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"I giovani in fuga dalle università del Sud", di Pietro Greco

I giovani stanno lasciando il sud. E quelli che restano, stanno lasciando gli studi. La nuova divaricazione è drammatica, perché è sia tra il Mezzogiorno e il resto del Paese, sia tra il Mezzogiorno e l’alta formazione. La conferma viene dal Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2013 reso pubblico nei giorni scorsi dall’Anvur, l’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e la ricerca.
La crisi dell’università riguarda l’Italia intera. Perché se il numero di laureati dal 2005 al 2011 è stabile intorno ai 300.000 l’anno, il calo delle immatricolazioni è netto. Dalle 338.000 raggiunte nell’anno accademico 2003/2004 si è scesi ad appena 270.000 nel 2012/2013, con una perdita sec- ca del 20%. È un’autentica fuga dall’università. Un dato allarmante per l’intero Paese. Vi- sto che, secondo l’Ocse, il numero dei laureati in Italia raggiunge appena il 20% della popolazione in età compresa contro i 25 e i 34 anni; contro il 40% della media Ocse; il 60% circa di Giappone, Canada e Russia; il 64% della Corea del Sud. Certo, la frase è abusata: ma come dirlo, altrimenti? Con queste disparità, l’Italia si sta giocando il proprio futuro e il proprio ruolo nel mondo. Basterebbero solo questi dati a imporre di portare il problema dell’università italiana in cima all’agenda politica del Paese. Ma l’allarme raggiunge un livello, se possibile, ancora più alto quando si analizza la distribuzione geo- grafica della fuga. Le immatricolazioni, infatti, sono in calo del 10% al Nord, del 25% al Centro e arrivano addirittura al 30% nel Mezzogiorno. Sono dunque i giovani del Sud quelli che fuggono dalle università. Proprio i giovani di quelle regioni in cui la crisi economica morde di più e in cui la sola risorsa possibile su cui puntare è la cultura. Sono i giovani del Mezzogiorno che stanno rinunciando a considerare la formazione come un’opportunità. È stata la crisi economica che ha determinato una divaricazione di percezione: nell’anno 2005/2006, infatti, i giovani meridionali iscritti all’università aveva raggiunto quello dei giovani settentrionali (674mila contro 679mila). Nei sei anni accademici successivi, i giovani settentrionali iscritti sono leggermente aumentati (fino a 685mila), mentre il numero dei giovani meridionali è crollato a 613.000 (meno 9,2%).

Questa fuga dei giovani meridionali dalle università modifica i termini dell’antica e mai risolta «questione meridionale». Che ora non è più solo economica e sociale. Ma è sempre più una questione, appunto, culturale. Che non è una dimensione eterea. Al contrario, è una dimensione che ha effetti concreti. Continuando ad analizzare i dati, infatti emerge, che tra i pochi giovani meridionali che si iscrivono all’università, uno su quattro (il 25,4% del Mezzogiorno continentale e il 25,0% delle Isole) sceglie un ateneo fuori dalla propria regione. Contro il 9,0% dei giovani del Centro, l’8,8% dei giovani del Nord-Est e l’8,0% dei giovani del Nord-Ovest. Una quota parte importante dei giovani meridionali che si iscrivono fuori regione, va a studiare nelle università del Centro e del Nord. Dunque a lasciare il Sud non sono solo i laureati (170.000 negli ultimi dieci anni, secondo un recente studio di Unioncamere) che non trovano lavoro dalle loro parti, ma anche gli studenti. Ci sono dunque due fughe dei giovani meridionali. Una dagli studi superiori. L’altra dalle università del Sud verso le università del Centro e del Nord. Entrambe stanno determinando l’erosione della classe dirigente futura. Ma l’emorragia dei giovani è tale che, si calcola, una regione come la Basilicata potrebbe subire un vero e proprio calo demografico, con una popolazione che potrebbe diminuire di 50.000 unità su 574mila (quasi il 10%) nei prossimi anni.

