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“Troppi 34 miliardi di tagli” Il premier congela Cottarelli, di Federico Fubini

Qualche giorno fa Carlo Cottarelli ha incontrato Matteo Renzi e gli ha presentato una proposta: imporre un prelievo, anche temporaneo, che riduca di fatto tutte le pensioni al di sopra dei 26 mila euro l’anno. Così riferiscono vari osservatori le cui ricostruzioni sono convergenti.
Il Commissario per la spending review non ha presentato al premier la sua idea in maniera improvvisata. In Italia i trattamenti previdenziali sono circa 11 milioni e di questi circa un milione, meno di uno su dieci, viaggiano al di sopra della soglia dei 26 mila euro lordi l’anno. Per effetto di decenni di sistema a ripartizione, in cui gli assegni previdenziali sono finanziati dai contributi dei lavoratori attivi, quei pensionati sopra i 26 mila euro l’anno nella stragrande maggioranza hanno un punto in comune: ricevono dal sistema previdenziale più di quanto abbiano versato. A titolo di confronto, ha spiegato Cottarelli a Renzi, in Germania i pensionati sopra i 26 mila euro al mese sono 59 mila. Una volta fatte le proporzioni fra gli abitanti dei due Paesi, significa che in Italia sono venti volte più numerosi anche se il reddito medio è più basso di circa il 25%.
Renzi ha detto di no. Almeno per il momento il premier non intende inserire le pensioni fra i tagli alla spesa pubblica di cui in Italia ormai si parla da due anni e negli ultimi tre governi. Cottarelli aveva inserito nel suo schema 1,8 miliardi di contributi del sistema previdenziale alla riduzione del bilancio pubblico e 3,3 miliardi nel 2016. Di questo per ora non si parlerà, almeno non fino a quando l’intero sistema politico pensa alle elezioni europee. Dopo, il tema potrebbe riemergere se non altro visto il contenuto di una delle schede di Cottarelli: il commissario alla
spending review ha mostrato al premier che nelle famiglie in cui vive almeno un pensionato si risparmia di più, a parità di reddito, che in quelle dove i guadagni vengono dal lavoro. Nella classe di reddito attorno ai 19 mila euro l’anno la propensione a mettere da parte qualcosa a fine mese è dieci volte più alta nelle famiglie in cui vive un pensionato. Per Cottarelli è il segno che lì c’è spazio per limare il costo della previdenza, che è il più alto fra i Paesi avanzati al 16% del Pil.
Renzi invece guarda altrove. Con l’appuntamento delle europee alle porte, per quest’anno sceglierà tagli di spesa che costano meno in termini di voti. Mezzo miliardo deve venire dai tagli alla retribuzioni dei dirigenti statali, quindi il governo si prepara ad aggredire i trasferimenti per infrastrutture all’Anas e alle Ferrovie dello Stato, qualcosa dalla Difesa e dagli acquisti di beni e servizi della pubblica amministrazione. L’obiettivo è raccogliere cinque miliardi entro fine anno, per quanto Palazzo Chigi sappia già che non sarà facile raggiungerlo.
Intanto l’ufficio di Cottarelli è stato spostato alla presidenza del Consiglio, ma ogni giorno che passa la promozione del commissario somiglia un po’ di più a una sua (parziale) rimozione. Il giudizio che si dà del suo lavoro nel nuovo governo è tiepido e, più che un indirizzo di politica economica, il rapporto sulla spending review è
visto come un insieme di spunti. Alcuni considerati utili, altri meno, altri ancora semplicemente carenti. La divergenza di fondo non è sulla praticabilità dei tagli alla previdenza o ai sussidi all’autotrasporto, quando sui grandi numeri. Su mandato del precedente governo, Cottarelli propone in tre anni tagli da 33,9 miliardi di euro su spese dello Stato che nel 2016 varranno 840 miliardi: è una limatura del 4%, considerata di entità «ridicola» da un osservatore della cancelleria di Berlino.
Renzi invece sembra orientarsi su tagli di spesa non oltre i venti o venticinque miliardi in un triennio, perché oltre queste cifre incidere nel bilancio diventa più difficile. È meno di quanto aveva previsto Cottarelli e meno, anche, di quanto annunciato da Fabrizio Saccomanni quando era ministro dell’Economia. Ma intorno al premier adesso si guarda alla spesa pubblica al netto degli interessi sul debito e della spesa sociale. Tolte quelle due voci, l’Italia spende già molto poco: il 22,3% del Pil, contro il 23,7% della Germania e il 31% della Francia. Secondo la lettura che sta prevalendo a Palazzo Chigi, non ci sarebbe dunque molto da tagliare oltre i 20 o 25 miliardi in tre anni, benché la spesa totale dello Stato nel 2013 sia arrivata al 51,2% del Pil contro il 44,5% della Germania e della Spagna. Il resto del riequilibrio dei conti entro il 2016 dovrebbe venire, nei piani di Palazzo Chigi, da oltre venti miliardi da far emergere dalla lotta all’evasione.
Cottarelli dunque arriva in fondo alla prima tappa del suo mandato già più debole di come era partito. Ma se non altro la sua spending review ormai è partita. E oltre alla spesa, potrebbe finire per tagliare (o limare) anche le unghie di alcuni dei suoi padri.

