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"Se l’Italia non crede all’Italia", di Michele Ciliberto

Negli ultimi giorni sono accadute due cose che meritano una riflessione. La prima è una dichiarazione del Presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz: «L’Italia è un Paese del G8, ma quando sono in Italia ho l’impressione che gli italiani lo dimentichino. L’Italia è uno dei Paesi industrializzati maggiori al mondo, è la quarta economia: se non ci sarà crescita in Italia, non ci sarà neppure in Europa».

La seconda è la polemica che è scoppiata sui giornali italiani su un (presunto) sorrisino del presidente della Commissione europea Barroso e di van Rom- puy a proposito delle posizioni sostenute dal presidente del Consiglio italiano a Bruxelles: è dello stesso tipo di quello di Sarkozy e della Merkel sull’allora premier Silvio Berlusconi, oppure no? E in ogni caso, che giudizio implica sul nostro Paese?

Sono due fatti singolari che vanno venire alle labbra la stessa domanda: che idea gli italiani hanno di se stessi? E su questo punto il presidente – tedesco – del Parlamento europeo coglie un aspetto rilevante: gli italiani non sanno chi sono, se lo dimenticano.

Ma questa dimenticanza, e il giudizio negativo su se stessi che essa implica, non è un fenomeno specifico di questo difficile periodo, anzi: è una struttura della nostra «autobiografia» nazionale, quale è stata messa a punto, soprattutto, dalle classi intellettuali nazionali, specie di quelle attive agli inizi del Novecento.

Naturalmente, anche a quella data, ci sono state grandi eccezioni, a cominciare da Benedetto Croce che nella Storia d’Italia rivalutò, con grande energia, l’Italia post- risorgimentale e quella giolittiana, contrapponendo la «prosa» – la realtà concreta, compreso il «trasformismo» – alla «poesia», cioè alle fantasie retoriche di coloro che si lamentavano del nuovo Stato nazionale, delusi nelle loro aspettative di grandezza. Ma la posizione di Croce è in anche in questo caso minoritaria, anzi solitaria, nonostante le tante chiacchiere sulla sua egemonia.

In Italia, la tendenza generale è stata un’altra: da un lato, i retori che hanno celebrato il passato, deprecando il presente e fantasticando – in chiave prima nazionalista, poi fascista – di un grande avvenire; dall’altro, quelli che hanno insistito sui «ritardi» italiani, sulla nostra arretratezza, sull’assenza di eventi fondamentali della modernità come la Riforma protestante: mancanze, «assenze» che avrebbero inciso sul nostro carattere nazionale, indebolendolo e corrompendolo.

È un tratto tipico della nostra autobiografia nazionale su cui sarebbe interessante fare una ricerca, cercando di capire perché l’autorappresentazione degli italiani e della loro nazione sia così misera, fino ad apparire sorprendente ad un osservatore esterno come Schulz. Al fondo, si tratta di forti e resistenti modelli antropologici costruiti in una lunga storia, nei quali è possibile che abbia giocato un ruolo importante la presenza nel nostro Paese – va- sta e capillare – della Chiesa romana, che ha contribuito a conformare attraverso lo strumento della «confessione», il carattere di generazioni di italiani, lungo i secoli: in questo caso i Promessi Sposi di Manzoni dovrebbero essere una fonte e un archetipo, decisivo.

Varrebbe la pena di seguire questa pista, ma mettendola in tensione con altri tratti di fondo della storia italiana, che vanno in una direzione frontalmente opposta.

Ce lo siamo dimenticato, ma lungo i secoli moderni – anche dopo il Rinascimento, quando diviene il centro del mondo – l’Italia è stata il «luogo» in cui sono stati elaborati momenti centrali delle «libertà dei moderni», che non sarebbero state portate alla luce, e diffuse, senza i carceri, le persecuzioni, i roghi dei pensatori italiani – da Bruno a Campanella, da Galileo a Giannone fino a Beccaria il quale nel 1764 rigetta,per la prima svolta e in modo radicale, sia la tortura che la pena di morte. Senza questa Italia, non ci sarebbe stata l’Europa «moderna», come sapevano benissimo, per primi, gli Illuministi.

Naturalmente questo è solo un lato, e il migliore, della medaglia: l’«identità» italiana è assai complessa e tormentata. Per venire alle bassure dei tempi più recenti conosco anche io quanto sia profondo e diffuso oggi il cancro della mafia, della ’ndrangheta, della camorra, e quanto sia stato radicato nella storia il fenomeno del berlusconismo. Lo so, ma insisto su questo, perché è di ciò che in genere si parla quando il discorso cade sull’Italia. Sat prata bibere.

Il problema, su cui vorrei richiamare l’attenzione, è invece un altro: perché l’immagine dell’Italia mafiosa, corrotta, clientelare cancella e dissolve quella dell’«altra» Italia, quella civile, laica, moderna?

E perché, tornando alla domanda posta all’inizio, gli stessi italiani hanno una idea così misera e meschina si se stessi, una autorappresentazione così modesta della loro identità e «complessi» così profondi? Perché il modello del Gattopardo continua a riscuotere successo, fino ad a essere citato anche in Parlamento? A cosa allude tutto questo? Vorrei provare ad abbozzare una risposta.

