, che fu a lungo minacciato da telefonate anonime, riuscì a schivare dei colpi sparati dal sellino posteriore della moto che infransero il parabrezza del suo motorino. Anche un poliziotto che passava per caso di lì, Giovanni Intrevedo, confermò di avere visto sfrecciare «una moto di grossa cilindrata con due persone a bordo».
Va ricordato che colui che sedeva dietro il guidatore «assomigliava in modo impressionante a Eduardo De Filippo» e nel dicembre 1978 furono individuati cinque nomi rispondenti a tale caratteristico identikit: un anarchico, un brigatista rosso, un membro delle Unità comuniste combattenti e due militanti appartenenti alla “sinistra rivoluzionaria”.
I capi brigatisti, nonostante l’evidenza dei fatti, hanno sempre smentito la circostanza. Ad esempio, Mario Moretti, riferendosi proprio all’episodio di Marini e senza avvertire il benché minimo imbarazzo, ha potuto dichiarare a Rossana Rossanda e Carla Mosca: «può darsi che un testimone, suggestionato dal clamore dell’avvenimento, riferisca in buona fede qualcosa che magari aveva visto mezz’ora dopo oppure il giorno prima. Non lo so proprio. Di sicuro noi non usiamo nessuna Honda e non c’è nessun compagno a fare il cowboy in motocicletta».
Si presume che i brigatisti siano tuttora mossi dall’intento di non rivelare agli inquirenti i nomi dei due motociclisti, entrambi condannati per tentato omicidio. Ma è pur vero che nel corso degli anni sia Germano Maccari sia Rita Algranati, malgrado fossero sfuggiti alle indagini della magistratura, sono stati denunciati dai loro stessi compagni e condannati a pene durissime che avrebbero altrimenti evitato. Ciò lascerebbe pensare che il muro di omertà riguardante la Honda blu sia ancora oggi particolarmente problematico da rompere, non tanto sul piano dei rapporti personali, ma su quello, ben più delicato, dell’identità politica delle Brigate rosse, ossia delle relazioni intercorrenti tra questa organizzazione e le altre componenti il cosiddetto “partito armato”. La seducente rivelazione del signor Rossi va proprio in questa direzione: chiede di non approfondire questo cruciale aspetto, ancora vivo e condizionante, e consiglia piuttosto di inseguire il fantasma di due agenti segreti defunti, magari sulle struggenti note di una canzone che il grande Eduardo tanto amava: “chi ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato…scurdammoce ’o passato, simmo in Italia paisà”.

La Repubblica 24.03.24