La Repubblica 21.03.14

"I Comuni siano liberi di investire sui centri antiviolenza», di An. T.

Il 30 ottobre del 2013 più di centomila donne con minori al seguito, nel mondo, sono state accolte in un centro antiviolenza. Nello stesso giorno più di dodicimila non hanno trovato rifugio, mentre sono 767 (tra donne e bambini) quelle assistite nei 45 centri italiani. Sono percentuali elevatissime quelle sulla violenza di genere e le cronache contano casi ormai ogni giorno. Così l’Anci e l’associazione nazionale Di.Re (Donne in rete contro la violenza) il 16 maggio scorso hanno firmato un protocollo per istituire un Centro in ogni comune d’Italia. E ieri hanno presentato le linee guida del progetto per creare una collaborazione tra associazioni, comuni e servizi sociali.

«Il primo vero ostacolo – denuncia Alessandro Cosimi, vicepresidente dell’Anci e sindaco di Livorno – sono i finanziamenti. Gli enti locali non devono giustificarsi, come invece avviene, se intendono investire su questo aspetto dell’assistenza. E bisogna spingere con l’Anci perché venga creata una norma che dica che è normale spendere per avere sul proprio territorio un Centro antiviolenza. L’attenzione dell’Anci è totale. Gli eventi cui si assiste ogni giorno sono troppi e troppo brutti, tan- to che si ha l’impressione di non vivere in un Paese civile». Lo dicono anche i dati. Nel 2013 sono state 16517 le don- ne che si sono rivolte ai Centri antiviolenza Di.Re. Il 20 per cento in più rispetto al 2012. Le donne ospitate nelle Case rifugio sono state invece 563, con un aumento del 14 per cento rispetto all’anno precedente. Sono dati che di- cono anche come l’attenzione al fenomeno ha agevolato l’emersione di richieste d’aiuto che altrimenti sarebbero rimaste nel silenzio.

Il fenomeno ovviamente non riguarda solo l’Italia come si evince dalle rilevazioni del «Global data count», un censimento che viene fatto sui dati raccolti da tutti i Centri antiviolenza del mondo. Percentuali alte anche in Europa come ha registrato la ricerca dell’European Union Agency fatta nel 2014: una donna su tre subisce violenza nel corso della propria vita, il 33% delle donne europee ha subito violenza fisica o sessuale, il 22% ha subito solo violenza sessuale. Secondo l’Istat invece, in Italia una donna su tre subisce violenza, il 32% ha subito violenze fisiche o sessuali, il 24% solo violenza sessuale. Allora che fare. «Fondamentale è il lavoro di Rete – dice Titti Carrano, presidente Di. Re – Le linee guida servono a migliorare la conoscenza degli aspetti culturali e sociali legati al fenomeno». Nelle linee guida sono indicati comportamenti e prassi da seguire per gli operatori come la valutazione del rischio di allontanare subito da casa una donna che subisce violenza, l’attenzione verso i bambini che non devono essere staccati dalle madri vittime di maltrattamenti, lavorare insieme alla donna per un progetto che la allontani dalle violenze domestiche nel rispetto dell’autodeterminazione. Poi c’è il senso del protocollo stipulato tra Anci e Associazione: che è quello di promuovere l’inserimento nei piani sociali di zona di un Centro in ogni ambito territoriale e di una Casa di accoglienza in funzione del numero di abitanti prevedendo finanziamenti congrui, come del resto aveva sollecitato la Comunità europea.