Certo, hanno avuto un peso decisivo le arretratezze della nostra borghesia, il suo affidarsi allo Stato come una greppia inesauribile (salvo trasferirsi altrove, quando resta poco da mungere), la sua dimensione economico-corporativa: sono i problemi affrontati da Gramsci nei Quaderni e restano ancora e sempre aperti. Ma il problema è più profondo perché attiene direttamente alle forme di governo e alla ideologia, delle nostre classi dirigenti, che, attraverso di esse, è penetrato nella Costituzione «interiore» della Nazione. A destra, anzitutto, ma anche a sinistra, le classi dirigenti nazionali hanno insistito sui limiti del Paese, sulla sua fragilità, sulla sue debolezze, sulla necessità, per dirigerla, di «larghe» intese, sulla impossibilità di avere una alternativa di governo. A destra, come a sinistra, è stata posta sull’Italia una sorta di «ipoteca» di ordine etico-politico che è diventata uno strumento, anzi un principio di direzione della nazione, mai libera.

Ma l’Italia non è solo questo, è anche un’altra cosa. Esistono, continuano a esistere, forze profonde, sempre pronte ad esplodere e a venire alla luce. Sono – e uso volutamente questo termine, a costo di suscitare i «risolini» dei politici realisti – forze «morali», non meno intense e influenti di quelle «materiali». Anzi, come diceva il poeta latino , è la «mente» che agita la «mole», non il contrario. Sono forze che guardano al futuro, forze – nonostante tutto – della speranza: quelle che costituiscono il «deposito» della nazione, ciò che le consente di diventare, ed essere, una comunità. Queste forze, in Italia, ci sono ancora, affondano le radici in una lunga storia; e aspettano di essere intercettate, e coinvolte, dalla politica, dalle istituzioni per farsi sentire ed incidere.

Credo che questo sia oggi il problema del nostro Paese: se le forze riformatrici riusciranno ad incrociare queste energie, forse riusciremo ad uscire dal tunnel e a vedere il nuovo giorno. Ma per farlo oc- corre evitare un duplice scoglio: la «depressione» storica e la «boria delle nazioni». E questo implica, a sua volta, un cambio radicale delle forme di governo e della ideologia delle classi dirigenti nazionali, a destra e a sinistra. Nessuna delle due cose è però possibile se non cambiano il rapporto con la nostra storia, e l’autorappresentazione che gli italiani han- no, da troppo tempo di se stessi. Il presidente del Parlamento europeo ha fatto bene a ricordarcelo.

L’Unità 24.03.14

"La paura e le ferite", di Bernardo Valli

Anche se attese, scontate, le sconfitte elettorali fanno male. Bruciano in particolare se a contribuire all’insuccesso della sinistra è il Front National, il partito populista di Marine Le Pen. Ed è quel che si è verificato alle municipali francesi di ieri, alla prima consultazione nazionale dalla vittoria presidenziale di François Hollande, avvenuta due anni fa.
Mentre lo spoglio era ancora in corso, Jean Marc Ayrault si è affrettato a definire inquietante il numero voti ottenuto dai candidati dal partito populista e ha esortato gli elettori «di sinistra e di progresso » a mobilitarsi per arginarlo al secondo turno, domenica prossima. Un appello d’emergenza che dà il clima della Francia mentre si contavano ancora i suffragi.
E’ stato evocato il Fronte repubblicano, ossia la tradizionale unione dei partiti democratici contro il movimento un tempo apertamente xenofobo, reso più presentabile da Marine, l’abile figlia di Jean-Marie Le Pen, il fondatore. Ma in realtà quella strategia antifascista è invocata ma non più tanto praticata. Il centrodestra (Ump) attraverso il leader, François Copé, ha invitato i suoi a non votare né per il Front National né per il Partito socialista. E Ayrault, il primo ministro socialista, si è rivolto unicamente agli elettori di sinistra e di progresso. Lui non ha evocato il Fronte repubblicano. Quindi per ora ognuno dovrebbe affrontare da solo i ballottaggi, cui partecipano i candidati con i tre migliori risultati, che non hanno raggiunto la maggioranza assoluta. La gara triangolare impone di solito un’intesa tra due concorrenti.
E le alleanze confidenziali o segrete sono realizzate con grande cinismo.
Il successo del Front National, definito storico, ha dominato lo scrutinio anche se il partito di Marine Le Pen presentava alle elezioni municipali soltanto 597 liste, vale a dire soltanto in una parte dei trentaseimila e più comuni
che conta la Francia municipale.
Ma in almeno nove città importanti ha ottenuto successi senza precedenti. A Hénin-Beaumont, nel Pas de Calais, un candidato ha preso più del cinquanta per cento dei voti. E quindi Steeve Briois è stato il primo esponente nella storia del Front National ad essere eletto sindaco. A Béziers, nel Languedoc Rousillon, Robert Ménard ha superato il 44 per cento; e a Perpignan, nei Pirenei orientali, Louis Aliot ha avuto il 33 per cento. Entrambi sono quindi anche loro nelle condizioni di conquistare al ballottaggio il titolo di sindaco.
Nonostante abbia fatto il callo ai peggiori sondaggi di popolarità subiti dai presidenti in quasi sessant’anni di Quinta Repubblica, François Hollande ha ottenuto ieri un risultato pesante (43 – 48 % a favore del centrodestra, stando a calcoli incompleti) alla prima elezione generale dopo il suo ingresso nel Palazzo dell’Eliseo. E’ stato un colpo severo. Il voto riguardava gli amministratori dei comuni di Francia, e quindi dipendeva in larga parte dal prestigio dei sindaci, di metropoli come Parigi, Marsiglia, Lione o di modesti o piccoli centri (l’Italia comunale è meno frantumata, conta poco più di ottomila municipi), e quindi la sconfitta è stata relativizzata, ridimensionata dai delusi, come accade con le elezioni locali.
Ma la sinistra era fiera della sua forte maggioranza nella Francia municipale, dove amministrava il cinquantacinque per cento dei comuni con più di diecimila abitanti. Sei anni fa ebbe al primo turno il 46 per cento contro il 41 della destra. Il rapporto si è rovesciato. E sembra prefigurare il risultato delle europee, nel maggio prossimo. Nel breve intervallo François Hollande cambierà il governo? Designerà un altro primo ministro, ad esempio il popolare Manuel Valls, attuale ministro degli Interni? C’è chi lo esclude, tenendo conto che la precipitosa nomina di un nuovo esecutivo non è nello stile di Hollande, e sarebbe comunque un segnale di panico, spropositato rispetto alla sconfitta in un voto amministrativo.
Soprattutto in una consultazione che avviene dopo due anni di una presidenza iniziata nel pieno di una crisi economica tutt’altro che superata, vista l’alta, quasi cronica disoccupazione, il consistente debito pubblico e il deficit di bilancio superiore ai parametri consentiti dalla Comunità europea. Il voto di ieri, benché influenzato da problemi locali, conferma l’impopolarità del presidente e del suo governo.
Parigi dovrebbe restare alla sinistra. Anche se l’ex ministro di centrodestra, Nathalie Kosciusko- Morizet, candidata nel difficile 14 esimo arrondissement, dove la sinistra è ben impiantata, ha ottenuto un numero di voti superiore al previsto. Questo non dovrebbe compromettere l’elezione a sindaco di Anne Hidalgo, la socialista patrocinata dal predecessore, il popolare e abile Bertrand Delanoe. Assai più difficile la situazione a Marsiglia, dove il candidato socialista, che sperava di detronizzare Claude Gaudin, sindaco da quattro mandati, è stato superato, umiliato, almeno al primo turno, dal candidato del Front National. Le ferite socialiste sono numerose in queste elezioni. Non poche città che amministravano sono cadute come birilli.