Tutto questo il Sud non può permetterselo. Ma neanche l’Italia può permettersi un Mezzogiorno sempre più deprivato di giovani, di cultura e di classe dirigente. Come se ne esce? La domanda è della massima urgenza. E la risposta, in tutte le sue articolazioni, prevede un urgente intervento di natura politica. Prevede che la politica ponga la «nuova questione meridionale» in cima alla sua agenda. Certo, occorre muovere le leve economiche. Per far sì che emerga, nel Mezzo- giorno e non solo nel Mezzogiorno, un nuovo sistema produttivo che chieda giovani altamente qualificati. Ma occorre anche modificare profondamente quella politica dell’università che da anni sta spostando risorse, finanziarie e umane, dalle università del Sud verso le università del Centro e soprattutto del Nord.

Certo, molti atenei meridionali devono migliorare la qualità della didattica e della ricerca. Devono riformare se stessi, per espungere ogni forma di nepotismo e di cattiva organizzazione. Ma non è chiudendole o ridimensionandole, che si risolve il problema della qualità delle università nel Mezzo- giorno. Al contrario: solo una politica di espansione, con più risorse finanziarie e umane, può aiutare l’intero sistema universitario e l’intero Paese a uscire dalla condizione di marginalità cognitiva (e, quindi, economica) in cui ci stiamo cacciando.

L’Unità 24.03.14

"Solo una matricola su due arriva a conquistare la laurea", di Walter Passerini

È stata una settimana di passione per l’istruzione italiana. Prima l’insoddisfazione dei diplomati (il 41% dichiara di aver sbagliato a scegliere la scuola; dopo un anno gli stessi si dichiarano pentiti della scelta nel 44% dei casi, spiega il Rapporto AlmaDiploma). Poi i ritardi e il disorientamento dei laureati, che chiamano in causa orientamento e servizi di accompagnamento. Questa a volta ad affermarlo è il primo Rapporto biennale sullo stato del sistema universitario e della ricerca, realizzato dall’Anvur, l’ente di valutazione del sistema universitario, che ci spiega la drammatica dispersione tra immatricolati e laureati italiani: quasi uno su due non ottiene la laurea. Troppi dottori? Il Rapporto segnala che negli ultimi vent’anni c’è stato un aumento di laureati. “Tra il 1993 e il 2012, infatti – spiega Roberto Torrini, direttore generale Anvur e coordinatore del Rapporto – la quota dei laureati sul totale della popolazione in età da lavoro è salita dal 5,5 al 12,7%; tra i giovani in età compresa tra i 25 e i 34 anni si è passati dal 7,1 al 22,3%”. A confronto, la Germania è al 29%, il Regno Unito al 45%, la media europea è al 35%. Come è successo in tutti i paesi anche l’Italia ha superato la concezione elitaria dell’istruzione universitaria per imboccare la strada dell’istruzione di massa. Questo fenomeno fisiologico, specie dopo la riforma del 2000, ha suscitato polemiche e pregiudizi, a cui è seguita una convinzione diffusa quanto scorretta, quella cioè che “nel nostro paese vi sia un eccesso di laureati”. In realtà, i confronti internazionali rivelano che l’Italia è uno dei paesi con la più bassa quota di laureati in assoluto, tra gli adulti e tra i più giovani. C’è stato uno scivolamento progressivo: rispetto alla parallela crescita dell’istruzione universitaria nei diversi paesi, non si è ridotto lo scarto rispetto ai valori medi europei. “Il ritardo italiano nei tassi di laurea sembra dipendere in gran parte dal basso tasso d’immatricolazione tra i giovani adulti (forse già impegnati sul lavoro) e da bassi tassi di successo degli iscritti nel confronto internazionale. Parte delle differenze con gli altri Paesi potrebbero dipendere dalla mancanza in Italia di un’offerta di corsi terziari professionalizzanti, che nella media Ue ha un peso di circa il 25%sul totale dei laureati. La quota dei giovani tra i 20 e i 24 anni con almeno un diploma di scuola secondaria superiore è in Italia ormai allineata alla media europea e non può quindi spiegare per i più giovani il ritardo nei tassi di conseguimento della laurea. Risulta invece bassa la quota complessiva di diplomati che intraprendono una carriera di studi universitaria in un qualche momento della loro vita. L’università italiana non riesce ad attrarre studenti maturi: gli immatricolati con almeno 25 anni di età sono infatti appena l’8% del totale, contro un valore medio del 17%. In Italia poi il tasso di successo negli studi universitari è ancora molto basso: su 100 immatricolati solo 55 conseguono il titolo a fronte di una media europea di quasi il 70%”. Dopo il primo anno circa il 15% abbandona gli studi nella triennale e altrettanti decidono di cambiare corso. Gravi ritardi Il tempo medio di conseguimento della laurea triennale è di oltre 5 anni. Per una laurea a ciclo unico di sei anni ce nevogliono7,4. Il fatto che quasi un terzo degli immatricolati abbandoni o cambi corso di studio dopo il primo anno indica la difficoltà del passaggio dalle scuole superiori all’università: «Ciò è dovuto – conclude il Rapporto – all’inefficacia dell’orientamento formativo, a deficit di preparazione degli studenti, alla debolezza del tutoraggio per gli immatricolati». I dati sulla dispersione, sulla regolarità degli studi e sul tempo medio per laurearsi rivelano infine una forte dispersione del sistema con costi sicuramente elevati a livello generale (tra tutti il ritardo nell’ingresso nel mondo del lavoro).Nonostante i luoghi comuni sul mercato del lavoro la laurea sembra offrire migliori opportunità rispetto al diploma. La crisi ha colpito i più giovani,magli effetti sono stati peggiori per quelli che hanno un livello d’istruzione più basso​.