L’Unità 21.03.14

"Vecchie e pericolose, 24 mila scuole a rischio sismico", di Luisa Grion

Sono «vecchi» e spesso pericolosi, privi degli standard minimi di igiene, ma soprattutto scarsi anche quanto a sicurezza: eppure tutte le mattine ci mandiamo bambini e ragazzi. Gli edifici scolastici che il governo Renzi promette di voler mettere a posto – 3,7 miliardi d’investimenti chiedendo all’Europa di non conteggiarli ai fini del patto di stabilità – hanno bisogno di massicci e urgenti interventi. E per capire quanto, fino ad oggi, il problema sia stato rimosso basti dire che non esiste nemmeno un’Anagrafe ufficiale, pur prevista da una legge del 1996.
A tracciare un quadro della situazione – l’unico disponibile, tanto che è su questi dati che il governo sta lavorando – c’è però il rapporto Ance- Cresme sullo stato del territorio italiano e sugli insediamenti a rischio sismico e idrogeologico (dati 2012). Già dalle premesse s’intuisce la gravità del caso: oltre la metà delle scuole italiane è stato costruito prima della entrate in vigore della normativa antisismica del 1974 (il 59 per cento delle comunali e il 65 delle provinciali), 24.073 scuole si trovano in aree a elevato rischio sismico, 6.250 sorgono in zone a forte rischio idrogeologico. Nelle regioni del Sud il 45 per cento delle scuole si può considerare ad «alto potenziale » di pericolo (10.835 edifici), quota che scende al 22 per cento al Centro (5.185) e al 12 al Nord (2.985). Un po’ più equamente distribuito il rischio idrogeologico: coinvolge il 30 per cento delle scuole del Nord Est e del Sud, il 22 per cento di quelle del Nord Ovest, il 18 del Centro. Più sicure le isole (2 per cento).
Considerato che gli edifici scolastici pubblici censiti sono poco più di 44 mila (38.692 di competenza comunale. 5.449 che fanno capo alle province), il governo ritiene che circa un terzo del patrimonio (15 mila edifici) «presenti urgenti necessità di manutenzione straordinaria per la messa in sicurezza» (per 10 mila s’ipotizza addirittura la demolizione). Secondo una stima della Protezione Civile, per la sola messa in sicurezza servirebbero investimenti per 13 miliardi di euro, ma a tale esigenza andrebbero aggiunta la riqualificazione energetica e gli adeguamenti funzionali. Il 19 per cento delle scuole comunali e il 30,5 delle provinciali è stato costruito prima del 1940 e oltre la metà del patrimonio totale non è a norma. Nemmeno sugli incendi: il 66 per cento delle scuole comunali e il 63 delle provinciali manca perfino dei certificati di prevenzione.

La Repubblica 21.03.14

Veltroni e il film su Berlinguer «Preparatevi a piangere», di Pietro Spataro

Ce la ricordiamo ancora quella foto di Berlinguer sorridente dietro la sua scrivania di direttore de l’Unità in via Due Macelli. Era accanto all’immagine di Bob Kennedy ritratto sulla spiaggia con il suo cane. Due simboli, due mondi lontani. Walter Veltroni è «ossessionato» dalla memoria, la coltiva con un pizzico di nostalgia ma cercando di guardare al futuro. E anche l’idea di fare un film su Enrico Berlinguer nasce da questa sua ostinazione. «È un atto d’amore verso un uomo che per me è stato importante», dice. Il film si chiama Quando c’era Berlinguer, arriverà nei cinema il 27 marzo e il 6 giugno passerà sui canali Sky. «Preparatevi a piangere», dice sorridendo, mentre riannoda i fili del suo lungo viaggio.