La Repubblica 24.03.14

"Fosse Ardeatine. Dopo 70 anni ecco il volantino fascista che mentì sull’appello a consegnarsi", di Luca Baiada

Pezzo di pane da 100 grammi. Scarsino, eh? Dal 25 marzo 1944, è la razione giornaliera stabilita per i romani. Ogni altro cibo è introvabile o molto costoso. Proprio settant’anni fa, a Roma, dopo l’attacco partigiano in via Rasella (23 marzo 1944) e prima delle Fosse Ardeatine (24 marzo), un comunicato invitò i partigiani a consegnarsi ai tedeschi, per evitare il massacro. Questa odiosa bugia, che offende i 335 morti, la Resistenza e gli italiani, è smentita da libri e sentenze, ma qualcuno ancora la ripete. Si sa, «il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni », come scrive Heidegger. Adesso, un archivio restituisce un documento. Ne era nota l’esistenza, ma per tracce confuse. Vediamo meglio. Dopo il massacro, a fine marzo 1944, forse il 29, c’è una riunione dei fascisti romani seguita da un volantino. Le carte del Pfr romano sono perdute. Però all’Irsifar (l’Isituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza), a Roma, ho trovato un foglio dove sta scritto: «Partigiani vigliacchi e assassini! Romani! In seguito al vile attentato costato la vita a 32 camerati germanici nel pomeriggio del 24 marzo scorso, la giusta e doverosa rappresaglia del Comando di Piazza dell’Esercito Tedesco ha visto la fucilazione di 320 comunisti badogliani detenuti nelle carceri perché condannati a morte per atti di terrorismo e sabotaggio. Ma i banditi comunisti dei gap avrebbero potuto evitare questa rappresaglia, pur prevista dalle leggi di guerra, se si fossero presentati alle autorità germaniche che avevano proclamato, via radio e con manifesti su tutti i muri di Roma, che la fucilazione degli ostaggi non sarebbe avvenuta se i colpevoli si fossero presentati per la giusta punizione. Questa è l’ennesima riprova della vigliaccheria di chi trama contro la Patria Italia al soldo dello straniero e del bolscevismo. Romani, sappiate giudicare! I Fascisti Repubblicani dell’Urbe».
LA DATA È SBAGLIATA
Il riferimento al 24 marzo è sbagliato, oppure la punteggiatura è infelice: via Rasella è il 23 marzo. Ma proviamo ad approfondire. Nel testo c’è la parola «partigiani», ingombrante nel linguaggio fascista, e assente nel comunicato dell’Agenzia Stefani – su cui ragiona bene Sandro Portelli in L’ordine è già stato eseguito (Donzelli, 2005) – pubblicato sui giornali del 25 e 26 marzo. La parola «partigiani» è usata apposta: «vigliacchi e assassini» deve riversarsi sul sostantivo. C’è «rappresaglia», parola estranea al comunicato Stefani. La sua comparsa è collaterale al mito che i partigiani avrebbero potuto impedire le Ardeatine. Nel percorso giuridico e storiografico, la presa di coscienza della politica del massacro fatta dalla Germania è proporzionale al disconoscimento del diritto di rappresaglia, mentre la fabbricazione di quel falso diritto offre già nel processo Kappler, nel 1948, uno strumento antiresistenziale. L’ombra di un’inesistente legalità delle stragi peserà sui processi, e la negazione del diritto di rappresaglia, invece che ovvia, sarà faticosa. Solo nel secolo successivo ci si renderà conto che la rappresaglia è un abito immaginario dell’omicidio. Cioè, la violenza fu ripetuta inoculando negli italiani sensi di colpa. Bisognava, bisogna liberarsene. C’è in gioco anche un’operazione di propaganda. Dopo le Ardeatine, ad aprile e probabilmente il giorno 8, i giornalisti sono convocati dal generale Kurt Mälzer, comandante militare di Roma, e istruiti dall’SS Herbert Kappler. Attenzione al clima psicologico. La strage è già nota, a Roma alcune famiglie hanno ricevuto un biglietto che annuncia la morte del loro congiunto, e molte altre fremono. La denutrizione debilita: c’è solo un pezzo di pane. Il massacro avviene in Quaresima, il 9 aprile 1944 è Pasqua. Per il cattolicesimo, allora più sentito, la settimana che termina con quel 9 aprile ha un senso di contrizione che si scioglie nella pace domenicale. E infatti quella domenica, sul Messaggero, scrive il direttore Spampanato, presente alla riunione tedesca: «Noi ci rifiutiamo ancora di credere che idee e programmi, siano pure antifascisti, possano degenerare. (…) La legge stessa della guerra può rispondere con dura reazione a qualsiasi tentativo di incrinare un fronte interno. (…) Tornerà anche per Roma, come per tutta l’Italia, quella che si chiama la normalità costituzionale».
«LEGGI DI GUERRA»