La Stampa 24.03.14

"Il nostro patrimonio artistico in bilico tra pubblico e privato", di Salvatore Settis

A chi tocca tutelare e promuovere il nostro patrimonio artistico? Lo svuotamento di risorse degli uffici di tutela e le conseguenti disfunzioni hanno fatto venire di moda la diceria che le Soprintendenze sono enti inutili, da eliminare. Quando la nave affonda, tutti se ne accorgono ma nessuno si prende la colpa: si fa prima a cercare un capro espiatorio. Così da una settimana all’altra la patria è salva se si aboliscono le Province, se chiude il Senato, se si smontano i Beni Culturali. Questa voglia di rottamare tutto e tutti, spacciata per moderna, non ha niente di nuovo: è del 1950 un intervento alla Camera del liberale Epicarmo Corbino su «l’enorme discredito» che getta sullo Stato chi dice «se si vuol fare una cosa seria, serviamoci di tutto, tranne che degli organi dello Stato».
L’ultimo libro di Sabino Cassese ( Governare gli italiani. Storia dello Stato), appena pubblicato dal Mulino, offre un lucidissimo sguardo di lungo periodo sul tarlo che rode l’organizzazione della cosa pubblica. Da sempre chi ci governa gonfia l’amministrazione di nuove funzioni e strutture con una mano, con l’altra la delegittima perché lenta, pletorica, inefficace. A lungo la soluzione per snellirla fu di creare aziende autonome (come le Ferrovie dello Stato, 1905) o enti pubblici (come l’Iri, 1933). Questo «processo di fuga dallo Stato» ne diventa, scrive Cassese, «un fattore di disaggregazione». È qui che si è innestato lo slogan di Reagan, «lo Stato non è la soluzione, è il problema»: l’impulso a privatizzare, spacciato per modernissimo, è tutto in questa frase datata 1981.
Ma la politica continua il gioco delle tre carte, delegittima lo Stato per asservirlo a sé: dopo la riforma del pubblico impiego (1993), la dirigenza è stata precarizzata, i concorsi per merito sono l’eccezione e non la regola, la competenza è esiliata, «il vertice amministrativo è composto di persone transeunti». «La politicizzazione del vertice si estende alla periferia, con assunzioni dettate da criteri di patronato politico, non da quello del merito». Si formano, in nome di una “flessibilità” contrabbandata per funzionale, legioni di precari, che impediscono di bandire concorsi e premono per assunzioni ope legis.
Tutto contro la Costituzione (artt. 97-98), secondo cui «il personale pubblico dovrebbe esser retto dal principio di neutralità perché al servizio esclusivo della Nazione»: reclutamenti discrezionali e successive stabilizzazioni sono pertanto «un aggiramento della Costituzione». Lo Stato svaluta se stesso, delega funzioni a terzi e assume non per competenza e merito, ma secondo appartenenze e fedeltà.
Le Soprintendenze ai Beni Culturali, devastate dall’efferato dimezzamento dei bilanci perpetrato dal duo Tremonti-Bondi (2008), fanno solo in parte eccezione: da un lato i livelli dirigenziali sono sottoposti al voto di ubbidienza imposto dalla politica, ma il centro è ipertrofico rispetto agli uffici territoriali su cui pesano le funzioni costituzionali di conoscenza e tutela. Dall’altro, la mancanza di