Veltroni, perché un film su Berlinguer proprio oggi? Secondo un sondaggio per il 38% degli italiani è solo un uomo del passato…
«Le racconto come mi è venuta l’idea. Tempo fa fui invitato a presentare un documentario sul leader socialdemocratico svedese Olof Palme. Pensai che era strano non ci fosse un lavoro così su Berlinguer e sulla nostra storia. E allora ho cercato di puntare non solo sull’elemento biografico ma di ricostruire, attraverso le immagini, una pagina straordinaria dell’Italia in una fase che fu crocevia tra due momenti storici. Non a caso il film si intitola Quando c’era Berlinguer. Quel titolo ha un doppio significato: raccontare di che cosa è stato quel periodo e rivivere la forza di un grande disegno strategico».

Ma com’è il film? Che cosa vedremo di Berlinguer?
«Ci sono tre elementi. C’è un ricco materiale d’archivio, con pezzi inediti su Berlinguer politico. Poi ci sono le interviste ai protagonisti e cito quelle a Napolitano e a Gorbaciov. Infine ho girato una parte del film nei luoghi di Berlinguer, nella Sardegna che lui amava».

Quindi sarà un film che segue tutto il percorso umano del leader del Pci?
«No, ho scelto di concentrarmi sul tempo della sua segreteria, dall’inizio degli anni Settanta fino alla sua morte nell’84. E sono partito da una domanda che per me è essenziale: come riuscì Berlinguer a trasformare un partito sempre fermo attorno al 25% dei consensi e che non aveva prospettive di governo in un partito che fu votato da un italiano su tre e che, pur chiamandosi comunista, arriva a un passo dal governo? Quello era un tempo aspro, più di oggi. C’era la guerra fredda, i blocchi militari contrapposti. E qui da noi c’era il terrorismo. È in quel contesto che Berlinguer cerca, attraverso un’innovazione impressionante, di portare il Pci vicino al governo. Poi c’è il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro che spezza la storia. Il compromesso storico nasce come tentativo di sbloccare la democrazia italiana verso l’alternanza, senza rischiare un esito cileno».

Non pesarono in quegli anni, oltre alla paura cilena, anche i torbidi tentativi di golpe?
«Certo, non dimentichiamo che il tintinnio di sciabole c’era stato nel 1964 e poi nel 1970. Berlinguer capisce quel passaggio delicatissimo. E lo affronta con l’innovazione. Dice con chiarezza che per l’Italia è meglio stare sotto l’ombrello della Nato. Poi rompe il flusso dei finanziamenti sovietici al partito. Insomma, trasforma il Pci in un grande partito nazionale nel quale si riconoscono elettori comunisti e non comunisti. Questo è il miracolo di Berlinguer. Nel film cerco di far capire come ciò sia potuto accadere e perché poi quel processo sia stato drammaticamente interrotto».

Ma quale immagine di Berlinguer viene fuori dal film? Fu davvero un innovatore?
«Devo dire la verità, per me questo film è un atto di risarcimento. La scelta politica fondamentale della mia vita è avvenuta perché c’è stato Berlinguer. Nel corso della lavorazione, più entravo nella sua vita e più riuscivo a mettere a fuoco il perché a 15 anni mi iscrissi al Pci. Il mio film vuole esaltare di Berlinguer proprio la sua capacità di innovazione ma anche la sua solitudine. Parlo della solitudine dei grandi, di chi ha in testa un percorso e principi a cui essere fedele».

Non si corre il rischio di fare un santino?
«No, il mio non è un santino. È un film che racconta la grandezza di una leadership ma anche i suoi errori. Viene fuori dal racconto che quel partito, pur con limiti e ombre, era una comunità. Non era un partito monolitico, Ingrao e Amendola se le dicevano. Ma quel mondo, che leggeva l’Unità, ascoltava e ragionava con la propria testa era una vera comunità con valori, regole e un’etica. Una comunità in cui ognuno sentiva di avere un ruolo importante per promuovere il consenso».