In accordo con questo quadro, il volantino dice cose che solo il terrore può far credere: c’è stata una rappresaglia legale, ma gli uccisi erano condannati a morte, però anche ostaggi. Concentriamoci su «leggi di guerra». Subito dopo la strage il comunicato Stefani dice che è stato eseguito un ordine tedesco. Cioè, si tratta di un caso singolo. Dopo si fa strada nella stampa fascista la tesi dell’applicazione di una legge. Il volantino è nella fase grigia in cui il sangue crea col monito esemplare la convinzione di una regola. Perciò si insiste con parole giuridiche: il giusto, la condanna, le leggi, i colpevoli. In chiusura – terrificante – l’invito a giudicare, con cui si spingono gli italiani a elaborare dal massacro la norma, e a condividere il verdetto. Insieme, si inventa l’invito ai partigiani a presentarsi, con un comunicato. In seguito, persino Kappler al suo processo negò l’esistenza dell’invito. Eppure è stato a lungo cercato. A vecchie manovre furbesche si è intrecciata una memoria autofabbricata. Ancor oggi qualcuno ricorda i manifesti, dice di averli sillabati, li vede come se fosse adesso. Certo, li vede, ma appunto adesso. L’illusione che porge un ordine, una spiegazione, dà un senso all’inaccettabile. È «il piacer vano delle illusioni», di Heidegger. Se nel ricordo infedele sulle Ardeatine ha avuto un ruolo questo volantino, siamo di fronte a un’arma di guerra psicologica. È reale, è un documento. È stato visto e toccato nel tempo del dolore. Il contenuto è falso: l’invito a presentarsi non ci fu. Ma la realtà può trasferirsi dall’oggettività fisica al discorso. Il documento narra un documento. Maneggiando il testo vero (il volantino), il ricordo può scivolare sull’immagine mentale del testo inesistente raccontato. Forse non è un caso se i più, l’invito a presentarsi prima del massacro, lo ricordano per manifesto e non per radio: è un mezzo simile al testo vero, al volantino dopo. Un testo che ne cita un altro sembra sempre un po’ credibile, specie se non si può fare un controllo, nell’angoscia, nella fame. A proposito, oggi che si mangia? Un etto di pane, e basta. I furti di attendibilità agevolati dalle citazioni possono ingannare anche chi sta meglio e non digiuna. «Il più solido piacere di questa vita è il piacer vano delle illusioni», Heidegger non l’ha mai scritto. Sono parole di Leopardi. Gigante di Recanati, scusami.

L’Unità 23.03.14

"Il rilancio passa dall’Europa", di Paolo Guerrieri

L’ultimo Consiglio europeo e gli incontri a Parigi e Berlino del Presidente Renzi se hanno confermato da un lato la dura realtà degli equilibri di potere oggi imperanti in Europa, hanno anche fornito al nostro governo preziose
indicazioni per la strategia di politica economica da definire nelle prossime settimane.

A condizione che vengano lette correttamente e, soprattutto, si traducano in scelte e iniziative all’altezza delle sfide esistenti. La fiducia europea e dei mercati verso il nostro Paese dipenderanno da queste.

Una prima indicazione emersa è la conferma di una situazione di fatto per noi assai rilevante: il rilancio economico dell’Italia ha bisogno della crescita in Europa, ma altrettanto fondamentale per la stabilità e il futuro della moneta unica europea è un’Italia rinnovata, in grado di riprendere un sentiero di sviluppo. Se si parte da qui, si può meglio comprendere la duplice sfida di fronte oggi al nostro Paese: realizzare all’interno le riforme necessarie a aumentare il nostro potenziale di crescita che si è praticamente azzerato negli anni della Grande Crisi, da un lato; poter guadagnare maggiore flessibilità nelle modalità e tempi delle politiche di aggiustamento in Europa, cercando allo stesso tempo di promuovere un nuovo corso delle politiche economiche europee.

È un percorso che sarà scandito da svariati appunta- menti e scadenze da gestire con grande saggezza. L’apertura si è avuta con la presentazione delle prime misure di rilancio del governo Renzi, incentrate sulla riduzione dell’Irpef e dell’Irap. La direzione è indubbiamente giusta, dal momento che tagliare le tasse ai redditi più bassi ha buone ragioni sia di convenienza economica, come primo argine al calo in corso da anni della domanda interna; sia di convenienza politica come prima risposta alle montanti disuguaglianze che la grande crisi ha fortemente contribuito a aumentare. Se si tiene conto di tutti i provvedimenti di spesa promessi, tuttavia, l’ammontare di risorse da mobilitare è ingente e ha posto un problema di coperture finanziarie, ancora tutto da definire.