turn over (età media 57 anni) ha lasciato nelle soprintendenze molti funzionari assunti per competenza e per merito, che talora osano ancora opporsi alle voglie del politico di turno. Perciò spesso chi se la prende con le Soprintendenze o ne reclama l’abolizione non punta su una maggior funzionalità dell’amministrazione, ma su un suo totale asservimento alla politica: questo il senso di ripetute invettive del sindaco di Verona (il leghista Tosi) ma anche del sindaco di Firenze, ora presidente del Consiglio. A una frase di Renzi si ispira un professore di Architettura ( Corriere, 3 marzo), secondo cui le Soprintendenze sono «un intralcio» e vanno soppresse; ma vuole affidarne le funzioni, guarda caso, alle facoltà di Architettura.
Questo il quadro entro il quale con monotone litanie si invoca da vent’anni l’intervento dei privati, inteso come supplenza a uno Stato in ritirata. In una recente intervista, il ministro Franceschini si è mostrato consapevole della differenza fra mecenatismo e sponsorizzazione (che in Italia sfugge ai più), e ha giustamente indicato come modello da seguire l’accordo del Ministero con la Fondazione Packard per gli scavi di Ercolano. “Mecenatismo” è infatti solo la donazione volontaria e senza alcun corrispettivo economico se non (com’è negli Stati Uniti, e dovrebbe essere da noi) qualche vantaggio fiscale. Tutt’altra cosa è la presenza di ditte private che fanno quello che dovrebbe essere il core business dei musei (ricerca conoscitiva, mostre, programmi educativi): al Louvre o al Metropolitan a nessuno verrebbe in mente di appaltare una mostra a un privato. Ma il mecenatismo privato non può funzionare, se non in un quadro garantito da finanziamenti pubblici adeguati, come oggi non è.
Lo ha scritto Eugenio Scalfari in queste pagine (11 novembre 2008): «cultura, ricerca, beni culturali, patrimonio pubblico, paesaggio sono considerati elementi opzionali dei quali si può fare a meno. Ma non si tratta di spese bensì di investimenti che, per loro natura, non possono esser interrotti senza causare nocumento e deperimento gravissimi. (…) La condizione in cui versano da anni le nostre Soprintendenze è quanto di più misero si possa immaginare: personale ridotto al minimo, sedi vacanti da tempo, servizi pressoché inesistenti. (…) Sarebbe necessario chiarire una normativa confusa, fonte di abusi continui che hanno devastato il nostro territorio disseminando mostri architettonici, lasciando deperire monumenti di importanza mondiale, occultando il mare con una cortina edilizia che ne ha confiscato la pubblica fruizione. (…) Da qui l’esigenza di una politica di tutela e di valorizzazione che sia unificata nei poteri e nelle competenze; tale unificazione non può avvenire che in capo allo Stato, il solo che sia depositario di una visione generale». Perciò occorre non solo indicare un modello positivo di mecenatismo, come Franceschini ha già fatto, ma anche tenere a bada il patriottismo for profit di chi investe in beni culturali solo per averne un rientro economico (basterebbe seguire l’ottimo esempio della Francia). Ancor più importante è però tornare almeno ai livelli di investimento pubblico ante 2008 (già allora insufficienti), poiché i contributi privati sono virtuosi solo se si innestano su forti politiche pubbliche. In nome della Costituzione (art. 9), ma anche delle buone pratiche diffuse in tutto il mondo. In questo come in altri settori, il buon funzionamento delle istituzioni non è il problema. È la soluzione.