Per le riprese lei è stato in Sardegna, ha ripercorso le strade dell’uomo Berlinguer. Che cosa ha scoperto di lui?
«Berlinguer non era triste come si dice. Era serio, timido. Ma era un uomo a cui piaceva la vita. Gli piaceva il mare, il calcio, amava leggere, stare con gli amici. Sono stato all’isola Piana, a Stintino, nella sua scuola e ho capito quanto era forte il suo legame con quella terra aperta al mondo. Berlinguer fin da ragazzo parlava di Hegel e di Kant con la stessa facilità con la quale oggi un ragazzo parla di Balotelli».

Ecco, ma che cosa può dire a un ragazzo di oggi un film su Berlinguer?
«Il mio è un film per i giovani. Come sa ho l’ossessione per la memoria, perché ci permette di riannodare i fili per il futuro. Mi terrorizza una società acefala, mi spaventa la fretta bulimica che consuma le cose e trasforma il passato in una scoria. Per questo ho voluto ricostruire il senso di una memoria per raccontare Berlinguer ai ragazzi che non sanno chi era. Ho cercato di restituire la grandezza e il travaglio di un uomo che ha incarnato un grande sogno. Pensi ai suoi funerali, a quel fiume immenso di popolo. Sarebbe una cosa impensabile oggi per qualsiasi leader».

Ma non sarà che Veltroni prova nostalgia per un mondo in cui tutto era più chiaro?
«Oggi è tutto diverso, ma no, non dobbiamo avere nostalgia.
Oggi leader come Berlinguer o Moro, assediati da Twitter, da Facebook o dalle tv, farebbero fatica ad esprimere i loro pensieri lunghi. Basta dire che Berlinguer scrisse tre articoli in tre settimane per proporre il compromesso storico. Quello e questo sono due tempi storici diversi, non sovrapponibili. E io non immagino proprio Moro e Berlinguer in un talk show..».

Eppure proprio in un’intervista all’Unità, parlando del romanzo di Orwell «1984», Berlinguer ragionò sul mondo dei computer, sulle opportunità e sui rischi…
«Sarebbe bello se in occasione dell’anniversario della sua morte l’Unità ripubblicasse quell’intervista. Partendo da Orwell Berlinguer rifletteva sull’ambiguità dei mezzi di comunicazione e riteneva ci fosse bisogno di un “di più” di democrazia per evitare che la rivoluzione tecnologica avesse un contenuto autoritario. Quell’intervista è di assoluta attualità, Berlinguer vide in anticipo le questioni che viviamo oggi nell’epoca di Internet».

Ci sono immagini che restano negli occhi di chi visse la fine drammatica di Berlinguer: quel comizio a Padova, la voce che si incrina, la gente che urla «basta». Immagini strazianti..
«Quelle immagini del palco di Padova danno l’idea della coerenza integrale di Berlinguer. Chiunque si sarebbe fermato, lui invece arriva alla fine e appena chiude il comizio riesce persino a sorridere. Ho sempre pensato che la politica non è un mestiere, è una missione che richiede sacrificio. Berlinguer ce lo ha detto».

Da Berlinguer a oggi: che cosa resta della sinistra?
«Attenzione, nulla nel film è leggibile per parlare all’oggi. Voglio tenere al riparo questo atto d’amore dalle tentazioni delle metafore. È solo la ricostruzione di un uomo e del suo tempo. Detto questo, penso però che il senso di comunità valga anche oggi. Un grande partito di massa come il Pd non può non essere una comunità. Anzi, ha il dovere di esserlo».