Unitamente a una prima tranche della «spending review» (da 3 a 5 miliardi di euro) ed a alcune entrate «una tantum» il governo ha affacciato l’ipotesi di un aumento del deficit pubblico, seppur rimanendo sotto il tetto europeo del 3% nominale. Ma a Bruxelles è emerso chiara- mente che si tratterebbe, in quest’ultimo caso, di una violazione delle nuove regole della governance dell’Ue incentrate sul deficit strutturale (Fiscal Compact e Six Pack). La Commissione, già dallo scorso novembre, ci ha invitato a ridurlo per far scendere lo stock di debito. È facile prevedere che se decidessimo di andare avanti si aprirebbe un contenzioso con le istituzioni europee, col rischio di uscirne sconfitti e accumulare in prossimità dell’estate un’ulteriore infrazione, dopo quella recente per squilibri eccessivi.

Sono in molti a ritenere che molte di queste regole siano gestite con troppa rigidità (si veda ad esempio la definizione di saldo strutturale) e che andranno rimesse in discussione. Ma andrà fatto più avanti, dopo le elezioni europee allorché si saranno insediati un nuovo Parlamento e una nuova Commissione. Oggi non ne vale la pena, per guadagnare pochi decimi di punto, anche perché i mercati potrebbero reagire male, rialzando lo spread e annullando qualsiasi beneficio. È meglio cercare altre coperture all’interno, compatibili con i vincoli comunitari. Sarà compito del Documento di economia e finanza (Def) indicarle, allorché a metà aprile verrà presentato al Parlamento e all’Europa. Il Def avrà un secondo compito altrettanto importante – come seconda tappa del confronto con l’Europa – quello di delineare un piano dettagliato di riforme radicali per la modernizzazione dell’economia e il rilancio della crescita. Non dovrà essere un mero lungo elenco delle cose da fare, quanto l’individuazione di alcune priorità, chiare e verificabili, anche quantitativamente, in grado di incidere significativamente sulla crescita potenziale del nostro Paese che è la vera leva su cui poggiare ogni piano di rientro sostenibile dallo stock di debito.

Convincere i partner europei che queste misure strutturali siano serie, realizzabili e in grado di accrescere il Pil favorendo così la discesa del nostro debito è l’obiettivo chiave a cui mirare. Ne va della possibilità di negoziare con l’Europa margini di flessibilità consistenti su tempi e modalità delle politiche di aggiustamento, soprattutto in prospettiva dell’entrata in vigore del Fiscal compact. Tutto ciò rafforzerebbe anche la nostra posizione nel semestre di presidenza italiana dell’Europa, allorché dovremo cercare di rilanciare – come terza fase del negoziato europeo – una strategia di crescita dell’Europa, che sia profondamente innovativa e alternativa al ristagno generato dalle fallimentari politiche di austerità. Sono cambiamenti difficili ma non impossibili da introdurre, in particolare all’indomani di probabili deludenti risultati delle elezioni europee, che spingeranno a rimettere in discussione l’Eu- ropa del ristagno e dei profondi squilibri tra Nord e Sud.

Certo è una partita complessa quella che si è aperta tra l’Italia e l’Europa, ove ogni mossa affrettata da parte nostra potrebbe generare errori e pregiudicare il risultato finale. Andrà evitata a partire dalle decisioni e dalle scelte da prendere nelle prossime settimane. Come si è detto, ne va del nostro ruolo e della nostra credibilità in Europa.