La Repubblica 24.03.14

"Ricordare via Tasso e Fosse Ardeatine. Dovere comune per Sinistra e Destra", di Dino Messina

Oggi ricorrono settant’anni dal massacro delle Fosse Ardeatine, la rappresaglia con cui i nazisti che occupavano Roma risposero all’attentato di via Rasella del giorno precedente. Il 23 marzo 1944 uno studente di medicina travestito da spazzino aveva portato un carrettino della nettezza urbana carico di 18 chili di tritolo e spezzoni di ferro in via Rasella, dove ogni giorno passava l’XI compagnia del III battaglione SS Bozen. L’azione era stata decisa in gran segreto dal comando dei Gap (Gruppi di azione patriottica), presente in forze sul luogo, il compito più difficile era stato affidato dal comandante Carlo Salinari allo studente Rosario Bentivegna, che riuscì a far esplodere il carrettino e a fuggire. Le vittime nel battaglione Bozen furono 32.
Per i tedeschi un’onta da cancellare subito. Dopo convulse telefonate con Berlino si decise per dieci italiani ogni tedesco ucciso. I solerti esecutori andarono oltre e gli italiani condotti alle Fosse Ardeatine furono 335.
Più volte è stata smentita la leggenda secondo la quale sui muri di Roma vennero affissi manifesti che invitavano i partigiani responsabili dell’attentato a consegnarsi. La rappresaglia fu condotta in gran segreto e soltanto il 25 marzo sul Messaggero comparve la prima notizia dell’accaduto. Tra le vittime delle Fosse Ardeatine c’era gente senza alcuna responsabilità politica, detenuti comuni, molti ebrei e tanti partigiani finiti nelle mani degli aguzzini nazisti. Un nome per tutti, il colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo, capo del fronte militare clandestino a Roma, considerato da Herbert Kappler un nemico personale e deportato assieme ad altri compagni alle Fosse Ardeatine dalla prigione di via Tasso, uno dei luoghi di tortura delle SS diventato museo della Resistenza. Bene ha fatto il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini a dedicare a via Tasso la sua prima visita ufficiale. Una scelta criticata ieri sul Giornale in una lettera aperta di Gianfranco de Turris. Peccato. Certi valori dovrebbero essere patrimonio comune di destra e sinistra.

Il Corriere della Sera 24.03.14

"Nel 2013 hanno lasciato le superiori in 160 mila", dal Corriere della Sera

È come se fossero scomparsi, nell’ultimo anno, tutti gli abitanti di una città grande come Livorno o Ravenna. Ha infatti queste dimensioni il buco nero della dispersione scolastica nel quale, nel 2013, sono precipitati 160 mila studenti che hanno abbandonato la scuola secondaria superiore statale. Più di uno su quattro non ce l’ha fatta a reggere il passo con i compagni di classe. A ritirarsi è stato il 27% di chi aveva iniziato il ciclo formativo dei cinque anni. Un piccolo miglioramento rispetto alla precedente rilevazione con 20 mila drop out in più, pari al 29,7%. Ma resta intatto l’allarme per una emergenza formativa che colloca l’Italia in fondo alla media Ue, con ben due milioni e 900 mila studenti — più degli abitanti di Roma — che negli ultimi 15 anni hanno lasciato istituti tecnici e licei senza diploma in tasca. I calcoli di questa emorragia che «indebolisce il sistema Paese» li ha fatti Tuttoscuola , elaborando i dati del Miur. Solo una parte dei dispersi — osserva il report — ha continuato gli studi nella scuola non statale o nei corsi di istruzione e formazione professionale (IeFP). Quanti? Non esiste un’anagrafe integrata per calcolare quanti hanno proseguito gli studi, quanti hanno trovato un lavoro e quanti hanno ingrossato le fila dei cosiddetti Neet , i giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano, non fanno formazione. Complessivamente, negli ultimi quindici anni, non è arrivato nemmeno alla soglia dell’esame di maturità il numero colossale di 2.868.394 studenti. Centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze, senza nome né volto, che si sono persi per strada e hanno abbandonato la sfida. Erano partiti, anno dopo anno, in 9.109.728: risulta quindi, «caduto» sui banchi, il 31,5%. In Italia la quota di Neet è molto superiore a quella della media europea (22,7 e 15,4 per cento rispettivamente). E cresce significativamente se rapportata a Germania (9,7%), Francia (14,5%) e Regno Unito (15,5%) per avvicinarsi a quella della Spagna (21,1%).