Ma lei pensa che la generazione che prese quel partito dopo Berlinguer sia stata all’altezza?
«Quella storia finisce con i funerali di Berlinguer. Gli anni seguenti sono stati difficili e quel patrimonio è stato messo a dura prova. Sì, certo di errori ne abbiamo fatti tanti, ma se oggi abbiamo un partito che può avere il consenso di un italiano su tre è perché allora avemmo il coraggio di fare la svolta. Abbiamo salvaguardato una grande forza e l’abbiamo portata al governo. Non dobbiamo dimenticare che la sinistra non è mai stata maggioranza in questo Paese. Questo è il nostro problema, anche oggi. Ma la politica non è tattica e non si sfugge alla necessità di dare per la prima volta, unico Paese europeo, almeno il 51 % a una politica riformista. Bisogna conquistare i cittadini alla sfida del riformismo e dell’innovazione. E quell’obiettivo è possibile solo se c’è di nuovo una comunità che si mette in cammino».

L’Unità 20.03.14

M5s, deputati Pd “Speculazione politica per fini elettorali”

I deputati modenesi Pd rispondono agli attacchi del collega del M5s Michele Dell’Orco. I deputati modenesi del Pd Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Cécile Kyenge, Edoardo Patriarca, Giuditta Pini e Matteo Richetti rispondono alle accuse lanciate, mercoledì sera, nel corso del dibattito alla Camera, dal deputato del Movimento 5 Stelle Michele Dell’Orco che ha preso di mira sia il presidente della Regione Vasco Errani che l’assessore Gian Carlo Muzzarelli. “E’ una volgare falsità dire che il presidente Errani percepisca diversi emolumenti così come è inaccettabile sostenere che sia stato assente nelle emergenze sisma e alluvione – dicono i deputati Pd – Quanto poi alle accuse relative alla campagna elettorale locale, non s’era detto che non avremmo tollerato speculazioni politiche sulla pelle di terremotati e alluvionati?”.

“Affermazioni false condite da strumentalizzazioni politiche sulle pelle di chi ha subito prima il sisma e poi l’alluvione”: è decisa la risposta dei deputati modenesi del Pd alle accuse del deputato pentastellato Michele Dell’Orco. “Le falsità spese come verità da Dell’Orco nel corso del suo intervento in Aula riguardano il presidente della Regione Emilia Romagna Vasco Errani e l’assessore Gian Muzzarelli – commentano Davide Baruffi, Carlo Galli, Manuela Ghizzoni, Cécile Kyenge, Edoardo Patriarca, Giuditta Pini e Matteo Richetti – Al presidente Errani, per l’autorevolezza acquisita in questi anni di lavoro, è stato chiesto di assumere l’incarico di coordinatore della Conferenza delle Regioni, così come, a seguito al sisma del 2012, quello di commissario straordinario. Il suo stipendio però rimane uno solo, quello di presidente della Regione, gli altri incarichi vengono svolti a titolo gratuito, come necessario corollario del suo impegno nelle Istituzioni. Affermare il contrario, oltre che palesemente falso, è offensivo e indegno. Altra pacchiana falsità è quella che lo vorrebbe assente dalle scene delle emergenze che si sono susseguite: Errani, al pari dell’assessore Muzzarelli, fin dalle prime ore dopo la scossa del 20 maggio, è stato in prima linea nel coordinamento dei soccorsi prima e del ripristino dei danni poi. E questo vale sia per il terremoto che, nel volgere di soli 20 mesi, anche per l’alluvione. Se i risultati sono stati conseguiti è anche, e soprattutto, per il suo imprescindibile ruolo di regista degli interventi e dei provvedimenti adottati insieme agli amministratori locali e ai parlamentari. Infine – concludono i deputati modenesi del Pd – dobbiamo dichiarare tutto il nostro stupore per l’atteggiamento del collega Dell’Orco. Capiamo che la campagna elettorale è cominciata, ma non ci capacitiamo del fatto che mentre collaborava con noi per l’approvazione di emendamenti utili per le zone colpite dall’emergenza, fino a votare favorevolmente il decreto nella serata di ieri, contemporaneamente spandeva veleni sulle primarie del Pd. Ma non s’era detto che non avremmo tollerato speculazioni politiche sulla pelle dei terremotati e degli alluvionati? E’ triste che i 5stelle debbano usare l’aula della Camera per fare campagna per le amministrative. Il nostro compito non è quello di strumentalizzare le emergenze, ma di lavorare per risolverle”.