L’Unità 23.03.14

"Chi investe in cultura rilancia l'Italia", di Fabrizio Galimberti

«In Italia per trent’anni sotto i Borgia vi furono lotte armate, terrore, assassini e spargimento di sangue, ma ci furono anche Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, hanno avuto 500 anni di democrazia e pace, e che cosa hanno prodotto? L’orologio a cucù». (Orson Welles, in «The Third Man»). La battuta cattiva (la Svizzera non la merita) è di Orson Welles, un autore americano, quello che diresse anche un film famoso, «La guerra dei mondi». Ma serve a sottolineare che in un Paese possono coesistere cose molto brutte e molto belle. Come in Italia, dove ci sono molte cose che non funzionano nel presente, ma anche molte cose che hanno funzionato nel passato, e che in parte funzionano ancora. L’Italia ha un retaggio culturale impressionante. Non ci sono molte classifiche nelle quali l’Italia è la prima del mondo, ma almeno una c’è: come vedete qui in basso l’Italia, fra tutti i Paesi, ha il maggior numero di siti designati dall’Unesco come «Patrimonio culturale dell’Umanità».
Cosa c’entra l’economia con la cultura? C’entra molto, almeno se si usa la parola cultura in senso lato. Cominciamo a spiegare partendo dalle “catene di offerta”. Cosa sono le catene di offerta? É normale che un’impresa acquisti all’esterno le materie prime che le servono per produrre, ma quando l’impresa acquista anche tanti altri semilavorati da altri fornitori, o addirittura fa fare da altri intere fasi di lavorazione, si crea una catena: il prodotto finito passa lungo questi anelli della catena prima di raggiungere il cliente finale. Oggi questa espressione si usa specialmente quando gli “anelli della catena” sono sparsi per il mondo: abbiamo prodotti pensati in un luogo e realizzati, fase a fase, filo a filo, bullone a bullone, nei quattro continenti.
Ma c’è un’altra catena che ci interessa, ed è quella che lega il pensiero alla concezione, la concezione al progetto, il progetto al processo, il processo al prodotto… L’Italia si vanta – giustamente – di essere un grande Paese manifatturiero, ma cosa c’è all’origine di quest’altra catena, la “catena del valore”?
C’è – vi potrà sorprendere – la cultura. La cultura in senso lato, un senso che comprende il sistema educativo e la ricerca. Ma comprende anche – ed è qui il tratto italiano di questa “cultura” da cui zampillano produzione e benessere – l’immenso patrimonio artistico del nostro Paese. Un patrimonio che è molto di più di una collezione di musei e parchi archeologici. Perché è dalla linfa di quel passato che derivano i successi della nostra manifattura, dal “saper fare” accumulato nei secoli e tramandato di generazione in generazione, dall’amore per il lavoro ben fatto, da quella mescita di innovazione ed emulazione che segna le inimitabili fattezze dei distretti industriali (ne abbiamo parlato il 2 dicembre 2012 – e abbiamo citato quella frase di un grande economista, Alfred Marshall: «É come se i segreti del mestiere volteggiassero nell’aria»).
Ma oggi – e non da oggi – l’Italia arranca. In che misura la povertà della crescita italiana dipende dalla scarsa attenzione a quella culturale e primigenia sorgente? E che cosa si può fare per liberare quella sorgente dai detriti che la ostruiscono e riaprire quei canali che scorrono dalla cultura al prodotto, passando per l’immagine e il “racconto” dei nostri volti produttivi?
Possiamo rispondere a questa domanda costruendo un indice di “interesse per la cultura” e correlandolo all’andamento dell’economia.
La correlazione c’è, e la correlazione ha un’implicazione sorprendente. Un euro in più speso per la cultura scende lungo gli anelli della catena del valore: non è un sussidio ma un investimento. Non è il seme gettato fra i rovi nè quello gettato fra i sassi o sulla strada. É il seme gettato «sulla terra buona», capace di dare «frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta». Oltre all’effetto diretto sulla domanda vi è anche il cruciale impatto – indiretto ma reale – sulla immagine dell’Italia nel mondo, un’immagine che si riflette su tanti volti del nostro Paese, dallo spread al Made in Italy.
Non è possibile quantificare con scientifica precisione il frutto di “quell’euro in più” speso per la cultura. Ma in questo processo indiziario, gli indizi sono convergenti e pesanti. É sotto gli occhi di tutti l’incuria per il nostro patrimonio artistico (basti citare Pompei), l’incapacità di usare dei nostri capolavori per farne “racconti” capaci di proiettare un’immagine diversa: non l’immagine di oggi, l’immagine di un Paese mediocre che vive di un grande passato ma quella di un Paese che vuole attingere al passato per proiettare, qui e oggi, la coda brillante di una cometa che solca da secoli i cieli del globo.
Fervono, nel nostro Paese,a, le tristi polemiche sul “declinismo”. Polemiche che lasciano il tempo che trovano se non sono assortite di rimedi, se alle diagnosi e alle prognosi non seguono le cure. La diagnosi l’abbiamo appena esposta. L’Italia ha distolto lo sguardo dalle sue sorgenti, ha lasciato deperire le sue vere ricchezze, ha dimenticato di curare e innaffiare quella terra dove affondano le sue radici.
Ed è la diagnosi che detta la cura. É solo mettendo al centro dell’attenzione la questione cruciale della cultura che potremo ritrovare, attraverso quella proficua collaborazione fra pubblico e privato che finora è mancata, attraverso la moltiplicazione delle iniziative intese a una manutenzione ordinaria e straordinaria dello sterminato patrimonio culturale, l’orgoglio del nostro passato, la fiducia nel nostro presente e lo slancio verso il nostro futuro.