Il Corriere della Sera 24.03.14

"Un new deal contro la medicina amara dell’austerità", di Carlo Buttaroni

Nel 1933, gli Usa avevano il prodotto interno lordo ridotto a due terzi rispetto a quello di quattro anni prima, il tasso di disoccupazione sfiorava il 25% e 15milioni di persone erano senza lavoro. Gli investimenti privati erano crollati del 90% e moltissime imprese stavano fallendo strette dai debiti. Per arrestare la spirale recessiva, il presidente Franklin Delano Roosevelt attuò un programma di interventi economici potentissimi che agivano sul lato dell’offerta e su quello della domanda, cercando di sostenere l’attività industriale e l’occupazione, anche a costo di gravi deficit di bilancio. I primi cento giorni della presidenza Roosevelt rimasero famosi perché il Congresso, stimolato dal governo, approvò, una dopo l’altra, una serie di leggi fra le quali un vasto programma di aiuti ai ceti più colpiti dalla crisi. Furono creati enti federali come la Federal Emergency Relief Admini-tration e la Civil Works Administration, il Civilian Conservation Corps (che assunse 500mila giovani, per impegnarli in opere di rimboschimento e di controllo delle acque), e la Tennessee Valley Authority che diede l’avvio all’industrializzazione degli Stati meridionali e costruì a San Francisco il grande ponte sul Golden Gate. Nel complesso furono costruiti o ristrutturati 2.500 ospedali e 45mila istituti scolastici, realizzati 1 milione di km di strade e 7.800 ponti, creati 13 mila parchi e piantati 3 miliardi di alberi, oltre a essere assunti il 60% dei disoccupati dedicati, in gran parte, ad attività di sviluppo del Paese. Tutto questo fu chiamato «new deal»: qualcosa in più, cioè, di una semplice riforma degli ammortizzatori sociali o della disciplina di bilancio.

UNA CURA INVECCHIATA?

Si dirà: sono passati ottant’anni e le cure di allora non è detto siano adatte alle economie di oggi. Giusto. Vediamo allora quali sono le ricette anti-crisi di Europa, Stati Uniti e Giappone e soprattutto quali sono gli effetti delle politiche economiche. La cura contro la crisi scelta dall’Europa ha come principio attivo l’austerità. Gli Usa e il Giappone hanno scelto, invece, gli stimoli.

La Federal Reserve System, un organismo simile alla Bce ma con poteri assai più ampi, ha sostenuto l’economia statunitense immettendo nel sistema qualcosa come 85 miliardi di dollari al mese. Janet Yellen, che Obama ha nominato al vertice della Fed dopo Ben Bernanke, si è preoccupata di tranquillizzare i mercati, le imprese (e i lavoratori) dichiarando che la banca centrale degli Stati Uniti andrà avanti con le misure di sostegno all’economia e che per il momento continueranno le immissioni di liquidità perché «la disoccupazione è ancora troppo elevata e alla banca centrale statunitense resta ancora molto da fare per aiutare l’economia e il mercato del lavoro». Già con Bernanke gli stimoli si erano ridotti (e in due volte) a 65 miliardi e sicuramente scenderanno ancora, man mano che migliorerà l’outlook economico. Non ci sarà, però, nessuna restrizione traumatica, anche perché per la Fed e la Casa Bianca la ricetta è semplice (e di buonsenso): si deve andare più lontano per riguadagnare il terreno perso nel corso della crisi.