"Società di Stato a peso d’oro. Dove gli amministratori sono più dei loro dipendenti" di Sergio Rizzo

Il buonsenso ci fa domandare se per gestire una società pubblica al 100% sia sempre necessario un consiglio di amministrazione con indennità multiple, gettoni e rimborsi spese, o invece non basti un più sobrio amministratore unico. Sempre che poi l’esistenza della medesima società abbia una reale giustificazione. Interrogativi ineludibili, di fronte a casi come quello della Ram: Rete autostrade mediterranee. Trattasi di una società interamente posseduta dal Tesoro creata pomposamente nel 2004 dal secondo governo di Silvio Berlusconi per il grandioso progetto delle autostrade del mare. Dieci anni dopo ha il compito di gestire le istruttorie per i contributi agli autotrasportatori che caricano i tir sui traghetti. Con cinque consiglieri di amministrazione e due impiegati, secondo i dati comunicati alla Camera di commercio. Nel 2012 i dipendenti erano ben quattro, di cui tre a tempo determinato. Vero è che li aiutavano una dozzina di co.co.co. Ma è pur vero che i compensi degli amministratori, pari a 312.500 euro, superavano di gran lunga gli stipendi di tutto il personale: 258.560 euro. Somma, quest’ultima, di poco superiore alla sola retribuzione di 246 mila euro percepita nel 2012 dall’amministratore delegato Tommaso Affinita. Un peso massimo di quella burocrazia che va volentieri a braccetto con la politica: dirigente del Senato, capo di gabinetto dei ministri delle Poste Antonio Gambino e Pinuccio Tatarella, presidente dell’Autorità portuale di Bari…
E nonostante rimanga inarrivabile la vetta raggiunta una volta in Campania da un consorzio parapubblico (Imast) con 25 consiglieri di amministrazione e un solo dipendente, che per uno scatto di decenza venne poi fuso con un altro ente parapubblico (Campec) che di consiglieri ne aveva solo 11 e di impiegati ben 8, le ragioni che tengono la Ram ancora in vita sono imperscrutabili. Difficile allora dare torto a chi, come quei 38 deputati grillini che hanno presentato una interpellanza ustionante sulle prossime nomine pubbliche in discussione alla camera venerdì, chiede di «sospendere le nomine nelle società inutili le cui funzioni potrebbero essere attribuite a esistenti strutture ministeriali».
Scorrendo la lista delle controllate non quotate del Tesoro il sospetto che la spending review dovesse partire da qui viene eccome. Prendete Studiare sviluppo: è una società di consulenza del Tesoro che si prodiga anche in consulenze per gli altri ministeri. Recentemente, quello dell’Ambiente in vista dell’Expo 2015. Manifestazione, per inciso, affidata a un’omonima società pubblica il cui amministratore Giuseppe Sala ha avuto nel 2012 un compenso di 428 mila euro.
Incerto il perché una consulenza del genere debba passare attraverso una srl statale. Certissimo, invece, che nel 2012 l’amministratore delegato di Studiare Sviluppo, Carlo Nizzo, ha incassato 261.771 euro. Cifra perfino inferiore a quella toccata nello stesso anno a Riccardo Mancini (287.188 euro), l’uomo che l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno aveva collocato a capo dell’Eur spa e che ora se la deve vedere con un processo per tangenti. Chi ricorda poi la Sogesid? L’avevano fatta vent’anni fa per gestire la legge Galli sui bacini idrici. Poi la cosa ha preso un’altra piega, ma la Sogesid è sopravvissuta. Con cinque consiglieri, guidati da Vincenzo Assenza, già vicepresidente della Provincia di Siracusa. Retribuzione 2012, 326 mila euro. Un soffio al di sopra dell’indennità (300 mila) del presidente delle Fs Lamberto Cardia, riconfermato nel 2013 a 79 anni d’età. Come è pure sopravvissuta alle privatizzazioni una scheggia delle assicurazioni pubbliche. Si chiama Consap e ha 5 consiglieri, per un costo in stipendi e gettoni di 760 mila euro. Di questi, 473,7 per l’amministratore delegato Mauro Masi, ex direttore generale della Rai, e 225,8 per il presidente Andrea Monorchio, fino a 13 anni fa Ragioniere generale dello Stato.
Cifre che possono apparire modeste, se rapportate ad altre buste paga. Per esempio i 570.500 euro di Giuseppe Nucci, capo della Sogin, la società che deve smaltire le scorie delle centrali nucleari chiuse 26 anni fa. Ma pure i 601 mila dell’amministratore del Poligrafico Maurizio Prato. Anche se va ricordato come i vertici delle società statali dovranno rispettare il tetto dei 302 mila euro imposto ai superburocrati. Se non addirittura quello ancora più restrittivo di cui si sta discutendo: i 248 mila euro dello stipendio del presidente della Repubblica.
Limite cui saranno invece sottratte società legate al mercato o che emettono obbligazioni. Tipo le Ferrovie, il cui amministratore delegato Mauro Moretti ha portato nel 2012 a casa 873 mila euro. O la Cassa Depositi e prestiti di Giovanni Gorno Tempini: un milione 35 mila euro. Oppure le Poste di Massimo Sarmi, in scadenza dopo 12 anni, che ha il record assoluto della retribuzione 2012 per le società pubbliche non quotate: 2 milioni 201 mila euro. Tutta colpa di quei 638 mila euro di arretrati dell’anno prima…