Il Sole 24 Ore 23.03.14

"Comuni: tasse e bilanci nel caos", di Gianni Trovati

Trentun luglio. Il Governo è pronto a un ennesimo rinvio del termine per chiudere i bilanci preventivi dei Comuni, che si portano dietro le scadenze per fissare le aliquote dei tributi locali, a partire dalla nuova Iuc con cui i contribuenti dovranno familiarizzare quest’anno. Un rinvio, del resto, che pare inevitabile perché il 30 aprile, data decisa con la proroga di un mese e mezzo fa, è apparsa fin da subito una decisione scritta sull’acqua, con quasi 4.100 Comuni al voto (la metà abbondante del totale; ci vivono 21 milioni di italiani) nelle amministrative del 25 maggio e con tutti i numeri chiave su finanza e fisco locale 2014 ancora da individuare. Ancor più dell’anno scorso, però, la catena delle proroghe può creare grossi problemi per i pagamenti di giugno: l’acconto Imu di giugno, come sempre, può basarsi sulle aliquote dell’anno scorso, mentre per la Tasi il debutto effettivo rischia di slittare all’autunno, a meno di far pagare un acconto con i parametri standard che però non prevedono detrazioni e quindi chiamerebbero alla cassa anche cinque milioni di immobili di basso valore e quindi sempre esclusi dall’Imu. Sulla Tari, il tributo sui rifiuti che sostituisce la Tarsu-Tares e la Tia, il quadro è ancora più incerto.
I problemi principali, come sempre, fioriscono intorno al fisco sul mattone. Il terzo decreto «salva-Roma», arrivato dopo la caduta dei primi due e appesantito dalla super-Tasi per finanziare le detrazioni sulle abitazioni principali, sarebbe dovuto arrivare in Aula alla Camera domani ma rimarrà in commissione fino al 31 marzo; l’assegno da 625 milioni, pensato per aiutare i Comuni a far quadrare i conti dopo l’addio dell’Imu sulla prima casa, deve ancora trovare i criteri di distribuzione, e la stessa nebbia circonda ancora la ripartizione dei 6,6 miliardi di fondo di solidarietà comunale (per quasi tre quarti alimentato dall’Imu) che insieme alla Iuc deve sorreggere i conti dei sindaci. Anche quest’anno, insomma, ci sono tutte le condizioni per una catena di rinvii: niente di nuovo, per carità, ma le esperienze del 2012 e soprattutto del 2013, sfociato nella «mini-Imu» di dicembre e nella maggiorazione Tares fino a gennaio 2014, insegnano che l’incertezza costa.
La Tasi scritta nella legge di stabilità metteva a rischio i cinque milioni di immobili sconosciuti all’Ici e all’Imu perché le detrazioni fisse delle vecchie imposte bastavano ad azzerare il conto per le case di valore più basso. Il problema era chiaro dall’inizio (si veda Il Sole 24 Ore del 18 ottobre 2013), ma la polemica politica e il cammino difficile della legge di stabilità ne hanno impedito una soluzione tempestiva. A metterci una pezza interviene il terzo decreto salva-Roma, che prova a tradurre in norma un accordo siglato fra i sindaci e il Governo Letta alla vigilia del cambio in corsa a Palazzo Chigi, ma non mancano i problemi. Le detrazioni, secondo la nuova norma, devono garantire che la Tasi abbia «effetti equivalenti» all’Imu sulle abitazioni principali, ma sul funzionamento di questa «equivalenza» si è già scatenato il solito dibattito interpretativo. Nell’impossibilità di garantire che la Tasi sia come l’Imu per tutte le abitazioni, perché questo imporrebbe ai Comuni di ritagliare detrazioni su misura casa per casa, più di una città si è orientata sull’ipotesi di non far superare alle entrate totali del nuovo tributo sull’abitazione principale quelle raggranellate dall’Imu sulla stessa tipologia di immobile, concentrando però tutti gli sconti sulle fasce di valore più basso, quelle che pagavano nulla o pochissimo di Imu. Alle case più grandi o più pregiate, anche se non «di lusso», gli sconti rispetto alla vecchia imposta municipale sono del resto già garantiti dal meccanismo della Tasi, che non ha detrazioni fisse ma viaggia su aliquote più basse (con 250mila euro di base imponibile la Tasi massima è inferiore all’Imu standard). Risultato: un’impostazione di questo tipo finirebbe per colpire le case di valore medio, che potrebbero vedersi recapitare quest’anno un conto più pesante di quello pagato nel 2012 con la vecchia imposta. Nessuno è in grado di confermare che questa strada sia in linea con le nuove regole, perché mancano indicazioni ufficiali e probabilmente si faranno attendere almeno fino alla conversione definitiva del decreto, ma in molte delle città principali i tecnici ci stanno lavorando.
Per capire quanto occorre raccogliere dai cittadini, del resto, le amministrazioni dovrebbero conoscere quanto arriverà a ciascuna di loro dal fondo di solidarietà e dell’assegno da 625 milioni messo sul piatto dal Governo: probabilmente, la quota di ognuno sarà proporzionale agli incrementi di aliquota registrati dall’Imu fino al 2013, con un meccanismo che appare inevitabile per pareggiare i conti ma che finisce per “punire” chi ha evitato aumenti fiscali. Al puzzle si aggiunge il tributo sui rifiuti, che il salva-Roma ter modifica nuovamente rispetto alla legge di stabilità imponendo di ripensare i piani tariffari. Insomma: ancora per mesi i Comuni calcoleranno, e i cittadini aspetteranno.

Il Sole 24 Ore 23.03.14

"La tassa del silenzio", di Luca Landò

Carta, penna e fantasia, proviamo a immaginare che in Italia, da questa mattina, tutti paghino le tassem tutti chiedano gli scontrini, tutti versino l’Iva: chiami l’idraulico e pretendi la ricevuta, vai dal carrozziere e fai lo stesso anche se lo sconto, chissà come, sparisce all’improvviso; insisti pure con il maestro di ripetizioni che conosce tutto ma quella cosa lì, la ricevuta appunto, non sa nemmeno cosa sia.

E proviamo a immaginare, scontrini a parte, che non ci siano più evasori, né grandi né piccoli. Ebbene, ora di sera gli stipendi e le pensioni salirebbero di 102 euro al mese, come ha calcolato Stefano Livadiotti nel suo interessante ma inquietante Ladri: gli evasori e i politici che li proteggono, appena uscito per Bompiani.

Altro che ribaltare l’Europa per mantenere la promessa degli 80 euro in busta a chi ne guadagna meno di 1500: prendendo quello che abbiamo già in casa (una montagna di soldi nascosti al fisco) potremmo innalzare di un po’ i redditi di tutti ma proprio tutti: ricchi e poveri, giovani e vecchi. Oppure, che sarebbe più giusto, si potrebbe dare molto di più a chi ha davvero poco, anzi nulla: ad esempio un assegno di oltre mille euro al mese a tutti gli otto milioni di poveri censiti dall’Istat. Aboliremmo la povertà e aumenteremmo i consumi legati ai generi di prima necessità come cibo, farmaci e vestiti. In alternativa, potremmo pagare sull’unghia i 60 miliardi che lo Stato deve alle imprese, che è il modo migliore per rimettere in moto la macchina e creare lavoro: di miliardi ce ne avanzerebbero comunque altri 60 per operazioni di rilancio dell’economia o di sostegno a chi ha bisogno.