Il presidente Obama ha deciso anche di intervenire sui redditi da lavoro, con una misura assai simile al Fair Labor Standards Act di Roosevelt, che consolidò il salario minimo. Il presidente Usa ha scelto di alzare il salario per i dipendenti federali a 10,10 dollari l’ora, nell’attesa di estendere la misura a tutti i lavoratori. Sebbene i lavoratori che percepiscono il salario minimo siano in realtà pochi, l’effetto sul mercato del lavoro non si è fatto attendere e i salari hanno ripreso a crescere. Analoga ricetta anche in Giappone.
Il capo del governo Shinzo Abe, dopo aver alimentato l’economia nipponi-ca con massicce immissioni di liquidità, ha annunciato la «wage surprise», un piano studiato insie- me a sindacati e industriali per far crescere le retribuzioni nominali. Secondo Shinzo Abe, infatti, solo grazie ai consumi delle famiglie il Giappone uscirà dalla fase deflattiva e l’economia nipponica si avvierà sulla strada di una crescita solida e sostenuta. Se la cura dei redditi, in atto negli Usa e in Giappone, è paragonabile al ruolo delle vitamine ricostituenti mentre si prende l’antibiotico, quest’ultimo è rappresentato dagli investimenti pubblici, senza i quali uscire dalla crisi è impossibile. Gli Stati Uniti e il Giappone stanno ammodernando i rispettivi Paesi: università, strade, ospedali, ferrovie, scuole. E il motivo è evidente: gli investimenti pubblici stimolano la produzione industriale e l’occupazione, mentre la crescita dei redditi delle classi medie e medio-basse stimo- la i consumi. Il tutto, naturalmente, va accompagnato da un’attenta politica inflazionistica. Anche l’aspettativa di un aumento dei prezzi, infatti, favorisce la ripresa, riducendo l’interesse reale sui debiti pregressi e inducendo coloro che detengono scorte liquide a spendere subito per evitare la svalutazione.

LA DIVERSA EFFICACIA

È evidente, quindi, come le ricette europee e nippo/ statunitensi siano abissalmente diverse, così come lontani anni luce gli effetti. I numeri, infatti, descrivono in maniera inequivocabile la diversa efficacia delle politiche economiche messe in campo da chi, come l’Europa, ha scelto l’austerità e chi, invece, ha scelto l’espansione.

Se le stime saranno confermate, il Pil dei Paesi dell’eurozona, alla fine di quest’anno e rispetto al 2010, sarà cresciuto appena dell’1,6%, mentre gli occupati saranno addirittura calati del 2%. Negli Usa, invece, il Pil potrebbe registrare un saldo del +9% e gli occupati del +3,4%. Andrà meno bene per il Giappone, dove il Pil registrerà comunque +4,7% e l’occupazione +1,4%. Non servono modelli econometrici particolarmente raffinati per capire che l’austerità, al contrario delle politiche espansive, allunga i tempi di uscita dalla crisi e fa crescere la disoccupazione. E a confermarne l’effetto nocivo c’è proprio l’Italia. Nel nostro Paese, il saldo del Pil, rispetto al 2010, potrebbe essere del -3,2% e l’occupazione del -4.6%. Perché ci si ostini nella somministrazione di un farmaco mortale rimane un mistero, visto che non c’è una ragione plausibile a tutto questo. Mentre basterebbe un po’ di buonsenso per capire che, proseguendo con la cura del rigore, viene proprio minata quell’idea di Europa che è stata alla base della sua nascita.