Il Corriere della Sera 20.03.14

"Se gli studenti stranieri diventano più bravi degli italiani", di Flavia Amabile

Li hanno emarginati, considerati elementi difficili per le classi, ma gli alunni stranieri iniziano a prendersi la loro rivincita quando si tratta di ragazzi nati in Italia, la cosiddetta seconda generazione. Secondo i dati raccolti dal Miur con la fondazione Ismu le loro performance si avvicinano a quelle degli italiani (in particolare nelle prove di lingua straniera) e sono nettamente migliori di quelle dei loro compagni nati all’estero.

In alcune regioni le differenze tra gli italiani e gli studenti di seconda generazione tendono addirittura ad invertirsi: gli stranieri nati in Italia fin dalla scuola primaria stanno diventando più bravi. E si presentano sempre più in anticipo sui banchi. Quasi cinque alunni su cento (il 4,8%) iniziano la scuola primaria a cinque anni, un dato in aumento e in linea con la tendenza all’anticipo di tutti gli studenti.

Ci sono poi alcune situazioni che hanno stupito gli analisti e che fanno pensare che il processo di rivincita è solo agli inizi. Durante le prove Invalsi in quinta elementare in Campania gli stranieri nati in Italia battono gli italiani di 24 punti in italiano e 8 punti in matematica. Risultati meno eclatanti – ma comunque a favore degli alunni stranieri nati in Italia – in Toscana, Calabria, Sicilia e Sardegna

Durante le prove Invalsi alle medie gli apprendimenti sono allo stesso livello tra italiani e stranieri soprattutto in matematica. E il fenomeno non è limitato ad alcune zone d’Italia: accade in Friuli, in Abruzzo, in Toscana, Calabria e Sicilia

Se, invece, si considerano i risultati raggiunti durante gli esami di Stato terza media e maturità) in matematica brillano i cinesi superando la votazione media degli italiani 7,6 contro 7,5.

Anche nella distribuzione dei voti della maturità le differenze sono abbastanza contenute: più o meno omogenei in quasi tutti i tipi di indirizzo, ad eccezione dei licei dove il 7,4% degli alunni con cittadinanza non italiana esce con un voto superiore al 90/100, contro il 13,7% degli italiani. Sono in crescita anche gli stranieri che, dopo aver preso il diploma in Italia, scelgono di proseguire gli studi all’Università: nell’anno scolastico hanno toccato una punta del 3,1%. Sono, ed è un dato di solito poco conosciuto, la maggioranza degli immatricolati con cittadinanza non italiana presenti nelle facoltà italiane.

La Stampa 20.03.14