Già, se potessimo avere, non mille lire al mese, ma 120 miliardi l’anno (a questo ammonta l’evasione fiscale secondo il ministero dell’Economia) potremmo davvero cambiare verso all’Italia, come dice Renzi. Peccato che il gioco, o il sogno, finisca qui: perché l’evasione fiscale esiste e resiste. E quei soldi spariscono dal radar del fisco, ma anche della politica. A parte dar seguito alla delega fiscale (ereditata da Letta) e una recente iniziativa del ministro Padoan, che il 19 marzo ha firmato un accordo con altri 44 Paesi, il nuovo governo non ha ancora dichiarato guerra all’evasione. È vero che si è appena insediato e le cose da fare abbondano, ma colpisce come nel famoso «mercoledì da leoni» Renzi non abbia mostrato nemmeno una slide che spiegasse come fermare i pirati del 730 e del 740, che pure era stato un argomento accennato alla scorsa Leopolda e durante la campagna delle primarie.

Di certo i programmi e le promesse del premier hanno tempi stringenti e richiedono risorse immediate, ma nulla vietava che, tra le tante iniziative annunciate, ci fosse anche quella di una tolleranza zero nei confronti di chi le tasse non le paga. A meno che la riforma fiscale prevista per maggio non contempli proprio questo: una caccia senza quartiere agli evasori. Ma se così fosse, perché non dirlo, anzi urlarlo? Si sarebbe ottenuto un effetto simile a quello che si ebbe due anni fa con i raid della Guardia di Finanza a Cortina e Portofino: azioni dimostrative e mediatiche che però, guarda caso, portarono a un aumento del 40 % degli scontrini emessi. Intendiamoci, non stiamo dicendo a Renzi di ripetere gli show fiscali di Monti, ma di spiegare con chiarezza se oltre a chiedere, giustamente, di cambiare le regole in Europa, intenda far rispettare, altrettanto giustamente, quelle fiscali che già esistono in Italia. Lo scorso anno sono stati scoperti 8.315 evasori totali che hanno occultato redditi per 16,1 miliardi: quanti ne mancano all’appello delle Fiamme Gialle? E soprattutto, davvero esiste l’intenzione di stanarli e perseguirli? All’anagrafe tributaria risultano 518 persone che possiedono un jet privato, ma dichiarano meno di 20.000 euro l’anno: qualcosa non torna.

Centoventi miliardi di evasione l’anno sono una cifra enorme: recuperarne la metà, o anche solo un quarto significherebbe mettere nel motore del Paese la benzina indispensabile per partire e forse correre. E magari riprendere a investire in ricerca e tecnologia (bastano dieci miliardi per raddoppiare i fondi pubblici) come stanno facendo Stati Uniti, Germania e tutto il Nord Europa, convinti che la strada per tornare al futuro passi proprio da lì.

Renzi ha annunciato di voler semplificare il sistema tributario rivedendo le norme e introducendo moduli precompilati. È un passo avanti, ma non basta. Per due motivi. Il primo è che il grosso dell’evasione è rappresentato, non dal denaro nascosto in Italia, ma da quello fuggito in paradisi lontani con il sole caldo e le tasse ridicole. Il secondo motivo, è che i grandi evasori rischiano poco o nulla, perché la legge, con loro, è così lenta e gentile che «tanto vale provarci». Per arrivare al primo grado di un pro- cesso per un reato tributario ci vogliono in media 903 giorni: se ti va male paghi (e con quello che hai messo da parte non è un problema), se ti va bene, o spunta un condono (ce ne sono stati 32 in 34 anni) o finisce tutto in prescrizione.
C’è un altro aspetto. Mentre in Germania l’ex campione di calcio Huli Hoeness se ne va in galera per scontare una condanna di tre anni e mezzo per frode fiscale, in Italia Diego Armando Maradona fa in diretta tv il gesto dell’ombrello a chi, Fabio Fazio, gli chiede se mai pagherà il suo debito con lo Stato di 39 milioni. Nel nostro Paese i grandi evasori sono eroi da accogliere con paste e spumante, come fece anni fa Ottaviano Del Turco, allora ministro delle Finanze, con Luciano Pavarotti quando il mitico tenore finì di saldare il suo debito con l’erario di 24 miliardi di lire. E solo in Italia si può pensare di raccogliere le firme per mandare al Parlamento europeo un ex premier condannato a quattro anni per aver frodato il fisco.

La scorsa settimana la Banca d’Italia ha annunciato che il debito pubblico ha toccato la cifra record di 2089,5 miliardi di euro. Carta, penna e fantasia: 120 miliardi di evasione fiscale e altri 60 legati al circuito criminale della corruzione fanno 180 miliardi l’anno; euro più euro meno, significa che potremmo pagare l’intero debito del Paese in undici anni, sette mesi e sei giorni senza aumentare le tasse né pregare l’Europa, oppure rimettere in moto il Paese e pagare il debito con i soldi della ritrovata crescita anziché dei risparmi che stanno finendo. Fine della fantasia.

Nessuno ovviamente si illude di poter azzerare l’evasione fiscale, ma contrastarla e ridurla questo sì, magari portandola agli stessi livelli che oggi si registrano in Francia e Germania. Renzi ha compiuto un’ottima scelta nel mettere Raffaele Cantone a guida dell’agenzia anticorruzione. Ora manca un altro passo importante: rompere il silenzio su quella «tassa» ingiusta e odiosa che premia i furbi e bastona i fessi. Con i primi che ridono e i secondi che pagano.

L’Unità 23.03.14