L’Unità 24.03.14

«Illegale pretendere soldi dalle famiglie degli alunni», di Leonard Berberi

L’ultima circolare lo scriveva chiaro il 7 marzo del 2013. E non cambiava, di una virgola, quello che aveva già sostenuto l’anno prima. «I contributi scolastici sono volontari». E ancora: «Nessun istituto può subordinare l’iscrizione degli alunni al preventivo versamento del contributo». In caso contrario «non solo è illegittimo, ma si configura come una grave violazione dei propri doveri d’ufficio». Più esplicito, non si può.
E, invece, le cose non stanno proprio così. Decine di istituti scolastici continuano a fare finta di nulla. A volte cambiano il nome del «contributo», ma non la sostanza. In alcuni casi avvertono, usano toni da ultimatum. E per la famiglie si traduce in un costo di almeno 60 euro. In alcuni casi anche di 300.
Su siti come Skuola.net continuano ad arrivare decine di segnalazioni. Una situazione inaccettabile, secondo il Miur. «Mettere la scuola al centro per il governo significa non solo restaurare muri e ridipingere pareti, come stiamo facendo — spiega al Corriere il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini —, ma anche tornare a investire per migliorare la qualità dell’insegnamento e dell’offerta formativa, cosa che ci siamo impegnati a fare». Proprio per questo, «non è possibile obbligare le famiglie, con metodi inappropriati, a pagare contributi che per definizione sono volontari. Questo deve essere un principio inderogabile. I presidi lo sanno, ma se qualcuno non dovesse ricordarselo lo faremo noi con una nota che ribadirà questo concetto».
Complici i tagli degli ultimi anni, le scuole hanno sempre meno risorse a disposizione. E così, per trovare un po’ di soldi, si rivolgono ai genitori degli alunni iscritti. Soldi che qualche istituto — segnalano dal ministero — destina in parte alle voci di spesa relative al funzionamento stesso della struttura. Compresi i costi per le fotocopie e il materiale didattico. «I nostri bilanci sono ridotti all’osso — spiega il preside di un liceo scientifico lombardo che chiede di restare anonimo —, se viene meno proprio quel contributo dato dai genitori allora è meglio chiudere. Non è un problema soltanto mio, ma di tante scuole dell’area».
«Io chiedo 80 euro, non basta, ma almeno mi arriva qualcosa», aggiunge un altro preside, di un liceo classico toscano. Che propone: «Quei contributi per noi sono vitali: forse sarebbe il caso di togliere il velo di ipocrisia e accorparli alle tasse scolastiche».
«Ma allora dobbiamo pagare o no?», è la domanda di mamma e papà. E intanto si improvvisano giuristi, cercano sul web documenti e leggi. Ricevono comunicazioni di presidi «a volte sgradevoli». Prendiamo, per esempio, una circolare di un liceo di Cuneo. Punti esclamativi inclusi. Scrive il dirigente: «Si ricorda che i contributi, se pure non obbligatori, sono richiesti perché indispensabili per il funzionamento dell’istituto». Quindi il suggerimento: «Per gli alunni, le cui famiglie non intendono versare i contributi, vi sono due possibilità. Pagare ogni volta la quota relativa al servizio, all’acquisto di cui usufruiscono (esempio: pagare ogni fotocopia, ogni ingresso nell’aula informatica). Strada di fatto non percorribile!». Oppure «usufruire di tutti gli strumenti, di tutti i servizi, perché gli altri alunni hanno pagato».
Più a est, un liceo scientifico di Milano chiede 150 euro quale «contributo spese di funzionamento». Per arrivare a Mestre, dove i 120 euro (per chi si iscrive al secondo anno) e i 130 euro (per la registrazione alle classi 3°, 4° e 5°) servono, tra le altre cose, anche alla «parziale copertura delle spese di fotocopiatura».
«Al netto di chi ha l’esonero per merito, motivi economici o appartenenza a speciali categorie — chiariscono dal ministero — sono obbligatorie soltanto le tasse di iscrizione, di frequenza, di esame e di diploma». Tutto quello che eccede questa cifra — vedi alla voce: contributi scolastici — «può essere chiesto, ma i genitori non sono costretti a pagare». Resta in piedi un Regio decreto del 1924 e riguarda soltanto gli istituti tecnici, professionali e l’artistico. Quei contributi, chiamati «di laboratorio», si devono pagare. Tutte le irregolarità, continua il Miur, si possono segnalare «agli Uffici scolastici regionali che sono responsabili della vigilanza sulle scuole».

Il Corriere della Sera 24.03.14